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Quando il re parla


REGIO PROCLAMA





VITTORIO EMANUELE II.

ECC. ECC. ECC.

Nella gravità delle circostanze presenti la lealtà che io credo aver dimostrata sinora nelle parole e negli atti dovrebbe forse bastare ad allontanare dagli animi ogni incertezza. Sento ciò non ostante, se non la necessità, il desiderio di volgere ai miei popoli parole che sieno nuovo pegno di sicurezza, ed espressione al tempo stesso di giustizia e di verità.

Per la dissoluzione della Camera dei Deputati le libertà del paese non corrono rischio veruno. Esse sono tutelate dalla venerata memoria di Re Carlo Alberto, mio padre; sono affidate all’onore della Casa di Savoia, sono protette dalla religione de’ miei giuramenti: chi oserebbe temere per loro?

Prima di radunare il Parlamento volsi alla Nazione, e più agli elettori franche parole. Nel mio proclama del 3 luglio 1849 io li ammoniva a tener tali modi, che non si rendesse impossibile lo Statuto. Ma soltanto un terzo o poco più di essi concorreva alle elezioni. Il rimanente trascurava quel diritto che è insieme stretto dovere di ognuno in un libero Stato. Io aveva adempiuto al dover mio, perchè non adempierono al loro?

Nel discorso della Corona io faceva conoscere, e non era pur troppo bisogno, le tristi condizioni dello Stato. Io mostrava la necessità di dar tregua ad ogni passione di parte, e risolvere prontamente le vitali questioni che tenevano in forse la cosa pubblica. Le mie parole erano mosse da profondo amor patrio e da intemerata lealtà. Qual frutto ottennero?

I primi atti della Camera furono ostili alla Corona. La Camera usò d’un suo diritto. Ma se io aveva dimenticato, essa non dovea dimenticare.

Taccio della guerra fuor di ragione mossa dall’Opposizione a quella politica che i miei ministri lealmente seguivano, e che era la sola possibile.

Taccio degli assalti mossi a detrimento di quella prerogativa che m’accorda la legge dello Stato. Ma bene ho ragione di chiedere severo conto alla Camera degli ultimi suoi atti, e ne appello sicuro al giudizio d’Italia e d’Europa.

Io firmava un Trattato coll’Austria, onorevole e non rovinoso. Così voleva il bene pubblico. L’onore del paese, la religione del mio giuramento volevano insieme che venisse fedelmente eseguito senza doppiezza o cavilli. I miei ministri ne chiedevano l’assenso alla Camera, che, apponendovi una condizione, rendeva tale assenso inaccettabile, poichè distruggeva la reciproca indipendenza dei tre Poteri, e violava così lo Statuto del Regno. Io ho giurato mantenere in esso giustizia, libertà nel suo diritto ad ognuno. Ho promesso salvar la Nazione dalla tirannia dei partiti, qualunque siasi il nome, lo scopo, il grado degli uomini che li compongono.

Questa promessa, questi giuramenti li adempio disciogliendo una Camera divenuta impossibile; li adempio convocandone un’altra immediatamente; ma se il Paese, gli Elettori mi negano il loro concorso, non su me ricadrà oramai la responsabilità del futuro, e ne’ disordini che potessero avvenire non avranno a dolersi di me, ma avranno a dolersi di loro.

Se io Credetti dover mio il far udire in quest’occasione parole severe, mi confido che il senno, la giustizia pubblica conosca ch’esse sono impresse al tempo stesso d’un profondo amore de’ miei popoli e dei loro veri vantaggi, che sorgono dalla ferma mia volontà di mantenere la loro libertà, e di difenderla dagli esterni, come dagli interni nemici.

Giammai sin qui la Casa di Savoia non ricorse invano alla fede, al senno, all’amore dei suoi popoli. Ho dunque il diritto di confidare in loro nell’occasione presente, e di tener per fermo che uniti potremo salvar lo Statuto ed il Paese dai pericoli che lo minacciano.

Dato dal nostro reale castello di Moncalieri il 20 novembre 1849.

VITTORIO EMANUELE



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