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Traduzione dal danese di Maria Pezzè Pascolato (1903)
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I.
C’era una volta, in un ospedale di questo mondo, un povero bambino senza mamma, malato da lungo tempo. È già tanto triste che i bambini sieno malati; ma all’ospedale poi, e senza la mamma...
Un giorno, passò dalla corsìa una donna vestita di nero - era una mamma senza figliuoli - e vide il bambino, a sedere sul letto, che giocava con certi soldatini ritagliati da un foglio, un po’ sgualciti. Si fermò, e siccome sapeva giocare, aiutò il piccino, e fecero subito amicizia. Anzi, quando sentì che al minuscolo esercito mancavano i tamburini, promise di portarli la prossima volta.
Ai bambini bisogna sempre mantenere le promesse, come ai grandi; e tanto più se sono malati. La donna tornò dunque con un foglio di soldati, dove gli ultimi tre di ogni fila erano tamburini; e portò anche una forbice, per ritagliarli subito. Così il bambino senza mamma e la mamma senza bambino divennero anche più amici del primo giorno.
Oramai, ogni volta che la donna andava all’ospedale, si fermava a lungo presso il letto del bambino: rifornivano insieme l’esercito di carta, se le guerre ne avevano diradate le file, e insieme ragionavano di battaglie, di artiglierie, di uniformi, e di quei grandi cartoni che si trovano a vendere in certi negozii di balocchi, con fucile, sciabola, giberna e cheppì grandi quasi quanto i veri... Ma son cose che costano; e un malatino, a letto, che se ne farebbe? Tante volte, però, fa piacere parlar di balocchi, anche se non sono nostri, perchè le cose belle son sempre belle, ed è bene che ci sieno, al mondo, e che qualcuno almeno ne goda.
Una domenica, la donna trovò il bambino disteso, quieto quieto, sotto le coperte. Gli avevano fatto l’operazione, e non poteva muoversi: si sentiva come stanco, ma non aveva tanti dolori, diceva.
"E i tuoi soldati?" - domandò la donna, tanto per dir qualche cosa: "Avranno fatto la pace, in tanto..."
"Oh, no!" - rispose il bambino: "Le battaglie, ora, le penso."
"È vero; anche pensando si può giocare!" - disse la donna; e allora, per aiutare il suo piccolo amico, cercò di farsi tornare alla mente, tutta per filo e per segno, la novella dell’intrepido soldatino di stagno che aveva letta, una volta, in un libro.
Il malatino ascoltava avidamente, e gli occhioni intenti parevano farsi più grandi nel piccolo viso patito.
"Ne sai altre?" domandò, appena la raccontatrice ebbe finito, senza dire nemmeno una parola sulla prima novella.
La donna cercò nella memoria.
"So quella di Pollicina," - disse, - "ma non sono sicura di ricordarla bene. E poi, è meglio una per volta: se no, ti stanchi. La prossima volta porterò il libro."
La prossima volta portò un libro, ma non quello di Pollicina, perchè Pollicina in italiano non c’era. Il bambino, del resto, era troppo piccino per divertirsi a sentir leggere: voleva sentir parlare, sentir raccontare per sè solo, nel dialetto cui era abituato; e la donna pure preferiva raccontare, perchè aveva bisogno di vedere nei grandi occhi lucenti se il bambino seguiva il filo della novella, e se non si stancava, e se non gli tornavano i dolori...
Così, dunque, raccontò; raccontò ogni domenica ed ogni mercoledì, per tanti tanti tanti mesi. Quand’ebbe dato fondo alle solite raccolte, prese le novelle un po’ da per tutto, sin dai Libri Santi e dai grandi poemi antichi dell’India e della Grecia. Il piccolo malato non ne aveva mai abbastanza. Sentì, ad una ad una, tutte le novelle di questo volume, e molte altre ancora (l’Andersen ne scrisse centocinquantasei); ma queste gli piacevano più di tutte, diceva, "perchè sono un po’ melanconiche e un po’ allegre, come il sole quando entra qua dentro, nella corsìa."
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Io udii un giorno queste parole; e mi parve che il bambino, nella sua semplicità, avesse benissimo definita l’arte di Giovanni Cristiano Andersen, penetrandone proprio l’intima essenza benefica. Un raggio di sole che entra in una corsìa di ospedale, e dà un tono caldo all’umida lucentezza del pavimento, e una tinta rosea ai poveri volti sparuti sopra ai guanciali; che porta come una fragranza di primavera in quell’odorino di acido fenico, e mette un’aureola intorno al capo delle suore... - in verità che pochi grandi hanno trovato di meglio, per raffigurare, non l’arte dell’Andersen soltanto, ma ogni vera poesia che scenda ad illuminare le miserie, i dolori, la pietà di questo basso mondo. Pensai allora che le novelle, un po’ liete e un po’ tristi com’è un po’ lieta e un po’ triste la vita, potevano servire ad altre mamme, per altri bambini; e raccogliendone qui alcune, mi lasciai guidare nella scelta dall’esperienza della donna vestita di nero e dai gusti del suo piccolo amico.
Chi lascia la storia come l’ha trovata, dicono gli Inglesi, è ben povero novellatore. Ma io sarei troppo contenta se, raccontando queste novelle ai bambini italiani, non le avessi sciupate; se mi fosse riuscito di conservare, anche in parte, la ingenua grazia, la semplicità, la freschezza, il delicato umorismo dell’originale danese. Ho cercato, sin nella meticolosa punteggiatura, di preparare un libro da leggere ad alta voce, in famiglia. La lettura fatta insieme con la mamma o con la sorella maggiore sodisfa, meglio di ogni lezione, un vero bisogno del bambino; quel bisogno di simpatia intellettuale, che il povero vecchio fanale della novella[1] conosceva quanto lo Spencer. Il bambino vuol che anche altri veda e senta quel che più lo colpisce, quel che gli piace di più; e la mamma lo sa, sin da quando lo tiene in collo ed egli le accosta al viso il balocco od il cantuccio di pane succiato che ha in mano; sin da quando, in giardino, egli dà le prime incerte corsettine, per farle vedere la foglia che ha strappata, il sassolino che ha raccattato, e per farle dire ad ogni costo che è bello. La buona mamma, che trova sempre tempo e voglia per vedere tutto quanto il bambino vuol farle vedere, e per ascoltare e riascoltare le gesta del suo diletto Pinocchio, sa valersi del più potente mezzo di educazione di cui le sia dato disporre; sa stabilire un legame d’intima confidenza, che sarà anche più tardi, e non per il figliuolo soltanto, una grande benedizione.
Se poi, in vece di leggere, le mamme racconteranno - esse, che posseggono l’arte suprema di adattare ogni minimo particolare al piccolo uditorio, - tanto meglio. La lingua dell’Andersen è lingua parlata; e per ciò tanto maggiore difficoltà incontrai nel renderla intelligibile ai bambini d’Italia, per i quali la lingua parlata è quasi sempre il dialetto, ed il nome popolare degli oggetti domestici più comuni, dei giochi, degli insetti, delle erbe, varia, non da regione a regione soltanto, ma da borgata a borgata.
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Bisogna che i libri per i bambini sieno belli, ben rilegati, con belle illustrazioni, con caratteri ben formati. Questo diceva il Fénelon, e questo l’Editore si è studiato di fare. Ma è poi veramente libro per i bambini?
Le novelle dell’Andersen sono oramai classiche, e l’arte sua non si discute. Pure, quel senso appunto di giustizia e di aperta verità che la fa somigliare alla luce del sole, quell’intimo senso di pietà (ed anche la pietà, non è vero? è giustizia, verso chi più soffre), quella bonaria, ma inesorabile ironia, che svela il lato comico della vita e le sue contraddizioni, ed è pur sempre ancora giustizia, - tutte queste, che ne son proprio le doti caratteristiche, fecero sì che l’opera dell’Andersen fosse reputata da alcuni, nei paesi latini specialmente, troppo elevata o troppo profonda per la mente infantile.
In vero, quando, lui vivo, gli fu eretto in patria un monumento che lo raffigura in atto di raccontare una novella ai bambini che ha d’intorno, l’ Andersen si dolse: "O perchè soltanto bambini? Io non ho scritto per i bambini soltanto..."
No, egli ha scritto per tutti; ha scritto per quel "fanciullino" che vive ancora, grazie a Dio, nell’anima di noi tutti, e dell’anima è la purezza e la poesia.
D’altra parte, - Anatole France lo ha detto mirabilmente, - per farsi intendere dai fanciulli, nulla v’ha di meglio del genio. "Se scrivete per i fanciulli, non vi fate una maniera speciale: pensate bene, scrivete bene - è l’unico secreto per piacere ai piccoli lettori... Lo stesso Robinson Crusoe, ch’è da un secolo il libro classico della fanciullezza, non fu già scritto a suo tempo per i fanciulli, ma per gli uomini: per i gravi mercanti della city di Londra e per i marinai di Sua Maestà. L’autore vi ha messo tutta l’arte sua, la sua rettitudine, il suo vasto sapere, la sua esperienza... E si vede che tutto ciò è nè più nè meno di quel che ci vuole per divertire quattro monelli di scuola!"[2].
I fanciulli provano anzi generalmente certa istintiva repugnanza a leggere i libri scritti apposta per essi. Troppo spesso rimasero delusi; chè certi scrittori, per mettersi a portata delle giovani menti, si credono di dover tornar bambini, "senza l’innocenza e senza la grazia." Nulla, in vece, annoia tanto il fanciullo quanto le fanciullaggini degli adulti. Il piccino spera sempre che i grandi lo prendano in collo, e lo sollevino all’altezza della finestra, per guardar fuori, quel che da sè non arriva a vedere, l’ignoto, il nuovo di cui ha sete, il mondo, in somma, "il mondo che nasce per ognun che nasce al mondo." Ma se i grandi poi non sanno di meglio che accoccolarsi a terra vicino a lui, e presentargli, ad uno ad uno, i suoi balocchi soliti...
Il modo toscano "fare i balocchi" ha la sua filosofia. (Penso a quella bambina che, vedendo moversi e camminare una bambola meccanica, esclamò, come mortificata: Ma gioca già da sè!...). Il bello è giocare con gli oggetti che non sono balocchi, e farli diventare, ingegnandosi, col lavorìo dell’immaginazione: e tanto maggiore sarà lo sforzo per coprire i difetti della materia e costringerla a raffigurare l’idea, tanto maggiore sarà la soddisfazione. L’Andersen, rimasto egli stesso, sino all’ultimo, un grande fanciullo, l’Andersen che improvvisava una novella con un solino e un ferro da stirare, ben lo sapeva; e ben lo sapeva il suo glorioso amico Thorvaldsen. Un giorno, nell’estate del 1846, i due amici si trovavano insieme a Nysoe, ospiti del Barone Stampe; ed il grande scultore, entusiasta dell’Anitroccolo e dei Promessi Sposi, che l’Andersen gli aveva letti allora allora, esclamò: "Scommetto che saresti capace d’imbastirci una fiaba anche con un ago da stuoie!" E così nacque la storia di quel vanitosissimo ago da stuoie, "che per poco non si credeva un ago da cucire"[3].
Apro un volume delle novelle e prendo a caso un esempio:
"Babbo, mamma, fratelli, sorelle, tutti sono andati a teatro: non è rimasta a casa che la Mimma col suo vecchio padrino.
"Anche noi ci faremo la nostra brava commedia!" - dice il padrino: "E tant’è, si può cominciare anche subito."
"Ma non abbiamo teatro," - dice la Mimma: "e dove vuoi trovare i personaggi? La bambola vecchia no, perchè è troppo brutta; la nuova, nemmeno, perchè non voglio sgualcirle il vestito..."
"I personaggi si trovan sempre, quando si prende quello che si ha!" risponde il padrino. "In tanto, fabbrichiamo il teatro. Poniamo qui un libro, e qui un altro, e qui un altro: tutti ritti per bene, ma messi un po’ in tralice; e poi tre da quest’altra parte... ed ecco fatte le quinte. Questa scatola serve benone per lo sfondo; così, col coperchio rialzato. La scena, si vede subito, rappresenta un salotto. Ora cerchiamo i personaggi. Vediamo un po’ che c’è in questo cassetto. Prima troviamo i personaggi, e poi faremo i versi della commedia, uno più bello dell’altro. Sentirai, sentirai! Ecco in tanto una pipa di schiuma con una bella testa di vecchio; e qui c’è una scarpina scompagnata della Mimma: possono essere benissimo babbo e figliuola."
"E due personaggi, in tanto!" - esclama la Mimma tutta contenta. "E qui c’è il panciotto del mio fratellino. Ti serve, per fare il teatro?"
"Eh, per grande, è grande abbastanza da poter recitare anche lui! Farà la parte di amoroso: ha le tasche vuote, e questo dà subito l’idea di un amore contrastato... Oh, e qui c’è un magnifico schiaccianoci fatto a stivale, e con uno sperone per giunta! Lampi, saette e mazurka! Guarda che passi sa fare! e come sta ritto! Sarà il fidanzato di cui la signorina non vuol sentir parlare. Che s’ha a fare, dunque? Una tragedia o una commedia?"
"Commedia, commedia!" - grida la Mimma: "Tutti dicono che diverte molto di più. Ne sai una?"
"Una? Ma cento, ne so!" - dice il padrino. "Quelle che al pubblico piaccion di più son sempre tradotte dal francese, ma per le bambine non sono le più adatte. Possiamo sceglierne egualmente una bellissima. Già, il nòcciolo è poi sempre lo stesso. Ora scuoto il sacchetto! Attenta che cavo la tombola... Ma prima bisogna che ti legga il manifesto."
E il padrino prende un giornale, e legge:
TESTA - DI - PIPA E TESTA SODA
Commedia in un atto.
PERSONAGGI:
Il Dottore Pipino Schiuma
Scarpina, sua figliuola
Mossiù Gilet, amoroso
Il Cavaliere de Stivalis, aspirante alla mano di Scarpina.
"Attenta, che ora s’alza il sipario. Veramente il sipario non c’è, ed è molto meglio: così è più presto rialzato. Tutti i personaggi sono in iscena, ed ora faccio parlare il dottore. Stamane s’è levato di pessimo umore: si vede subito che schiuma di rabbia..."[4]. E così la rappresentazione incomincia.
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Coltivare la facoltà, ch’è già provvido istinto nei fanciulli, aiutandoli a fare i balocchi con quello che c’è, e a trovare i personaggi della commedia tra quelli che han sotto mano, è quanto fornirli di un prezioso viatico.
Ricordate l’accorata pietà del vecchio poeta americano dinanzi a quei due piedini rosei, ch’egli stringeva in una sola mano? Poveri piedini, che dovrete tanto faticare, ed insanguinarvi ai rovi del sentiero! Povere manine, che tante tante volte avrete a tendervi implorando, ad abbandonarvi nello sconforto, a torcervi nella desolazione, a congiungervi nell’ansiosa preghiera! - Ma contro le asprezze del cammino gioverà più di ogni scienza il coraggio dei poveri, "fatto di un po’ di gioconda spensieratezza e di molta rassegnazione"; gioverà, sopra tutto, la semplice filosofia degli umili, che si compendia in una parola: contentarsi. La scienza della vita è tutta lì; ed un mio saggio amico, un vecchio contadino casentinese, me lo disse un giorno in versi:
Chi si contenta gode...
e qualche volta stenta.
Ma stenta sempre men chi si contenta.
Chi trova la gioia, la bellezza, la poesia nelle cose che ha da presso, nelle umili cose che sono a portata della mano, possiede il secreto della serenità, che è pure sovente il secreto della bontà. Un poeta vero, un poeta nostro, Giovanni Pascoli, lo dice: "Or dunque intenso è il sentimento poetico di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove. E sommamente benefico è tale sentimento, che pone un soave e leggero freno all’instancabile desiderio, il quale ci fa perpetuamente correre con infelice ansia per la via della felicità. Oh, chi sapesse rafforzarlo in quelli che l’hanno, fermarlo in quelli che sono per perderlo, insinuarlo in quelli che ne mancano, non farebbe per la vita umana opera più utile di qualunque ingegnoso trovatore di comodità e di medicine?"[5].
Ma da qualche tempo è invalsa l’opinione che non si debbano dare, in vece, ai fanciulli se non certi aridi libri infarciti di nozioni scientifiche, per paura di guastar loro la mente con la poesia! Il France si ribella: "Fiabe han da essere, fiabe per i piccini e per i grandi; belle fiabe in versi ed in prosa, che ci facciano ridere e piangere, e ci schiudano il paese incantato... I novellatori rifanno il mondo a modo loro, e dànno facoltà ai deboli, ai semplici, ai piccoli di rifarlo alla lor volta. Per ciò hanno sì grande potenza di simpatia; perchè aiutano ad immaginare, a sentire, ad amare. Nè abbiate paura che ingannino il bambino, popolandone la mente di elfi o di fate. Egli sa benissimo che la vita non ha di tali gentili apparizioni. Nella nostra società, ahimè, sin troppa è la gente positiva, che teme i danni dell’immaginazione. Ed ha torto, che dall’immaginazione, con le sue menzogne, è seminata ogni bellezza, ogni virtù nel mondo. Non si diventa grandi che col suo aiuto. Non temete, no, mamme, ch’essa perda i vostri figliuoli: li salverà più tosto, dalle colpe volgari e dai facili errori."[6].
II.
Fatto vecchio, quando anch’egli poteva starsene tranquillo accanto alla stufa del suo salottino, ascoltando lo scrosciar della pioggia, al di fuori, e il sibilo del vento, come il buon vecchio poeta della novella,[7] l’Andersen soleva dire che "dopo tutto, la fiaba più bella è la vita." E in vero, se dall’altezza gloriosa cui era giunto si volgeva a guardare il lungo cammino e la torbida alba, se riandava le pene, le lotte, le difficoltà dei primi passi, ben doveva la vita apparirgli fiaba assai più meravigliosa di quante il folletto Ole Luköie ne abbia mai imbastite, con la stoffa di cui son fatti i sogni.
Della sua vita si potrebbe fare davvero una novella. Basterebbe raccontare come lui, che animava e coloriva i più insignificanti particolari, e se doveva dire che i ragazzi eran partiti in carrozza, prendeva a prestito lo spruzzettino magico del folletto Serralocchi e la candela di cera del suo poeta,[8] e ci faceva vedere la partenza: "Ecco, la carrozza è alla porta. Su dunque! Addio, babbo; addio, mamma! Frusta, cocchiere! S-cic, s-ciac! E via se n’andarono!"
Il libriccino che, dopo la immortale raccolta delle novelle, è forse l’opera sua migliore, ha per titolo "Libro di figure senza figure" (Billedbog eden Billeder), e mostra, in una serie di quadri svariatissimi, con vivacità, con evidenza mirabile, "ciò che la luna vide". Il piccolo libro fu detto un’Iliade in un guscio di noce. Ma soltanto i poeti e le mamme sanno raccontare così e le mamme potrebbero far vedere ai figliuoli, come sfogliando un libro di figure, qualche scena almeno di quella lunga gloriosa Odissea ch’è la vita di Giovanni Cristiano Andersen.
Chiudete un momento gli occhi, - potrebbero dire, - e immaginate una piccola città, lassù, in quella verde isola di Fionia che i Danesi chiamano il loro granaio: una piccola antica città, dai tetti acuminati, e tutt’intorno, campi di grano, prati di un bel verde cupo, e un buon odore di terra bagnata. Quella città, dove ad ogni passo le vecchie pietre parlano di vecchie leggende paurose, si chiama Odense. Figuratevi, per dirvi s’è antica, che quando la bella Copenaghen, ch’è ora la capitale della Danimarca, non era se non un umile villaggio di pescatori, i ricchi cittadini di Odense ospitavano i re e i principi con magnificenza più che regale; e, per mostrare il loro disprezzo dell’economia, bruciavano sugli ampii focolari, in vece della legna comune, il cinnamomo, - bruciavano, cioè, alberi interi, venuti dall’Oriente, di quella cannella che noi si compra a pezzetti dal droghiere. Non che facessero bene, e non l’avran fatto sempre, mi figuro; ma quello spreco aveva la sua ragione, e se si racconta ancora oggi, gli è che voleva significare agli ospiti regali come Odense fosse ricca abbastanza da non aver bisogno di loro, e da potere anche difendere al caso il tesoro più prezioso di tutti, la libertà.
Odense è la città più antica e veneranda della Scandinavia; si dice anzi che suo primo borgomastro fosse niente meno che Odino... (Anche quelle di Odino e di Thor, gli antichi Dei pagani della Scandinavia, che magnifiche novelle!) Un tempo, la cattedrale era dedicata a Sant’Albano; ora è dedicata a San Knud, da quando, dieci secoli or sono, Re Knud fu ucciso, presso all’altare, dove erasi rifugiato per salvarsi da’ suoi persecutori pagani. Oggi ancora, se andaste a fare un bel viaggio sin là, vi menerebbero a vedere un gorgo profondo nel fiume, e vi racconterebbero che c’è sepolto il famoso campanone, di cui troverete più innanzi la storia: e poi vi condurrebbero dinanzi al monumento dell’Andersen, perchè il Re delle fiabe è nato proprio a Odense, il 2 aprile 1805.
È nato in una di quelle case dal tetto acuminato, ma in una povera stanzuccia a terreno, che serviva insieme di camera, di cucina e di bottega, perchè il suo babbo era ciabattino. Un immenso lettone occupava quasi metà della stanza, ed era un lettone curioso, chiuso da ampii parati a fiorami e con certi avanzi di dorature, qua e là, sul fusto nero, perchè il povero ciabattino l’aveva fabbricato da sè, col legname di un catafalco ch’era servito una volta nei solenni funerali di un barone. Le pareti della stanzuccia erano tutte coperte di figurine, che il ciabattino ci aveva impastate, e sui battenti della porta eran dipinti rozzi paesaggi dagli alberi così inverosimili, che non so se fossero parenti lontani delle stoppie di Pollicina o della foresta di polipi traversata da Sirenetta. Accanto alla finestra c’era il deschetto e, lì presso, uno scaffale pieno di libri, di commedie e di poesie; sul davanzale, vasi di menta e di altre umili erbe odorose; sul cassettone, insieme con le scodelle colorate del tè, varii gingilli, di quelli che ai bambini sembrano preziosi e non escono di niente mai più... perchè non è permesso di toccarli. In primavera, poi, tutto prendeva un aspetto di festa, perchè dalle pareti e sin dalle fessure della travatura pendevano freschi rami verdi e fiori di campo, che il ciabattino metteva un po’ da per tutto.
Ma la stanza era piccina e il letto troppo grande, e per ciò, sin che il ciabattino lavorava, non c’era posto per rifare il lettino provvisorio del suo bambino. La sera, quando veniva l’ora di coricarlo, la mamma lo metteva al sicuro, in tanto, dietro le cortine del lettone grande, sin che fosse possibile di preparargli una certa panca che somigliava molto, sentirete, a quella del piccolo Tuk. Veduta a traverso dei parati a grandi fiorami, la lucerna che pendeva sul deschetto sembrava un lumicino lontano lontano, che apparisse di tra i rami di una meravigliosa foresta: e chiuso là dentro, il bambino ora s’immaginava di essere in una casina fatata, piccina piccina, anche più piccola della sua; ora... di essere dietro al sipario di un teatrino di burattini. Ah, i burattini!... Erano la sua grande passione: se li fabbricava, ne cuciva, ne mutava e rimutava i vestiti, faceva recitar loro lunghi drammi spettacolosi e tragedie terribili, accozzando insieme quel che frullava nel suo cervellino e quel che vi era penetrato nel dormiveglia, mentre stava dietro alle cortine del lettone e udiva suo padre declamare le commedie di Ludovico Holberg, ch’è il Goldoni danese, o leggere le Mille e una notte e le favole del La Fontaine.
Perchè suo padre non avrebbe fatto che leggere e studiare, in vece di lavorare da ciabattino. S’era rassegnato a imparare il mestiere quando il nonno Andersen era impazzito e l’avevan dovuto rinchiudere nell’ospizio dei poveri: ma non lavorava volontieri, e per ciò gli affari gli andavano sempre male. La nonna era una cara donnina, dai miti occhi azzurri, così piccina, che un soffio l’avrebbe atterrata, così forte, che la sventura non valse a turbarne la pacata dolcezza di modi, nè a spegnerne il sorriso. Essa coltivava un piccolo giardino, presso l’ospizio dove suo marito era ricoverato, e la domenica portava al nipotino Hans grandi mazzi di fiori, ch’egli cercava di conservare più a lungo che poteva, con ogni cura. Due volte l’anno, la nonna usava bruciare i rifiuti del giardinetto, in un grande sterrato dell’ospizio; ed il piccolo Hans andava ad aiutarla, e ad assisterla al rogo del fiori morti e dell’erbe secche; e in quei giorni all’ospizio mangiava un po’ meglio che non mangiasse di solito a casa. Seguiva, tra impaurito e curioso, i malati che giravano per il cortile, e tendeva l’orecchio ai canti ed ai discorsi sconnessi. Col nonno, non aveva parlato che un’unica volta; il nonno gli aveva dato del Lei, ed il bambino n’era rimasto molto colpito. Il povero vecchio aveva però un’abilità speciale, che il nipote in certa misura ereditò. Sapeva intagliare nel legno ogni sorta di bizzarre figurine - uomini con la testa di bestie, leoni e cavalli con le ali, e balocchi di mille strane forme che facevano rimaner lì a pensare che cosa propriamente volessero essere.
Anche il babbo, del resto, sapeva fabbricargli tanti balocchi. Gli aveva fatto un bel molino che, quando la ruota girava, faceva ballare anche il mugnaio; e certe figurine che, a tirar un filo, mutavano la testa, e bambole di cenci, poi, non so quante, e burattini per il teatro. Il babbo giocava sovente con lui, e la domenica se lo conduceva in campagna, per prati e per boschi, sin che stanchi si sedevano a terra, - e allora il babbo cavava di tasca un libro e leggeva. Felice di aver trovato un ascoltatore sempre pronto ed attento, leggeva al piccino pagine e pagine; e tante volte eran cose ch’egli non poteva capire. Ma Hans non batteva palpebra; fissava il babbo con que’ suoi piccoli occhi tagliati alla cinese, e poi, tornato a casa, ruminava per ore ed ore quello che aveva udito. Il suo posto preferito per tali meditazioni era nel cortile, presso ad un cespuglio d’uva spina che n’era l’unica verzura. Tra il cespuglio ed il muro, Hans spiegava a mo’ di tenda un grembiale della mamma, aiutandosi con un manico di scopa piantato in terra; e là rimaneva, per intere giornate. La mamma, Anna Maria, si contentava che stesse buono, che non desse noia, e del resto lo lasciava nel suo cantuccio o sotto la tenda, a fantasticare od a cucire i vestiti dei burattini. Si provarono, è vero, un paio di volte a mandarlo alla scuola; ma poi che il bambino non ci andava volentieri, e i compagni avevano preso a canzonarlo per il suo naso troppo grande e per le sue gambe troppo lunghe, babbo e mamma, sventuratamente, non insistettero, ed a farlo studiare nessuno pensò più.
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Il povero ciabattino aveva il capo pieno di poesia e di idee generose, ma anche, ahimè, di idee false, frutto di tante letture mal digerite. Era fanatico ammiratore di Napoleone I, e la fortuna del suo eroe prediletto gli sembrava legittimare ogni più pazza ambizione. Un bel giorno, decise di arruolarsi, con la speranza di tornare "almeno almeno luogotenente", e piantò il deschetto e la famigliuola. Ma era giunto appena ad Holstein che fu conchiusa la pace del 1815; ed egli dovette tornarsene a Odense, rifinito dai disagi e dalle privazioni di quei pochi mesi. Malaticcio com’era stato sempre, non si riebbe più, e morì l’anno dopo, a trentacinque anni. La vedova di lì a poco si rimaritò con un altro ciabattino, un buon uomo, di nome Jürgensen, ed il povero Hans rimase sempre più abbandonato a se stesso. Lo misero per qualche tempo a lavorare in una fabbrica di panni; ma egli, poco avvezzo alle monellerie dei ragazzi della sua età, non se la diceva coi compagni; e allora la madre si persuase facilmente a tenerlo a casa, dove continuò a vestire i suoi fantocci, a giocare al teatrino e a divorare qualunque libro gli capitasse tra mano.
Metteva insieme le commedie da sè, con reminiscenze delle letture fatte o delle novelle udite raccontare; e in fondo al libretto del congedo militare di suo padre segnava, con una bizzarra ortografia, i titoli delle commedie che avrebbe poi scritte da grande. In tanto si struggeva di comporne una dove entrassero re e regine: ma il difficile era trovare una lingua abbastanza di lusso per far parlare personaggi così altolocati. Ne domandò a sua madre e ad alcune vecchine della casa di ricovero, sue grandi amiche, le quali gli raccontavano sempre tante novelle di re e di principesse; ma non seppero dirgli nulla di positivo. Da tanto tempo non venivano a Odense re nè principi... Certo, però, simili personaggi avranno parlato in qualche lingua straniera. E allora il piccolo Hans, trovato tra i libri del suo povero babbo un manuale di conversazione tedesca, inglese e francese, con la traduzione danese a fronte, compose per i suoi re un gergo speciale, poliglotta, con uscite di questo genere: God Morgen, signor Padre, haben Sie well dormi?
Oramai, il piccolo Hans non era più piccolo: s’era fatto lungo e magro, e di una bruttezza quasi buffa. Poi che aveva una voce discreta, s’era messo in capo che quella avesse ad essere la sua fortuna; e per esercitare la voce, andava fuor di porta e girava per i campi, cantando e gesticolando. E i monelli si prendevano beffe di lui, gridandogli dietro: "Ecco lo scribacchino di commedie!" - e lo rincorrevano e lo perseguitavano, proprio come facevano le oche e i polli col brutto anitroccolo ch’era poi in vece un cigno. E Hans scappava a casa tutto mortificato, e si rintanava nel suo cantuccio a piangere e a pregar Dio di aiutarlo, perchè nell’aiuto di Dio aveva una fede incrollabile, che non si smentì mai, nemmeno nei giorni più tristi.
Era in lui come una vaga coscienza dell’ingegno che Dio gli aveva dato, ma senz’alcuna idea della piega che tale ingegno avrebbe potuto prendere. Non sapeva nulla di ortografia nè di grammatica, e pure pretendeva di scrivere versi e commedie... Certo, le sue aspirazioni di allora dovevano sembrare sogni pazzamente ambiziosi a quei pochi signori di Odense che l’avevano preso a ben volere e si proponevano di avviarlo ad un buon mestiere: dovevano far loro lo stesso effetto, nè più nè meno, che producevano sul suo savio amico micio e sulla gallina Gambacorta le velleità dell’anitroccolo. La mamma, che lo vedeva tutto il giorno con l’ago in mano, a cucire tanto bene, e con tanto gusto, i vestiti de’ suoi burattini, pensò di fargli fare il sarto; ma egli non ne volle sapere.
Aveva tredici anni, quando capitò a Odense una compagnia di attori del Teatro Reale di Copenaghen, e diede un corso di recite, che fece epoca nella piccola città. Figurarsi se Hans non fece subito amicizia col bigliettario! Ed era così buono e servizievole, e così divertente nel suo ingenuo entusiasmo, che ottenne di entrare in teatro ogni sera, e di assistere allo spettacolo, di tra le quinte, e persino gli fu concessa, ogni tanto, qualche particina di comparsa. Pareva impazzito dalla gioia! Guardava agli attori come fossero qualche cosa più che uomini e donne di carne e d’ossa e naturalmente si persuase sempre meglio che la carriera per cui era nato fosse proprio quella del teatro. Gli attori parlavano tra loro di un grande ballo fantastico, che pareva, a sentirli, cosa ben più grandiosa ancora di ogni commedia, e di certa Madama Schall, che doveva esserne di sicuro la regina o giù di lì; e Hans, il quale nemmeno sapeva che roba fosse propriamente un ballo fantastico, immaginò senz’altro in questa signora Schall la fata benefica che aveva a spianargli la via della fortuna ed a schiudergli il paradiso de’ suoi sogni.
A Odense c’era allora uno stampatore che si chiamava Iversen. Hans non lo aveva mai veduto, ma sapeva che alcuni attori della Compagnia Reale erano stati spesso a desinare da lui. "Quello lì deve conoscerli bene!" - pensò: "Certo ch’egli saprà tutto!" E andò da lui, risolutamente.
"Voglio andare a Copenaghen a cercar fortuna, perchè la mia vocazione è il teatro," - gli disse, "e son venuto da lei per un favore. Vuol darmi una lettera di presentazione per Madama Schall?"
"Ma io non l’ho mai vista nè conosciuta!" - esclamò il buon vecchio, sbalordito.
E poi, paternamente, tentò di far entrare in capo al ragazzo che la sua era una pazzia bella e buona, che la fortuna non viene già nella vita così, come nelle novelle, e ch’era molto, ma molto meglio che si mettesse a lavorare, ad un buon mestiere...
"Ah, questo sarebbe un vero delitto contro la Provvidenza!" - esclamò Hans con enfasi. E il buon vecchio rimase così colpito dall’aria di sicurezza del fanciullo, e dalla sua fede nell’ingegno che la Provvidenza gli aveva dato per metterlo a frutto, che non osò più fiatare... e gli scrisse la lettera di presentazione per la ballerina che non aveva mai vista nè conosciuta.
Rimaneva da persuadere la mamma, ma non ci volle molto: "Sai," - disse il ragazzo: "si fa sempre così anche nei libri: prima si traversa un mondo di guai, e poi si diventa famosi."
La mamma scrollò il capo, un po’ dubbiosa; e andò ad interrogare una vecchina dell’ospizio, che la sapeva lunga. Questa, dopo aver fatto depositare parecchie volte certi fondi di caffè, ed aver esaminato ben bene le figure che la posatura formava, dichiarò che Hans Christian sarebbe divenuto un grand’uomo, e che Odense sarebbe illuminata una sera in suo onore. Allora, Anna Maria non esitò più. Fece un fagottino di panni del suo Hans, gli diede tutto quel che potè raggranellare - quindici talleri reali, che son circa quarantacinque lire delle nostre, - e lo lasciò partire per Copenaghen.
Veramente, quando giunse a Nyborg, in riva al Piccolo Belt, e pensò ch’era sul punto di abbandonare l’isoletta natìa, e di mettere il mare tra sè e la sua mamma, gli vennero i lucciconi. Ma c’erano tante cose nuove da vedere... E poi, non era sicuro oramai di far fortuna? E allora, l’avrebbe aiutata lui, la sua mamma, e in modo che non avesse più da stentare la vita.
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Un giorno,[9] la celebre ballerina Schall se ne stava nel salottino della sua bella casa di Copenaghen, quando le capitò una visita bizzarra. Un giovinetto lungo lungo, magro da far paura, si presentò con una lettera. Era vestito poveramente, con una giacca che doveva prima aver appartenuto a suo padre, ed un paio di pantaloni troppo larghi, ficcati dentro alla tromba degli stivali, per timore che il formidabile scricchiolìo, di cui sembrava compiacersi tanto, non bastasse a far notare ch’erano stivali nuovi, o per lo meno, adoperati ben di rado dal proprietario. Gli occhi profondamente incavati, piccoli ed irrequieti, pareva si sforzassero di uscire dall’ombra del naso enorme; il collo era tanto lungo e sottile, che fuor dalla sciarpa di lana ravvoltagli attorno per un numero inverosimile di giri, ne avanzava sempre una spanna.
In vita sua, Madama Schall non aveva mai sentito nominare il vecchio Iversen, autore della lettera di raccomandazione; e quando il giovinetto le disse di volersi dedicare al teatro, arrischiò una domanda "Scusi: ma che parte vorrebbe recitare?"
"Vorrei una parte nella Cenerentola!" - disse il ragazzo, che nella Cenerentola, a Odense, aveva figurato quale comparsa. E subito, per dare un’idea della sua abilità, si tolse gli stivali, brandì il suo cappellone a guisa di tamburello, e improvvisò una danza così grottesca, che la signora, spaventata, si affrettò a congedarlo. Qualche anno dopo, gli confessò di averlo preso per un pazzo scappato dall’ospedale.
Andò dal direttore del Teatro Nazionale, e si ebbe in risposta "ch’era troppo magro per la scena..." E allora si sentì davvero solo e avvilito; e con queste prime delusioni incominciò per lui un periodo tristissimo, un periodo che somiglia alla terribile invernata del suo anitroccolo.
I quindici rigsdaler, che formavano tutto il suo gruzzolo, eran sembrati da prima al ragazzo un tesoro inesauribile; ed egli s’era dato persino il lusso di andare al Teatro Nazionale, a sentire "Paolo e Virginia", ed a piangere sui casi loro tutte le sue lacrime. (Due buone donne, vicine a lui di posto nella galleria, l’avevano consolato, anzi, alla meglio, dandogli un po’ del loro pane imburrato, e dicendogli: "che non era già una storia vera!") Ma un letto da dormire e un boccone da mangiare, in una grande città dove non conoscete un’anima, e dove nessuno vi dà nemmeno un bicchier d’acqua per piacere, costano assai cari: ed il gruzzolo del povero Hans sfumò ben presto.
Che fare? Tornare a Odense, dandosi subito vinto? Hans preferì lottare, certo che la Provvidenza non l’avrebbe abbandonato. Andò da un falegname e si impiegò quale garzone: ma i modi e i discorsi degli altri operai lo disgustarono tanto, che non ci potè durare, e lasciò il posto sin dal primo giorno. Mentre girava le vie, e sentiva tutto il peso della sua solitudine, gli tornò alla mente di aver udito parlare, a Odense, di un Italiano, certo Siboni, nominato da poco direttore del R. Conservatorio di musica; e pensò di andar da lui.
Quel giorno, erano a desinare dal maestro Siboni parecchi artisti e letterati, tra i quali il celebre poeta Baggesen (di cui il piccolo Tuk vi dirà qualche cosa) ed il compositore Weyse. Il povero Hans era così avvilito e turbato, che alla donna venuta ad aprirgli, non solo disse che supplicava il maestro di riceverlo, ma raccontò piangendo tutti i suoi guai. La donna, commossa, entrò in casa, e tornò con tutta la comitiva, curiosa di vedere questo strano postulante, che aveva tanta smania di apprendere la musica. Il maestro lo condusse in salotto, e gli provò la voce al piano. Poi, Hans recitò alcune scene di Ludovico Holberg, e alla fine, sopraffatto dalla coscienza della propria miseria, più che dalla commozione per il tragico brano che declamava, scoppiò in singhiozzi così veri e strazianti, che tutto l’uditorio applaudì freneticamente. Una colletta fatta tra gli astanti fruttò circa duecento lire, e fu convenuto che Hans incomincerebbe il giorno dopo a prender lezione di canto dal professore Weyse. La disperazione del ragazzo si tramutò allora in una gioia così grande, ch’egli scrisse subito alla mamma una lettera esultante, dicendole che oramai "aveva acciuffata la fortuna."
Per quasi un anno, aiutato dal buon Siboni, dal Weyse e da due o tre altri pietosi, cui l’Andersen serbò sino all’ultimo riconoscenza, potè studiare il canto; e ci mise infatti tutto l’impegno. Ma Hans, sempre grato per quanto gli si donava, sarebbe morto anzi che domandare qualche cosa di più a’ suoi benefattori: una megera presso la quale alloggiava, in una soffitta mal riparata, spennava senza misericordia l’inesperto anitroccolo; e per ciò in quei mesi, malgrado l’aiuto de’ suoi benefattori, il povero figliuolo stentò miseramente la vita. Le privazioni, il freddo patito portarono la più disastrosa conseguenza: la perdita della voce, sulla quale fondava tutte le sue speranze.
Allora, anche il maestro Siboni lo consigliò di tornare a Odense e d’imparare un buon mestiere; ma a questa Hans non voleva venire. Il suo sogno era sempre il teatro... e si provò persino a frequentare una scuola di ballo, sebbene il suo personale lo rendesse meno adatto di ogni altro a tale carriera. Ma l’essere allievo della scuola di ballo annessa al Teatro Regio, gli dava libero accesso al palcoscenico, permettendogli di goder lo spettacolo di tra le quinte; e questa era tal gioia, che non gli pareva di certo pagata cara a prezzo di quattro sgambettate.
Un giorno gli venne una buona ispirazione. Si ricordò che a Copenaghen abitava il poeta Federico Hoegh-Guldberg, fratello di un colonnello ch’era stato molto buono con lui, quand’era a Odense; ne cercò l’indirizzo, e gli scrisse domandandogli un colloquio. Il poeta lo ricevette con grande bontà; si convinse che il ragazzo aveva tali doti naturali, da meritare davvero di essere aiutato; e, visto che quel po’ di tedesco che aveva imparato in casa del Siboni, non valeva molto più dell’ortografia danese del biglietto scritto a lui, si offerse d’insegnargli, egli stesso, il danese e il tedesco. A poco a poco, prese a volergli bene; destinò a lui il ricavato di un libro che stava pubblicando, gli fissò un piccolo mensile, e lo mandò a proprie spese da un maestro di latino.
Hans si mise a studiare; ma era così indietro, così indietro... e la grammatica gli sembrava una via tanto lunga per giungere al suo sospirato teatro!... Non sapeva ancora che non v’ha maniera facile nè lesta per fare le cose difficili; non sapeva che, per far fruttare l’ingegno affidatoci dalla Provvidenza, non v’ha se non una maniera sola: lavorare. Per ciò, spesso trascurava un po’ i libri, per voler comporre drammi e tragedie, di cui infliggeva poi la lettura a quanti poteva sequestrare. Naturalmente, i quattro direttori del Teatro Nazionale respingevano ogni volta i suoi lavori, dicendo che non erano adatti alla scena, che rivelavano un’assoluta mancanza di studio e di preparazione, ecc. ecc. Ma egli non si scoraggiva, sicuro che alla fine avrebbe vinto. E questi lavori, sebbene gli procurassero qualche lavata di capo dal buon Guldberg, formavano la sua felicità, in mezzo agli stenti di quel tempo.
Era così entusiasta di una sua tragedia Alfsol scritta allora allora, che un giorno andò a trovare l’Ammiraglio Wulff, il traduttore danese dello Shakespeare: "Lei ha tradotto Shakespeare?" - disse il ragazzo entrando: "Ed anch’io lo ammiro immensamente; ma ho scritto una tragedia originale. La prego di starla a sentire." E, senza aspettare risposta, gliela lesse, tutta d’un fiato.
Un’altra volta andò da Just Matthias Thiele, il celebre raccoglitore delle novelle popolari danesi. Entrò, fece un profondo inchino, buttò il cappello in un angolo, e disse senz’altro: "Permette Vossignoria che le esprima le mie idee sul teatro, in un lavoro di mia composizione?" Prima che il Thiele potesse riaversi dalla sorpresa, gli spifferò una lunga tirata, passando poi, senza dargli tempo di fiatare, a varie scene della sua tragedia, in cui sostenne da sè, naturalmente, tutte le parti. Poi fece un altro profondo inchino, come usano gli attori al proscenio, e se ne andò, senza dare al Thiele nemmeno la sodisfazione di sapere con chi avesse a fare.
Anche la tragedia, che era piaciuta ad un vecchio prete amico dell’Andersen, non fu accettata dai direttori del teatro. Ma poi che ad uno di essi, il Rahbek, era stata dal prete raccomandata, egli si prese la briga di leggerla; e giudicò che, pure essendo tutt’altro che una buona tragedia, il giovane autore vi rivelava tali facoltà, che meritavano d’esser coltivate. La fece per ciò vedere anche al suo illustre collega Consigliere Jonas Collin, il quale, informatosi subito delle condizioni e del carattere del giovinetto, si incaricò di parlarne al Re, ed ottenne che fosse mandato al liceo di Slagelse, per tre anni, a spese dello Stato, a fine di prepararsi agli esami universitari. Da allora in poi, il buon vecchio Consigliere gli aperse il suo cuore e la sua casa, e Hans riebbe un padre ed una famiglia, di cui per tutta la vita ricambiò l’affetto con la più devota gratitudine.
Quanto alla protezione del Re, essa non gli venne mai meno. Federico VI fornì all’Andersen il tipo di que’ suoi re e imperatori patriarcali, che si affrettano in persona ad aprire quando sentono picchiare all’uscio, e se debbono correre a vedere quel che accade nella corte rustica, "si tirano su prima le pantofole dietro, perchè hanno il vizio di acciaccarle col calcagno." A Federico, l’Andersen tributò sempre la più affettuosa venerazione, e soleva dire commosso che le ultime parole di lui erano caratteristiche della sua bontà. "Che freddo!" - aveva detto il buon Re morente: "Bisogna pensare alla legna per i poveri."
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Da quando, nell’autunno del 1823, l’Andersen si recò al liceo di Slagelse, l’invernata dell’anitroccolo si può dire finita. Ma perchè i suoi compatrioti si avvedessero ch’egli era veramente un cigno, ci vollero molti e molti anni ancora; e se non ebbe più a patire la fame ed il freddo, non gli furono risparmiati dolori e pene.
A Slagelse, in tanto, il severo Rettore Simone Meisling non si sapeva capacitare che un ragazzo così ignorante, a diciott’anni, da doverlo mettere nella classe dei piccoli, a imparare "le cose che tutti sanno", potesse davvero essere dotato di tanto ingegno, quanto i suoi protettori credevano. E le lettere del povero Hans, che a’ suoi protettori si sforzava in vece di far onore, e si dibatteva tra le difficoltà vere del greco, del latino, dell’ebraico e quelle che gli creava la stessa indole sua, poco adatta e meno assuefatta allo studio diligente e indefesso, fanno fede delle sue pene e della profonda bontà di Jonas Collin, che ne sorreggeva la volontà come un vero padre. Se il Rettore Meisling, ch’era bensì severo, ma non cattivo, avesse veduto quelle lettere e le risposte del Collin, avrebbe potuto convincersi che per la sensibilità quasi morbosa del suo strano allievo meglio d’ogni severità sarebbe giovata una buona parola.
Anche a proposito dei critici, che gli amareggiarono tanta parte della vita, l’Andersen lamentava che non comprendessero come ogni lode, ogni segno di benevolenza lo rendesse umile e severo con se stesso, mentre gli attacchi brutali suscitavano nell’anima sua un senso di ribellione. E come furono terribili, in vece, i critici, per i suoi primi tentativi! Soltanto nel 1835, quando pubblicò il romanzo L’Improvvisatore, il suo trionfo fu assicurato; ma prima, quanti dolori, per l’ostilità incontrata dai suoi volumetti di versi, dai lavori teatrali, e persino da quel poema drammatico Agnete e l’uomo del mare, tratto dalla vecchia ballata danese di Agnete, di cui s’era tanto innamorato, che si reputava sicuro della fortuna!
L’Improvvisatore era "il suo figliuolo italiano". Quando Re Federico gli aveva accordata una modesta borsa di viaggio, l’Andersen aveva potuto spiccare il volo come le sue care rondinelle - vidt, vidti, vidt![10] - ed aveva potuto finalmente visitare l’Italia. L’Improvvisatore contiene descrizioni così belle del nostro paese, e inspirate ad un entusiasmo così comunicativo, che se stabilirono per sempre la fama dell’Autore, costituiscono per noi una ragione di perenne gratitudine verso chi ha tanto amato la nostra terra. Il romanzo è di soggetto italiano; italiano è Antonio, il protagonista, ch’è evidentemente un autoritratto; Annunziata, la cantatrice, fu pensata a Napoli, dopo che l’Andersen ebbe sentita la Malibran nella Norma: e tra le migliori pagine del libro è una descrizione della grotta azzurra di Capri, ch’è rimasta classica nei Paesi del Nord, com’è classico il paesaggio italiano di Pollicina.
Da allora in poi, anche la critica dovette inchinarsi; ma l’Andersen, non si contentò di esser posto, per questo e per altri lavori, tra i migliori romanzieri della Scandinavia. Il suo sogno, la sua aspirazione, la sua manìa, era il teatro; e l’effimero ma rumoroso trionfo del suo dramma Il Mulatto rafforzò sempre più tale manìa. Il buon successo era dovuto alle idee liberali che andavano facendosi strada a quel tempo in tutta Europa,[11] più che al merito artistico del lavoro; ma l’Andersen, che aveva sempre attribuito i proprii fiaschi alla malevolenza dei censori teatrali, volle armarsi di una prova; e presentò, qualche tempo dopo, al Teatro Nazionale due lavori anonimi - una tragedia, Kongen Drommer (I Sogni del Re) ed un dramma, Den nye Barselstuen (La Nuova Camera del Neonato). Disgraziatamente, ebbero buon successo, specie quest’ultimo; e quindi l’Andersen si ostinò sempre più in una via che non era per lui, e dove incontrò, per conseguenza, molti più triboli che allori. Tanto è vero che il conoscere se stessi è ancora più difficile dello scrivere una buona tragedia.
Per sua fortuna, però, dopo molto vano errare nel buio, - come dice il grande critico danese Georg Brandes, - l’Andersen si trovò una sera dinanzi ad una porticina misteriosa: "La toccò appena, e l’umile porticina che menava al regno delle fate, si spalancò per incanto; e dentro ei vide luccicare l’acciarino, che aveva ad essere per lui quello che fu per Aladino la famosa lampada. Lo battè - ed ecco apparire i tre cani, con gli occhi grandi come scodelle, come mole da molino, e come il torrione di Copenaghen; e portavano i tre scrigni, di monete di rame, d’argento e d’oro. Era la prima scintilla - la prima novella; e dietro ad essa vennero tutte le altre. Felice l’uomo che sa trovare il suo vero acciarino!"
La caratteristica dell’arte di H. C. Andersen (sono anche queste parole del Brandes) era sempre stata "l’intima simpatia con tutto quanto è infantile, nel senso più ampio: con i fanciulli, anzi tutto, e con quanto più somiglia ai fanciulli; gli animali, per esempio - bambini che non divengono mai grandi - e le piante, anch’esse simili ai bambini, ma a bambini che dormano sempre."
Essendo sempre rimasto fanciullo egli stesso, però, questa simpatia gli veniva tanto naturale, che non ne aveva fatto mai gran caso. Raccontava le novelle ai suoi piccoli amici, perchè la gioia della cara figlioccetta Minni (la nipotina del suo benefattore Jonas Collin) o di Carlottina Melchior, era gioia anche sua, - come a Parigi, quando Arrigo Heine lo aveva condotto da sua moglie, ed egli aveva trovato la signora Heine "circondata di bimbi presi a prestito," era stata per lui una gioia aiutarli a giocare, poi che in francese raccontare non poteva. Con i fiori, per esempio, sapeva fare una infinità di giochi graziosissimi; e sapeva disporli sulla tavola e comporli in mazzi con gusto squisito. "Come i bambini, anche i fiori sanno il bene che voglio loro; e per ciò, piantassi magari un manico di scopa, son certo che butterebbe!" En croyant à des fleurs, souvent on les fait naître... nè mai il verso del Rostand ebbe più gentile applicazione.
A Natale, sin negli ultimi anni, la grande tavola del suo studio era coperta di fogli colorati, di stagnola, di boccette di gomma, d’aghi e di forbici; e si vedeva il vecchio glorioso affaccendato a fabbricare figurine e burattini, con una destrezza, con una appassionata gravità, che rammentavano i lavori del piccolo Hans. Come gli era rimasta, da quei primi tempi difficili, una straordinaria abilità nel far bastare il danaro che ad altri sarebbe sembrato insufficiente, (e tale abilità economica gli fu singolarmente preziosa ne’ suoi lunghi viaggi), così continuava, anche da vecchio, a maneggiare ago e forbici, che nella sua valigia non mancavano mai; e si riattaccava da se i bottoni, e si raccomodava benissimo le calze. Così aveva ereditata l’abilità del povero nonno pazzo, e in viaggio riempiva i suoi albi di comici schizzi, o ritagliava talora in un foglio profili e intere scene, con rapidità e sicurezza meravigliosa. William Francis Ainsworth, che si trovò una volta a viaggiar con lui sul Danubio, inserì poi in un libro il disegno di una danza di dervisci, tratto da uno di quegli intagli dell’Andersen[12].
Egli stesso racconta che nel ’49, trovandosi nei Dale (le montagne svedesi) si era fermato a Leksand in una piccola locanda: e una bella piccina, nipote della padrona, era entrata nella sua camera, attratta dai colori vivaci di certa borsa ricamata. Egli aveva preso un foglio, e ci aveva ritagliata una moschea, coi minareti aguzzi e le finestre spalancate; e la bambina era scappata via col suo tesoro, tutta felice. Poco dopo, udendo un gran vocìo nel cortile, si affacciò alla finestra, e vide la nonna che teneva in mano la sua moschea, e la esaminava con un sorriso sodisfatto, mentre la nipotina strillava perchè le avevano tolta la sua legittima proprietà, ed una folla di marmocchi circondava la vecchia per vedere quel capolavoro. Più tardi fu picchiato all’uscio della sua camera, e la padrona comparve con un piatto di panpepati "Vede, Signoria?" - diss’ella: "Io faccio i migliori panpepati che si trovino in tutta la montagna, ma ho ancora le forme che usava la mia nonna. Ella, che sa ritagliare tanto bene la carta, non potrebbe farmi di grazia qualche forma nuova?"
"E così io passai tutta quella lunga sera d’estate a tagliar fuori forme di panpepati - molini a vento, ch’erano insieme molini ed uomini, molini con le pantofole appuntite ed uomini con uno sportello aperto nello stomaco, e ballerine che alzavano la punta di un piede verso le stelle... Spero che rimarrò immortale nella montagna svedese, almeno nelle forme dei panpepati"[13]. Alle sue novelle, l’Andersen non dava da prima maggiore importanza che alle forme per i panpepati od ai piccoli guerrieri e alle damigelle di carta colorata, che facevano andare in visibilio i suoi piccoli amici. Raccontava come gli veniva, come scriveva a Minni od al piccolo Guglielmo, quand’era lontano; ed anche quelle letterine, al pari delle novelle, sono veri capolavori: "Di’ a Guglielmo che quella mosca, alla quale ho tentato di allungare una manata, non voleva se non vedere un momentino com’era fatto, e nient’altro. Me l’ha giurato lei; e dice che può dare la prova ch’era la mano di Guglielmo, - era così sudicia!... Anzi, nel volar via, ha veduto persino le unghie piene di terra. A chi ho da credere? alla mosca o a Guglielmo? Digli poi che quella mosca era una principessa con le ali, e che suo padre vive ancora e regna sulle rose..."
Così pure, istintivamente, senz’alcuna pretensione didattica, trovava sempre il modo migliore per insegnare ai bambini tutto quel che voleva. Basti citare l’esempio del piccolo Tuk, di cui la novella prettamente danese non fu inserita a caso nella presente raccolta. Se anche da noi si insegnasse la geografia, nei primi anni, col metodo usato nei sogni del piccolo Tuk, valendoci, in vive pitture, dei particolari più curiosi, delle leggende, delle somiglianze di nomi, persino dei modi di dire familiari al nostro popolo, - se ci si persuadesse, in somma, che non s’impara se non quando ci si diverte, o, almeno, che non s’impara durevolmente se non così, la comune degli Italiani non meriterebbe più tanto il noto rimprovero "di non sapere la geografia."
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Nel 1835, a Natale, fu messo per la prima volta in vendita, al tenue prezzo di cinquanta centesimi, un piccolo libro di strenna che conteneva le quattro prime novelle dell’Andersen: L’acciarino, Cecchino e Ceccone (Lille Claus og Store Claus), La principessina sul pisello, e I fiori della piccola Ida. Ma sin dal 1829, in un volumetto ch’ebbe discreta fortuna,[14] erano apparse in germe le novelle di Serralocchi e dei Mesi dell’anno; e nel ’30, in fondo ad un volumetto di versi, la prima vera e propria Eventyr intitolata Il morto[15]. A quel tempo, però, soltanto una donna vide lontano nell’avvenire: la moglie del poeta Ingemann, la quale, a proposito di questo Morto, scriveva all’autore: "I piccoli elfi della nostra fanciullezza mi sembrano, dopo tutto, i vostri buoni genii; sono sicura ch’essi v’indicheranno la via giusta, nel bel cielo azzurro."
Più tardi, quando uscirono i primi volumetti di novelle, soltanto il suo ottimo amico Hans Christian Orsted (lo scienziato che scoperse l’influenza della corrente elettrica sull’ago magnetico) scrisse all’Andersen: "l’Improvvisatore ti farà celebre, ma le fiabe ti faranno immortale." L’Andersen, del resto, pur compiacendosene, non ne fu punto persuaso; come avrebbe risposto con un sorriso d’incredulità a chi gli avesse detto, che dei suoi romanzi, la parte che vivrà immortale, oltre alla descrittiva, è quella che narra qualche squisito idillio di bambini - di Cristiano e della zingarella Noemi, per dirne uno, nel Violinista, o di Hialmar e di Elisabetta nelle Due Baronesse. Dopo sei anni di lavoro, nel ’47, pubblicò il suo grande poema Ahasuerus, ove sono alcune cose bellissime, specie nei due primi libri. Ma l’Autore sembra imbarazzato a condurlo a termine, e lascia in tronco il protagonista (il dèmone del dubbio), esprimendo ingenuamente la speranza "che altri ne canti poi meglio di lui" - quasi che finisse una novellina "Stretta la foglia, lunga la via... Dite la vostra che ho detto la mia!"
Anche allora, l’Andersen si sentì ammonire dai critici che "il Pegaso dell’epica non era cavalcatura per il suo genio; ma che doveva contentarsi di quella magnifica farfalla variopinta, che l’aveva portato sino allora nel Regno delle fate a scegliere fior da fiore."
Sin dal 1845, in fatti, l’Anitroccolo gli aveva assicurata per sempre la fama, anche in patria, dove l’entusiasmo per le fiabe fu assai più tardo a destarsi che nella Norvegia, nella Germania, nell’Inghilterra; e del suo grandioso poema in vece nessuno parla più. Ma quantunque la fama gli venisse di dove meno si aspettava, egli accolse con umile gioia la sua fortuna: "Io mi domando sovente perchè mai il Signore mi colmi di tante benedizioni. Quando tutto ci fu donato, non c’è davvero di che insuperbire: non si può se non chinar la testa, e ringraziar Dio, nella più schietta umiltà." Ed ogni anno, festeggiava con particolare commozione il 5 settembre, la data del suo primo arrivo a Copenaghen. Una volta, anzi, che si trovò in quel giorno ospite di Re Cristiano VIII a Wyk, nell’isola di Föhr, il ministro Rantzau, sapendo che significasse per l’Andersen quella data, lo disse alla Regina; e tutta la famiglia reale festeggiò affettuosamente il poeta, e Re Cristiano volle farsi raccontare tutta la storia di quel povero figliuolo del ciabattino di Odense, ch’era arrivato a Copenaghen con quindici talleri e con una lettera per Madama Schall.
"Ed ora?" - domandò il Re.
"Oh, ora sono tanto felice e tanto riconoscente..."
"Se mai vi posso esser utile in qualche cosa, ricordatevi di dirmelo."
"Grazie, Maestà; non saprei davvero che domandare."
L’Andersen era tutt’altro che ricco, perchè a quel tempo le sue rendite si riducevano a due lire il giorno, frutto de’ suoi risparmi, oltre al modestissimo guadagno che gli procurava il lavoro letterario; e pure, quando il ministro Rantzau gli disse che il Re si sarebbe appunto aspettato che gli domandasse qualche cosa, se ne stupì:
"Sarò anche sembrato uno sciocco; ma davvero non saprei che cosa desiderare."
In fatti, l’unico suo desiderio era di poter ogni tanto prendere il volo verso i paesi del sole; di poter passare ogni tanto le nostre Alpi, che gli apparivano "come le grandi ali ripiegate della terra." E le sue savie economie, non solo gli permettevano questo lusso, ma lo ponevano in grado, negli ultimi anni, di condur con sè qualche giovane amico - Jonas Collin juniore, per esempio, figlio del suo fratello di elezione Eduardo, o Nicolò Bogh, che pubblicò più tardi l’epistolario. Tornato in patria, datava poi le lettere "Dal freddo, dal fango, dalla nebbia..." e ognuno doveva capire che scriveva da Copenaghen!
La novella della sua vita non sarebbe una novella se vi mancassero i re ed i principi. Tutte le Corti dell’Europa centrale andavano a gara nell’invitarlo e nel colmarlo di onori. Il Granduca di Weimar lo voleva lungamente ospite e lo trattava come un amico; il Re di Prussia lo invitava a pranzo e lo insigniva dell’Aquila Rossa; la Principessa ereditaria gli donava un bell’albo di velluto azzurro. E da per tutto gli facevano leggere le sue novelle. Alla Corte di Sassonia i figli del Re Giorgio "le sapevano tutte a memoria;" il Re stesso gli domandò di leggere l’Abete e Holger Danske, e la Principessina Maria Elisabetta, allora quattordicenne, ricordando molti anni dopo la visita del buon vecchio poeta, ne raccontava le novelle alla sua bambina - Margherita di Savoia.
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La predizione si avverò: per una volta almeno le posature di caffè non avevano mentito. Nel decembre 1867 Odense fu illuminata in onore di Giovanni Cristiano Andersen, e le feste solenni superarono certo ogni più pazzo sogno della povera Anna Maria.
L’Andersen fu ospite del Vescovo e tutte le autorità vennero ad ossequiarlo; e nel palazzo di città gli fu offerto un banchetto da duecentoquaranta persone. I bambini delle scuole ebbero vacanza e sparsero canestri di fiori sul suo passaggio; e Re Cristiano IX gli mandò un affettuoso telegramma. Quando poi il vecchio venerando consentì a leggere due novelle all’Istituto di Meccanica, l’entusiasmo de’ suoi concittadini non conobbe più limiti...
E poi? Che cosa avvenne poi? Perchè qualche cosa di bello ha da venire: lo diceva l’abete, e lo diceva sempre anche l’Andersen.
È vero. Ha da venire qualche cosa di più bello.
Rolighed è un bel nome: in danese significa tranquillità; e Rolighed è il nome di una bella villa dei dintorni di Copenaghen, che appartiene ai signori Melchior. In quella villa, presso quegli ottimi amici, il vecchio poeta si sentiva come in casa propria, e soleva occupare due stanze al primo piano, con una grande veranda aperta sul giardino. In quella villa, assistito dalla signora Melchior e dalla mamma di Carlottina, il buon vecchio poeta si spense in pace. Non sofferse quasi punto, e negli ultimi giorni ripeteva ancora: "Com’è bella la vita! Come sono felice! Mi par di andarmene dolcemente, vidt, vidt, dove non v’ha dolore..." - E il primo di agosto 1875 trovò l’ombra tranquilla promessa dal nome della dolce casa.
Quando leggete la novella del lino, ripensate a lui. In vero, anche fosse stato meglio preparato alla vita, l’Andersen avrebbe certo molto sofferto nella lunga ascesa, che non è mai senza triboli. Egli stesso confessava però la sua eccessiva sensibilità: "Sono una strana creatura," - scriveva alla madre nell’ottobre 1826: "Se il vento soffia un po’ forte, subito gli occhi mi lacrimano. E pure so benissimo che la vita non può già essere tutta serena come un bel giorno di maggio."
Si ingegnò dunque di preparare gli altri alla lotta, infondendo, nei fanciulli specialmente, il rispetto della vita in ogni più umile forma, perchè anche il rospo ha in fronte la sua gemma. E con le belle immagini gentili cercò d’inspirare una virtù modesta, ma largamente benefica - la virtù del sorriso, che appresa tardi, costa uno sforzo tanto più penoso quanto più dissimulato, appresa da piccini, diviene abitudine, ed è poi sempre una delle maggiori benedizioni, per noi stessi e per chi ci sta d’intorno. Insegnò, in somma, a prendere in pace il mal tempo fidando nel sole, perchè (e non c’è voluto meno di Giampaolo Richter per dire tanto bene una cosa tanto semplice!) "il cielo azzurro è più grande di ogni nube, e dura anche di più."
Venezia, ottobre 1903. MARIA PEZZÉ-PASCOLATO
Note
- ↑ Novella XXXIX del presente volume.
- ↑ A. FRANCE, Le livre de mon ami; Paris, Calmann Levy, pagg. 266-268: La bibliothèque de Suzanne
- ↑ Vedi novella XI.
- ↑ I Börnestuen (Nella stanza dei bambini), novella 188a della Raccolta completa; Ediz. Reitzel, Kjöbenhavn, 1887, vol. II, pag. 246 e seguenti. Flipperne(Il solino) è la 50a novella della Raccolta stessa, vol. I, 392.
- ↑ G. PASCOLI, Miei pensieri di varia umanità; Messina, V. Muglia, 1903: Il fanciullino, pag. 25. Sono pure tolte da queste mirabili pagine del Pascoli le parole citate più sopra: "il mondo nasce per ognun che nasce al mondo" (pag. 17) nell’edizione Zanichelli delle Opere, vol. Pensieri e discorsi.
- ↑ A. FRANCE, op. cit., pagg. 271-73. Vedi nello stesso volume il Dialogue sur les contes de fée, pag. 274 e seguenti.
- ↑ Novella XIX.
- ↑ Novella XXXII e XXXIX.
- ↑ 7 settembre 1819.
- ↑ In danese: "lontano, lontano, lontano".
- ↑ Febbraio 1840.
- ↑ Travels and Researches in Asia Minor, I, 149; cfr. R. Nisbet Bain, loc. cit., 224.
- ↑ I Sverrig (Nella Svezia), pagg. 126 e 189.
- ↑ Fodreise fra Holmens Kanal til Östpynten af Amager (Viaggio a piedi dal Canale di Holm sino alla punta orientale di Amager).
- ↑ Dödningen.