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- cavata da un ragionamento tenuto
- COL PADRE GIOVANNI GRUEBER
- della Compagnia di Gesù
- nel suo passaggio per Firenze l'anno 1665.
Il dì 31 gennaio 1665 ab incarnazione fui a visitare, insieme col signor Carlo Dati, il padre Giovanni Grueber della Compagnia di Gesù, nativo di Vienna d'Austria, arrivato pochi giorni prima a Livorno sopra nave procedente da Smirne in compagnia del signor conte Bernardo Pecori, giovane cavaliere della più cospicua nobiltà di Firenze, il quale, vedute le corti d'Europa, aveva preso la congiuntura di passare a Costantinopoli in qualità di camerata del signor conte Leslie, ambasciadore straordinario di S.M. Ces. alla Porta. Questo padre è stato tre anni nella China e due anni sono ne ritornò, avendo fatto il suo primo viaggio da Venezia a Smirne, da Smirne a Ormùz per terra con camino di cinque mesi, da Ormùz, navigando per sette altri mesi, a Macao, e da Macao, attraversando il regno della China da austro a tramontana, parte per terra e parte navigando fiumi o canali, in termine di tre mesi a Pequìn.
Al ritorno poi ha tentato un viaggio forse fin ora non praticato da alcuno europeo, essendo egli di China entrato nelle arene della Tartaria deserta, e quella attraversata in tre giorni, arrivato alle spiagge di Kokonòr. Questo è un mare simile al Caspio, di dove ha l'origine il Fiume Giallo di China, che scorrendo con grandissime rivolte una gran parte di quel regno, mette finalmente in mare dalla parte d'oriente dirimpetto all'isola Corei, ed è il maggior fiume di China. Kokonòr dunque significa in lingua tartara mar grande, dalle rive del quale successivamente discostandosi, il padre entrò in terra Toktokai, paese quasi affatto deserto e che non riconosce signore, né alcun signore, per la sua povertà, si cura di riconoscerlo. Si trovano per esso alcuni pochi padiglioni di tartari, che vi menano vita miserabile. Per questa terra passa il fiume Toktokai, da cui prende il nome; bellissimo fiume e sull'andare del Danubio, se non che ha pochissimo fondo e un uomo a cavallo lo passa francamente a guado.
Quindi inoltratosi nel paese di Tangùt, arrivò in Retink, provincia assai popolata del regno di Baràntola, e finalmente nel regno detto propriamente Baràntola. La città regia è Lassa: il re presente ha nome Teva e discende per antichissima origine dai Tartari di Tangùt. La sua residenza è in un castello fabbricato all'europea sopra un monte altissimo e il palazzo reale, chiamato Bùtala, ha quattro piani d'assai buona architettura. La corte è grandissima e vi è un lusso incredibile negli abiti, tutti di tele e di broccati d'oro. Per altro la nazione è sporchissima, avendo per legge, così uomini come donne, di non portar camicia, di dormire in terra, di mangiar carne cruda e di non lavarsi mai né mani né viso. Sono però molto affabili e amici del forestiero. Le donne si vedono per la città come l'altre tartare: al contrario delle chinesi.
Il fratello di questo re si chiama Lamacongiu. Questi è il moftì, o vogliamo dire il sommo sacerdote de' Tartari, dai quali è adorato come una deità. Credono che ei fosse fratello del primo re, quantunque usino chiamarlo successivamente fratello di tutti i re, e tengono che a ogni tanto muoia e risusciti; e dicono che questa sia la settima volta che egli ha fatto questo giuoco dalla creazione del mondo. Questa credenza è mantenuta in quei popoli dall'astuzia dei re e di mano in mano da quei pochi che rigirano la faccenda; che però fuori di quelli non si lascia vedere a persona immaginabile. Le pezzuole sporche di questa divinità sono ansiosamente ricercate dai grandi del regno, e beato chi può averne delle più fiorite e ricamate. Usano portarle avanti il petto come reliquie.
Di Baràntola entrò il padre Giovanni in Nekpàl, regno d'un mese di camino (in questa forma usa in quelle parti descrivere il tratto del paese, delle provincie e de' regni). Le città regie sono Catmandìr e Patàn, divise l'una dall'altra solamente da un fiume. In Catmandìr sta il re, detto Partasmàl, in Patàn è il fratello del re chiamato Nevasmàl, giovanetto e bellissimo principe. Questi ha il comando dell'armi, e in quel tempo che il padre Giovanni si ritrovava in Patàn aveva spedito un grosso esercito contro un regolo per nome Varcàm, il quale con diverse scorrerie gl'infestava il paese. Il padre gli donò un piccolo cannocchiale, col quale avendo scoperto un luogo dove il suddetto Varcàm s'era fortificato, fece guardare il principe in quella parte, il quale vedendosi così avvicinata quella piazza, gridò subito che si tirasse sul nemico, non essendosi ancora accorto del falso avvicinare de' cristalli. Quanto gli fosse grato questo regalo sarebbe cosa incredibile a ridire.
Uscito di Nekpàl, toccò per soli cinque giorni il regno di Moranga, del quale non vedde città alcuna, ma solamente certe case di paglia dove è una dogana regia. Il re di Moranga paga ogn'anno al Mogòr un tributo di dugentocinquantamila tallari e di sette elefanti. Di Moranga entrò nell'India di là dal Gange, arrivando a Minapòr metropoli, dove passato il Gange, largo quanto due volte il Danubio, giunse a Patanà, città ricchissima e piena di mercanti inglesi e olandesi. Da Patanà camminando venticinque giorni fu in Agra, prima città regia dell'India di qua dal Gange; da Agra in sette giorni di viaggio a Telì, seconda città regia, e da Telì in quattordici giorni si condusse a Laòr, terza città regia, posta sul fiume Ravi, grande anch'esso quanto il Danubio e che mette nell'Indo sotto a Multàn. Quivi imbarcatosi su l'Indo, dopo quaranta giorni di navigazione fu a Tatà, ultima città del Mogòr, dove è un viceré chiamato Laskarkàn; vi sono parimente assai mercanti inglesi e olandesi. Poche giornate di qua da Tatà si condusse a Capo Jax del Persiano, di dove, per la provincia del Maccaràn in Caramania, in Ormùz; da Ormùz in Persia propriamente detta, in Ircania, in Media, in Armenia maggiore e nella minore, in Ponto, in Cappadocia, in Galazia, in Frigia, in Bitinia, in Misia, dov'è Smirne. Quivi imbarcatosi, con felice navigazione giunse in Messina.
Arrivato a Roma e rispedito nuovamente per China, venne in Alemagna, e passato in Pollonia, pensò di tentare il viaggio per la Moscovia, avendo per mezzo dell'imperatore ottenuto passaporti dal duca di Curlandia e dal moscovita. Ma giunto alle frontiere di Moscovia, arrivò nuova nell'istesso tempo che il re di Pollonia unito col Tartaro aveva cominciato a dar addosso ai Moscoviti, per lo che dubitando di trovar difficoltà in Stoliza (così chiamano Mosca i Tartari) di passar più avanti, stimò partito migliore il tornarsene a Vienna, dove essendo giunto in quello che l'imperatore inviava suo imbasciadore in Costantinopoli il conte Leslie, si accompagnò con esso, pensando di lasciar lui alla Porta ed egli proseguir avanti il suo viaggio. Ma appena fu giunto in Costantinopoli che, sorpreso da una flussione di catarro, che impedendogli di quando in quando il respiro gli cagionava grandissimi travagli di stomaco, non gli fu possibile l'andare avanti, onde preso l'imbarco d'una nave per ponente, se n'è venuto a Livorno e da Livorno qui in Firenze, dove pensa di trattenersi ancora otto giorni; e poiché già sente miglioramento notabile della sua indisposizione, è di pensiero d'incamminarsi alla volta di Venezia per passare per la via del Friuli a Vienna e di quivi tentare un'altra volta il viaggio di Costantinopoli, o tornare a pigliare imbarco a Livorno per Smirne, secondo che riceverà gli ordini di Roma dal suo padre generale.
È questo padre d'età di quarantacinque anni, gioviale d'aspetto, affabile ed amorevolissimo oltre ogni credere, e se gli vede per gli occhi e in tutti i suoi movimenti un fondo di schiettezza che non lascia libertà di dubitare cosa che egli asserisca. Questo lo so, questo non lo so; di questo non mi ricordo, di quest'altro non son sicuro: questa è la sua maniera di discorrere. Il signor Carlo Dati l'aveva veduto il giorno avanti in anticamera del serenissimo principe Leopoldo, dove aveva cominciato ad attaccar seco ragionamento, benché non molto lungo per essere il padre di lì a poco stato introdotto all'audienza di S.A. Onde con questo precedente attacco di conoscenza si fece lecito di ritornare a godere della sua desiderabilissima conversazione, e pregatolo unitamente con esso meco a soffrire l'importunità delle nostre domande intorno alle cose di China, si esibì egli di sodisfarci con maniere sommamente obbliganti.
Domandò il signor Carlo se il presente re della China sia figliuolo del primo occupatore del regno e dove risieda, se nella China o in Tartaria.
Rispose esser nipote e che il suo avo fu quegli che, chiamato dagli eunuchi ribelli, l'anno 1646 s'impadronì della China, come ha diffusamente scritto nella sua Istoria il padre Martini. Disse che il re presente è fanciullo di dodici anni in tredici e che risiede in Pequìn metropoli del regno, e così aver fatto il padre e l'avo. Tanto che il precetto del Machiavello che per assicurarsi un principe nuovo in uno stato nuovamente acquistato, disforme di lingue, di costumi e di leggi dall'antico suo dominio, non vi è più sicuro partito che l'andarvi ad abitare, non è tale arcano di sottigliezza politica che non v'arrivino ancora le grossolane menti de' Tartari.
Si domandò delle milizie e in che forma fossero trattati i Chinesi dal presente governo.
— Le milizie del regno, rispose, universalmente sono tartare; solamente le guardie del corpo, che saranno da quarantamila tra moschettieri e arcieri, sono coresi e giapponesi. Nel resto i popoli della China non patiscono oppressione alcuna straordinaria e che per avanti non avessero sotto i propri re. Hanno tutta la libertà che vogliono in professare le loro antiche religioni. Le vecchie leggi restano tuttavia in piedi e vengono amministrate per tutto il regno dai medesimi Chinesi, se non che a tutti i magistrati presiede un tartaro, il quale però non s'arroga autorità maggiore di quella che porti una pura soprintendenza, la quale non arriva a deviare non che a cavare affatto le cose dal loro ordine.
Su questo gli dimandammo del governo civile del regno.
— In Pequìn, replicò, sono nove magistrati, i quali tutti co' medesimi nomi, con le medesime giudicature, cariche e attenenze, si trovano replicati in tutte le città del regno e sono:
Il primo, detto li-pù, significa tribunale di ragione, ed è composto ugualmente di tartari e di chinesi. Conosce tutti gli appelli che vengono dalle sentenze date sopra qualsivoglia materia da tutti i tribunali del regno.
Il secondo chiamasi li-pù ancor esso, però con differente maniera d'accento sopra la prima voce li, la quale dove nel primo vale ragione, in questo secondo modo aspirata suona lo stesso che cirimonie. Questo è un tribunale come a noi l'ecclesiastico; giudica tra i letterati e definisce sopra tutte le materie di religione.
Il terzo è pim-pù ed è militare. Il quarto è criminale e chiamasi him-pù. Il quinto è ho-pù ed è la depositeria regia. Il sesto è cum-pù e soprintende ugualmente alle fabbriche del re e a quelle del pubblico. Il settimo è la pagatoria generale. L'ottavo è la dispensa, che supplisce alle provvisioni della tavola del re (di questi due ultimi non gli sovvennero i nomi e del nono né meno l'ufizio).
Ora tutti questi tribunali, sì come è detto, si ritrovano in tutte le città del regno e da ciascheduno s'appella al suo superiore, al quale egli è subordinato con quest'ordine: il tribunale verbigrazia che soprintende alle milizie in una città particolare riconosce il tribunale delle milizie della metropoli della sua provincia e questo quello della città regia, dal quale è lecito d'appellare, quando siano casi gravissimi, al supremo magistrato che è li-pù. Da questo non v'è altro appello che al re, al quale a ogn'uno è lecito di richiamarsi, purché avanti voglia sottoporsi a un carico di cinquanta solennissime bastonate.
La maniera di bastonare è strana e crudele: si distende quel pover'uomo per terra bocconi, e scoperto il sedere e le reni, se gli mettono due bastonatori a sedere, l'uno dirimpetto all'altro, su le gambe e sul collo e con una grossissima canna d'India per uno in mano, la quale tengono sempre a quest'effetto in molle nell'acqua perché svetti meglio e s'arrenda, cominciano a menar dolcemente a vicenda, quello che sta sul collo sopra il sedere e quello delle gambe sopra le spalle, adoperandosi con tal gentilezza che di quando in quando convien loro fermarsi tantoché quel miserabile possa riavere il fiato, che altrimenti non sarebbe possibile di non morir soffogato. Questo medesimo stile tengono i mandarini, cioè i nobili del regno, così tartari come chinesi, in gastigare i loro servitori, né per ciò si fanno molto pregare.
Ma ritornando a chi è bastonato per abilitarsi all'audienza regia, è da sapere che quando ei vuole appellarsi tira un sasso ad una gelosia della camera del re, il quale tirato, è subito introdotto nella sua camera, e se il re vede ch'ei si sottoponga al bastone con una certa franchezza d'animo e gli paia di leggergli in faccia una certa picca, la qual suol nascere da un animo fiancheggiato dalla ragione, usa qualche sorta d'arbitrio in moderar lo statuto e talvolta alla prima bastonata ha comandato ch'ei parli, facendo grazia dell'altre. Allora se si scopre qualche ingiustizia, guai a quanti sono coloro che hanno avuto parte in quella sentenza, poiché assai dice loro buono se vengono privati dell'ufizio, mentre il più delle volte la pagano con la testa.
L'interrogai se il sangue degli ultimi re della China sia spento; al che soggiunse il signor Carlo che per alcuni si era creduto che un figliuolo dell'ultimo re si fosse ricoverato in un'isola adiacente al regno e che quivi ancora vivesse occultamente.
Rispose il padre che la situazione di quell'isola era per sé sola bastante a convincere la falsità di questa favola, poiché essendo ella posta alla parte d'oriente, sarebbe convenuto trasportare questo principe per un cammino di molti mesi sempre in mezzo al nemico, essendo per quella parte principalmente venuti i Tartari. Sapersi in oltre che il re suo padre, allora regnante, perduto dietro agli amori delle sue donne, per non abbandonarle d'un solo passo non usciva una volta l'anno per la città, e che lasciando ogni cura del governo a un corpo tumultuante di diecimila eunuchi villani, questi ribellatisi avevano aperto la strada al Tartaro, il quale occupate tre provincie intere, aveva già bloccato Pequìn avanti che al re ne giugnesse nuova; onde egli, sorpreso dall'improvviso spavento de' nemici, dopo avere impiccata una sua figliuola, s'era impiccato da sé per la gola su la porta del giardino del suo palazzo, scritto prima col sangue sopra uno degli stivaletti di dommasco bianco che aveva in piedi: «Salute al nuovo re: non si fidi de' miei consiglieri ed abbia pietà del mio popolo». Che così parimente si era impiccata la regina e che il figliuolo e un'altra figliuola del re, venuti nelle mani del Tartaro, erano morti prigioni.
Domandammo del casato degli antichi re e di quello della casa tartara presentemente regnante.
Al primo rispose essere stati della casa Min che significa chiarezza. Replicò il signor Carlo: — Come dunque il padre Martini nella sua Storia gli fa della casa Taimin?
— Tai, soggiunse il padre, è voce da sé e significa stirpe; onde Taimin è lo stesso che stirpe o famiglia Min.
Al secondo ci rispose che i Tartari non hanno cognomi, distinguendosi col solo nome. Per tanto disse che il padre di questo re si chiamava Xun Chi, cioè figliuolo del cielo, e il re presente Jun Min, gran chiarezza.
L'interrogai che ordine tenga il re con le sue donne e della legittimità de' figliuoli.
A quello delle donne mi rispose quasi con le parole de' Cantici al VI: Sexaginta sunt reginae et octoginta concubinae et adolescentularum non est numerus. La verità è che il re si tiene quindici donne, le quali tutte si chiamano regine. Tre ne sono però maggiori dell'altre, delle quali una è la suprema. Questa si chiama cin-fi e suona perfetta regina; dell'altre due, l'una tum-fi, si-fi l'altra, cioè regina orientale e regina occidentale. Queste due chiamansi regine laterali e hanno l'accesso alla suprema regina parlandole però in ginocchioni; le altre dodici non le parlano mai e se alcuna cosa vogliono significarle, ciò fanno per mezzo delle regine laterali. Dopo le regine vengono l'altre donne, delle quali non v'è numero fisso, potendo essere più e meno secondo l'umore del re. Vero è che non sono mai così poche che non arrivino a qualche centinaio e stanno sotto la custodia degli eunuchi.
Quanto a' figliuoli non c'è preeminenza che tenga, di legittimità o di primogenitura; tutti si hanno per ugualmente legittimi e primogenito è quello che il re s'elegge per successore. Il re presente è figliuolo di concubina, non eletto per mancanza d'altri, ma preferito dal re suo padre poche ore avanti di morire a cinque figliuoli di regine, de' quali, avendogli prima fatti venire avanti a sé, niuno ne giudicò atto al governo; per lo che discacciatigli dalla sua presenza, mandò a levare il fanciullo e la madre con la sedia reale, facendo salutare quello re e questa regina reggente, dichiarandole quattro assistenti o dir vogliamo tutori tartari, il primo de' quali è detto per nome Samnì.
Su questo presi occasione di domandare della sepoltura dei re.
— Il re, replicò il padre, non si seppellisce, s'abbrucia, seguitandosi in ciò l'usanza dei Tartari. Il rogo non si forma di legne, ma di carta; ed è cosa incredibile a dire quanto sia vasto, dovendovisi abbruciare, nello stesso tempo che arde il corpo del re, tutta la sua guardaroba, gli abiti, le gioie, il danaro (diremmo noi) dello stipo, in somma dalle bestie e dalle persone in fuora, quanto serve, ha servito ed era fatto a fine di servire alla sua persona.
Dodici elefanti bardati superbamente con briglie tempestate di turchine, di smeraldi, di zaffiri e d'altre pietre d'inestimabil valore, trecento cavalli e cento cammelli vennero carichi del tesoro regio, il quale fu scaricato tutto sopra quella montagna di carta preparata per ardere. Dato che fu il fuoco, l'oro, l'argento liquefatto correva come fiumi con tanto impeto che senza altre guardie si faceva far largo da sé alla moltitudine, tra la quale v'è sempre chi cerca di far vento a qualche cosa e portar via un poca di benedizione del morto; la qual cosa per impedire, vi sono ordini rigorosissimi e severissimi gastighi contro i delinquenti, avendo i Tartari grande ubbia in vedere avanzar al fuoco quanto sia un solo capo di spillo; e l'oro e l'argento, che non possono consumarsi, si rinvestono in tanta carta da ardere in processo di tempo per l'anima del re. La carta del rogo si fece un conto che importasse settantamila scudi e quaranta milioni il tesoro abbruciato con essa.
Tre servitori si danno all'anima del re per servirlo nell'altro mondo, i quali subito che egli è spirato, s'uccidono: un consigliere, un cappellano e una concubina. È in loro arbitrio lo scegliere la morte che vogliono, benché quella del mozzar la testa sia l'ordinaria; anzi chi è condennato dalla giustizia non è fatto morire altrimenti, salvo i soldati, i quali è usanza di strangolargli. Dei tre servitori suddetti se ne trovano molti, che per affetto verso il re, come ancora per impulso di superstizione, s'offeriscono alla morte, ma se s'abbattesse che tutti ricusassero, in tal caso quelli che in vita del re furono favoriti sopra gli altri, sono tenuti a seguitarlo nell'altro mondo.
Domandai in quello che consistessero principalmente l'entrate regie.
Disse che nella China tutta la campagna è in proprio dei contadini, i quali dei frutti che ne raccolgono pagano una piccola decima al re e un'altra ai mandarini, cioè ai nobili, che sono signori de' castelli, de' quali è territorio quella campagna in cui essi vivono. Questa decima dunque che danno al re ascende a una rendita inestimabile, alla quale s'aggiugne quella de' bestiami, i quali per tutto il regno sono del re. Grandissime sono ancora le somme che gli rendono le grosse incette de' cotoni e de' risi. In oltre le miniere della provincia di Ju-nàn, che significa nuvola australe, sono ricchissime d'oro, di zaffiri, di smeraldi e di tutte l'altre gioie delle quali è fertile il regno di Pegù, al quale questa provincia è vicina; e finalmente incredibile è la quantità del danaro che mettono le tre città di Tanceun, Cantòn e Nanquìn, che sono le principali dogane del regno.
Si domandò come il re si lasci vedere spesso per la città e quante anime faccia Pequìn.
Disse che una volta il mese era solito dar la mostra alle milizie che formano la guardia del corpo e che ciò fa egli medesimo in persona, esercitandogli nello stesso tempo a tirare al berzaglio. Questo esercizio si fa in alcune praterie che sono tra una muraglia e l'altra della città, la quale è fasciata di tre ordini di mura l'uno più alto dell'altro e tutte sono ricinte di fossati d'acqua e da prati bellissimi. In questi dunque si mette un fantoccio di legno e il re ordina, così agli arcieri come ai moschettieri, che tirino in diverse parti di quello. A chi dà a colpire una mano, a chi il capo, a chi il petto; verbigrazia se non lo colpisce alla prima, ritira la seconda e la terza volta, e se tutte e tre le volte fallisce, rileva un buon carico di legnate ed è cassato.
Pequìn al presente farà intorno a un milione d'anime. Dicono che n'abbia fatti infino a nove, ma non è credibile, atteso il circuito della città e la maniera delle loro abitazioni, le quali non hanno altro che un solo piano.
Gli domandammo come coprano le loro fabbriche.
— Tutte di tegole, rispose; le case eziandio non sono coperte altrimenti. Le tegole del palazzo reale sono incrostate di color giallo e variato, che di lontano fanno bellissimo vedere e toccate dal sole sfavillano come se fossero d'oro.
Domandai della religione de' Chinesi.
— Tutti, rispose, nel loro cuore sono idolatri e tutti privatamente adorano gl'idoli. È ben vero che nell'esteriore appariscono tre diverse sette.
La prima è quella de' letterati, i quali professano di adorare una suprema sostanza, detta in lingua loro Sciax-tì; queste due parole scolpite in oro tengono collocate negli adoratòri e queste professano di riconoscere co' sacrifizi, i quali tutti consistono in arder carta dorata o inargentata o bianca ed alcune sottilissime candelette di storace e d'incenso. Ma come è detto, questa speciosa ostentazione di religione nobile è solamente nell'esterno, per distinguersi dagli altri ed in specie dai bonzi.
Questa generazione d'uomini trapassò in China dall'India: gente superstiziosa, idolatra e d'una stolidissima credulità impastata. Ebbero sul principio qualche sorta di credito tra i Chinesi come accade alle cose nuove e ancora non ben conosciute; né si può dire quanto conciliasse loro di venerazione la dottrina che portarono della trasmigrazione dell'anime, benché non affatto simile a quella professata dalla scuola de' pittagorici. Ma insorgendo in processo di qualche tempo i letterati chinesi, e anzi per astio e per malignità contro i bonzi che per sincero sentimento degli animi loro predicando e promovendo il culto del loro Sciax-tì, poterono a poco a poco discreditare la religione de' bonzi e mettergli talmente in favola che oggi in tutta la China non è gente di essi più abominevole e ignominiosa, a segnoché un uomo onorato si guarderebbe di parlare o di trattar con essi, se non quanto lo richieda e lo giustifichi insieme la necessità di servire alla superstizione, maneggiata sovranamente da questa canaglia che ci vive sopra: così in occasioni di nozze, di nascite di figliuoli, di sepoltura di morti, si va subito a discorrerla e intendersela co' bonzi. Negli avvenimenti lieti, per le persone di qualità si suol dare in processioni, che consistono in un lungo ordine di lumicini e di banderuole in accompagnamento di varie immagini d'idoli, che onorano con varie cantilene, con suoni cavati da percuotimenti di metalli e co' soliti sacrifizi dell'incenso e della carta abbruciata, in che consiste tutto l'utile e l'onorifico de' loro funerali.
La seconda setta, che è la più universale perché comprende tutti, dai nobili insino all'infima plebe e a' villani, onora l'anime de' loro passati, alle quali fanno continui sacrifizi, così ne' pubblici adoratòri come nelle proprie case, con la solita carta e col solito incenso, offerta quotidiana che ogni qualità di persone fa ogni mattina all'uscir di casa allo spirito buono e al maligno, al primo perché difenda, al secondo perché non nuoca.
La terza setta è, come già si è detto, quella de' bonzi, meri e puri idolatri.
L'interrogammo di quello che credano dopo morte.
— Bene a tutti, rispose, cioè sapienza e piaceri; ma non divisano più oltre dove e come vengano all'anime questi beni: basta che le credono eterne e immortali.
— Dunque, soggiunse il signor Carlo, poiché non vi è distinzione dal giusto all'ingiusto, come non la danno tutti pel mezzo per godere in questo mondo e nell'altro?
— Dal mal fare, replicò il padre, niun'altra cosa gli trattiene che le pene temporali. Credono ben sì che vi sia una spezie d'inferno, dove l'anime de' cattivi siano tormentate, ma hanno il segreto da redimer la pena in questa vita, onde lo spirito tormentatore è sempre ozioso e scioperato.
Fuori di Pequìn (e il simile nell'altre città principali) vi è una grandissima fabbrica d'un tempio, spartito in più di trecento cappelle piccolissime; ogni mestiere vi ha la sua e non solamente i mestieri, ma ogni condizione di persone o nobili o ignobili o letterati ve l'hanno. Hannovela i cortigiani, gli ufiziali, i soldati, i tribunali, i giudici; insomma i poveri e i mendichi ve l'hanno. Quivi dunque credon che alberghi lo spirito tormentatore dell'anime di coloro che vivono malamente in quella professione. Il sarto dunque che ruba fa una piccola offerta allo spirito punitore de' sarti ed è libero. Lo spirito non mangia: mangia bene il bonzo che n'è custode. Il simile fa l'auditore, il giudice che dà la sentenza ingiusta, il fattore, il maestro di casa che rubano al padrone; così vengono a farsi due beni: a liberarsi l'anima dai tormenti e a pascersi un'infinità di poltroni, che se non fosse questa ladroneria di ricomprar la pena, anderebbono mendicando il pane.
Domandai se tra i Chinesi vi siano istituti di vita religiosa.
— Tra i Chinesi tanto, disse, non vi è altra spezie di religiosi che i bonzi, i quali in realtà sono sciaguratissimi uomini, gente ingordissima del guadagno e macchiata di vizi abominevoli.
Ma per tornare ai religiosi, è da sapere com'anche i Tartari hanno i loro sacerdoti corrispondenti ai bonzi, presso ai quali è l'amministrazione de' sacrifizi. Questi vanno vestiti di giallo o di rosso con toghe infino in terra e maniconi larghi. Usano alcune mitre di carta, ma per lo più vanno con la testa scoperta e sempre scalzi. Insomma il loro abito è assai simile a quello col quale soglionsi dipingere gli apostoli. Questa regola di religione abbraccia sotto di sé monasteri di donne, tutte però tartare, le quali vivono in clausura sopra montagne asprissime, se non quanto dai loro superiori, che sono di questa razza di sacerdoti, ne sono dispensate per andare in cerca limosinando per le città e per altri luoghi abitati. Quelle che sono destinate a questo ufizio sono sempre delle più vecchie. Tutte fanno i voti d'obbedienza, di povertà e di castità. Portano il capo scoperto, tonduto in giro al pari dell'orecchio. Il taglio dell'abito è simile a quello de' bonzi, cioè toghe infino a terra, maniconi grandissimi; il colore però è rosso, dove quello dei bonzi dà nel bigio.
Si domandò delle scienze de' Chinesi.
— Primieramente, rispose, vi sono l'opere di Confucio, che viene a esser tra di loro quel che è Aristotile nelle nostre scuole. Quest'autore visse intorno a tremila anni sono e dettò una spezie di filosofia morale, alterata però con diversi ingredienti di teologia e di filosofia naturale. Oggi vive il sessantesimo terzo discendente di questo Confucio ed io l'ho veduto. È signore di ricchissimi feudi e ha titolo di principe: che in tale stato collocarono i re della China in antichissimi tempi questa famiglia in venerazione di cotant'uomo.
Oltre alla dottrina di Confucio attendono grandemente alla scienza de' numeri ed hanno un'ignobile spezie di geometria, non dimostrante, ma dirigente semplicemente la pratica delle operazioni mecaniche più grossolane, poiché né della prospettiva né dell'altre parti dell'ottica non hanno alcun lume. Dal che si può facilmente argomentare l'eccellenza non meno delle loro pitture che delle loro fabbriche. Tutto il loro fervore consiste nelle false scienze di pura opinione: la chiromanzia, la metoposcopia, la magia e simili, ma sopra tutto in astrologia iudiciaria si piccano d'eccellenti maestri.
Lo pregammo a dirci qualche cosa della lingua e del loro alfabeto.
Quanto alla lingua replicò esser poverissima, non arrivando assolutamente a quattrocento vocaboli. Disse che i nomi sono indeclinabili e i verbi non coniugarsi altrimenti che per infiniti. — Dunque, risposi io subito, se vostra reverenza mi dice di voler ancora stare in Firenze otto giorni, a me dà l'animo d'apprendere così bene la lingua da farmi scambiare per un chinese. — Sì, rispose il padre ridendo, ma V.S. avverta poi a non dir porco a uno pensando di dirgli signore.
E qui prese a dirci come tutta la forza della lingua chinese consiste nella diversità degli accenti, degli spiriti, delle inflessioni, de' tuoni, delle aspirazioni e d'altri simili accidenti delle voci, i quali sono, per così dire, infiniti.
Per ragione d'esempio ciu, proferito così, non ha significazione alcuna; ciuuuuu, proferito col prolungare la u sempre inacutandola, vale signore; ciu, con la u prodotta ma fatta successivamente più grave, significa sala; ciuuuu, con la u prolungata ma conservatole l'istesso tuono, vuol dir porco; ciu detto velocissimamente, e per così dire sputato più tosto che proferito, suona l'istesso che cucina; e finalmente ciu prima aggravato e poi inacutito significa i piedi d'una seggiola.
— Ora non vedete voi, seguitò il padre, come un solo vocabolo dà in cinque? Così tien, pronunziato anch'esso come egli è scritto, non è nulla; accentata la i, è pane; prodotta la n su l'acuto, è dolce; tien, scoccato dalle labbra come saetta, diventa il piede d'una tavola, d'un letto, di che che sia.
Quanto vi è di buono, tutte le parole sono monosillabe: si accoppiano però talmente l'una all'altra e con cert'ordine fisso e determinato, che in apprenderlo si richiede uno studio faticosissimo; e il peggio è che non hanno caratteri né alfabeto e tutto esprimono con cifre, delle quali non solamente ogni parola ha la sua, ma moltissimi accoppiamenti di due e tre parole e moltissimi sentimenti e periodi interi hanno le loro. Quindi è che quelle cinque cose che si esprimono con la voce ciu variamente aspirata, per la mancanza dell'alfabeto convien loro scriverle con cinque cifre diverse, dove noi per via di varie segnature d'accenti (che le medesime servirebbono ad altre voci che andassero similmente accentate) a bastanza le distingueremmo, benché la scrittura fosse sempre l'istessa, cioè ciu. Così, per esempio, ponendo un semplicissimo accento su la i, da balia distinguiamo balìa; e quello che è più bello ancora, quantunque la voce parti abbia tanti significati, noi con tutto ciò, senza verun accento, in tutti la scriviamo nell'istesso modo, cavando dal contesto delle parole il suo vero significato: il che potrebbono anche fare i Chinesi, se non avessero questa infelicità d'esser privi dell'alfabeto.
E per ritornare alla voce ciu, oltre alle diverse cinque cifre de' suoi cinque diversi significati, non sempre che si vorrà scrivere «signore» sarà buona la cifra di ciu quando vuol dir signore: perché se io vorrò scriver «buon dì signore», non mi varrò della cifra di «buono», non di quella di «dì», non di quella di «signore», ma ne torrò una semplicissima e diversa da tutte queste, la quale da per sé sola esprime l'accoppiamento di queste tre parole «buon dì signore»; e se vorrò dire «sì signore», lascerò parimente la cifra ordinaria di «sì» e quella di «signore» e ne torrò un'altra significativa di questo congiugnimento delle due voci «sì signore». Ora vedasi quanti caratteri conterranno in sé questa voce ciu in senso di signore, de' quali uno solo la conterrà unicamente e tutti gli altri, dirò così, cumulativamente con altre voci; e l'istesso seguendo negli altri quattro significati della voce ciu, si consideri che moltiplico è mai questo di cifre e di caratteri significanti, o unicamente o unitamente con altre voci, il corpo d'un solo vocabolo, il quale noi in qualunque significato, quando ben n'avesse un migliaio, scriveremmo sempre con tre medesime lettere.
Di qui nasce che nella China s'apprende più difficilmente il leggere che lo scrivere; poiché a scrivere tanto che basti per esser inteso, serve il sapere i caratteri semplici delle parole, i quali accoppiando successivamente l'uno dopo l'altro, s'arriva a farsi intendere, benché questa sia una forma di scrittura ignobile e da plebei. Ma per leggere i libri e le scritture de' nobili e de' letterati convien sapere non solamente le cifre semplici e per così dire primarie, ma le composte ancora, delle quali se ne contano fino in settantaquattromila; e di queste chi più ne sa è più reputato dotto, e veramente lo è, potendo leggere e intendere più libri degli altri.
Di qui nasce la somma difficoltà d'apprendere questa lingua, mentre non essendovi alfabeto, non vi possono esser vocabolari che insegnino la traduzione de' vocaboli, i quali bisogna imparare col sentirgli dalla viva voce e col provarsi e riprovarsi a dirgli e ridirgli come i papagalli. I padri della Compagnia hanno fatto stampare una spezie di catechismo ed alcuni dialoghi; quello per apprendere i termini più necessari per discorrere le cose della fede, questi per imparare quei vocaboli che occorrono più frequentemente ne' discorsi ordinari e nell'uso del viver civile. Tutto questo si conseguisce assai sufficientemente con la cognizione di soli novemila caratteri, che tanti ne verranno ad essere in questo libro.
Su questo ragionamento, uscitomi l'umore di voler imparare il chinese in otto giorni, m'entrò in quello scambio una grandissima adombrazione di mente, che non mi lasciava arrivare a concepire, non che finir d'intendere, come esser possibile che la vita d'un uomo bastasse per imparare a conoscere una moltitudine così vasta d'intrigatissime cifre e che la mente fosse capace di ritenerne la formazione e l'intelligenza. E mentre andava tra me ruminando per ritrovar qualche esempio simile tra di noi, col quale mi riuscisse d'assettarmi nella fantasia l'ordine maraviglioso di questa cosa, mi successe felicemente di ravvisarne una assai vicina simiglianza nella numerosissima serie delle figure geometriche, le quali per intrigate che elle siano di linee, di triangoli, di quadrati, di cerchi e d'altre innumerabili figure che nascono dall'accozzarsi e segarsi scambievolmente i tratti che si richiedono alla costruzione di esse, nondimeno a prima vista non solo mi viene in mente ciò che per esse dimostrasi, ma tutto il progresso ancora della dimostrazione e tutto quello (che più maravigliosa cosa è) che fu necessario a dimostrarsi con un grandissimo numero di altre figure, delle quali niuna ne apparisce, perché quanto in esse fu dimostrato, quivi semplicemente si presuppone; e non solamente diverse cifre e figure significano cose diverse, ma la medesima eziandio diversissime ne rappresenta, considerando talora un'istessa linea retta e come base d'un triangolo e come diametro d'un cerchio e come asse d'un ovato e come lato retto d'una parabola e come traverso d'un'altra.
Considerazione che di quanto mi fece crescer la forza maravigliosa dell'umano intendimento, altrettanto m'attutì la maraviglia de' periti nelle lettere chinesi, poiché dove quelle contengono in un modo assai grossolano un numero determinato di sei o sette parole o di dieci o di quindici, se pur v'arrivano, queste hanno in sé, ma in una maniera più nobile ed eminente, un ordine così vasto di verità dimostrate, che a condurvisi per via di ragionamento, bene spesso migliaia e migliaia di parole non basterebbono. Ora sì come trovansi moltissimi geometri i quali, non che tutte le figure d'Euclide, quelle d'Archimede e di Appollonio hanno in mente, e di più innumerabili altre de' loro trovati particolari, all'aspetto di ciascheduna delle quali rinvengonsi subito di quel che elle sono e rigirandosi con la mente su quelle linee, scorrono in un istante per un lunghissimo rigiro di proposizioni e di ragionamenti, così m'accorsi non esser gran fatto da maravigliarsi che siano alcuni uomini, i quali in niun'altra cosa occupandosi per tutto il corso della vita loro che in fermarsi nella fantasia le spezie d'una quantità di caratteri, riesca loro finalmente di ritenergli e francamente conoscergli.
Ma ritornando al filo della conversazione: venne il padre Giovanni a discorrere de' matrimoni, intorno ai quali ci disse che tutti i chinesi pervenuti all'età di 18 anni in circa pigliano una moglie, la quale sola è la legittima e da questa ricevono dote proporzionata allo stato delle loro facoltà: possono però ripudiarla, ma con restituire la dote. Il padre che marita una figliuola non isperi mai più rivederla: la chiude in una spezie di seggiola, della quale consegna la chiave a quella donna che ha trattato il parentado (giaché tutti i parentadi si trattano per via di donne, destinate alla senseria de' matrimoni) e questa la consegna al marito, il quale non apre la seggiola se non in camera.
Le donne nobili di rado escono di casa e uscendo o vanno in lettiga o a cavallo o su gli asini, ma sempre coperte. Quelle che sono più di bassa vanno fuori più spesso e a piede, ma coperte esse ancora, il che fanno per infino le pubbliche meretrici, quando passano dalle loro case a quelle delle mezzane che le hanno contrattate con gli avventori della loro bottega.
Ma ritornando ai matrimoni, è da sapersi che presa che hanno moglie, è lecito loro di tenersi quante concubine vogliono, le quali sono di due sorte, libere e schiave. Le libere sono universalmente figliuole bastarde di nobili e di persone civili, che per isgravarsi della numerosa famiglia che produce loro il grandissimo numero delle concubine, locano altresì per concubine le femmine con dote assai leggiera, la quale i conduttori non hanno obbligo di restituire in caso di repudio. I figliuoli che n'hanno avuti rimangono al padre, se gli vuole, e non volendogli, seguitano la madre con la loro assegnazione per gli alimenti.
Le concubine schiave sono figliuole di contadini, i quali per isgravarsi essi ancora de' loro figliuoli, gli storpiati, o in qualunque altro modo difettosi della persona, annegano in fasce, e gli altri, tanto maschi che femmine, portano alla città per vendergli, i maschi per servitori, le femmine per concubine, e di queste con quindici scudi si sfiorisce la piazza. Questa condizione di donne è assai miserabile, essendoché per le case fanno da mule e da asine in portar acqua e in fare tutti gli altri ministeri più vili e più faticosi. Se il padrone le vuol conoscere, non possono ricusare, essendo state comprate principalmente per questo, benché di rado s'impaccino con esse: con tutto ciò, colte in fallo con servitori o con altri, la testa è messa loro ai piedi. I religiosi cattolici si servono di queste più che d'altre persone per insinuar le cose della nostra fede alle mogli e ai figliuoli de' nobili ai quali servono, nel che s'adoperano molto bene, e molte si convertono nel loro cuore, ma per tutto questo non è lecito di battezzarle, per l'obbligo che hanno di star sempre disposte a fare il piacere de' loro signori.
Su questo l'addimandammo dello stato presente della religione cattolica nel regno e del numero de' predicatori evangelici.
Ci ragguagliò come la fede cattolica si professa liberamente in tutte le provincie di quel dominio e come in tutte le nostre chiese vi è la copia del diploma reale approvante tal religione, scolpito in pietra in luogo assai cospicuo. Disse i cristiani essere avuti da per tutto in grandissima venerazione ed essere lecito a tutti, così tartari come chinesi, d'abbracciare la fede senza nota d'infamia. Che tra i letterati chinesi e i nostri religiosi passa un'ottima corrispondenza né avere i nostri più dura emulazione che con quegli sciaurati de' bonzi. E quanto al numero de' predicatori, rispose d'aver lasciato nel regno 26 de' suoi padri, de' quali quattro in Pequìn, con due laici chinesi, sei domenicani e due minori osservanti. Il loro abito è come quello de' letterati, cioè roboni fino in terra di dommasco bianco. Tra i quattro sacerdoti gesuiti di Pequìn v'è il padre Giovanni Adamo fiammingo, il quale sono quarantacinqu'anni che è nel regno, uomo ugualmente caro al re e al popolo e sommamente rispettato dai ministri.
Di qui passammo a dimandare delle monete, del peso, delle misure e del vivere.
Rispose esservi una spezie di moneta coniata detta caxa. Questa è d'una lega bassissima di metallo e corrispondente al nostro quattrino nero. Da una parte vi è improntato il nome del re, dall'altra il nome della stessa moneta. Trecento di queste fanno un leàn, che è uno scudo de' nostri. Un leàn si divide in dieci zièn, un zièn in otto fuèn, un fuèn in... caxa. Del resto si spende oro e argento, il quale si taglia a peso, portando a quest'effetto ognuno negli stivaletti forbicette e bilance.
La libbra chinese è sedici delle nostre once.
La misura ordinaria è il cubito. Il vivere è a buonissimo prezzo, così per il vitto come per il vestito; con cinque fuèn, che saranno da cinque delle nostre crazie, s'averà una gallina grassa raggiunta.
L'interrogammo sopra il mangiare de' Chinesi e delle loro bevande.
— Primieramente, rispose, per farmi dalle bevande, non hanno vino, benché abbiano di bellissime uve. Ne facciamo bene noi altri europei e sì ne beviamo ancora, ma di nascosto, poiché la superbia di quella nazione ha stabilito per legge che sia punito con severissimi gastighi qualunque tenta introdurre nuove usanze nel vitto, o introdotte da altri, ardisce impararle e praticarle. Le loro bevande sono il thè e il vino di riso, il quale cavano verisimilmente per macerazione o per distillamento. Dissi verisimilmente, non essendo ammesso ad apprendere il segreto di nessun'arte se non chi giura di professarla; e l'inosservanza di tal giuramento non si punisce più leggiermente che con la vita.
Beono sempre bollente e per maggior delizia tengono la bevanda sul fuoco in alcuni vasi presso alla tavola. La state mettono nel bicchiere un pezzo di diaccio, ma non ve lo lasciano stare quasi punto per non perdere la delizia di bere stemperatamente caldo, bastando loro che la bevanda ne tiri, dicono essi, il freddo virtuale, il quale credono che attragga in un istante. Quindi usano di conservare il diaccio come facciamo noi, il quale si vende poi la state per la città a vilissimo prezzo. Raffreddano bene le frutte con un poco di maggior garbo, amandole fortissimamente ghiacciate.
Ma ritornando al bere: il vino di riso è bianco, limpido e tirato come ambra e tinto d'un color giallo in oro bellissimo: ha un sapore assai delicato e ve n'è di quello così potente che succede lo scambiarlo anche a noi altri europei da un vino di Spagna. Le persone ordinarie beono in terra, i nobili in oro e in argento intagliati assai goffamente a bulino, e i signori grandi in corno di rinoceronte liscio o lavorato d'intaglio con legature d'oro arricchite di gioie.
Per quello poi che appartiene ai cibi, vi è d'ogni bene, niuna cosa mancando loro di quelle che noi abbiamo. Abbondano primieramente d'ottimo formento; hanno tutti i nostri carnaggi e le salvaticine, tutti gli agrumi, le frutte e gli ortaggi; e se fosse chi fargli, le Molucche, con la gran copia delle spezierie darebbero loro squisitissimi i condimenti. E pure del grano non arrivano a saperne far pane, quantunque arrivino a farne farina, mangiando in quello scambio del riso cotto in acqua e poi abbrustolito e risecco, spruzzandosene in bocca con alcuni bastoncelli, che adoperano in cambio di forchetta, da una ciotola che ne tengono piena, con la mano manca, e ciò fanno dietro a ogni boccone di carne o d'altra cosa che mangino, ma niente è più insipido delle loro vivande. Il tutto cucinano lesso e nell'istesso paiuolo vi è il porco, la lepre, il pesce, la vitella, il fagiano, sopra tutte le quali cose il valente cuoco bada a rinfonder acqua in finché siano cotte, e del brodo di quella saporitissima oglia imbandisce per ciascheduno una ciotola in luogo di minestra.
La carne che si mangia più comunemente è quella di porco. Il castrato ancora è in gran credito. La povertà mangia dell'asino, de' cani, de' gatti, essendovi beccherie separate per tutte le sorte di carni. I peducci di cane secchi e sfumati come le nostre anguille, sono un cibo stimatissimo per riscaldare e corroborar lo stomaco.
La carne si serve in piatti separatamente, cioè una sorta di carne per piatto. I condimenti ordinari sono due; uno è un certo cacio di fagiuoli, che si fa in questo modo: mettonsi i fagiuoli a infradiciare in acqua e quando hanno fatto al di sopra una certa spezie di pelle verde e che sotto, a rimaneggiarli con la mestola, si sentono perfettamente macerati, si passano per istaccio assai fitto sopra vasi pieni d'acqua, nella quale cade quel pastume più fine, restando nello staccio il più grosso. È questa pasta per loro una spezie di salsa universale, legando con tutte le vivande: anzi può dirsi che ella sia il loro sale, non adoprandone d'altra sorta, quantunque nelle provincie più occidentali abbiano abbondanza di pozzi e di fontane salmastre.
L'altro condimento è un'altra salsa detta missò, fatta di farina di grano corrotta, la quale ha un puzzo così orrendo e stomachevole che si cambierebbe tal volta dai più fetidi escrementi. Questa non si mette nelle pentole come la prima, ma si serve in tavola in piatti separati, intignendovisi per delizia i bocconi, come si fa da noi nella mostarda e nei saporetti.
Ne' conviti e nelle tavole de' signori grandi usa di regalare i piatti: e tutto il regalo consiste in fiorire le vivande d'una di queste quattro cose: o di riso o d'erbette o d'uova sode in piccatiglio o di tagliatelli minutissimi di frittate, sottili come ostia. Ma Iddio ne guardi dai loro banchetti, i quali sono propriamente una morte e chi gli frequentasse troppo spesso penerebbe poco a morirsi di fame. Di qui è che dai convitati s'usa di fare in casa una buona refezione per non patire l'inedia.
Nella sala destinata al convito sono disposte intorno le tavole, a niuna delle quali siedono più di tre, e il padrone di casa siede solo nell'ultima. Non usano tovaglie d'alcuna sorta e su la tavola nuda tante sono posate quante sono seggiole all'intorno. Le posate consistono in una tazza per bere, una ciotola di riso, il piatto del mi-ssò e i due bastoncelli di legno che dissi servire in cambio di forchetta. Tutta la piatteria è di porcellana, cominciando da quella del re a quella del più infimo artiere, e tutta la distinzione è nella maggiore o minore finezza.
Posti che sono i convitati a sedere, entra lo scalco col primo servizio e quello distribuito per tutte le tavole, dà il segno di cominciare a mangiare, avanti al quale chi stendesse la mano al piatto ne avrebbe una buona mortificazione, oltre alla taccia di goloso e di malcreato. Questo segno non è altro che dire zin, che significa invito, al che tutti unitamente rispondono zin zin zin zin zin, dicendoselo vicendevolmente l'un l'altro, come fanno i preti all'altare nell'abbracciarsi e darsi la pace. Detto questo, tutti in un istesso tempo arrivano della vivanda e si mettono in bocca il boccone, e se alcuno non va a tempo con gli altri, lo scalco grida seco a testa, dependendo una gran parte della sua lode dal far mangiare, dirò così, a tempo di battuta, giaché senza di questo il banchetto si direbbe mal servito e disordinato. Gran disgrazia dei convitati l'avere a durare tanta fatica per fare onore allo scalco, e che il cuoco n'abbia a durar così poca per fare onore a loro!
Come pare allo scalco che si sia mangiato a sufficienza d'una vivanda, fa servire il secondo piatto e dopo questo il terzo, con fare osservar sempre le medesime stitiche cirimonie; e quando pare a lui che s'abbia a aver sete, fa portar da bere, e chi l'aveva innanzi o non l'ha ancora, suo danno: si ha a bere quando torna bene al buon ordine della tavola e tutti a un tempo hanno a portarsi il bicchiere alla bocca col solito zin zin zin, e staccandonelo hanno tutti a mostrar voto il bicchiere.
Alla prima bevuta entrano i commedianti, de' quali altri sono pubblici e che vanno a rappresentar per le case mercenariamente, altri sono trattenuti da signori particolari, i più qualificati de' quali ne tengono una o più compagnie, come si tengono le bande de' violoni in Francia. Questi (che sono superbamente vestiti) vanno subito a quello che siede nel luogo più degno e messogli innanzi il protocollo delle loro commedie, lo pregano che voglia comandare il suggetto che è più di suo gusto. Questi per atto di civiltà gli manda a un altro e quegli a quell'altro, tanto che si conducono al padrone di casa, il quale finalmente dice loro che rappresentino quella che vogliono.
Durerà la commedia da un quarto d'ora e i suggetti sono cavati per lo più dai fatti de' loro re e delle loro regine. Finita, torna lo scalco con altre vivande e come s'è di nuovo mangiato e bevuto, tornano gli onorati commedianti, e replicata l'istessa stucchevole cirimonia di chiedere a tutti il nuovo suggetto, rappresentano un'altra commedia, la quale terminata, torna di nuovo lo scalco e dopo lo scalco la commedia, durando questo amenissimo giuoco la povertà di sei o sett'ore, in capo alle quali ogn'uno torna a casa più ammoinato che satollo.
Una cosa lasciava in dietro, seguitò il padre, che nella China non hanno ulivi, onde si servono d'altre sorte d'olio. I ricchi usano olio di gelsomini, liquore delicatissimo che cavano (non so già dire il come) dagli stessi fiori, de' quali hanno abbondanza incredibile. La gente mezzana adopra un altr'olio, che cavano da un seme detto jeljelin, che è una spezie di sesamo ed è alquanto amarognolo. I contadini, come in Pollonia, consumano per lo più olio di lino ovvero un altro liquore che si cava da una pianta, detto in lingua loro ma-ieù, che è fetidissimo.
Non mangiano insalata né altre erbe crude; conservano bensì le frutte in certa salamoia senza sale fatta d'aceto. In somma nel mangiare hanno un gusto sporchissimo e noi altri, quando ci vien donata qualche lepre o fagiano, per non vedergli straziare dal nostro cuoco chinese, l'infilziamo da per noi nello schidione, cocendoli e mangiandoli nella più riposta camera che abbiamo in casa, con ordine che in quel tempo non s'apra a nessuno, salvo che a' mandati dal re, de' quali se alcuno a sorte ne venisse, tenghiamo uno alla finestra che vedendolo comparire da lontano corra subito ad avvisarci.
— È gran cosa, replicò il signor Carlo, che avendo tanta abbondanza di pecore e di vacche non abbiano tanto giudizio da saper fare un po' di burro o un po' di cacio meglio che di fagiuoli fradici.
— Tant'è, rispose il padre, questo nasce dalla loro superbia. Pensi V.S. se s'indurrebbono a imparar cosa dai forestieri e in particolare dai Tartari, i quali per questo solo che fanno il cacio, non sarà mai che si mettano a farlo i Chinesi. Io non so già con tutto questo se io mangiassi più volentieri i latticini de' Tartari o i fagiuoli de' Chinesi, essendo insoffribile il puzzo di quello. Usano di farlo a ciambelle, delle quali n'infilzano a centinaia in una corda e così lo tengono in mostra su le botteghe per venderlo. E così sodo e impietrito che a batterlo nel muro avverrà facilmente che si scrosti prima il muro che il cacio. Quando vogliono mangiarlo lo mettono a rinvenire sul fuoco, dove si rammorbidisce come cera.
Egli è ben vero che quanto i Chinesi sono tangheri nel mangiare e nel bere, altrettanto sono squisiti nel dormire. L'inverno mettono le materasse di cotone sopra certi fornelli o stufe quadre dette can, sotto le quali mantengono un fuoco assai temperato. Hanno le lenzuola, come tutte le altre biancherie, di bambagia, finissime: che del lino non si servono ad altro che a far olio e della canapa funi. Alle cantonate del can vi sono le sue colonne come ai nostri letti e al palco tengono attaccati i padiglioni detti ca-ià, l'inverno di drappo o d'altra cosa grave, la state di velo finissimo per le zanzare e le mosche. Passato il freddo, trasportano le materasse dal can sopra panche e tavole come le nostre, e nel cuore della state cavano il cotone e le riempiono d'una spezie d'àliga secca, ma soffice e delicata più della seta, la quale rende un fresco troppo regalato.
Galantissima è la foggia de' piumacci e de' guanciali parimente da state, essendo intrecciati di sottilissime sverze di canna marina o d'India che dir vogliamo, dentro voti e solamente ripieni d'aria. Questa è una delizia incredibile: sono lisci come un marmo e avvallano poco o punto, onde il capo regna sul suo guanciale senza punto rimanerne inghiottito; oltre di che brandiscono sempre, sì che pare d'aver la testa, per così dire, in sugli archi, e nel rivoltarsi di qua e di là, secondo che pure tanto quanto cedono e ritornano, si fanno mantici dell'aria fresca, la quale trapelando tra i fessi di quell'intrecciatura, spira dattorno al viso con aliti così piacevoli che è una delizia che passa l'immaginazione.
Né solamente ne' letti, ma su le seggiole ancora s'adagiano i Chinesi molto delicatamente. Queste hanno i fusti di legno, con le spalliere e il sedere tessuti delle suddette sverze di canna; sono d'una foggia assai comoda, ma l'ingraticciature sono più grosse e forti e meno arrendevoli de' guanciali, a proporzione del maggior peso che hanno da reggere; fanno però arco tanto quanto esse ancora, onde è gustoso il posarvisi e bellissimo e comodissimo lo starvi.
I Tartari però non vogliono tante delizie, contentandosi di dormire in terra sui tappeti come fanno i Turchi.
Gli domandai come era maestoso il soglio dove risiede il re nelle funzioni pubbliche.
Disse che i re chinesi avevano gran lusso in questo primo arredo della maestà, ma che questi re tartari siedono in terra alla soldatesca sopra un guanciale.
L'interrogò il signor Carlo in che cosa avessero il maggior lusso i Chinesi.
Rispose che nell'accompagnature de' funerali: prima nel gran consumo della cera e de' profumi e nella dispendiosa manifattura delle statue e d'altri trionfi di legno e di cenci, che portano avanti al morto, ma sopratutto nelle casse dove ripongono il cadavere, fabbricandole di legni preziosi, come d'aloè, di sandali rossi e di bianchi e d'altre piante rarissime e d'inestimabil valore, e ciò in vece d'imbalsamargli.
Chiesi della qualità dell'aria e della lunghezza del vivere.
— L'aria, soggiunse, è universalmente buona e che sia il vero i contadini, che in tutti i paesi hanno meno disordini, nella China arrivano all'ultima vecchiaia e moltissimi ve ne sono che arrivano al centinaio.
I nobili di quarant'un anno sono vecchi e di cinquanta decrepiti, e ciò per il continuo accoppiamento delle dissolutezze del senso con quelle della gola, della quale tanto nel mangiare che nel bere sono intemperantissimi. Le gentildonne poi di rado sogliono arrivare a trent'anni, il che nasce da una bestiale usanza di fasciatura di piedi, nella piccolezza de' quali consistendo ogni pregio della bellezza, secondoché niun'altra parte del corpo si vede loro scoperta, le madri, subito nate, te gliel'arrandellano in sì gentil maniera che impedendo alle vene e a' canali degli altri umori il debito crescimento, trattenuta in gran parte per la loro strettezza (sì come è da credere) la circolazione del sangue, tutte le parti e le viscere, che n'avrebbono ad essere innaffiate, bevendone a stento, non si supplisce a un gran pezzo, nel ristorarle, a quanto per la forza del calor naturale se ne asciuga e svapora, onde è necessario che estenuandosi in processo di tempo le complessioni, s'ingenerino diverse infermità e periscano.
Domandai quali siano le maggiori solennità dell'anno.
— Tre, rispose: la luna nuova di febbraio, al principio del mese di novembre e il giorno natalizio del re. In tutte queste il medesimo re esce fuori pubblicamente per la città, assistito da tutta la corte, da tutti i mandarini, cioè i nobili, e da tutti i magistrati e capi de' letterati, comparendo ciascheduno con gli abiti propri della sua carica, i quali sono molti e vari. L'onore della testa del re è una perla in cima del berrettone. Gli altri grandi portano diverse gioie e molti una perla ancor essi, ma accompagnata o da un rubino o da uno smeraldo o da un bottone di diaspro; sola non la porta altri che il re. L'altra insegna reale sono due cicogne, le quali porta il re sul petto in un ricco ricamo d'argento. I mandarini vi portano altri animali, e de' nove ordini ne' quali si distingue tutto il corpo della nobiltà, ciaschedun ordine ha il suo. Il primo ha la grue, il secondo il leone, il terzo l'aquila, il quarto il pavone; degli altri non mi sovviene, sì come né anche mi dà l'animo di ricordarmi delle differenze degli abiti de' magistrati e de' capi de' letterati; d'uno mi ricordo ed è quello del matematico, il quale porta appese alla cintura quattro tavolette quadrate di diaspro, pendenti da cordoni di seta, e nel mezzo di ciascheduna è incastrato un rubino; in cima del berrettone ha un rubino e una perla. I colori più comunemente usati nel vestire sono il rosso, il paonazzo, il ranciato e il turchino. I bonzi già ho detto che vestono di bigio e i letterati di bianco.
Mi dimenticava di dire che per la festa della lunazione di febbraio si fanno per tutti alcune stiacciate, nelle quali con lavori di pasta rappresentano la luna e nella luna una lepre che pesta il pepe, perché dicono che in quella notte s'osservi nella luna una simile apparenza, onde si chiama ancora questa festività il sacrifizio della lepre.
L'interrogai se sia vero che i Chinesi abbiano memorie così antiche e di tante migliaia d'anni come molti vogliono.
Disse che dal re Jao in là, dal quale contano quattromilasettecent'anni di cronologia regia, niun'altra cosa sanno dell'età del mondo.
Domandai della navigazione e se in quelle parti si creda che dall'Asia sia alcun passo in America per terra.
Quanto al primo disse che la loro arte del navigare è imperfettissima, mancando principalmente dell'uso della bussola; che le barche maggiori non portano più di cinquant'uomini; che le vele sono fatte di stuoie, ma che vanno con esse con tutti i venti, avendo in ciò una maestria particolare; che la maniera di remare è diversa dalla nostra, dimenando semplicemente i remi innanzi e indietro; onde concluse che attesa l'imperfezione dell'arte, non s'allontanano gran cosa dalla spiaggia.
All'altro particolare del passo in America rispose non sapersene un vero, mentre gli Olandesi e gl'Inglesi, come quegli che non hanno potuto spuntare la navigazione per l'Oceano Glaciale, per quelle parti non hanno commercio. I Tartari, sì come non trafficano, non son gente da muoversi per mera curiosità, e finalmente i Chinesi non uscirebbono del loro paese in tanta disgrazia. L'opinione però è che il passo vi sia o che almeno in qualche parte i due gran continenti d'Asia e d'America non sieno disgiunti che per un brevissimo tratto di mare, vedendosi comparire di quando in quando nelle parti mediterranee di Tartaria degli animali americani, i quali è certo che se la terra ferma non fosse continuata o non vi fosse uno stretto tale da passarlo con un breve nuoto, non potrebbono venirvi.
Tornai a domandare de' giardini de' Chinesi, de' giuochi e de' balli.
— I Chinesi, replicò il padre, non ballano, i Tartari sì, ma fra gli uomini, non con le donne; i loro suoni non sono altro che percotimenti di palma a palma e d'alcuni metalli. Per conto de' giuochi poi si può dire che i Chinesi abbiano il trattenimento e il vizio. Hanno il pallone, le tavole, gli scacchi, la mora, i dadi, le carte. Al pallone giuocano col calcio con maravigliosa destrezza; non fanno in partita, ma palleggiano semplicemente in quattro, in cinque, in sei e anche in più, mandandosi l'un l'altro la palla co' piedi, ed io mi son trovato a vedere un pallone per aria più d'un quarto d'ora senza toccar mai terra.
Quanto ai giardini sono cosa ordinarissima, non essendo quasi altro che puri recinti di praterie per uso di giocare al pallone. Non hanno altri fiori odoriferi che i gelsomini; le rose sono belle, ma senza odore; tulipani, giacinti e anemoni non si conoscono né se ne sa il nome. Nel resto la gran copia dell'acque fa i giardini belli e dilettevoli: è ben vero che non hanno grand'artifizio nel farne mostra, lasciandole venire come la madre natura le manda fuori della terra. Quanto in questa materia ho veduto di bello è nel giardino del re, dove una grandissima acqua che v'è cade giù per un dirupo di bronzo adornato con rilievi di tronchi e di fogliami diversi, essendo i Chinesi nell'arte fusoria eccellentissimi maestri, onde hanno bellissimi treni d'artiglieria e altri arnesi militari di getto.
Su questo si prese a domandare dell'arti e in primo luogo de' medici e della medicina.
— I medici, prese a dire il padre, sono ammirabili nella pratica di riconoscere dalle osservazioni del polso le nature e i particolari accidenti delle infermità: è ben vero che nell'appropriare i medicamenti riescono anch'essi come tutti gli altri, tirando a indovinare. Io posso deporre dell'uno e dell'altro per esperienza, poiché un mese e mezzo lontano da Pequìn caddi malato, ed essendomivi condotto, come a Dio piacque, fui subito visitato da un medico del re, fattovi venire dal padre Giovanni Adamo.
Questi entrato che fu in camera, mi fece porre a sedere, e lasciatomi alquanto riposare, mi fece posar le braccia fino alle gomita sopra una tavola. Allora cominciò a tastarmi l'uno e l'altro polso ora strignendomi fortissimamente, ora soavemente premendo l'arteria, ora strignendo ugualmente l'una e l'altra, ora l'una premendo e l'altra mollando, ora questa strignendo e quella semplicemente toccando, ora tastando per lungo tempo continuamente, ora a volta a volta ritornando a tastare, ora facendomi tenere il pugno raccolto, ora la mano distesa; e finalmente non è positura di mano o di braccio nella quale non volesse sentirmi il polso: e tutte le prove durarono un tempo considerabile, che in tutto dovette esser lo spazio di tre quarti d'ora.
Finita questa faccenda, io mi pensava d'avere a cominciare a ragguagliarlo del mio male. «Zitto, disse il padre Giovanni Adamo, il signor eccellentissimo a quest'ora lo sa meglio di voi, staretelo a sentire». Cominciò allora l'eccellentissimo, ritornato a sedere con una maestà che sarebbe stata troppa a un oracolo, a dire del tempo della mia infermità, di tutti gli accidenti patiti in essa, riducendogli tutti ai loro tempi, e d'ogn'altra più minuta particolarità, il che fece così aggiustatamente al vero che io ne rimasi fuori di me. M'ordinò alcune bevande, le quali se fossero state così bene appropriate al male come furono le osservazioni a conoscerlo, sarei stato guarito in quel punto; ma perché ciò non seguì così per allora, bisogna credere ch'ei non accertasse così bene il medicamento come accertò il giudizio.
Ora venendo alla medicina, è da sapere che nella China non cavano mai sangue, ma applicano in quello scambio una spezie di vescicatòri alle spalle. Il mal franzese lo curano assai bene con decotti d'erbe; vero è che non è tanto velenoso come in Turchia e in Persia e in altre parti orientali. Tra i medicamenti è famosa una radica che si trova nella provincia di Suc-iuèn, detta latte di tigre; dicono che ella non fa se non ne' luoghi dove le tigri quando hanno i figliuoli, arrabbiate e infuriate da' cacciatori, gocciolano in passando il latte dalle poppe. E veramente l'odore della polpa di questa radica è simile a quello del latte e come il latte è bianchissima, unica ragione forse dell'averla onorata di questo bel nome. Vogliono dunque che questa polpa, preparata con vari argomenti, sia un sudatorio infallibile e potentissimo. Io posso dire d'aver veduta la radica, ma non già l'esperienza.
Dalla medicina si passò a domandare dell'altre arti e il padre col medesimo ordine col quale noi l'andammo interrogando ci venne a dire che nella China non vi è cristallo, ma grandissima copia di vetro, e in spezie ci disse del vetro di riso, il quale è senza dubbio più fragile d'ogn'altro, ma altrettanto più facile a lavorare. La sua pasta appena messa in fornace è subito fusa e bollente ed è cosa incredibile la gran sottigliezza alla quale conducono i vasi, che bellissimi ne formano. In cambio di ferri adoprano canne di vetro grosso come fanno tra noi quegli artefici che lavorano alla lucerna i lavori di cristallo più gentili e delicati.
— I loro specchi sono tutti di mesture e secondo che sono peritissimi, come si è detto, nell'arte del getto, fanno di bellissimi specchi concavi, i quali si hanno a buonissimo prezzo: con poco più d'una dobla si averà uno specchio di quattro palmi di diametro. I nostri padri hanno introdotte le arti di lavorare gli occhiali e i telescopi, ed è cosa di maraviglia che i Chinesi si siano abbassati ad imparare a lavorargli, il che denota la grand'utilità e l'eccellenza di quest'arte: in oggi cominciano a fargli assai buoni, servendosi delle spere che portano colà i nostri europei, delle quali si è certo di far loro un accettissimo regalo, benché i mercanti per supplire agli artefici d'occhiali abbiano cominciato a commetterne.
Hanno bellissime drapperie d'oro filato e del tirato ne fanno lavori molto galanti. Ma sopratutto è stupendo l'artifizio di dorare e innargentare a fuoco la paglia a più foglie, della quale così innargentata e dorata fanno lavori maravigliosi.
Ma non si può mai dire quanto siano ingegnosi nella fabbrica de' fuochi lavorati, co' quali rappresentano in aria caratteri, figure, alberi e mille altre cose; e ciò non solamente costrignendo il fuoco a figurarsi in quelle immagini, ma colorendolo eziandio al naturale. Io non averei mai creduto al rapporto d'altri quello che pur mi convien di credere agli occhi propri, co' quali ne presi testimonianza. Io veddi dalla soffitta d'una sala, dove mi ritrovava a un solennissimo banchetto, scendere in terra una grossa vite e subito girarle intorno un altro fuoco, che si formò in figura di pampani e d'uve: il tutto sì vagamente colorito de' propri colori che non credo si potesse far di più col pennello. Durò quest'apparenza lo spazio d'un miserere, e consumata la materia combustibile, a poco a poco disparve, lasciando da per tutto la traccia del fumo, in cui per breve tempo durò a raffigurarsi lo scheletro, dirò, dell'apparenza medesima.
Questa stess'arte si trova anche in Persia, benché non tanto raffinata. I Chinesi ne sono gelosissimi: con tutto ciò il prezzo di questi fuochi non è molto rigoroso, avendosi per due dobble un fuoco di tre o quattro mostre.
— Vostra reverenza, diss'io allora, mi fa credere adesso quello che fin ora non ho creduto ed è che undici anni sono in Roma il signor Errico Seistet cavaliere danese mi disse venirgli scritto di Coppenhagen che fosse tornato dalla China un danese, il quale aveva fatto vedere al re una foggia di fuochi artifiziati, che levati in alto da un razzo, scoppiavano in varie strisce di fiamme, le quali formavano in aria il nome del medesimo re.
— V.S., replicò il padre, può crederlo sicuramente, benché mi paia gran cosa che quest'uomo arrivasse al segreto, il che non gli sarebbe sicuramente riuscito se non si fosse applicato a quest'esercizio, datone prima il necessario giuramento, e certo gli ha detto buono a scamparla.
Il signor Carlo domandò se avevano carrozze o carri.
— I Chinesi, disse, usano per lo più lettighe, portate da muli o da uomini; sono assai simili alle nostre, salvo che nell'essere notabilmente più lunghe per uso di portarvi casse, distendervi letti e rizzarvi tavole, il che riesce di gran comodità nel viaggiare. I Tartari hanno certe carrozze con due ruote, tirate da uno o più muli o cavalli. Le mogli de' viceré e de' signori grandi sono tirate da due bestie, seguitandole un gran numero di donne tartare a cavallo, armate d'arco e di frecce.
Per le some adoprano cameli, come anche una certa foggia di carriuole a una ruota assai alta, che gira in mezzo a due casse, nelle quali si mette la roba, e un uomo solo, reggendo con una cigna a traverso, come quegli che portano le sedie, alcune stanghe fitte nelle casse di qua e di là dalla suddetta ruota, le fa girare con grandissima facilità; e questo è il modo ordinario di trasportar le mercanzie e i carichi delle condotte per le provincie che non sono montuose.
Fu domandato se si dilettino della caccia, se usino di correr pali e come siano periti nel cavalcare e nell'arte d'ammaestrare i cavalli.
— I Tartari, rispose, sono cacciatori, i Chinesi niente affatto. De' pali non se ne sa il nome, e quanto ai cavalli, tutto il loro studio è nel bardargli ricchissimamente e nessuno nel fargli.
Domandammo se piglino tabacco.
— In polvere no, rispose, in fumo assaissimo: così i Tartari come i Chinesi, così uomini come donne. Queste hanno la tasca della pipa e del tabacco alla spalla, gli uomini alla cintura.
Domandò il signor Carlo se mandarino è voce chinese.
Disse esser portoghese e che in chinese si chiamano quoàn, che significa signoreggiare, comandare, governare.
Domandai se i popoli della China sono feroci e inclinati all'armi.
Rispose esser naturalmente vilissimi e che egli in tre anni non aveva veduto altra rissa che una sola volta due fare alle pugna, aggiugnendo che tutte le loro questioni non sogliono parare in altro.
Gli domandai finalmente se nel suo ritorno avesse a sorte incontrato Monsieur Tavernier, il quale due anni sono si era imbarcato a Livorno per l'Indie, portando seco una ricchezza inestimabile di gioie. Che tra l'altre aveva un assortimento di zaffiri grossissimi e alcune perle a pera per un gioiello, il quale pensava di vendere al Mogòl per adornamento del pennacchino dell'elefante della persona. Aggiunsi aver detto Tavernier che quel principe nel solo mantenimento degli elefanti del re suo antecessore fa una spesa di quindicimila scudi il giorno; se io lo doveva credere. Quanto a Monsieur Tavernier disse averlo incontrato in Persia.
— Del resto, seguitò dicendo, V.S. non abbia alcuna difficoltà in creder queste e maggiori cose del lusso di quel principe nel mantenimento degli elefanti; la qual cosa per meglio intendere, convien sapere come tutta l'India di qua e di là dal Gange è spartita in moltissimi feudi, de' quali l'imperatore n'investisce a vita i suoi servitori. Questi lo riconoscono ogn'anno d'un grossissimo regalo, che in realtà è un tributo fisso e determinato. In oltre sono tenuti a mantenere chi mille, chi due, chi tre, chi quattro e al più cinquemila uomini d'arme, il qual numero, accioché per l'avarizia de' feudatari in tempo di pace non si diminuisca, onde sopravvenendo la guerra s'abbiano a riempier le piazze morte di gente collettizia e inesperta, usa l'imperatore d'ordinare improvvisamente a questo e a quell'altro principe che venga a rassegna con le sue genti, alle quali dà egli medesimo la mostra, riscontrando con grandissima accuratezza se i soldati sono veterani o fatti allora per compire il numero, il quale sono tenuti a mantenere sempre completo e guai a chi si ritrovasse in fraude. Di qui è che il Mogòl in un subito può mettere insieme un corpo formidabile di cinque in seicentomila combattenti senza pure spendere un soldo di più dell'ordinario, appartenendosi a ciaschedun principe di pensar eziandio in tempo di guerra a tener provveduta di viveri la sua gente.
Supposto questo, è da sapere come sono sei o sette elefanti destinati per la persona dell'imperatore, i quali sono chiamati panciasari, che significa signor di cinquemila, e vuol dire che a ciascheduno di questi elefanti è assegnata per suo mantenimento un'entrata uguale a quella che cavano da' loro feudi que' principi che hanno obbligo di mantenere il maggior numero de' soldati, che è di cinquemila. Veda V.S. adesso se può stare il detto di Monsieur Tavernier: e sappia che questo lusso non è solamente negli elefanti, ma ne' cavalli ancora, de' quali viene ogni giorno insieme con gli elefanti un grandissimo numero d'avanti al re con bardature ricoperte di gioie, ed egli si trattiene in maneggiare gli uni e gli altri secondoché gli piace. Di qui passò a dire del presente imperatore, come egli nella sua gioventù, simulando una vita tutta contemplazione, estasi e ratti, ha finalmente levato il regno a suo padre, il quale vive ancora in età di ottantasei anni, e vive prigione in Agra.
— E benché paia al figliuolo che viva un poco troppo e che ciò non cominci a parergli solamente da adesso, non s'è però mai ardito di disfarsene per non stuzzicare il vespaio, essendo il vecchio amato tenerissimamente dai popoli, i quali vede che per consolarsi della sua morte, quando fosse violenta, piglierebbono più che volentieri l'occasione di vendicarla. Ha per prigione un palazzo reale, abbondante d'abitazioni e di giardini pieni di delizie. Gli è lasciata la sua guardia di moschettieri tartari, la quale è numerosissima, ed ha seco tutto il gregge delle sue donne, tra le quali si dà un tempo bellissimo, divertendo il pensiero del suo misero stato con l'ubriachezza.
A questi anni l'imperatore suo figliuolo fece fabbricargli arridosso della prigione, con non so qual pretesto, una torre altissima, dalla quale si dominassero tutti i giardini. Di lì a poco vi messe una sentinella, mero pretesto per risapere tutto quello che si faceva là drento. Il vecchio accortosene, la fece pigliar di mira a non so quante delle sue donne, una delle quali avendola buttata giù, disse al custode: «Dite a quel ribelle del mio figliuolo che mandi pure di simili uccelli su quella torre, ch'ei darà un grande spasso a queste mie donne». Dopo la quale imbasciata dicono che non v'abbia più mandato altri per non mettersi a risico di vedersi perduto il rispetto, giaché non ha cuore da saperselo levar d'avanti.
Ma per dire il vero, la giustizia e la prudenza di questo principe sono sommamente commendabili. Nel tempo che io mi trattenni in Laòr accadde che un principe suo suddito, per un leggerissimo errore commesso da un garzon di stalla nel governare un cavallo suo favorito, usasse seco una crudeltà barbara, conficcandolo con la testa in terra. Un giorno d'audienza pubblica, la quale ei suol dare una volta il mese in un gran prato fuori della città, comparve la moglie del morto a richiamarsene. L'imperatore, chiamato a sé quel disgraziato e interrogatolo se era vero, e quegli detto che sì, fece distenderlo in terra e volle che la donna di sua mano facesse quello che egli aveva fatto al marito.
Gran cose dicono ancora del gran sapere di questo principe e che ora stia non so se componendo un nuovo Alcorano o riformando o interpretando il vecchio. La verità è che egli usa quest'arti e in particolare questo incorrotto tenore di giustizia per mitigare gli animi esacerbati de' sudditi, che nel loro cuore fanno propria la causa del suo povero padre. L'età sua è di quarant'anni; ma forse, come sarà morto quel vecchio, onde manchino ai popoli tutti i pretesti della fellonia, si scoprirà quella parte del suo animo che al presente procura sì artifiziosamente d'occultare.
Tali furono le risposte che fece il padre Giovanni alle nostre domande; e benché la nostra curiosità desiderasse di sapere ancora d'avvantaggio, tuttavia essendo oramai durato molte ore il discorso ed essendo già scorsa una buona parte della notte, del che ci accorgemmo in guardar le candele, giaché il piacere d'una sì gradita conversazione non ci aveva mai lasciato sentir né ore né orivoli, alzatici da sedere e rese molte grazie al padre per la sua cortese sofferenza, ci licenziammo.