< Rime (Berni)
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Francesco Berni - Rime (XVI secolo)
LV. Capitolo del debito [A Messer Alessandro del Caccia]
LIV. Capitolo in laude d'Aristotele LVI. Capitolo di Gradasso


Quanta fatica, messer Alessandro,
hanno certi filosofi durata,
3come dir, verbigrazia, Anassimandro
 
e Cleombroto e quell’altra brigata,
per dichiararci qual sia ’l sommo bene
6e la vita felice alma e beata!
 
Chi vuol di scudi aver le casse piene;
chi stare allegro sempre e far gran cera,
9pigliando questo mondo com’e’ viene:
 
andar a letto com’e’ si fa sera,
non far da cosa a cosa differenzia,
12non guardar più la bianca che la nera.
 
Questa hanno certi chiamata indolenzia,
ch’è, messer Alessandro, una faccenda,
15che l’auditor non v’ha data sentenzia:
 
vo’ dir ch’io credo che la non s’intenda;
voi chiamatela vita alla carlona,
18qua è un che n’ha fatto una leggenda.
 
Un’altra opinïon, che non è buona,
tien che l’imperador e ’l prete Ianni
21sien maggior del torrazzo di Cremona,
 
perché veston di seta e non di panni,
son spettabili viri, ogniun gli guarda,
24son come fra gli uccelli i barbagianni.
 
E fu un tratto una vecchia lombarda
che credeva che ’l papa non fuss’uomo,
27ma un drago, una montagna, una bombarda;
 
e, vedendolo andare a vespro in duomo,
si fece croce per la maraviglia:
30questo scrive uno istorico da Como.
 
Dell’altra filosofica famiglia
sono intricati più, dico, gli errori,
33ch’una matassa quando si scompiglia.
 
Vergilio disse che i lavoratori
starebbon ben, s’egli avessin cervello,
36se fussin del lor ben conoscitori;
 
ma questo alla sentenzia è stran suggello:
è come dare inanzi intero un pane
39a chi non abbia denti né coltello.
 
Chi vuol che le persone sien mal sane
dice che lo studiar ci fa beati
42e la scïenzia delle cose strane;
 
e qui gridan le regole de’ frati,
che danno l’ignoranzia per precetto
45e non voglion che mai libro si guati.
 
Non è mancato ancor chi abbi detto
gran ben del matrimonio e de’ contenti
48che son nel marital pudico letto.
 
Questo amo io più che tutti i miei parenti
e dico che lo starvi è cosa santa,
51ma senza compagnia, non altrimenti.
 
Son queste opinïon più di novanta;
son tante, quanti gli uomini, le vite
54e sempre ogniun l’altrui celebra e canta;
 
ma fra le più stimate e reverite
è, per detto d’ogniun, quella de’ preti,
57perch’egli han grandi entrate e poche uscite.
 
Or tacete, filosofi e poeti;
voi, Svetonio e Platina e Plutarco,
60che scriveste le vite, state cheti:
 
lasciate dir a me, che non imbarco
e son in questo così buono autore,
63sono stato per dir, come san Marco.
 
Più bella vita al mondo un debitore,
fallito, rovinato e disperato,
66ha che ’l gran turco e che l’imperatore.
 
Questo è colui che si può dir beato:
in tutto l’universo ove noi stiamo
69non è più lieto e più tranquillo stato.
 
E perché paia che noi procediamo
con le misure in mano e con le seste,
72prima quel che sia debito vediamo.
 
Debito è far altrui le cose oneste,
come dir ch’a’ più vecchi si conviene
75trar le berette et abbassar le teste;
 
adunque far il debito è far bene
e quanto è fatto il debito più spesso,
78tanto questa ragion più lega e tiene.
 
Or fatto il presupposito e concesso
che ’l debito sia opra virtüosa,
81le consequenzie sue vengon appresso.
 
Ha l’anima gentile e generosa
un uom ch’affronti e faccia stocchi assai:
84è uom da fargli fare ogni gran cosa.
 
Non ebbe tanto cuore Ercole mai,
né que’ che vanno in piazza a dare al toro,
87sbricchi, sgherri, barbon, bravi, sbisai.
 
O teste degne d’immortale alloro,
ma più delle carezze e de’ rispetti
90e delle feste che son fatte loro!
 
Non è tal carità fra’ più diletti
figliuoli e padri, e fra moglie e marito,
93e s’altri son fra sé di sangue stretti.
 
È più accarezzato e più servito
un debitor da chi ha aver da lui
96che se del corpo fuor gli fusse uscito:
 
non par che tenga memoria d’altrui.
Andate a dir ch’un avaraccio boia
99abbia le belle grazie c’ha costui:
 
anzi non è chi non brami che muoia,
tanto è perseguitato e mal voluto,
102tanto l’han proprio i suoi figliuoli a noia.
 
Un debitore è volentier veduto,
mai non si truova che nulla gli manchi,
105sempre alle spese d’altri è mantenuto.
 
Guardate un prete, quando va per Banchi,
che sberettate egli ha da ogni canto,
108quanta gente gli è sempre intorno a’ fianchi.
 
Questo è colui che si può dare il vanto
di vera fama e di solida gloria,
111quel ch’è canonizzato come un santo.
 
Non ha proporzïone annale o istoria
con gli autentichi libri de’ mercanti,
114che son la vera idea della memoria;
 
e costor vi son drento tutti quanti,
e quindi tratti a farsi più immortali.
117E’ son dipinti su per tutti i canti:
 
voi vedete certi abiti ducali,
fatti con orpimento e zafferano,
120con lettere patenti di speziali.
 
E sarà tal che prima era un cristiano,
che si farà più noto a questo modo
123che non è Lancilotto né Tristano.
 
Un debitor, ch’è savio, dorme sodo;
fa sonni che così gli facess’io!
126Par che bea papaveri nel brodo.
 
Disse un tratto Alcibïade a suo zio,
ch’avea di certi conti dispiacere:
129"Voi sète pazzo, per lo vero Dio!
 
Lasciatevi pensare a chi ha avere,
o qualche modo più presto trovate,
132ch’i creditor non gli abbino a vedere".
 
Vo’ dir per questo, se ben voi notate,
che se i debiti ad un metton pensiero,
135si vorria dargli cento bastonate.
 
Vedete, Caccia mio, s’io dico il vero,
ché il peggio che gli possa intervenire
138è l’esserne portato com’un cero.
 
Voi vedete il bargello a voi venire
con una certa grazia e leggiadria,
141che par che voglia menarvi a dormire;
 
né so, quand’io veggo un che vada via
con tanta gente da lato e d’intorno,
144che differenzia a lui dal papa sia.
 
Poi, forse che lo menano in un forno?
Sèrronlo a chiave in una forte rocca,
147com’un gioiel di molte perle adorno.
 
Come egli è giunto, ogniun la man gli tocca,
ogniun gli fa carezze e accoglienze,
150ogniun per carità lo bacia in bocca.
 
O glorïose Stinche di Firenze,
luogo celestïal, luogo divino,
153degno di centomila riverenze:
 
a voi ne vien la gente a capo chino,
e prima che la vostra scala saglia,
156s’abbassa in su l’entrar dell’usciolino;
 
a voi nessuna fabbrica s’agguaglia:
sète più belle assai che ’l culiseo,
159o s’altra a Roma è più degna anticaglia;
 
voi sète quel famoso Pritaneo,
dove teneva in grasso i suoi baroni
162el popol che discese da Teseo;
 
voi gli tenete in stia come i capponi,
mandate il piatto lor publicamente,
165non altrimenti che si fa a’ lioni.
 
Com’uno è quivi, è giunto finalmente
a quello stato ch’Aristotel pose,
168che ’l senso cessa e sol opra la mente.
 
Voi fate anche le genti industrïose:
chi cuce palle, chi lavora fusa,
171chi stecchi e chi mille altre belle cose;
 
non vi ha né l’ozio né ’l negozio scusa,
l’uno e l’altro ricapito vi truova,
174di tutti duoi v’è la scïenzia infusa.
 
S’alla città vien qualche buona nuova,
voi sète quasi le prime a sapella:
177par che corrieri addosso il ciel vi piova.
 
E qui si sente un romor di martella,
di picconi e di travi, per mandare
180libero ogniun in questa parte e ’n quella.
 
Ma s’io vi son, lasciàtemivi stare;
di questa pietà vostra io non mi curo,
183a pena morto me ne voglio andare.
 
Non so più bel che star drento ad un muro,
quieto, agiato, dormendo a chiusi occhi,
186e del corpo e dell’anima sicuro.
 
Fate, parente mio, pur de gli stocchi;
pigliate spesso a credenza, a ’nteresse,
189e lasciate ch’a gli altri il pensier tocchi,
 
ché la tela ordisce un, l’altro la tesse.

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