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L’UGOLINO DI DANTE
Scendendo nel pozzo de’ traditori, troviamo un altro mondo poetico dell’inferno dantesco. Dove sono puniti gl’incontinenti e i violenti è il regno de’ grandi caratteri e delle grandi passioni, è la tragedia: lá incontriamo Francesca, Farinata, Cavalcanti, Pier delle Vigne, ser Brunetto Latini, Capaneo. In Malebolge, dove sono puniti i fraudolenti, la passione diventa vizio, e la forza diventa malizia; il male o il peccato non è piú originato da impetuoso movimento dell’animo, ma da consuetudine inveterata, da moto quasi meccanico, poco lontano dal bestiale, sicché non sai se ivi l’uomo sia uomo o bestia: l’eroe di questo mondo comico e plebeo è Vanni Fucci, che dice di sé:
Son Vanni Fucci Bestia, e Pistoja mi fu degna tana. |
Qui, nel pozzo de’ traditori, nel fondo dell’inferno, dall’uomo bestia caschiamo fino all’uomo ghiaccio, all’uomo pietra, a un mondo dove il moto va estinguendosi a poco a poco, sin che la vita scompare del tutto. L’inferno a quest’ultimo punto mi rende immagine di un solo individuo malvagio, prima agitato e consumato da passioni, che poi si trasformano in movimenti meccanici, i quali nella vituperosa canizie si trasformano anch’essi in desiderii impotenti. È la storia del male, che prima mette in movimento tutte le passioni, le quali a lungo andare diventano vizii ed abitudini, insino a che l’anima logorata istupidisce e rimbambisce. L’umanitá nel suo corso ideale va da inferno a paradiso, da carne a spirito; l’inferno è il mondo della carne e il suo progresso è il regresso, cioè a dire un continuo offuscarsi dello spirito, insino a che in ultimo si estingue del tutto. Il pozzo dei traditori segna quest’ultimo stadio, ed è propriamente la morte dello spirito, il puro terrestre, mancato a poco a poco ogni vestigio di vita interiore.
Gli antichi rappresentarono questo momento storico nella lotta de’ giganti, «i figli della terra», contro Giove, «la mente», natura celeste inferiore a loro di forza e di grandezza fisica, che li vince col fulmine, il prodotto della sua intelligenza...
cui Giove Minaccia ancor dal cielo, quando tuona. |
Con questo mito concorda la storia biblica degli angioli che si ribellarono contro di Dio. E qui, nel primo ingresso del pozzo, troviamo i giganti, e verso la fine Lucifero; mitologia e Bibbia si mescolano, espressioni di una sola idea. I giganti sono incatenati; Lucifero è immane carname vuoto d’intelligenza; non è in loro altra vita che materiale, né altra poesia che quella della materia, il gigantesco, il quantitativo, carne ammassata a carne, la carne come carne. I giganti dall’umbilico in su sono trenta gran palmi; la faccia d’uno è lunga e grossa come la pina di S. Pietro a Roma; Anteo è paragonato alla Carisenda; Lucifero è un gigantesco triplicato, con tre teste e sei braccia, grandi elle sole come un gigante; è la poesia della materia. O, per dir meglio, qui non ci è propriamente poesia, neppur quella che viene dal sublime quantitativo; poiché quella grande e subita impressione che è generata dalle proporzioni gigantesche, è qui infiacchita e quasi naufragata ne’ particolari simbolici, entro i quali si disperde l’attenzione. Domina l’allegoria; il lettore, non distratto da alcuna impressione estetica, è tutto dietro a cercare il senso di ciascun particolare; sicché i giganti e Lucifero sono piuttosto segni d’idee, che proprie e vive realtá. Perché Lucifero ha tre facce? perché ciascuna faccia ha un colore proprio? e che significano quei colori? perché Anteo solo è sciolto di tutt’i giganti? E perché i giganti somigliano torri? Pullulano infiniti «perché», lasciati alle dispute de’ comentatori, e rimasti il solo interesse in queste rappresentazioni inestetiche. I personaggi, vuoti di spirito, sono meri segni di concetti, figure assolutamente simboliche. Coloro dunque, i quali, come Lamartine o Lamennais, censurano il Lucifero di Dante e lo trovano tanto al di sotto del Satana di Milton, non si accorgono quanto sia assurdo il paragone tra due concezioni cosí diverse. Satana è lo spirito del male, è tutto l’inferno, e ne ha tutte le passioni. Lucifero è il puro terrestre, inintelligente e bestiale, è l’inferno o il male nella sua ultima degradazione. Quello è il rivale di Dio in tutta la pienezza delle sue forze e delle sue passioni: personaggio altamente drammatico. Questo è il vinto da Dio, e cristallizzato, simile piú a motore meccanico che al libero e conscio attore: personaggio assolutamente prosaico. Lucifero è il re dell’inferno, in questo senso che ne è la piú bassa e materiale espressione. Caronte non è ancora il puro infernale, cioè a dire il puro materiale, e perciò prosaico, e tale non è il diavolo di Malebolge, come Calcabrina o Alichino; perché in questi esseri lo spirito si rivela sempre, sotto una o altra forma tragica o comica; bisogna scendere sino a Lucifero per trovare l’espressione pura e compiuta dell’infernale. Le acque dell’inferno segnano la stessa gradazione. Nelle regioni superiori sono mobili e correnti, e si gittano con impeto in Malebolge, dove stagnano e imputridiscono. Ma qui ventate dalle ali di Lucifero si agghiacciano, s’indurano, e diventano un mare di vetro, mancato ogni vestigio di vita e moto. Il medesimo è dei peccatori, ne’ quali si va estinguendo successivamente ogni apparenza di vita. Mummificati in quel mare di vetro e dannati tutti alla stessa pena, secondo che vai dalla Caina all’Antenora, e dalla Tolomea alla Giudecca, la pena cresce d’intensitá, insino a che si giunge all’ultimo sparire di ogni segno di vita. Caino, Antenore, Tolomeo, Giuda non sono personaggi viventi, ma semplici nomi; di vivo e di umano i segni sono sempre piú deboli; la vita si va petrificando a poco a poco. Nella Caina i dannati possono esprimere le loro sensazioni; sentono freddo, e battono i denti «in nota di cicogna»; sentono dolore e piangono. Nell’Antenora son tolte loro le lacrime; supini, le prime lacrime s’invetriano come «visiere di cristallo», riempiono il cavo dell’occhio, ed impediscono il piangere. Pure possono parlare; appresso, anche la parola è tolta, seppellita nel ghiaccio tutta la persona, che ne traspare come «festuca in vetro». Non movimento, non lacrima, non parola; loro non rimane se non quello che è il puro e vuoto materiale, la positura del corpo.
Effetti estetici qui non nascono e non possono nascere che dalle varie giaciture e combinazioni de’ corpi, ora grottesche, ora miserevoli, sempre ingegnose, chiare scolpite e che prendon rilievo da paragoni nuovi e arditi. Siamo nel puro descrittivo, la poesia della materia. E che questa materia sia animata, non ci è che appena qua e lá qualche debole apparenza, come nel «dattero per figo» di frate Alberigo, o nell’incidente grottesco di Bocca degli Abati. Sono gli ultimi lampi dello spirito. I personaggi hanno poca voglia di parlare, e non dicono il loro nome se non costretti; o, per dir meglio, personaggi veri qui non ci sono, ma una filza di nomi, parte oscuri, parte illustri, del pari vuoti di vita interiore. Che cosa è Cassio? un uomo «membruto». E bruto è un uomo che «si storce e non fa motto».
In questo mondo ossificato, la poesia è spenta insieme con la vita, non potendo esserci al piú che una poesia negativa, cioè l’impressione che produce sull’animo di Dante spettatore questo verace regno de’ morti. A questo mezzo è ricorso il poeta per gittare un po’ di alta e seria poesia nel comico regno di Malebolge, uscendo nella sua eloquente invettiva contro i Papi. Ma qui ci è un modo ancora piú ingegnoso e piú fecondo di effetti poetici. Come il comico in Malebolge si risolve nella sublime indegnazione dello spettatore, di Dante, cosí qui questo fondo prosaico si risolve nel disperato dolore del conte Ugolino.
Ma come qui, fra questi esseri petrificati, può aver luogo il conte Ugolino, il personaggio piú eloquente e piú moderno della Divina Commedia?
Gli è che qui Ugolino non è il traditore, ma il tradito. Certo, anche il conte Ugolino è un traditore e perciò si trova qui; ma per una ingegnosissima combinazione, come Paolo si trova legato in eterno a Francesca, Ugolino si trova legato in eterno a Ruggiero, che lo tradí, legato non dall’amore, ma dall’odio. In Ugolino non parla il traditore, ma il tradito, l’uomo offeso in sé e ne’ suoi figli. Al suo delitto non fa la piú lontana allusione; non è quistione del suo delitto: attaccato al teschio del suo nemico, istrumento dell’eterna giustizia, egli è lá, ricordo vivente e appassionato del delitto dell’arcivescovo Ruggiero. Il traditore c’è, ma non è Ugolino; è quella testa che gli sta sotto a’ denti, che non dá un crollo, che non mette un grido, dove ogni espressione di vita è cancellata, l’ideale piú perfetto dell’uomo petrificato. Ugolino è il tradito che la divina giustizia ha attaccato a quel cranio; e non è solo il carnefice, esecutore di comandi, a cui la sua anima rimanga estranea; ma è insieme l’uomo offeso che vi aggiunge di suo l’odio e la vendetta. Il concetto della pena è la legge del taglione o il «contrappasso», come direbbe Dante: Ruggiero diviene il «fiero pasto» di un uomo per opera sua morto di fame, lui e i figli. Se il concetto rimanesse in questi termini astratti, il modo della pena genererebbe il disgusto e non sarebbe senza un’ombra di grottesco. Ma qui il disgusto è immediatamente trasformato nel sublime dell’orrore, perché l’esecutore della pena non è un istrumento astratto e indifferente di Dio, ma è lo stesso offeso che sazia nel suo nemico la fame dell’odio e della vendetta. A questo non hanno badato quei comentatori di si tenera pasta che si turano il naso per non sentire il puzzo delle cervella e del sangue, e gridano indecente e disgustoso lo spettacolo. Perché ciò? Perché nel lettore vi sono due impressioni, e nel poeta ce n’è una sola. Dante, dominato dall’orrore del fatto e con in capo giá abbozzata e fervente l’immagine di Ugolino, non si arresta alle cervella ed al sangue, che entrano come immagini confuse nella sua visione; egli dice: il teschio e «le altre cose»; e quando Ugolino solleva la testa, e ei scopre quel teschio da lui guasto, Dante non guarda giá il teschio, ma Ugolino, e gittando in mezzo l’immagine feroce del pasto e facendogli forbire la bocca, usando de’ capelli di quel capo a modo di tovagliuolo, spaventa tanto l’immaginazione, che la tiene colá e le toglie il distrarsi nel rimanente dello spettacolo. Ora chi vuol gustare una poesia, dee rifare in sé quel primo momento creativo del poeta. Ma noi questo canto del conte Ugolino l’impariamo a mente sin da fanciulli, e lo diciamo bello sulla fede de’ maestri; e quando ci si sveglia il senso estetico, è giá troppo tardi, la prima e ingenua impressione è perduta irreparabilmente, e non sappiamo ritrovarla, non ringiovanirla. Raffreddati, non sentiamo, ma analizziamo; l’intero della concezione ci sfugge, e meno ci sentiamo atti a riafferrare l’insieme, piú dimoriamo ne’ particolari, ed allora è ben naturale che noi scopriamo le cervella e il sangue, e ci turiamo il naso. Chi ha virtú di lavarsi da queste seconde impressioni e riverginare il suo senso estetico, non vede qui tendini, nervi e cervella; la fantasia di Dante è rapida e non gliene lascia il tempo; ma rimane come spaventato e annichilito innanzi a quella colossale apparizione, impregnata di odio, e di odio non settario1, ma di uomo e di padre offeso, e sospetta qualche terribile istoria che ha condotto un essere nato di uomo ad atto cosí fuor dell’umano, cosí ferino. Or quando l’uomo in proporzioni cosí ideali occupa la scena, tira a sé l’occhio e l’anima dello spettatore e gli ruba ogni altra vista, ogni altra impressione. E guardate che grandezza di proporzioni Dante ha date a questo Ugolino. Sembra che quel suo atto cosí straordinariamente feroce sia espressione adeguata del suo odio, e basti giá a colpire di terrore la immaginazione; ma no, egli è piú fiero che la sua azione, e si manifesta in quell’atto, e non si appaga, come un malcontento artista che non vede sulla carta il suo ideale e non lo spera. Il dolore di Ugolino è «disperato», non saziato, non placato da quella vendetta: il suo dolore riman vivo e verde, tanto che a solo pensarci, «pur pensando», lacrima, come pur ora fosse stato offeso. Anche in Shakespeare ci è un padre a cui sono ammazzati i figli, e: «Che fai?», gli grida un amico: «non calcarti il cappello, non torcere gli occhi cosí: pensa a vendicarti. — Egli non ha figli!» — risponde Macduff. Risposta spaventevole, che fa intravvedere nel padre la disperazione della vendetta, non potendo ammazzare i figli di colui che ha ammazzati i figli suoi. Ma il concetto d; Dante è ancora piú alto. Ugolino ha sotto i suoi denti il nemico, e rimane insoddisfatto, e non perché desideri una vendetta maggiore, ma perché non c’è vendetta che possa saziare il suo dolore, essere eguale al suo odio. Il suo dolore è infinito; la sua anima rimane al di sopra della sua azione. È stata notata una certa somiglianza tra le prime parole di Ugolino e le prime di Francesca2; vi è certo lo stesso concetto, ma con diversa musica. Perché nelle due situazioni vi è qualche cosa di simile e di diverso, somiglianza di concetto con diverso sentimento. Ambedue ricordano con dolore il passato. Cedono alla dimanda di Dante, e piangono e parlano insieme. Ma per Francesca è un passato voluttuoso e felice congiunto con la miseria presente, e la sua anima innamorata ingentilisce il pianto ed abbella il dolore: onde la mollezza e la soavitá di quei versi:
Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice Nella miseria . . . . . . . . . . Ma se a conoscer la prima radice Del nostro amor tu hai cotanto affetto, Farò come colui che piange e dice. |
Per Ugolino passato e presente sono d’uno stesso colore, sono uno strazio solo che sveglia sentimenti feroci e ravviva la rabbia; attraverso le sue lacrime vedi brillare la cupa fiamma dell’odio. Il «rodere» è posto accanto al lacrimare; quell’uomo piange, ma il suo pianto ti spaventa, e ti pare ad ogni tratto che in mezzo alle lacrime, mutato il dolore in rabbia, dia di morso a quel teschio. Parla e piange, e non giá per fare il volere di Dante, come la gentile Francesca, ma per odio, perché le sue parole «fruttino infamia» al traditore. L’ultima pennelleggiata è in quel terribile «tal vicino». «Vicino» risveglia idea benigna d’amicizia e dimestichezza di uomini che vivono ed usano insieme, ma in bocca ad Ugolino è una ironia amara.
Con questa combinazione patetica la poesia entra anche in questo prosaico fondo dell’inferno, e fonde il ghiaccio e risucita la vita. E la poesia non è altro che la rappresentazione del tradimento, che è la colpa qui punita in tutte le sue gradazioni, fatta non dal traditore, il cui cuore indurito e perciò ghiacciato è morto ad ogni sentimento, è immobile come quel teschio, ma fatta dalla vittima, divenuta il suo carnefice.
Creata questa situazione, il regno della ghiacciata e prosaica necessitá ridiviene il regno libero dell’arte. Ugolino, se, come traditore, è lui pure tra’ ghiacciati, come vittima, posta lí dal divino giudizio col capo come «cappello» al capo dell’offensore, è non solo un istrumento fatale dell’eterna legge, ma l’offeso che mette nell’adempimento dell’ufficio tutte le sue passioni di uomo e di padre. Indi è che nella rappresentazione della pena il concetto della giustizia rimane un sottinteso: né il poeta vi fa alcuna allusione, né Ugolino ne ha coscienza. Bertram dal Bormio è non altro che peccatore e dannato, che riconosce in sé la giustizia della pena e può dire:
Cosi si osserva in me lo contrappasso. |
In questo caso l’interesse poetico non può nascere che dall’orrore e dalla maraviglia di una pena cosí insolita, un busto che tiene per le chiome «pesol con mano» il suo capo tronco, un orrore e una maraviglia che si trasforma in un appagamento intellettuale, quando la pena è spiegata e legittimata. Ma Ugolino qui non è il peccatore e il dannato, e non è neppure un esecutore della legge divina se non inconscio. Una sola cosa egli sa, di aver sotto a’ denti il teschio del suo nemico e di sfogare in quello il suo odio. Dante stesso non è colpito se non da ciò che in quel fatto è personale, sfogo d’odio d’uomo offeso:
O tu che mostri per si bestiai segno Odio sovra colui che tu ti mangi. Dimmi il perché, diss’io, per tal convegno: Ché se tu a ragion di lui ti piangi, ecc. |
Cosi Ugolino è un personaggio compiutamente poetico, che può manifestarsi in tutta la ricchezza della sua vita interiore.
Giá in pochi tratti il poeta ha abbozzata questa colossale statua dell’odio, di un odio che rimane superiore a quel «segno bestiale», che giá ha fatto tanta impressione in Dante. Ma in seno all’odio si sviluppa l’amore, e il cupo e il denso dell’animo si stempra ne’ sentimenti piú teneri. Quest’uomo odia molto, perché ha amato molto. L’odio è infinito, perché infinito e l’amore, e il dolore è disperato, perché non c’è vendetta uguale all’offesa. Tutto questo trovi mescolato e fuso nel suo racconto, non sai se piú terribile o piú pietoso. Accanto alla lacrima sta l’imprecazione; e spesso in una stessa frase c’è odio e c’è amore, c’è rabbia e c’è tenerezza: l’ultimo suono delle sue parole, che chiama i figli, si confonde con lo scricchiolare delle odiate ossa sotto a’ suoi denti.
Gli antecedenti del racconto sono condensati in rapidissimi tratti, che ti risvegliano tutta la vita del prigioniero, al quale i mesi e gli anni che per gli uomini distratti nelle faccende volano come ore, sono secoli contati minuto per minuto. Ugolino è chiuso in un carcere, a cui viene scarsa luce da un breve foro, al quale sta affisso; ed il suo orologio è la luna, dalla quale egli conta i mesi della sua prigionia. Quell’angustia di carcere paragonato ad una «muda», quel piccolo «pertugio», e le ore contate sono tutto il romanzo del prigioniere nelle sue forme visibili. Né con meno sicuri tocchi è rappresentato l’animo. Due sono i sentimenti che nutrono l’anima solitaria di Ugolino: l’incertezza del suo destino e l’accanimento de’ suoi nemici. Ciò che piú strazia il prigioniero, è il dubbio, è il «che sará di me?»; la fantasia esagitata da’ patimenti e dalla solitudine si abbandona alle speranze e a’ timori. Ugolino ignora la sua sorte, e teme e spera: l’idea della morte non può cacciarla da sé. E rimane in quest’ansietá, quando viene «il mal sonno» che gli «squarcia il velame» del futuro. Il poeta di tutta questa storia intima non esprime che l’ultima frase, la quale ad un lettore anche di mediocre immaginazione fa indovinare il resto, ma in quel modo vago e musicale che è il maggiore incanto della poesia. Il «mal sonno»! Quel «mal», quella imprecazione e maledizione al sonno fa intravvedere quante speranze esso ha distrutte, quante illusioni ha fatte cadere! Il sogno è un velo, dietro al quale è facile vedere le agitazioni della veglia: il reale si rivela sotto al fantastico. Ruggiero, Gualandi, Sismondi, Lanfranchi stanno presenti innanzi al prigioniero, crudeli in sé e ne’ figli, e ora gli appariscono in sogno cacciando il lupo e i lupicini; l’occhio vede animali, ma l’anima ente confusamente che si tratta di sé e de’ suoi figliuoli, e quel lupo e quei lupicini si trasformano con vocabolo umano in o padre e figli». L’uomo in sogno quando s’immagina di essere inseguito e vuol correre, come sta immobile in letto, gli pare che le gambe sieno indolenzite e tarde al corso. Quel povero lupo non è che il padre e non può correre e si sente giá ne’ fianchi «le acute zane»:
In picciol corso mi pareano stanchi Lo padre e i figli, e con le acute zane Mi parea lor veder fender li fianchi. |
Qui entrano in iscena nuovi attori; Ugolino non è solo; compariscono i figli proprio nel momento della crisi, e per piú strazio. Anch’essi sognano; sentono fame e domandano pane. Il padre congiunge il suo sogno con quello de’ figli, e l’ultima sua impressione è: morire, e morir di fame! Questo è ciò che «si annunziava» al suo cuore. E gli par cosí chiaro, che non sa come non lo senta anche Dante e non se ne commova al pari di lui:
Ben se’ crudel, se tu giá non ti duoli, Pensando ciò che al mio cor s’annunziava; E, se non piangi, di che pianger suoli? |
Questa rappresentazione può parere scarna a quelli che sono inclinati alla rettorica e all’analisi, a ridurre i sentimenti in pillole, a diluire in un volume Le ultime ore di un condannato a morte. Essa è un capolavoro della maniera dantesca, che è la grande poesia, quel dipingere a larghi e rapidi tocchi, lasciando grandi ombre illuminate da qualche vivo sprazzo di luce. Tutto è al di fuori; tutto è narrato, anziché descritto o rappresentato, ma narrato in modo che l’immaginazione, fatta attiva e veloce, riempie le lacune e indovina il di dentro. Non è un quadro, ma uno schizzo, tale però che il lettore ti fa immediatamente il quadro. E questo avviene perché il quadro esiste giá nella mente del poeta, esiste e si rivela in quello schizzo cosí chiaramente, ch’egli si sdegnerebbe, come Ugolino, se il lettore rimanga freddo ed abbia aria di non capire. La grandezza dell’ingegno non è in quello che sa dire, ma in quello che fa indovinare.
L’importanza di quello che segue, è tutta nella presenza de’ figli. Se Ugolino fosse solo, il racconto finirebbe qui, né il fiero uomo dimorerebbe ne’ particolari della sua agonia. L’offesa non è la morte sua, ma de’ suoi figliuoli. E questo lo rende altamente interessante. Ve ne accorgete al tono cosí tenero e molle del suo dire, quando per la prima volta mette in iscena i figli:
Pianger sentii fra ’l sonno i miei figliuoli. Ch’eran con meco, e dimandar del pane. |
C’è qui un nuovo Ugolino, che non si può concepire da sé, che ha bisogno, per esser compreso nel suo infinito dolore, di essere studiato ne’ figli.
I figli sono giovinetti, stranieri alle passioni e alle lotte politiche, nuovi de’ cari della vita, che si trovano colá dentro e non sanno il perché. Il padre è tutto il loro universo. L’ideale di questa «etá novella» è la serenitá della vita. Nell’anima dei fanciullo è sempre qualche cosa che ride, una festa interiore che apparisce nella purezza e soavitá de’ suoi lineamenti. La ua presenza rasserena l’umana tragedia; e spiana le grinze dal volto di Goetz, quando tornando dalle battaglie fanciulleggia col suo figliuolo, e fa ridere in mezzo alle lacrime Andromaca, «idea piangendo», come dice Omero, quando vede il suo bambino pareggiato dal padre. Tale è lo schietto ideale del fanciullo, l’ideale sereno di Omero. Il fanciullo è senza coscienza, senza quel formidabile dimani, che noi consuma, e tra le tempeste della vita a noi piace talora di affissarci in quella pace. Ma se la tempesta minaccia anco d’inghiottire quel povero capo innocente? Allora non c’è nulla che uguagli il patetico di questa situazione. Meno il fanciullo ha coscienza del pericolo, e maggiore è lo strazio. Noi ci poniamo in suo luogo, ci facciamo la sua coscienza, e pensiamo fremendo a que’ mali che gli stan sopra, de’ quali la sua innocenza è quasi un’inconsapevole ironia. Ho visto io un fanciullo scherzare con la coltre della bara, dove fra un minuto dovea esser posto suo padre, e un uomo del popolo asciugarsi gli occhi e dire: — Povero fanciullo! — . E costui era spettatore indifferente; e, se spettatore fosse il padre, il padre che sa di dover morire lui e i figliuoli, ed essi noi sanno? Ecco la situazione del conte Ugolino. Nasce una differenza, un contrasto di attitudini e di sentimenti, quella dualitá da cui esce il dramma. E giá la vedete scolpita vigorosamente con immensa pietá fin nel primo aprirsi della scena Ugolino, al sentir «chiavar l’uscio» della torre, guarda in viso a’ suoi figliuoli. Vorrebbe dire: — Poveri figli! — . E noi dice: lo dice il suo sguardo. Lo strazio è tale che gli toglie la parola e le lacrime. Tutta la sua vita è raccolta in quello sguardo:
Guardai Nel viso ai miei figliuoi, senza far motto. Io non piangeva, si dentro impietrai. |
Piangevan elli, ed Anselmuccio mio Disse: Tu guardi si, padre: che hai? |
Il primo pensiero del padre è i figli. E il primo pensiero de’ figli è il padre: — «Che hai?» — . Se il padre prima non lacrimò e non fe’ motto perché rimase impietrato, ora non parla e non lacrima per non addolorare piú i figli. L’amore gli vieta ogni espansione. La passione ha bisogno di sfogarsi, e non potremmo sopportare il dolore, se la natura benefica non ci sospingesse ad urlare, a imprecare, a piangere, a strapparci i capelli, a morderci le mani; quel padre dovrá divorare in silenzio il suo dolore, comprimere la natura, forzare la faccia ed il gesto, essere statua e non uomo, la statua della disperazione:
Però non lacrimai, né rispos’io Tutto quel giorno, né la notte appresso. |
La compressione è tanto piú violenta, quanto maggiore è la tenerezza di quello «che hai?», e quanto è piú commovente quell’«Anselmuccio mio», che ricorda tante care gioje di famiglia in tanto mutata situazione. Ma una cosí lunga compressione della natura, che vuole e non può sfogarsi per tutto un giorno e una notte, questa tragedia tutta e solo al di dentro, a cui manca l’espressione, è la negazione di ogni poesia, portata al di lá della forma e perciò della sua vita. Esteticamente non vive ciò che non può essere rappresentato. Come l’anima ghiacciata del traditore è la fine della vita infernale, cosí l’immobilitá di Ugolino è la morte del sentimento, rimasto senza lacrima, senza accento, senza gesto, senza espressione. Questo chiudersi muto dell’anima nella sua disperazione, può essere in certi momenti sublime, ma a patto che abbia anch’esso la sua espressione, come fe’ quell’artista, che, ad esprimere il dolore inesprimibile del padre innanzi al sacrificio d’Ifigenia, gli coperse la faccia di un velo. Ed anche in questo caso, il fatto dee finir subito, dee subito venir la morte a chiudere una situazione che, protratta, sarebbe prosaica o ridicola. Bello è Cesare che si ravvolge nella sua toga, ma a condizione che muoja immediatamente dopo. Ma Dante ha fatto qualche cosa di meglio; ha trasformata la statua in uomo. Perché, se vuoi ch’io m’interessi a’ tuoi personaggi, per straordinarie che sieno le situazioni in cui li metti, non dèi far mai che in quelli sia cancellato l’«homo sum», la faccia umana, anzi l’uomo dee comparire, perché io vegga meglio il contrasto e senta l’infinito di quella muta disperazione. In quella notte di silenzio la fame avea lavorato e trasformato il viso del padre e de’ figli, e quando, fatta un po’ di luce, quella vista lo coglie impreparato, in un momento naturale d’oblio l’uomo si manifesta e prorompe in un atto di rabbia tanto piú feroce e bestiale, quanto la compressione fu piú violenta, e piú inaspettata e piú viva è la impressione di quella vista:
Come un poco di raggio si fu messo Nel doloroso carcere, ed io scorsi Per quattro visi il mio aspetto stesso, Ambo le mani per furor mi morsi. |
Quest’uomo, che in un impeto istantaneo di furore dá di morso alle sue mani, è giá in anticipazione colui che nell’inferno è fissato ed eternato co’ denti nel cranio nemico, «come d’un can, forti». Ma quanto dolore ha prodotto tanto furore! «Per quattro visi!» Trovi fuso insieme ciò che v’è di piú tenero e ciò che v’è di piú salvatico, fuso in modo che, se per necessitá di parola v’è un prima e un poi, innanzi all’immaginazione è un solo atto, un sentimento solo complesso e senza nome, e non puoi figurarti quel padre mordersi le mani, che non lo vegga insieme guardare in quei quattro visi.
L’impressione di quell’atto ne’ figli accresce l’effetto, e lo porta sino ad una irresistibile commozione di tutto ciò che si muove nelle nostre fibre. Non intesero giá quel primo sguardo del padre fisso e travolto, quando senti chiuder l’uscio: «Tu guardi si, padre: che hai?». Ora non solo non intendono, ma fraintendono quel suo mordersi la roano. «Credendo ch’io il fessi per voglia di manicar.» Ignari delle nostre passioni, interpretano quell’atto nel modo piú immediato e letterale. Sentono fame, e giudicano da sé: mordere significa per loro mangiare. Il padre che per fame si mangia le mani è tal cosa, li percuote di tale spavento, che ad un attore intelligente farebbe comprendere tutto ciò che si chiude in quel grido: — «Padre!» — accompagnato col subitaneo levarsi in piè di tutti e quattro, essi che stavano a terra esausti per fame. Quel grido, quel levarsi in piè ha la virtú di arrestare il padre, di restituirgli la padronanza di sé, tolto per forza a quell’istante di obblio, di fargli ricordare che è padre, e non gli è permesso di essere uomo. Quel loro offrirsi in pasto al padre non è giá sublime sacrificio dell’amor filiale, sentimento troppo virile ne’ teneri petti; è un’offerta trasformata immediatamente in una preghiera, come di cosa desiderata e invocata: — Uccidici! tronca la nostra agonia!
Tu ne vestisti Queste misere carni e tu le spoglia — . |
«Misere carni!» Essi sentono giá dissolversi e mancar la vita. «Misere» qui vuol dire estenuate, dove giá penetra la morte. Quelli che spiegano la parola in senso spirituale e ti pescano qui un concetto teologico, meriterebbero di andare a braccetto col padre Cesari, che fra tante sue «bellezze di Dante» trova qui una bruttezza, un fatto fuor del naturale e del verosimile, proprio qui, in questo coro de’ quattro immortali fanciulli, che è stato l’ammirazione de’ secoli.
Ugolino, ritornando padre, ritorna statua:
Quetaimi allor, per non farli piú tristi; Quel di e l’altro stemmo tutti muti. |
Quegli «u» del secondo verso ti fanno venire freddo, tanto il suono è cupo. Nei padre un silenzio di compressione, ne’ figli un silenzio d’agonia; ma non è quel prosaico «non risposi e non lagrimai»; è un silenzio illustrato e fatto eloquente da un grido che annunzia la prossimitá della catastrofe. Oramai, non è solo il corpo prostrato dalla fame; anche l’anima è attinta, e non regge piú. Ugolino invoca la terra che si apra e l’inghiotta; e la maledice e la chiama crudele:
Ahi cruda terra, perché non ti apristi? |
É l’impazienza della fine; mancata è la forza del soffrire, logorata pure da quella lunga compressione, da quel lungo sforzo contro natura. Ma il feroce poeta noi lascia, che non gli abbia bene infissa nel cuore un’ultima pugnalata, per la mano di que’ fanciulli terribili, ignari nella loro innocenza delle ferite che fanno:
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi, Dicendo: Padie mio, ché non m’aiuti? |
Sopravviene la catastrofe. E il padre li vede morire, cosí vero, come è vero che Dante vede lui, morire ad uno ad uno, e fu uno strazio di tre giorni:
Quivi mori; e come tu mi vedi, Vid’io cascar li tre ad uno ad uno Fra il quinto di e il sesto... |
Non ci è un particolare vuoto. Quello spettacolo di morte si ripete quattro volte, e a lunghi intervalli, entro tre giorni, e fu possibile che un padre vedesse questo, e starsi quieto, tener chiuso in sé il martirio, snaturarsi, disumanarsi.
Succede lo scoppio. L’anima lungamente compressa trabocca. E non è giá sfogo eloquente di un sentimento umano, conscio e attivo, intelligibile a sé e agli altri. £ sfogo di una anima infranta, piú simile a convulsioni, a delirii, che a discorsi. Non sono pensieri, e quasi neppure parole: sono grida, sono interjezioni. È l’espressione nella forma bruta. £ l’affetto nella forma istintiva e animale. Vivi i figli, non potè chiamarli per nome, non potè esprimere la sua tenerezza, il suo dolore: eccolo lí ora, a brancolare sopra ciascuno, e chiamarli, chiamarli per tre giorni:
E tre dí li chiamai poi ch’e’ fur morti. |
Prima che morisse il corpo, morto era l’uomo; sopravviveva la belva, mezza tra l’amore e il furore, i cui ruggiti spaventevoli non sai se esprimano suono di pietá o di rabbia. Qui non c’è piú analisi, qui non c’è piú un pensiero, non un sentimento chiaro e distinto. Quel chiamare i figli era dolore, era tenerezza, era furore, era tutto Ugolino divenuto istinto ed espresso in un ruggito. C’è intorno a quest’uomo giá ferino un’aureola di oscuritá, quali sono gli ultimi silenzii e le ultime agonie nella camera del moribondo. Tal è l’effetto formidabile degli ultimi oscuri momenti.
Poscia piú che il dolor potè il digiuno. |
Verso letteralmente chiarissimo, e che suona: piú che non potè fare il dolore, fece la fame. 11 dolore non potè ucciderlo; lo uccise la fame. Ma è verso fitto di tenebre e pieno di sottintesi, per la folla de’ sentimenti e delle immagini che suscita, pei tanti «forse» che ne pullulano, e che sono cosí poetici. Forse invoca la morte, e si lamenta che il dolore non basti ad ucciderlo, e deve attendere la morte lenta della fame; è un sentimento di disperazione. Forse non cessa di chiamare i figli, se non quando la fame piú potente del dolore gliene toglie la forza, mancatagli prima la vista e poi la voce. £ un sentimento di tenerezza. Forse, mentre la natura spinge i denti nelle misere carni, in quell’ultimo delirio della fame e della vendetta quelle sono nella sua immaginazione le carni del suo nemico, e Dante ha realizzato il delirio nell’inferno, perpetuando quell’ultimo atto e quell’ultimo pensiero. È un sentimento di furore canino. Tutto questo è possibile; tutto questo può essere concepito, pensato, immaginato; ciascuna congettura ha la sua occasione in qualche parola, in qualche accessione d’idea. L’immaginazione del lettore è percossa, spoltrita, costretta a lavorare, e non si fissa in alcuna realtá, e fantastica su quelle ultime ore della umana degradazione. Al di sopra di queste impressioni vaghe e perplesse rimangono quei quattro innocenti stesi per terra, e i loro nomi ripetuti per tre di nella sorda caverna da una voce che non sai piú se sia d’uomo o di belva. Ma l’eco di quei nomi risuona nell’anima del lettore, che sente sé stesso nelle ultime parole di Dante. Perché, mentre la belva torce gli occhi e riafferra il teschio co’ denti, innanzi a lui stanno que’ cari giovinetti, e li chiama per nome, ad uno ad uno, tutti e quattro, e grida: — Erano innocenti:
Innocenti facea l’etá novella . . . . Uguccione e il Brigata, E gli altri due che il canto suso appella. |
Ma, se il pianto di Ugolino è furore, la pietá di Dante è indegnazione, imprecazione, e in quella collera esce fuori una nuova maniera di distruzione contro la cittá che aveva dannato a perire quattro innocenti:
Movasi la Capraja e la Gorgona, E faccian siepe ad Arno in su la foce, Si ch’egli anneghi in te ogni persona. |
Non so se sia piú feroce Ugolino che ha i denti infissi nel cranio del suo traditore, o Dante che, per vendicare quattro innocenti, condanna a morte tutti gl’innocenti di una intera cittá, i padri e i figli e i figli de’ figli. Furore biblico. Passioni selvagge in tempi selvaggi, che resero possibile un inferno poetico, sotto al quale vi è tanta storia.
Qui tutto è armonia terribile, il poeta, l’attore e lo spettatore: tal peccatore, tal narratore, tale spettatore e tale poeta: si compiono e si spiegano a vicenda. Tutto è in proporzioni oltre il vero: non ci è ancora la giusta misura umana, non ci è la statua: c’è la piramide, c’è il colosso, c’è il gigantesco, dove la primitiva antichitá esprimeva quei primi moti ancora oscuri della coscienza, quel sentimento della grandezza, dell’infinito tanto piú terribile alla fantasia, quanto men chiaro, meno analizzato. Tale è il segreto di questi formidabili schizzi danteschi, cosí scarsi di sviluppi, cosí pieni di ombre e di lacune, che per sobrietá di contorni e di chiaroscuro ingigantiscono le proporzioni e i sentimenti. Spesso è una sola immagine che opera il prodigio, e ti strappa alla realtá e ti slancia oltre le leggi del verosimile ne’ regni dell’immensitá. Di tal natura è il forbirsi la bocca a’ capelli del capo guasto, e il muoversi della Capraja e della Gorgona. Quel forbirsi la bocca ti spaventa, e non per l’atto in sé stesso, ma perché ti presenta tutta la faccia d; Ugolino, e con lineamenti ideali corrispondenti a quell’atto: hai giá innanzi l’espressione oltrenaturale dell’immenso odio, concepisci l’infinito. Il poeta dice:
. . . Io vidi due ghiacciati in una buca, Si che l’un capo all’altro era cappello; E come il pan per fame si manduca, Cosi il sovran li denti all’altro pose, Lá ’ve il cervel s’aggiunge con la nuca. |
Qui ci sono le piú minute particolaritá topografiche e con termini tecnici, fino volgari; eppure tutto questo è prosaico, perché al di lá non vedi nulla: i contorni sono finiti, la visione è evidente; ma perché qui non c’è altro se non quello che è espresso, l’immaginazione rimane inerte. La poesia comincia, e ve ne avvedete alla stessa solenne ed epica intonazione del verso, quando
La bocca sollevò dal fiero pasto Quel peccator . . . |
Movasi la Capraja e la Gorgona. |
Ma osa Dante mettervi lo scarpello, e tracciarvi tali linee, tali configurazioni, che ricordano le piú profonde combinazioni drammatiche e suscitano i piú alti effetti lirici. In mezzo alla nuda e severa grandezza di una natura gigantesca e monotona apparisce tutta la varietá e la battaglia degli elementi, una scena della vita, colta in ciò che ha di piú tenero e di piú umano. Ugolino sul suo piedistallo infernale ha la faccia colpita dalla eternitá, con lineamenti fissati: è la statua dell’odio, di un odio eterno, insoddisfatto, immenso, come l’immensa alpe, inaccessibile all’immaginazione. Ma ecco Ugolino umanarsi, e le lacrime spuntare dal ciglio, e le mani accompagnare co’ gesti le parole e i piú diversi sentimenti comparire sulla mobile faccia. È tornato uomo; è un padre in mezzo a’ figli. Qui si affacciano le piú fine gradazioni di una situazione drammatica profondamente intuita. È un crescendo che ti conduce dal patetico allo strazio, e dallo strazio sino alla disperazione, alla morte dell’anima, alla degradazione umana, a quell’essere che con gli occhi torti riprende il teschio co’ denti e s’immobilizza di nuovo in quella eternitá dell’odio. E tutte queste gradazioni saltan fuori per bocca de’ figli. Sono essi i carnefici del padre; ciascuna loro parola è una trafittura, e non se ne avvedono; e lo amano tanto! La loro innocenza, il loro amore si convertono in istrumenti di martirio nel padre, e gli spezzano l’anima, e ne fanno una belva, qual è lá, sul suo piedistallo infernale. La tenerezza e la pietá paterna diventano ferocia e rabbia, le lacrime diventano morsi, con infinito terrore e orrore degli spettatori. Lo stesso sentimento guadagna Dante. È inferocito anche lui: diresti quasi, che se li avesse innanzi, li prenderebbe a morsi, quei Pisani, «vituperio delle genti».
Gittare in mezzo a concezioni cosí selvagge figure e situazioni cosí tenere e gentili e amabili, conservare l’unitá del concetto e del disegno e del colorito fra tanta varietá di gradazioni, far vibrare tante corde senza che il motivo principale fosse dimenticato, anzi far servire quella diversitá a ricondurci allo stesso motivo, immaginare i piú nuovi, i piú inaspettati, i piú pietosi colpi di scena e riempirli di tenebre, di silenzio, di disperazione e di monotonia, introdurre contrasti cosí veri, cosí naturali, cosí intimi accanto a tanta unitá, spingere le immagini e i sentimenti al grandioso, al selvaggio, al sublime, e con tale fusione di colori, con tale finezza di gradazioni, con tale ingenuitá ed effusione della natura umana che niente ti paja artificiale e esagerato, anzi tutto ti paja vero, naturale, evádente, necessario, e ne resti percosso profondamente nella tua natura d’uomo, questi sono i miracoli dell’arte.
Appunto perché questo è di tutti gli schizzi danteschi il piú graduato e sviluppato, è anche il piú popolare e moderno. Francesca e Ugolino sono i due episodii rimasti vivi in tutto il mondo civile nelle classi anche illetterate. Quel non so che di troppo concentrato e fisso e abbozzato, che è il carattere di tutte le concezioni dantesche, qui si fonde, mostrandoti contrasti e gradazioni, che ti aprono alla vista le grandi profonditá del cuore umano.
Ma come Francesca è rimasta unica nella poesia italiana, cosí quel sentimento a cui qui Dante attinge tanti effetti drammatici si può dir quasi straniero alla nostra Musa. Non ci è dato piú di ritrovare quel padre e quei figli. Il sentimento di famiglia è una pianta quasi esotica sul nostro suolo, e né in prosa, né in verso ti è dato di sentire cosa è una sorella, o una moglie, o una madre, o un padre, o un figlio. Non si può dir che sieno sentimenti estranei alla gente; anzi vi hanno radici profonde, massime presso il popolo. Ma come in cosí bella natura è desiderato presso i nostri poeti lo schietto e intimo sentimento della natura, cosí fra tanti affetti di famiglia è desiderata quella vita intima e casalinga, dove abita cosí spesso e con tanta dimestichezza la Musa del Nord. A noi piace il fantastico e lo straordinario, e gli amori superficiali, e le mobili e vive impressioni, l’inaspettato e lo spettacoloso, vita di piazza e di toga. L’amicizia, la famiglia, il culto della natura, una vita semplice e modesta, confortata dagli affetti domestici, sono materia inadeguata alla nostra immaginazione mobile. Ammiriamo Antigone, Merope, Laocoonte, Andromaca, ma di una ammirazione artistica, e perciò superficiale. Non sentiamo noi stessi, tutto noi, colá dentro. Questi affetti cosí puri, cosí semplici, mancano con la nostra prima etá, e non li troviamo piú nel tumulto del mondo. Poteva Alfieri rappresentare Merope?
Dante ha i suoi successori fuori d’Italia.
[Nella «Nuova Antologia», dicembre i869.]