Questo testo è completo. |
◄ | Veuillot e la «Mirra» | «La Divina Commedia». Versione di F. Lamennais, con una introduzione sulla vita, le dottrine e le opere di Dante | ► |
[ 7 ]
PIER DELLE VIGNE1
La rigidezza straordinaria di questo inverno non mi ha consentito d’incominciar prima queste lezioni; e forse mi sarebbe stato impossibile il farlo in quest’anno se non me ne avessero agevolato il modo alcuni, la piú parte piemontesi, con una loro soscrizione. Concedetemi, o signori, che pubbliche grazie io renda a questi gentili, di tanto piú che la loro intenzione va al di lá della mia persona. Ciascun secolo ha il suo Beniamino, il suo scrittore prediletto: vi fu l’etá del Petrarca, del Metastasio, del Tasso: oggi è l’etá di Dante. I Francesi accorrevano, non ha molto, plaudenti alle lezioni di Ozanam, appassionato interprete di Dante; il Foscolo ed il Rossetti hanno reso cosí popolare in Inghilterra la Divina Commedia, che mi ricordo aver veduto viaggiatori inglesi errare pei colli di Sorrento col loro Dante in tasca, e nella villa di Napoli giovinette inglesi, sedute accanto ad una statua o ad una fontana, starsi assorte nel loro piccolo Dante, contemplando pensose Matilde e Beatrice. Ed oggi, forse in questo stesso giorno ch’io parlo a voi, il Göschel sta spiegando in Berlino la Divina Commedia ad un numeroso uditorio in presenza di un’augusta persona, ed oggi forse il nostro Dall’Ongaro in Brusselle fa battere le mani a Dante dal popolo belga. Questo, o signori, che pei forestieri è una letteraria ammirazione, per noi è qualche cosa di piú, un sacro dovere; e i miei gentili amici hanno voluto che, poi che i fati ci niegano per ora le grandi cose, noi ci prepariamo a quello che dovremo essere un giorno, studiando quello che fummo nei nostri gloriosi maggiori, e massime in un poeta che amò tanto la patria, che la fece si grande! Quanto a me, io non vi parlerò della pochezza del mio ingegno, della povertá de’ miei studi: è una modestia d’obbligo, a cui piú non si crede; dirò solo ch’io non mi reputo indegno della vostra benevolenza, perché queste lezioni io le fo con amore, e vi pongo tutto me stesso, perché elle sono per me la meditazione, la preoccupazione di tutti i giorni.
Che dovrò ora io fare? Vi leggerò un’introduzione, un discorso inaugurale come si dice? Non l’ho fatto il passato anno; né ora il farò. I discorsi inaugurali avevano un tempo il loro significato; ora sono per lo piú discorsi di convenzione, pure cerimonie: freddi ed insipidi come le cerimonie, una specie d’anticamera che si fa fare agli uditori pria d’introdurli in materia. Io voglio risparmiarvi, o signori, quest’anticamera. E vi risparmierò pure il riepilogo delle lezioni passate, essendo pervenuti a tal punto, ch’io posso spiegarvi i singoli canti dell’Inferno con solo richiamarvi qua e lá e di fuga alcun principio generale.
Vi ho mostrato nei tre mondi danteschi il nostro stesso mondo emendato e rifatto secondo la coscienza: quale noi lo concepiamo alcuna volta, quando innanzi ad una scelleraggine premiata, ad una realtá tanto disforme dall’archetipo morale che ci è in mente, un’amara esclamazione ci esce di bocca: eppure il mondo non dovrebbe andare cosí!... Questo «dovrebbe» è il significato del mondo dantesco: è la realtá corretta, il mondo raddrizzato con ciascuna cosa al suo posto. L’Inferno è una delle facce del mondo: è la societá dei malvagi, il regno del male, dell’errore, del brutto, la storia delle colpe umane, né giá messe cosí insieme a caso: non vi è solo successione, ma connessione: non vi è solo movimento, ma progresso; ed il progresso dell’inferno è il regresso, un costante regresso dall’umano al bestiale, dallo spirito alla carne. Questo, io ve l’ho mostrato nella; natura del luogo, nelle pene, nei demonii, nei gruppi, nei dannati, incontinenti, violenti e fraudolenti.
Nei primi due ordini di dannati il male non procede da vizio o da malizia, o da fredda premeditazione come nei fraudolenti e nei traditori; il male procede da impeto di passione, da violenza di carattere, e quella passione ci desta pietá, e quel carattere ci leva in ammirazione. Io voglio chiudervi questa serie di grandi personaggi poetici dei quali vi ho discorso nell’anno passato, parlandovi oggi di Pier delle Vigne o del canto dei suicidi.
Apro alcuni comenti: è il Costa, il Colombo, il Cesari che vanno in estasi innanzi allo stizzo verde ed al cigolare, ed al divellere, ed al balestrare, ammirando con ragione tanta proprietá o vivacitá di vocaboli; questi sono i comenti grammaticali. Apro altri comenti: è il Biagioli e compagni che notano i luoghi imitati da Virgilio, e l’armonia imitativa del «cigola per vento che va via», e l’antitesi «non frondi verdi ma di color fosco, ecc.»; questi sono comenti rettorici. Qual è il valore di questi comenti? Io trovo in uno scrittore: faccia diffusa 1 di rossore, e tosto noto nel mio quaderno la frase: «diffusa di rossore». Che fo io? Io tolgo il rosso alla faccia di una Madonna di’ Raffaello, e lo rigitto nel vasetto dei colori: io distruggo la materia animata e la rifò grezza. Io rassomiglio a quel barbaro che spezzava i capolavori della scultura greca, le statue di Corinto che egli non comprendeva, per impadronirsi del marmo che solo comprendeva. Quel rossore, o signori, che giace inanime frase nel mio quaderno, è indegnazione quando colora il pallido volto del Padre Cristoforo innanzi a Don Rodrigo che offre la sua protezione a Lucia; quel rossore è pudore quando si diffonde per le guance di Giulietta innanzi alle infocate parole di Romeo; quel rossore è colore quando giace stupida materia sulla faccia senza vergogna di Domiziano. Nel viso rosso non apparia vergogna, secondo il motto sublime di Tacito. Io apro altri comenti: è il Marchetti e compagni che narrano di Pier delle Vigne e di Guelfi e Ghibellini, e di Pontificato ed Impero. Costoro cadono nello stesso errore dei primi: raccontano fatti ed accidenti scompagnati dai caratteri e passioni, che solo mi possono far comprendere una storia innalzata da Dante a poesia: in luogo di un vocabolario di frasi ci danno un vocabolario di date e di avvenimenti. Apro altri conienti: è il Boccaccio che afferma le Arpie essere l’avarizia, ma no, esce in mezzo un altro, le Arpie sono la rapacitá e la violenza; voi v’ingannate, sopraggiungono il Rossetti e l’Aroux: le Arpie sono i monaci domenicani. Voi ridete, signori? E non dice Dante, osserva l’Aroux, colli e visi umani? Parla di bestie ed intende di uomini. E non aggiunge piè con artigli? che rappresenta mirabilmente la rapacitá di quei frati. E che cosa è quel «pennuto il gran ventre», quel ventre pennuto, se non un ventre largo, il ventre largo dei Domenicani?
Signori, queste specie di conienti, grammaticali, rettorici, storici, allegorici non sono piú permessi oggi. Né dico ciò a biasimo dei comentatori o dei conienti; essi rappresentano il lor tempo. Ma non sono piú permessi oggi. La scienza è giá cinquant’anni che si è messa per altre vie, e dopo breve contendere l’antica critica non oppone giá piú scienza a scienza: la lotta scientifica è terminata. E nondimeno ella resiste ancora nel fatto, resiste per accidia, per abitudine, per tradizione, per quella non so quale resistenza passiva e plebea che rende cosí difficile il trionfo del vero intellettuale o sociale ch’ei sia. La scienza si è messa non solo per altre vie, ma per vie opposte come suole avvenire: ella si è collocata all’altro estremo. Voi ci date frasi ed io vi dò concetti; voi ci date fatti storici, ed io vi dò leggi storiche.
Sorta in Germania, distesasi in Francia, ella ha avuto fra noi per suo illustre rappresentante Vincenzo Gioberti. La quistione estetica ella la pone a questo modo. Qual è il concetto e quale la sua forma storica, cioè come si è andato esplicando in questo o quel secolo? La scuola tedesca s’intrattiene piú volentieri sul concetto, e la sua critica ha aria di dissertazione: la scuola francese s’indugia con piú compiacenza sulla forma storica, e la sua critica tiene del narrativo. E dico scuole a disegno, perché non intendo parlare dei critici, tra i quali ce ne ha di sommo ingegno; e l’ingegno ha una cotal sua limpida intuizione del vero che lo tiene fuori dei sistemi e lo alza sopra le scuole. Ma come ai grandi poeti succedono scuole poetiche, cosí ai grandi critici vengon dietro scuole critiche nelle quali, venuto meno l’ingegno vivificatore, non rimane che la tendenza ed il sistema. Ora nella scuola tedesca domina la metafisica, e nella francese la storia. Vi dee Opitz parlare di Dante? ed egli vi ragiona dell’amore e della grazia e della donna al medio evo, ecc., via per la quale mi pare si sia messo Dall’Ongaro, per quanto ho potuto raccogliere da brevi notizie che dá un giornale delle sue conferenze. Egli ha diviso la Divina Commedia in singoli concetti: pontificato, impero, donna, religione, ordini monastici, dottrina filosofica, dottrina economica, ecc., e su ciascuno di essi fa una lezione. E se è cosí, mi perdoni il signor Dall’Ongaro, questo è un sostituire ad un vocabolario di parole, un vocabolario di concetti: in questa forma di criticare, voi odorate subito la bassa scuola tedesca. Nella francese domina la storia. Vi dee il Nettement parlare diDelavigne, di Barbier, di Victor Hugo? ed egli fa la storia di Luigi Filippo e delle opinioni e delle passioni che regnavano a quel tempo; a queste passeggiate storiche riconoscete la scuola francese. Io voglio farvi, o signori, una critica alla tedesca ed alla francese. È una base troppo generale, ma è sempre una base, e potremo cosí meglio conoscere il suo lato debole. Io voglio cioè, dovendo parlarvi del canto dei suicidi, cominciare col dimandarmi: — Qual è il concetto del suicidio? Qual è la sua forma storica? —
Il suicidio fu l’ultima virtú degli antichi. Nel pieno disfacimento d’ogni principio morale e di ogni credenza, essi formarono sotto il nome di stoicismo una filosofia della morte: non sapendo piú vivere eroicamente, vollero saper morir da eroi. Tipo dell’antico suicida è Catone, il suo poeta è Lucano, il suo storico è Tacito. Strazia il cuore la solenne malinconia di Tacito; quest’uomo non può narrar grandi fatti: narra grandi morti con una trista compiacenza, come di ultimo vestigio rimaso ancora di romana grandezza, e quasi ad ogni voltar di pagina tu t’incontri in un nuovo suicidio, unica libertá che Tiberio lasciava ai Romani, la libertá di morire.
Quanto il cristianesimo abbia modificato la scienza e la morale e quindi l’arte antica, si può inferire da questo solo: il suicidio antico è virtú, il suicidio moderno è colpa; il suicida pagano è un eroe, il suicida cristiano è un codardo. Onde nasce questa differenza storica? E qui il critico francese cede il luogo e domanda la parola il critico tedesco. Nasce dalla diversitá del concetto. Presso gli antichi uomo libero era riputato colui che sapeva morire; la libertá non era un’astrazione ma qualche cosa di concreto e di attuale; e quando l’antico si abbatteva in ostacoli non superabili, per i quali avesse a scapitare la sua libertá e dignitá d’uomo, per serbarsi libero si toglieva la vita. Non che la vita gli fosse spregevole e grave, anzi ella era sempre il piú caro dono del Cielo; ma gli era piú cara la libertá:
Libertá va cercando ch’è si cara Come sa chi per lei vita rifiuta. |
Catone non poteva vivere che uomo libero, e quando la libertá mori, mori Catone. Questa saldezza e quasi fierezza d’indole, questa sicurezza di portar sempre seco in un anello al dito la propria libertá, costituisce la grandezza morale dell’antico suicidio e lo rende sublime:
Morir innanzi che servir sostenne. |
Nello spiritualismo cristiano il concetto è diverso. La libertá è nell’anima, non al di fuori ma dentro di noi; e l’uomo anche in prigione è úbero, perché libera è l’anima. Annibaie si uccise per non venire a mano dei Romani; il cristiano anche dietro al carro trionfale del vincitore porta alta la fronte perché la sua libertá egli la porta in sé, e non in mano della fortuna e degú uomini. Onde quella serena rassegnazione che è il tipo dell’eroe cristiano, e di cui Silvio Pellico ci ha porto un cosí raro esempio. La libertá cristiana è posta nel domare il senso, nel contrastare alle passioni, nell’eguaglianza dell’animo in ogni caso della vita. Di che direi esemplare Napoleone quando, biasimando Catone, amò meglio di vivere in ima lunga agonia a Sant’Elena, se dalle sue memorie non trapelasse alcun che d’amaro e di dispettoso, in linguaggio d’uomo vinto: alla sua grandezza mancò maggior serenitá nella buona, e maggior semplicitá nella cattiva fortuna2. Quando dunque l’uomo sottostá alla fortuna, quando, fattaglisi grave la vita, egli la gitta via da sé come un importevole peso togliendosi cosa non sua, questo voi me lo chiamate virtú ed è colpa; voi me lo chiamate magnanimitá ed è fiacchezza d’animo.
Tale è il semplice tema sul quale un tedesco edificherebbe un ragionamento, ed un francese una narrazione; e se fosse Saint-Marc Girardin, a lui basterebbe l’animo di cominciare da Saffo e terminare a Werther ed a Jacopo Ortis. È questa la critica? Ci è innanzi un concetto generalissimo applicabile a tutte le forme dello scrivere e dello esprimere, eloquenza, poesia, storia, scienza, pittura, scultura, ecc.; applicabile a tutti gli scrittori di un secolo o di piú secoli, grandi, mezzani e piccoli: invano in questa generalitá noi cerchiamo un contenuto che sia proprio della poesia e proprio di Dante. Date a fare una orazione sul suicidio ad un collegiale, e se voi me la purgate delle amplificazioni, delle figure e di tutti i fiori rettorici, che cosa vi rimarrá in fondo? Lo stesso concetto. Date a fare una dissertazione sul suicidio ad un seminarista, e se voi me la spogliate dei luoghi teologici e passi di Scrittura e di citazioni ed altri ingredienti d’uso, che cosa vi rimarrá in fondo? Lo stessò concetto. Or che critica è quella che non mi distingue un’orazione da una dissertazione, una dissertazione da una poesia? Che critica è quella che non mi pone alcuna differenza tra Dante e quel collegiale e quel seminarista? Noi dunque non ci possiamo valere di una base cosí generale e dobbiamo trovare un punto di partenza che sia proprio della poesia e proprio di Dante.
Innanzi al poeta non vi sono idee, ma corpi; non vi è il suicidio, ma il suicida. E che cosa è l’inferno di Dante? È la riproduzione del peccato; la natura non tutta intera qual è, ma la natura colpevole nell’atto della colpa. E l’inferno del suicidio è il suicida colto nel punto ch’egli inferocisce in sé, che separa violentemente quello che la natura ha congiunto. Questa separazione contro natura, che in vita è opera di un solo istante di cieca passione. Dante te la rende eterna; questa ferita che il suicida si fa, Dante te la rende eterna. L’anima separatasi violentemente dal corpo non lo riavrá piú mai:
Ché non è giusto aver ciò ch’uom non toglie, |
Le Arpie, pascendo poi delle sue foglie, Fanno dolore, e al dolor finestra. |
La separazione è eterna, la ferita è eterna; l’inferno de’ suicidi è il suicidio ripetuto eternamente in ogni istante.
Questo è non il concetto, ma la concezione, il concetto corporale visibile ed accessibile a’ sensi, proprio della poesia e proprio di Dante. Ora, prima di concepire voi siete libero; ma quando una concezione qualsiasi vi fluttua dinanzi, voi non potete dalla concezione di un uomo cavarmi un animale, salvo che mi facciate un aborto per manco di calore e di forza. Se avete ingegno, se vi sentite uomo da fecondarla e portarla ad una vita perfetta, voi dovete accettare la situazione in che ella vi mette e la rappresentazione ch’ella vi impone.
E qual è la situazione in che ella vi mette? cioè a dire quali sono le leggi estetiche, le condizioni secondo le quali ella si dee disnodare, e procedere ad una vita ulteriore? Vi è innanzi una pianta che, avendo in sé incarcerata un’anima d’uomo, geme e sanguina e parla: or tutto ciò che si allontana dalle forme naturali è detto in estetica un fantastico, come un cavallo alato, un centauro, una pianta che parla: il fantastico è dunque la prima legge estetica di questa concezione. E qual è il sentimento che ne rampolla? Il suicida non è un eroe secondo il concetto pagano, ma neppure uno scellerato: è un uomo debole e talora anche giusto, che si uccide per impazienza del dolore, per «disdegnoso gusto»; e perciò non disgusto né orrore, ma desta pietá, una profonda pietá! La situazione adunque per rispetto all’immaginazione è fantastica, per rispetto al sentimento è patetica.
La situazione determina la rappresentazione, la quale non dee proporsi altro che di porre in mostra e dar rilievo a quello che nella concezione è di fantastico e di patetico, di maravigli oso e di affettuoso.
Il fantastico è tale, perché noi lo troviamo difforme da’ nostri tipi naturali. Immaginiamo, cosa probabile, che nella Luna sieno abitanti e che essi sieno piante animate: certo per costoro le piante animate di Dante non sarebbero un fantastico. La selva de’ suicidi è per noi fantastica, perché si discosta dalle forme terrene: e piú date rilievo a questo contrasto, e piú cresce la maraviglia. Qui sta tutta l’arte della rappresentazione.
Per far ciò Dante non ha bisogno di osservazioni, o di esclamazioni, o di apostrofi, non di gittar grandi frasi, i capelli che si drizzano per lo spavento, il sangue che si agghiaccia nelle vene, ecc.; nella stessa situazione egli trova la sua ispirazione. Poiché, chi è lo spettatore? È un uomo, è Dante stesso, e le sue impressioni sono un contrasto vivente tra quello che ricorda in terra e quello che vede nell’inferno. Come pone il piè nella Selva, lo spettacolo innaturale che gli si para davanti gli ricorda la natura e scoppia il contrasto:
Non frondi verdi, ma di color fosco, Non rami schietti, ma nodosi e involti. Non pomi v’eran, ma stecchi con tosco. |
Fatti pochi passi, gemiti umani gli giungono all’orecchio, senza veder persone; il contrasto scoppia di nuovo, e non in frasi ed antitesi: il contrasto diviene drammatico, e tu lo trovi in ogni pensiero, in ogni azione di Dante. Quando si odono gemiti, per un istinto naturale l’uomo si guarda dattorno, non potendo concepire gemiti senza persone che gemono; Dante ode e guarda: nessuno! Il sentimento dell’innaturale lo percote, e si arresta smarrito:
Io sentia d’ogni parte tragger guai, E non vedea persona che il facesse: Ond’io tutto smarrito m’arrestai. |
Questa è la prima impressione. Nella seconda impressione l’uomo si sforza di spiegare il fatto e suppone che le persone gementi sieno nascoste:
Io credo ch’ei credette ch’io credesse, Che tante voci uscisser tra que’ bronchi Per gente che da noi si nascondesse |
Dante’ non accetta l’innaturale, la sua natura d’uomo vi resiste, e di tanto piú gagliarda sará l’impressione sulla incredula sua fantasia quando ad istanza di Virgilio coglie un ramoscello da un gran pruno:
E il tronco suo gridò: Perché mi schiante? Da che fatto fu poi di sangue bruno, Ricominciò a gridar: Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno? |
Qui il fantastico prorompe da tutte le parti: non solo gemiti ma sangue e voce esce insieme dal tronco; Dante è sopraffatto, ed il maraviglioso giunge insino al suo estremo. Si è osservato che il concetto di questo tronco è tolto da Virgilio. Ma ecco la differenza. In Virgilio il contrasto è implicito e si rivela in impressioni. Mihi frigicLus horror membra quatti... Eloquar, an sileam? e ci vedi quel liscio di stile tutto virgiliano che rende elegante anche l’orrore. A Dante basta il semplice collocamento, il disporre in modo la scena, che il naturale messo avanti renda irresistibile l’impressione del fantastico. Di che ecco qui un nuovo e stupendo esempio. Credete voi che Dante porga orecchio alle parole dello spirito? ch’egli senta pietá? ch’egli risponda? Punto del mondo. Lo spettacolo incredibile ch’egli ha innanzi tiene a sé avvinti i suoi sguardi, e gli ruba le parole; lo spirito parla; e Dante guarda:
Come d’un stizzo verde, che arso sia Dall’un de’ lati, che dall’altro geme, E cigola per vento che va via; Cosí di quella scheggia usciva insieme Parole e sangue: ond’io lasciai la cima Cadere, e stetti come l’uom che teme. |
Ciò che colpisce Dante non è il significato delle parole, ma che una pianta parli e sanguini; la qual vista fa sopra lui un effetto tanto potente, che tira a sé lo sguardo, e gli chiude l’adito ad ogni altra impressione: tutta la sua anima è raccolta nell’occhio. Esempio perfettissimo di rappresentazione diretta; poiché il poeta senza cavar nulla dal di fuori, senza osservazioni, solo narrando, con sole gradazioni tratte dal fondo stesso della situazione, porta il maraviglioso a poco a poco e seco l’impressione che vi corrisponde insino alla sua ultima punta.
In questo fantastico quanto vi è di patetico! quanta malinconia in quelle frondi di color fosco! e in quel gemere misterioso che, come dice il Tasso,
... un non so che confuso instilla al core Di pietá, di spavento, e di dolore! |
Ma perché qui questi particolari patetici sono lasciati nell’ombra, ed il poeta appena appena li accenna? di color fosco, fanno lamenti, tragger guai, ecc. Perché lo sguardo qui usurpa il luogo di tutte le altre facoltá; perché la meraviglia impedisce ogni altro sentimento, perché io non sento i primi suoni di un istrumento nuovo e bizzarro che mi faccia attonito. Ma quando il fantastico è esausto, e l’occhio si ausa alla scena, nuovi sentimenti succedono ed il patetico vi si può dispiegare. E giá un primo saggio ne avete nelle parole dello spirito. Anche Virgilio fa parlare la sua pianta:
Quid miserum... lacerasi Jam parce sepulto: Par ce pias scelerare manus... Nam Polydorus ego. |
È Polidoro che parla ad Enea; hanno comune la patria, la famiglia e tante rimembranze e tanti dolori: la pietá nasce da accidenti particolari. Ma in Dante è un ignoto che parla ad ignoto e la pietá scaturisce da una fonte ben più profonda. È una pietá tutta umana; l’homo sum, la natura umana miserabilmente capovolta e declinata a pianta, l’uomo che in luogo di dire: — Perché mi ferisci? perché mi trafiggi? — è ridotto a dire: — Perché mi schiante? perché mi scerpi? — È una pietá che ha la sua radice nel fondo stesso della situazione, quale si sia l’uomo che parli. E la pietá si leva fino allo strazio, quando il concetto esce fuori in un vivace contrasto; è il qualis erat! quantum mutatus ab ilio! il «fummo» e il «siamo fatti»:
Uomini fummo, ed or sem fatti sterpi: Ben dovrebb’esser la tua man più pia, Se state fossim’anime di serpi. |
È un ignoto che parla ad ignoto; ma è un uomo che parla ad uomo.
Tra questi due esseri passionati, tra lo spirito sdegnoso e gemente e Dante attonito, sorge la figura pacata di Virgilio. Nella sua parola calma tu vedi l’uomo superiore, a cui è chiaro ciò che a Dante è incomprensibile, e che sa intendere e compatire al dolore dell’altro:
S’egli avesse potuto creder prima, Rispose il Savio mio, anima lesa. Ciò ch’ha veduto pur con la mia rima. Non averebbe in te la man distesa; Ma la cosa incredibile mi fece Indurlo ad ovra, che a me stesso pesa. |
E qui lo spirito racconta la sua storia. E dov’è piú l’inferno? dov’è il tronco? Noi siamo in Napoli, nella corte di Re Federico, innanzi ad un Cancelliere. Se guardiamo al fatto, abbiamo in pochi versi tutto un dramma nelle sue parti essenziali. Pier delle Vigne al sommo della potenza e della grandezza, la guerra che gli move contro l’invidia, collisione che genera la catastrofe. Pier delle Vigne non fa che narrare; ma se guardiamo allo stile, vi troviamo un carattere ricchissimo, una compiuta persona poetica. Voi lo vedete tutto vano del suo uffizio, del suo «glorioso uffizio», compiaciuto di volgere a suo senno le chiavi del cuore di Federico, geloso della confidenza che in lui pone il suo signore ed intento a rimuoverne ogni altro; un uomo debole, che vede nella sua sventura gli onori tornati in lutto, la gioia volta in mestizia, e che si uccide per «disdegnoso gusto», per non saper sostenere il nuovo suo stato: un’anima schietta che parlando fa senza saperlo il suo proprio ritratto, e si rivela qual è in tutto il suo abbandono. Quanta ricchezza di determinazioni! Un dramma intero non potrebbe mostrarcelo piú compiutamente: qui è quello che dicesi visione poetica, quel saper cogliere il personaggio nell’atto della vita. Il fondo di questo carattere non è la grandezza e la forza, ma una squisita gentilezza di cui ammirammo il tipo in Francesca da Rimini, e che qui scorgiamo fin dalle prime parole:
. . . . . . Si col dolce dir m’adeschi, Ch’io non posso tacere; e voi non gravi Perch’io un poco a ragionar m’inveschi |
Non solo egli si esprime con delicatezza ma con grazia ed eleganza, da uomo colto, ingegnoso e finamente educato; con antitesi, con metafore, con concetti, con frasi a due a due: «morte comune e delle corti vizio» — «gl’infiammati infiammarono Augusto» — «i lieti onor tornarono in tristi lutti» — «per disdegnoso gusto credendo... fuggire disdegno» — «ingiusto fece me contra me giusto». E perché questo? Perché Pier delle Vigne non è commosso ancora da quello che dice; e se parla della sua abilitá segretariesca, egli può bene uscir su con quel suo serrare e disserrare di chiavi; e se parla dei suoi avversarii, può bene usare una personificazione rettorica, la «meretrice» che infiamma, sicché gl’infiammati infiammino Augusto. Il suicidio stesso non lo commuove; quell’istante supremo non vale a risvegliare in lui una ricordanza o un’immagine: è un concetto che gli esce dal labbro. Si sente in lui non l’uomo, ma il cortigiano e il trovatore. Ma vi è una cosa, una sola cosa seria che gli pesa, l’infamia che si tenta gittare sulla sua memoria, l’accusa che gli è lanciata di traditore. Qui è il patetico del racconto: qui la sua immaginazione si scalda, di sotto alla veste del cortigiano spunta l’uomo, e il suo linguaggio diviene semplice ed eloquente:
Per le nuove radici d’esto legno Vi giuro che giammai non ruppi fede Al mio Signor, che fu di onor si degno. E se di voi alcun nel mondo riede. Conforti la memoria mia che giace Ancor del colpo che ’nvidia le diede. |
A questa pianta una sola cosa avanza viva e presente di uomo, la sua memoria in terra, e strazia il cuore a vedere un tronco che, in nome delle sue radici ancor nuove, raccomanda quella parte di sé che gli rimane ancora uomo, la sua memoria. Essa è qualche cosa di vivente che non è lui, o che piuttosto è l’antico lui: egli è un tronco.
Noi siamo all’ultimo atto, alla scena delle spiegazioni. La spiegazione distrugge il fantastico: il misterioso vien meno. Quando la realtá è ancora nuova e poco nota, l’anima vive d’immaginazione, e popola la terra di fate, di giganti e di streghe: il reale uccide questo fantastico. Quando l’uomo non sa spiegare i fenomeni naturali, egli immagina esseri fantastici che sieno causa di quelli; la scienza uccide questo fantastico: Apollo col suo cocchio svanisce innanzi al telescopio di Galileo. Qui il fantastico è spiegato e diviene intelligibile, cioè a dire cessa di essere un fantastico, un maraviglioso, e diviene la realtá, l’eterna realtá dell’inferno. Ma se il fantastico muore, rimane il patetico, anzi si accresce. Poiché la spiegazione qui non ha niente di didattico: il concetto scientifico è gittato per incidente in un verso:
Ché non è giusto aver ciò ch’uom si toglie. |
Il qual concetto diviene poesia, perché Dante ne ha fatto un individuo, l’anima del suicida che racconta la propria storia dal punto che si è separata dal corpo fino al giudizio universale. Non vi è pensiero, ma azione, narrata con una vigoria ed efficacia di stile insolita. Le parole sono molto comprensive e risvegliano parecchie idee accessorie. Nel «disvelta» si sente non solo la separazione, ma la violenza e lo sforzo contro natura; nel «balestra» non solo il cadere, ma l’impeto e la rapiditá della caduta e l’ampio spazio percorso; nella parola «finestra», si sentono i sospiri ed i lamenti e il pianto che esce fuori per quel varco. E perché tanto affetto e vivacitá nella spiegazione di un fatto? Perché è un suicida che spiega la pena del suicidio, e narrando la storia dell’anima suicida ricorda insieme la sua propria storia. Nell’immaginazione di Pier delle Vigne vi è sé stesso presente: sul suo labbro vi è «un’anima»; nella sua coscienza vi è «io»: tanto che da ultimo si mescola nella narrazione: la terza persona va via, e al «parte», al «cade», al «surge» succede «verremo» e «strascineremo». Quando la spiegazione è compiuta, sembra che la situazione sia oramai esausta; ma ecco un nuovo fatto che infiamma la pietá: le spoglie del suicida appese all’albero, ch’egli si vedrá innanzi eternamente senza potersene mai rivestire. Nelle parole di Pier delle Vigne si sente una mestizia ineffabile:
Qui le strascineremo, e per la mesta Selva saranno i nostri corpi appesi, Ciascuno al prun dell’ombra sua molesta. |
«Ciascuno» al prun dell’ombra sua molesta. |
Ed ora addio, grandi caratteri e grandi passioni! Malebolge ci attende, la sede dell’atroce, del ridicolo e del disgustoso.
[Nello «Spettatore» di Firenze, a. I, n. 23, 8 luglio i855.]