Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Santa Teresa | Le Marie | ► |
UN INNAMORATO DELL’ITALIA
Enrico Beyle, detto de Stendhal, nelle sue tre o quattro autobiografie, dice, varie volte, che i suoi sentimenti, legati nelle bianche pagine dei volumi stampati e nelle molte carte dei manoscritti, saranno letti e intesi, saranno, forse, ammirati e amati, questi pensieri e questi sentimenti, dai lettori che vivranno fra il 1880 e il 1900: anzi, nella sua Vie d’Henri Brulard, curiosamente e non senza malinconia, egli cerca immaginare l’anima di questo ignoto e amico lettore, neppure nato, forse, quando egli finiva di scrivere e moriva. E giammai, io credo, vi fu spirito di scrittore così matematicamente profetico. Durante la sua vita, non breve, i suoi libri non gli procurarono nè gloria, nè onori, nè pane; la metà, quasi, delle sue opere, è stata stampata molto dopo la sua morte; e la gente di Francia, d’Italia, d’ogni paese ove siano intelletti colti e cuori avidi di sensibilità, non ricerca i suoi volumi che da quindici o venti anni: cioè da quel fatidico 1880, che gli apparve come una promessa di spiritual comprensione. Noi siamo, dunque, i suoi lettori, le intelligenze a cui egli raccomandava i suoi ideali di artista e di critico, gli spiriti a cui egli legava le sue idee di filosofia, le anime a cui egli affidava le sue confessioni di cuore appassionato; e questo testamento, così profondo e così personale, così vario, e intanto, così assoluto, così austero e così umano, ecco, ha trovato, in tutte le sue parti, migliaia di eredi scossi e commossi. E noi, in ispecie, noi italiani, siamo, dobbiamo essere i suoi lettori più attenti e più devoti; poichè de Stendhal, non solo ha preferito di vivere in Italia, ma qui ha preferito di vivere e di amare; non solo ha qui amato e sofferto, ma qui ha studiato, ha pensato, ha scritto; non solo egli ha qui avuto tutte le sue manifestazioni di uomo e di scrittore, ma solo l’arte italiana e la vita italiana sono state materia, forma, sostanza, spirito, idealità della sua opera. Questo paese fu da lui così intensamente ed esclusivamente amato, così illustrato e celebrato, anche sovra il suo, anche contro il suo; fu così la fonte di tutte le sue lacrime di entusiasmo come di quelle di dolore, che, egli stesso, lasciò scritte le parole, che desiderava s’incidessero sulla sua lapide, al cimitero. Dicono, queste parole: Arrigo Beyle, milanese — Visse, scrisse, amò. Io ho, nel popolare cimitero di Montmartre, or sono pochi mesi, al Rond point de la Croix, sotto il ponte di ferro, cercata questa lapide; ma non l’ho trovata. Dicono, sia sparita nel 1887. Ma essa vi fu per molti anni; ma è stampata nei libri. Volle Enrico Beyle, dopo la morte, dichiararsi italiano, ancora, sempre!
⁂
Natura complessa e bizzarra, che, raccoglieva in sè le qualità più alte e i difetti più singolari, de Stendhal non poteva che patire moltissimo, nelle sue non lunghe dimore a Parigi; poichè il suo tempo, gli uomini e le donne che lo circondavano, i casi della politica e dell’arte, quando egli fu forzato a vivere colà, erano in aperta e dolorosa contradizione con ogni sua tendenza. Impressionabile e freddo nell’apparenza, molto audace nei propositi e timido innanzi alla più piccola difficoltà sociale; appassionato o diffidente al massimo grado di sè e della propria passione; innamorato ardente dell’arte in tutte le sue espressioni e fingendo, per posa, di consacrarsi tutto alla filosofia; brutto e pure dotato di un’anima fulgida come un gioiello; quasi sempre mal vestito, spesso goffo; quasi sempre senza denaro, troppo grasso, troppo piccolo, sempre inceppato in compagnia di donne; nella società francese gli erano riserbate una serie di delusioni amare, di punture acute e nascoste, di umiliazioni che egli divorava, spesso, piangendo, nella sua stanza povera e fredda, dove non aveva, in gioventù, neppure un po’ di legna da gittare nel caminetto. Gli uomini di talento a cui egli si accostava, non lo intendevano, giacchè egli non osava parlare, quasi, nella loro presenza; giacchè egli non sapeva o non poteva neppure esprimer loro la sua ammirazione; ed erano, anche, scienziati gravi e pedanti, a cui le sue idee originali avrebbero fatto orrore; erano degli storici zeppi di pregiudizi a cui i criteri, già larghi del giovane Beyle, sarebbero parsi una follia pericolosa; erano giuristi e legislatori filosofi che aborrivano dell’arte, poichè, nel 1800, l’arte in Francia non aveva avuto ancora tempo di risorgere, dalla grande crisi del 1789. Gli sciocchi, poi, a cui egli diceva, irritato, delle misteriose impertinenze, lo guardavano con sospetto e con disprezzo, incapaci di misurarne il valore che, del resto, egli non si curava di manifestare; e la sua collera gli faceva imporre agl’imbecilli solo le stranezze del suo temperamento e della sua vita, per cui, spesso, fu colpito dalle più odiose calunnie. Ma quelle che maggiormente lo trascuravano, lo burlavano, lo disprezzavano, erano le donne francesi, grandi signore e attrici, aristocratiche del Secondo stato o aristocratiche del Terzo stato; le donne, proprio le donne, che egli, fino dall’adolescenza, non aveva potuto incontrare senza turbarsi, non aveva potuto guardare senza commuoversi, con cui non aveva mai potuto scambiare dieci parole, senza sentirsi preso e innamorato; le donne, proprio le donne, che erano per lui il segreto della felicità, il fàscino della vita, la finalità di ogni passione, dopo esserne stata la sorgente; le donne, proprio quelle donne a cui egli dedicava o cercava dedicare tutti i più puri fiori della sua sensibilità, a cui egli offriva o cercava di offrire i saporosi frutti della sua intelligenza; le donne, per cui gli sarebbe piaciuto di essere bello, nobile, ricco, glorioso, per vivere con esse in comunione sensuale e sentimentale. E, invece, dalle sue memorie, dalle sue lettere, dal suo giornale, da’ suoi ricordi, appare un seguito di piccole e grandi lotte con queste creature belle e civettuole, aggraziate e frivole, seducenti e mendaci, capaci di sentire una simpatia, ma incapaci di abbandonarsi al vortice di una passione, che non lo comprendevano, non lo apprezzavano e, spesso, gli preferivano apertamente uno stupido, meglio vestito di lui, un vecchio ricco che comperava loro dei gioielli, il loro maestro di spinetta o, peggio, il loro sarto. Quante ansie perdute, quante aspettative deluse, quante violente iniziative inani, quante figure ridicole, sì, proprio ridicole, come egli lo confessa, gli hanno procurato, i suoi amori, nel bel paese di Francia! Come quelle gentili e irresistibili donnine si giuocavano di lui, lo tenevano sospeso fra la speranza e la collera; come gli facevano sospirare, per giorni, per settimane, per mesi, le più piccole sodisfazioni della tenerezza dell’amore! Egli era l’uomo che, nel silenzio della sua cameretta, meditava l’esplosione della sua passione ardente, la quale frantumasse le resistenze di quelle creature; ma, giunto innanzi alla porta della bella, innanzi a un sorriso beffardo, tutto il suo mirabile coraggio cadeva, il suo cuore si ghiacciava ed egli appariva taciturno, imbarazzato, spesso grottesco. Tesori di amore erano nascosti in quella grande anima di appassionato, ma egli non sapeva versarli nelle parole e nell’espressione; nè quelle donne sapevano ritrovarli, da loro, mai. De Stendhal abborriva da ogni querimonia; egli non si è mai confidato con un amico su’ suoi amori e su’ suoi dolori; ma, ogni tanto, fra la vivacità ironica de’ suoi ricordi, scritti per l’amico lettore di cinquant’anni dopo, sorge questo grido doloroso: Que je souffre, de n’être pas deviné!
Così, in una società come quella francese del principio del secolo, in cui tutte le tradizioni artistiche erano spezzate, quasi morte, de Stendhal dovea sanguinare nel suo profondo entusiasmo per la beltà delle arti; in una società che ancora non ritrovava il suo assetto scientifico, dopo lo sforzo immane dei filosofi dell’Enciclopedia, e che guardava con sgomento qualunque spirito libero che oltrepassasse il suo tempo, le idee avanzate di de Stendhal lo dovevano indicare come un mostro, sono le sue parole; in una società di salone, dove, respirando di sollievo per la fine del tragico sogno dell’ottantanove, non si chiedeva che il brio esteriore, che lo spirito di botta e risposta, che la grazia tutta formale della conversazione, il povero Enrico Beyle dovea subire le più amare mortificazioni; poichè egli era infelicissimo nel comunicare le sue idee; poichè mancava dello spirito di salone; poichè aveva troppo talento per saper conversare bene. Egli segna come un giorno glorioso, forse, un sol giorno, in cui, in società, indossando un bel vestito, possedendo del denaro in tasca, avendo ben pranzato, egli ha potuto esser brillante in conversazione, dicendo, almeno una parte, delle idee che tumultuavano in lui, in una forma comprensibile ed elegante! Il gran de Stendhal, quest’uomo di genio, come lo chiama Onorato di Balzac, costretto dalla società in cui viveva, a mendicare la rarità di un successo di salone!
Ebbene, come non doveva, quest’anima così singolare di uomo e di scrittore, non delirare di gioia, toccando il sacro suolo dell’Italia? e come non doveva egli, per sempre, adorare questo paese, coi termini di dilezione più amorosi che sgorgarono mai dalla bocca di un innamorato? Che trovò egli, in Italia, Enrico Beyle, nelle tre volte che vi si recò e vi rimase per anni e anni, dal 1800 al 1835? Anzitutto, egli vi ritrovò quella immutabile e indicibile beltà delle cose che incanta e trasporta tutte le immaginazioni esuberanti come quella di Enrico Beyle; giacchè nella sua apparente durezza scientifica, nella sua freddezza di stile, egli nasconde e male nasconde una ricchezza di fantasia sempre vibrante; egli ritrovò quella Terra della Beltà, che a traverso tutti i secoli, a traverso tutti i fatti umani, prenderà e non lascierà più i suoi sorpresi visitatori; e il povero giovanotto che aveva passato l’infanzia in uno dei più brutti paese di Francia, come Grenoble, che aveva ma scorso l’adolescenza e la prima giovinezza tra il fango di Parigi, dove trascinava le sue scarpe rotte, sotto la pioggia, al freddo, in una soffitta gelida, in vista dei centomila fumaiuoli neri parigini, sentì, per la prima volta e indimenticabilmente, la dolcezza di un paese pieno di azzurro e pieno di sole. Egli trovò, ancora, un paese, dove nessun uomo, nessun caso, nessuna rivoluzione e nessuna tirannia, eran giunte a vincere il trasporto della folla per l’arte; tanto che lo straniero, il quale era andato, nella mattinata, ad ammirare le nobili divine figure di Raffaello, potea, la sera, fremere di dolcezza e di gioia per la musica, in un bel teatro, dove si cantava con magistero e con sentimento. In fondo, nei primi trent’anni del secolo nostro, molti e tumultuosi avvenimenti aveano sconquassati gli Stati italiani; e rivoluzioni, e repubbliche, e carceri, e tiranni, e vittime, si erano alternate e moltiplicate, dappertutto, in lunghe convulsioni, spesso tragicamente risolute, nella oscurità di una fortezza, sul palco del patibolo. Ma, in mezzo a questo, resisteva il gusto indomabile degli italiani per i ritrovi di arte, per i teatri, per gli spettacoli, per i giuochi; ma le signore milanesi, fra Napoleone e l’Austria, fra i fatti del principe Eugenio e il carcere duro di Josephstadt, non mancavano mai di andare alla Scala, di applaudire Paer e Rossini, di sorbire un gelato, chiacchierando vivacemente e amoreggiando; ma a Napoli e a Firenze, a Roma e a Bologna, nelle più irose vicende e nelle più placide, fra i complotti e le restaurazioni, una nuova statua, un nuovo quadro, una nuova musica, un nuovo artista, rappresentavano sempre un avvenimento eccezionale, a cui si appassionavano anche i più accaniti congiurati e i più freddi tiranni. L’anima di Enrico Beyle, in un paese così bello, dove un semplice piacere estetico degli occhi o dell’udito valea una vincita alla borsa e, magari, la vincita di una battaglia; in questo paese, quell’anima calda di poeta e di artista, dovette provare una dilatazione così felice, dovette godere così profondamente, da non potere più concepire di esser felice, altrove. Un duetto di Cimarosa o una preghiera di Rossini, una statua di Canova o una espressione di Giuditta Pasta, imprimevano tale esultazione gioconda al suo spirito, che egli giunge, nelle sue pagina, pur così serrate, così concise, così marmoree di stile, a versare fiumi di tenera eloquenza. I quattro volumi, Histoire la peinture en Italie; Rome, Naples et Florence; Promenades dans Rome e la Vie de Rossini contengono tutta la spiegazione della magia ineluttabile che l’arte italiana, quella degli antichi e quella dei contemporanei di de Stendhal, esercitò sovra una mente così aperta a tutte le nobili forme del Bello. Chi legge quelle pagine può riscontrarvi, forse, qualche errore in fatto di storia d’arte, ma egli non era, Dio mercè, un arido ricercatore di antichità; può ritrovarvi, è vero, qualche errore di gusto, ma dovuto alla sua eccessiva ammirazione; può trovarvi qualche giudizio bislacco, ma vi troverà sempre il più costante entusiasmo!
E, in ultimo, quella che legò a sè, con tutti i vincoli dell’affetto, il cuore di de Stendhal, fu la vita italiana, fu l’insieme de’ suoi costumi e delle sue consuetudini, in quel tempo. Che importava, infine, a un uomo che detestava la politica e che, nella sua vita, avea ammirato solo Napoleone primo, che potea importare quella faccia penosa e triste della medaglia, che era la vita politica d’Italia, allora? Egli ne vedeva e ne godeva solo la faccia migliore: cioè, la facilità dell’esistenza; cioè, la bonomia cordiale degli uomini e la grazia languida delle donne; cioè, il modo di viver bene, con pochi denari, con qualche relazione, con qualche amicizia, con una innamorata italiana, che italianamente amasse. Questo fu l’ultimo tratto che sedusse il cuore di uomo di Enrico Beyle: questo affare dell’amore italiano, che era proprio la grande occupazione, il grande affare, la grande affaire, degli uomini e delle donne, allora! Ciò che egli aveva sempre pensato e sentito dell’amore, che giammai avrebbe osato di dire in Francia: questa ricerca di un amore-passione, che occupasse i sensi e lo spirito, che trasformasse i caratteri e facesse trionfare il temperamento amoroso, che dominasse non solo gli uomini e le donne, ma il loro destino: questa passione che gli scettici francesi e le beffarde francesi avrebbero chiamato pazzia, deridendola, gli parve, come era, il sostrato delle relazioni sociali in Italia. Le curiosità gentili dei primi incontri, le ansie delle prime speranze, le emozioni dei primi favori, le lacrime e i furori della gelosia, i trasporti profondi delle anime che già si erano intese, i contrasti che frappone la società, tutti i grandi abbandoni e insieme tutti i grandi errori, tutti i peccati e, persino tutti i delitti e tutte le espiazioni, de Stendhal li ritrovò nell’anima amorosa italiana, dovunque lo portasse il suo pellegrinaggio. Questa passione che, partendo talvolta dal capriccio, sale sino alla tragedia, egli la lesse negli occhi delle donne italiane e la sentì tremare di commozione nella voce degli uomini italiani; questa passione che colora di vivo le esistenze più scialbe, che dà forza e ardore anche ai non più giovani, che ridà il senso della vita persino al prigioniero sepolto in fondo a una cittadella, che passa dal bacio al pugnale, che ispira divinamente la più ignorante creta femminile e che redime la più nera anima maschile; questa passione che fa dimenticare tutto, anche la oppressione di un principe tiranno, anche l’esilio in un castello deserto, anche la miseria in un borgo selvaggio, anche la perdita degli onori e degli averi; questa passione egli la scoverse nel cuore italiano, più vivida, più tenace, tanto più ostinata, quanto più i fati della politica, erano avversi! Il passionale uomo, che non aveva mai versato una lacrima innanzi a una donna francese, senza vederla ridere, ha potuto amare tre anni Matilde, a Milano e a Firenze, essendone amato, e non possedendola mai, e perdonandole il suo diniego; poichè ella gli aveva dato tutta la sua anima, e avea sofferto con lui, e aveva saputo amare, soffrire, morire, di ciò, così, come una creatura di passione muore! Questo tenerissimo uomo, abituato a celare accuratamente tutte le sue tenerezze, nel suo paese, ha potuto trovare in Italia delle amiche tenere e compassionevoli, delle protettrici amabili e affettuose, delle donne, infine, non tutte belle, non tutte giovani, non tutte perfette di carattere, ma tutte accessibili ai sentimenti più dolci che legano i cuori, ma niuna dura e niuna crudele! Così, se il suo intelletto di scrittore sentì il soffio del genio italiano nelle lettere; se la fantasia potè appagarsi nelle lusinghe dell’arte antica e moderna, la sua anima chiusa sotto i sette suggelli del mistero, potè fiorire, liberamente, al calore dell’anima italiana; e dalla sua penna escì quella Chartreuse de Parme, dove è scritta la storia mirabile di queste due anime, quella di un genio e quella di un paese.
⁂
Le pochissime persone che lessero, in quel tempo, quel magnifico romanzo che è La Chartreuse de Parme, sostennero che le tre figure principali di questo libro, il duca di Parma, la duchessa di Sanseverino e il conte Mosca della Rovere, fossero tre ritratti. Nella dolce e superba donna che è Gina Pietranera, nella nobiltà intellettuale della sua natura e nella varietà delle sue avventure, nei suoi successi amorosi e nelle sue sconfitte, fu indicato il nome di quella principessa Cristina di Belgioioso che raccolse tanti suffragi di ammirazione dai letterati francesi per la sua bellezza, la sua grazia e il suo spirito. Nel duca di Parma parve adombrato il duca di Modena, con le sue crudeltà e con le sue grandezze, con le sue ambizioni di diventare il re dell’Italia settentrionale e la sua paura dei liberali, col suo senso ereditario del regno assoluto e col suo vago desiderio di più libere riforme politiche, con la sua smania d’imitare Luigi XIV e le grettezze di uno spirito chiuso nella sua capitaletta di provincia. Nel fine e focoso conte Mosca della Rovere, si disse, allora, che fosse data la fisonomia morale del principe di Metternich, di quel diplomatico che resse la politica europea con una forza e una ostinazione fredda, velante un temperamento caldo e impetuoso.
Chi lo sa, se Enrico Beyle ha avuto questa intenzione, scrivendo il suo libro! Chi lo sa! Spesso, bene spesso, un romanziere di grido, in un romanzo che solleva la curiosità, è accusato di aver copiato perfettamente dal vero un uomo, un caso, un ambiente; e il romanziere si difende sì e no da quest’accusa che, talvolta lo sorprende, talvolta lo lusinga. Il romanziere si meraviglia, perchè, spesso, egli fu incosciente in questa rassomiglianza, e il pubblico che gliel’addita, gli rivela qualche cosa che egli non sa, della sua opera; se ne lusinga, poichè l’accostarsi al vero, è un grande elogio per tutti gli adoratori della verità. Ma egli stesso, diciamolo, non è mai certo di quel che ha fatto; egli stesso si rammenta di esser partito, forse, da un personaggio noto, da un fatto avvenuto, ma sa di aver quasi sempre deviato, nel suo lavoro, ma riconosce di essere giunto a un fine ben lontano dal principio. Il romanziere ha potuto vedere un’anima e un volto, nel mondo, da cui la sua arte ha potuto trarre espressione e senso; ma, dopo il primo accenno di realtà, il fantasma si fa artistico; il fantasma vive, ama, soffre, muore, in una esistenza tutta sua, tutta personale; il fantasma è già un’altra persona e un’altra cosa. Ah, diciamolo con cuore umile e contrito: tutti coloro che narrano le storie umane, non possono che narrarne quanto maggiormente si può, di verità; ma tutta la verità, mai! Tutti coloro che dipingono il cuore di un uomo, l’anima di una donna, fosse quella della persona con cui più vissero e che più fu loro nota, fosse la loro anima e fosse il loro cuore medesimo, potranno dire la verità sino ad un certo punto; più in là, no, mai. Ogni individuo, il più semplice, porta in sè un segreto: un segreto qualunque, che niuno conoscerà, giammai; ognuno di noi nasconde a sè stesso, nelle latebre dello spirito, un segreto latente, un segreto di cui sente il peso, ma di cui non afferrerà giammai la fisonomia e l’entità. Che pensiamo noi, dunque, di verità assoluta, nell’arte e nella vita? Perchè ne abbiamo parlato, orgogliosamente! Perchè abbiamo insultato i fantastici, i sognatori, gl’irreali? In che differiamo noi da loro, se non per una linea? Il patrimonio della verità, in fatto di anima umana, di quanto, mai, si è aumentato, per noi? Di poco: e anche di poco, nel tempo, più tardi, esso si verrà aumentando, per altri sacerdoti, come noi coscienziosi, ma come noi impotenti innanzi al mistero dello spirito, sterili nello sforzo: e quando ogni memoria più lontana di noi e dei nostri nepoti sarà scomparsa, quando milioni di giri, ancora, avrà fatto la Terra intorno al Sole, il segreto dell’anima umana sarà ancora vivo e oscuro, forte e inviolabile!
Al protagonista giovane della Chartreuse de Parme, a quel simpatico e bizzaro Fabrizio del Dongo, è stato attribuito di essere il ritratto di Enrico Beyle: infatti, qua e là, i casi di quel patrizio lombardo, che assiste così ingenuamente alla battaglia di Waterloo, che ha per maestro un canonico astrologo, che ama chi non lo corrisponde e non corrisponde a chi l’ama, rassomigliano vagamente all’avventurata vita di de Stendhal; ma poco! Niente più di un poco; anche sotto la penna di uno degli scrittori più sinceri e più leali, più estremi ed eccessivi, nella sincerità e nella lealtà! Ma sia come si voglia! Abbia voluto il Beyle, in parte, dipingere Cristina di Belgioioso, il duca di Modena, il principe di Metternich e sè stesso nella Chartreuse de Parme, o non vi abbia neppur pensato, ciò poco importa. Il protagonista vero di questo romanzo è la vita italiana, non solo quella privata, ma la vita pubblica mescolata con quella privata; non solo la istoria degli amori di Gina Pietranera, contessa di Sanseverino col conte Mosca; non solo la istoria degli amori di Fabrizio del Dongo con Clelia Conti, ma, in questi amori, tutta la esistenza di una corte italiana di quel tempo, tutti i costumi della nobiltà e del popolo, tutte le idee e tutti i sentimenti che agitavano i cervelli e i cuori in quel tempo. Volle Enrico Beyle narrare una storia di passione, solamente, forse; ma nella potenza geniale della sua mente il quadro si allargò, prese le proporzioni di un grande affresco, pieno di figure, pieno di movimento, pieno di significazione. Tutto ciò che è sparso, per altri libri suoi e non suoi, tutto ciò che egli aveva già detto, altrove, in volumi di arte e di critica, d’impressioni e di ricordi, tutto ciò che altri autori diffusero con la loro opera, e che il lettore dovrebbe ricercare in cento libri diversi, si è raccolto e chiuso nella Chartreuse de Parme. Il genio di de Stendhal ha riassunto, nelle quattrocento pagine di questo romanzo, tutta l’Italia dal 1815 al 1830, in una narrazione così evidente, così efficace, così colorita e salda che il titolo di romanzo è troppo modesto per tale sintesi profonda e sagace, per tale potenzialità di espressione. Onorato de Balzac dice che, nel duca di Parma, gli è sembrato di vedere riapparire Il Principe di Niccolò Machiavelli; ma, se tale giudizio può parere troppo esagerato, certo è, che Ranuccio Ernesto Quarto è il simbolo di quel che furono i signori degli Stati Italiani di allora: un simbolo senza velo: tanto la virtù e i vizii di quei padroni del nostro paese vi sono chiari e palesi. Basterebbe questo personaggio, solamente, per dire a noi che fosse la politica di quello strano periodo, dove già fremevano sordamente le rivolte degli spiriti innamorati della libertà, dove i principi impiccavano, ogni tanto, qualche liberale, ma lo ammiravano, in segreto e in segreto, forse, lo invidiavano; dove Palla Ferrante, l’apostolo della democrazia nella Chartreuse de Parme, espone la sua vita per una donna e per un’idea, ma dove la storia ci narra che persino un principe volle essere un carbonaro, un cospiratore. Basterebbero le relazioni bizzarre di Ranuccio, duca di Parma, col suo primo ministro Mosca della Rovere, per dirci tutto il potere che esercitavano, e non solo nel settentrione d’Italia, questi ministri, questi diplomatici sui loro sovrani: e i capolavori di talento, di finezza, di furberia che essi mettevano al servizio della loro fortuna e di quella del loro piccolo Stato. Ora, la diplomazia è diventata un vano nome, in questo mediocre tempo moderno; ma la diplomazia italiana della prima metà del secolo, che annoverò i più illustri uomini del nostro paese, che fu una lotta perpetua dell’ingegno e della genialità politica, a Napoli, a Torino, a Modena, a Firenze, questa diplomazia che celebrò nella realtà il genio di Machiavelli, ha trovato il suo pittore in Enrico Beyle e la sua maggior figura in Mosca della Rovere. Basterebbero le figure della principessa di Parma e del principe ereditario, della favorita del principe e della marchesa Roversi, capo del partito di opposizione; basterebbero quelle subitanee disposizioni e quegl’improvvisi favori; basterebbero quegli intrighi, quei raggiri, quelle vendette oscure, quelle mène, quei lavori sotterranei dell’ambizione, della vanità, della cupidigia, che balzano, vive, dalle pagine del romanzo di de Stendhal, per dirci quello che in ogni corte italiana formasse il sostrato umano della politica.
Basta, certo, basta, il carattere di Fabrizio del Dongo per dirci lo stato miserrimo della gioventù italiana, in quel tempo, in cui, tramontato il grande sogno di eroismo, con Napoleone, non restava nulla da fare ai pigri e ai deboli, salvo che essere un bellimbusto nei caffè e nei saloni: avere un cavallo inglese e un’amante con un bel titolo. Anche ai forti e ai volenterosi, tutto era chiuso: ogni via di celebrità e di grandezza era tolta, salvo che nel clero. Ai giovani italiani, ai giovani nobili restava scegliere fra il servire dei governi che aveano ucciso Napoleone Bonaparte, o esiliarsi in America, dove non vi erano nè arte, nè beltà, nè amore per essi, dove avrebbero dovuto servire la democrazia invece che la tirannia; e solo la Chiesa in Italia, per iscampo, apriva loro le braccia: solo la potenza ecclesiastica li poteva trarre da queste abbiezioni. È un cattivo prete, monsignor Fabrizio del Dongo, innamorato di Clelia Conti; ma meglio questo che rovinarsi al giuoco, che far la spia all’Austria o riverire il dio Dollaro americano. In Francia, Alfredo de Musset, dirà tutto il dolore della gioventù francese, ridotta a darsi al vizio, dopo Napoleone, per la morte di tutti i più alti ideali, nella sua Confession d’un enfant du siècle: la miseria morale, la tristezza sentimentale della gioventù italiana la dirà, con de Stendhal, Fabrizio del Dongo, costretto a entrare nella prelatura, per salvarsi dalla corruzione e per non derogare dal suo grado.
E basterebbe, infine, per dire che fosse la donna italiana di quei tempi, Gina Pietranera, contessa di Sanseverino. Deliziosa creatura! In lei tutto è impulso naturale, tutto è forza di intelligenza, di spirito, di finezza che si manifestano in tutta la sua tumultuaria esistenza; ella è la figliuola di se stessa, cioè del suo temperamento focoso e dolce, del suo carattere generoso e spontaneo, del suo istinto, che l’allontana da quanto è volgare e da quanto è basso. Ma non è un angelo, è una donna; talvolta ella va sino a essere un demonio, ma rimane sempre così alta e così dignitosa, da stupire persino i suoi accusatori. Ella è una feudataria nel suo castello, una dama nel suo salone, una donna nella sua alcova, una femmina, giammai; ella può abbandonarsi all’amore, alla gelosia, al dolore, al delitto, ella è una signora, sempre; e vi è della grandezza, in lei, persino ne’ suoi atti più civettuolamente muliebri. Ella è la trionfatrice alla corte di Parma, poichè niuna donna vi è più di lei bella, graziosa, spiritosa, fiera e indipendente, ella ha a’ suoi piedi il principe e il primo ministro, il governo e l’opposizione, le dame e il popolo, nulla manca alla sua gloria. Ma... ella è donna, ella ama suo nipote Fabrizio del Dongo di un affetto estremo che, forse, è amore: ma suo nipote appare, suo nipote che è il suo debole, suo nipote che è il difetto della sua corazza. È allora che le qualità morali di questa splendida donna arrivano all’apogeo della loro forza; è allora che tutto in lei serve a salvare suo nipote e a collocarlo nelle braccia misericordi della Chiesa; è allora che ella combatte le sue più grandi battaglie, prima con se stessa, poi col conte Mosca suo amante, poi con tutto il Ducato di Parma, dal principe all’ultimo servo. Ella fa della politica, ma perchè ama; ella fa della diplomazia, ma per amore; ella giunge ad uccidere, ma per amore! Una divina ragione è nella sua esistenza: per essa, ella sarà buona e cattiva, leale e falsa, civettuola e altera, fredda e furibonda, giovane e vecchia, nobile e plebea, coraggiosa come una leonessa e feroce come una pantèra, tutte queste cose insieme, in un tumulto dei sensi e del cuore che solo la sua volontà può dominare. Che le importano il nome, la fortuna, il potere? Ella non è una donna vanitosa, ma una donna innamorata: ella non cerca nulla per sè, anzi, tutto vuol dare, perchè ama. Giammai la passione, non confessata neppure a se stessa, non corrisposta mai, ebbe simile potenza, e slanciò l’anima femminile ad altezze tanto inaccesse, come in Gina Sanseverino; giammai la passione di amore, in un cuore di donna, trovò un artista che ne rendesse la fiamma divoratrice, così! Badate, ella non è una pazza, non è una forsennata: nei maggiori impeti ella conserva la sua lucidità di mente, la sua finezza, la sua energia. Come tutte le donne di nobile temperamento, ella si fa più grande nel pericolo: e più grande di sè, anche, e più grande del vero, anche; ma non importa; poichè è un divino raggio di poesia quello che la trasforma e la illumina, creatura dell’arte e dell’amore, fatta sublime dalla mano innamorata di un artista passionale, di un poeta!
⁂
Ed è, certo, in un’aureola di poesia che l’Italia ci appare nei libri di Enrico Beyle, anche quelli che vogliono parere i più matematici, i più assiomatici; è in un nimbo d’oro che il bel paese ci sorride, da quei libri: come egli lo ha visto, come lo ha sentito, come lo ha adorato, così esso vive e c’interessa e ci commuove, da quelle pagine. Noi, forse, ce ne meravigliamo un poco; non vogliamo dirlo, ma egli ci sembra eccessivo, nella sua adorazione. Ah, come siamo stanchi, noi, di avere intorno troppe belle cose; come ci hanno esausti questi cieli azzurri; come ci hanno sfinito e nauseato queste carezze dell’aria! Ah, noi non abbiamo più occhi per vedere le immortali linee e i colori che ci lasciarono i nostri antichi e le nobilissime espressioni dei volti umani e divini; noi non abbiamo più orecchie per deliziarci dei suoni di una lingua soavissima, fatta per la poesia e per l’amore; noi siamo ciechi e sordi e ottusi, e gli entusiasmi di de Stendhal ci stupiscono segretamente! Poveri, poveri noi, se non vediamo più il paese nostro come egli lo ha visto, in mezzo alle vicende amare del principio del secolo, ma bello, ma giovane, ma lieto, ma amoroso, ma capace di vivere per un puro sogno e di morire per un nobile sogno; poveri noi, se l’Italia idolatrata da de Stendhal, non è anche la nostra Italia! Vorrebbe dire che ogni vivo zampillo di poesia è inaridito in noi, che ogni trasporto del sentimento lascia inerte il nostro cuore, che ogni slancio della nostra fantasia è spento, nel torpore ultimo; vorrebbe dire che non meriteremmo più nè di vivere, nè di amare, nè di morire, qui; vorrebbe dire, che la nostra patria dobbiamo lasciarla adorare agli stranieri. L’Italia di de Stendhal? Io ho detto male: dovevo dire l’Italia di tutti gli uomini di genio, di tutti gli artisti, di tutti i poeti, di tutti i sognatori, di tutti gli amanti! L’Italia di de Stendhal? Doveva dire quella di Wolfango Goethe che, perseguitato dal fantasma sanguinante del giovane Werther, sotto l’incubo del suicidio, venne in Roma a guarirsi di quell’atroce malattia che è l’amore della Morte, e ritornò più sereno, più forte, più olimpico al suo Weimar; dovrei dire quella di Giorgio Byron che fuggì il pallido suo paese nordico e i gelidi amori di Britannia, venendo in Italia a cercare fiamma al suo genio e alla sua passione; dovrei dire l'Italia di Percy Shelley che qui volle vivere, sulla spiaggia del Tirreno, sparendovi quale un antico Iddio, perendo sul rogo come un antico eroe; dovrei dire l’Italia del povero usignuolo ferito che fu Alfredo de Musset, che non potea sentir il nome del nostro paese, non potea pronunziarlo, senza che sgorgasse, come un grido, la lirica dal suo cuore! Sempre, sempre, nel secolo scorso e in questo secolo, in tempo di tirannide e in tempo di libertà, nelle ore buie e nelle ore gioconde, questa Italia sarà amata così dagli uomini che hanno qualche cosa dietro la fronte, qualche cosa nel cuore! Questi pellegrini della tristezza o della felicità scenderanno sempre tra noi, ora, più tardi, molto più tardi, a cercare sollievo, beatitudine, estasi in questo paese nostro; e il loro pensiero si farà più alto nei cieli spirituali, e la loro anima proverà le ebbrezze supreme. Finchè vi sarà al mondo un poeta, egli verrà qui e i suoi occhi mortali vedranno il mirabile spettacolo, come de Stendhal lo vide; finchè vi sarà al mondo un’anima innamorata, come la povera fanciulla di Wilhelm Meister, per amare e per morire; finchè le squisite gioie dello spirito e le alte vampe della passione alimenteranno e consumeranno l’anima umana!