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Quinto Orazio Flacco - Satire (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Luca Antonio Pagnini (1814)
Libro I - Satira I
Libro I - Satira II

a mecenate.


Mecenate, onde vien, che nessun pago
Sia del mestier, ch’elezione o caso
Gli offerse, e lodi chi professa altr’arti?
O fortunati mercatanti, esclama
5Carco d’età il soldato, a cui le membra
Fiaccò lunga fatica; e ’l mercatante,
Quando squassar dagli Austri sente il legno:
Migliore è la milizia. E chi n’ha dubbio?
Vassi al conflitto, e in un istante o pronta
10Morte ti viene o lieta palma incontro.
Quando il giurista sul cantar del gallo
Picchiare ode i clienti alla sua porta,
Colma di lodi il campagnuol. Chi dati

Mallevadori è dalla villa a Roma
15Citato a comparir, quelli soltanto
Che vivono in Città, felici appella,
Ma tanto innanzi va questa materia,
Che Fabio seccator ne avrìa soverchio.
Per non tenerti a bada ecco ove vanno
20I miei detti a parar. Se un Dio dicesse:
I’ son qui pronto a far vostro desio:
Tu già soldato, in avvenir sarai
Mercante, e tu legal vivrai ne’ campi.
Su via cangiati impieghi ognun si parta.
25Che state a far? Se così lor parlasse,
Nessuno il patto accetterebbe. Eppure
In vostra mano sta l’esser beati.
Forse che Giove non avria ragione
Di gonfiare adirato ambe le gote,
30E dir che per lo innanzi esso non fia
Sì buon di dare agli uman voti orecchio?
Ma per non far come chi scherza e ride
Per baloccar la gente (eppur chi mai
Ne proibisce il dir ridendo il vero?

35Così blando maestro al fanciullino
Perchè impari abbiccì, dona le offelle)
Or dismesso il burlar battiam sul sodo.

Quei che il terren col duro vomer fende,
Il furbo oste, il soldato, il navigante
40Che ardito solca il mar, vanno dicendo
Che volte son le lor fatiche e stenti
A procacciarsi il pan per la vecchiaja,
E assicurarsi un placid’ozio, come
La piccola formica, a noi di molta
45Fatica esempio, quanto può col rostro
Dietro si tragge, e del futuro accorta
Via via l’abbica, ed il suo mucchio accresce.
Sì, ma costei, quando l’Aquario attrista
L’anno cadente, fuor non mette piede,
50E l’ammassato gran si gode in pace.
Ma te non verno, o sollion, non fuoco
Nè mar nè ferro da lucrar distoglie,
Per non vedere alcun di te più ricco.
Che val sotterra por furtivamente
55Con paurosa mano immenso pondo
D’argento e d’or? Perchè non si riduca,
S’io lo vada scemando, a un vil bajocco.
Ma se tu non lo spendi, e che ha di bello
La ragunata massa? or via poniamo,
60Che tu nell’aja battut’abbia cento
Mila moggia di gran. Non la tua pancia

Per questo ne terrà più che la mia.
Qual se tra’ servi su le spalle un sacco
Di pan portassi, non ne avresti poi
65Di chi scarco ne andò più largo pasto.
A chi sta di Natura entro a’ confini
Che mai vale arar cento o mille campi?
= Bel gusto è provvedersi a una gran massa.
= Purch’io dalla mia picciola altrettanto
70Ne possa aver, qual di lodar motivo
Hai più delle mie corbe i tuoi granai?
Egli è come se un fiasco od una tazza
Bisognandoti d’acqua, i’ non vo’ torla,
Dicessi, a un fonticel, ma ad un gran fiume.
75Quinci avviene a chi più del giusto agogna
Che insieme con la sponda il rovinoso
Offanto se l’assorba entro i suoi gorghi.
Ma chi ciò sol desia che a lui fa d’uopo
Nè a limacciosa pozza attigne l’acqua,
80Nè a rischio d’affogar sua vita espone.
Ma da insana avarizia una gran parte
Degli uomini accecata ognor ripete:
Non evvi mai tanto che basti, ognuno
Tanto vale quant’ha
. - Che vuoi tu farvi?
85Lasciali star col lor malanno in pace.

Fuvvi in Atene un tal ricco spilorcio,
Che sprezzava i motteggi della gente
Fra se dicendo: Il popolo mi fischia,
Ma in casa io mi fo plauso allorch’i’prendo
90A contemplare i miei danar nell’arca.
Tantalo sitibondo anela all’acqua,
Che gli fugge dal labbro... E che? tu ridi?
La favola è di te sotto altro nome.
Su que’ sacchi ammontati t’addormenti
95A bocca aperta, nè tastargli ardisci
Qual se fossero sacri, e di lor godi
Non altramente che d’un pinto volto.
Tu no non sai qual giovamento ed uso
Abbia il danar. Si compri pane e vino,
100Ortaggio, e quel di più che nostra frale
Natura sdegna che le sia negato.
Forse a te piace il vegghiar notte e giorno
Col batticuor, temendo ladri, incendj,
E schiavi che ti lascino in farsetto?
105Io non curo tai ben punto ne poco.
Ma tu dirai: se le mie membra assale
Ria febbre, o s’altro mal m’inchioda in letto,
Ho chi m’assista, chi i fomenti appresti,
Che al medico ricorra, affinchè sano

E salvo mi ridoni alla mia gente.110
Ah non la moglie e non il figlio brama
Che tu risani. A tutti in odio sei
Conoscenti e vicin, servi e fantesche.
Che maraviglia, se qualor posponi
115Ogni cosa al danar, nessuno in petto
Nutre per te quel che non merti, amore?
Se i parenti che a te Natura diede,
Senz’opra alcuna vuoi serbarti amici,
Tu sciagurato il tempo getti invano
120Qual chi insegnasse a un asinello in campo
Ir di galoppo, ed ubbidire al freno.
Se non altro abbia fin la tua ingordigia,
E quanto hai più, tanto minor paura
Ti faccia povertà; quando se’ giunto
125A posseder quanto bramasti, allora
Almen ti metti in calma, e non far come
Un certo Uvidio (la novella è breve).
Ei ricco sì che misurar potea
Danari a staja, era sì sconcio e lordo,
130Ch’iva peggio vestito d’uno schiavo,
Sempre temendo di morir di fame.
Una sua serva, nuova Clitennestra,
Con un’accetta lo segò per mezzo!

= Ehi qual consiglio mi vuoi dar? Ch’io viva
135Qual Nevio, o Nomentano? = E tu pur segui
Cose discordi ad accozzar tra loro.
Non io, qualor ti vieto essere avaro,
Vo’ che tu mi diventi un gocciolone
Ed uno sprecator. Qualche divario
140Tra ’l suocer di Visello e Tanai passa.
Tutto ha le sue misure, oltra le quali
Nè di quà, nè di là risiede il retto.
Torniamo onde partimmo. E nessun dunque
Pago è di sè, come l’avaro, e quei
145Che han preso altro cammin, colma di lodi?
E perchè la capretta del vicino
Più gonfio porta il sen, si va struggendo,
Nè alla turba maggior si paragona
De’ meno facoltosi, e questo e quello
150Di trapassar s’affanna, ond’è che sempre
Altro più ricco fa al suo corso intoppo.
Quando son dalle mosse usciti i cocchi,
Di stare al pelo il carrettier si sforza
A’ corridor che vede innanzi a’ suoi,
155E quei che addietro si lasciò non cura.
Quinci è che rado noi troviam chi dica
D’aver condotto i dì felici, e parta

Di qua contento, come chi si lieva
Da tavola satollo; e tanto basti.
160Perchè non abbi a dir che di Crispino
Lippo involai gli scrigni, io qui m’arresto.

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