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Satira III
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A’ musici è comun questo difetto,
Che pregati a cantare infra gli amici,
Mai non fan grazia; se nessun gli cerca,
Costor non danno mai più fine al canto.
5Tal fu Tigellio il Sardo. A lui potea
Fare Augusto medesmo istanze e preghi
Del suo gran padre e di se stesso in grazia,
Tutto era van; se gli saltava il grillo,
Dal suo primo cenar sino alle frutta
10Trillava, evviva Bacco, ora in soprano,
Or nel più basso tuono. Ei non fu mai
A sè medesmo ugual. Correa sovente
Qual chi fugge il nemico, e spesso andava
Lento come chi porta in giro i sacri
15Cesti di Giuno. Or ei dugento servi,
Or n’avea dieci a pena. A bocca gonfia
Parlamentava di tetrarchi e regi;
Poi detto avria, d’un qualsivoglia desco,
D’un salin puro, d’una grossa vesta,
20Che dal freddo mi pari, io son contento.
Ma se a quest’uom sì moderato e parco
Donavi un milion, tra cinque giorni
Non gli restava nello scrigno un soldo.
Vegghiar solea la notte infino all’alba,
25Poi russar fino a sera. Un incostante
Pari a costui non mai si vide in terra.
Talun dirammi: e tu non hai difetti?
Altri ne ho forse non minor di questi.
Menio tagliando i panni a Novio assente,
30Uno gli disse: Bada a te: non sai
Che ti conosco? e di gabbarne intendi?
Menio rispose: A me medesmo poi
Amo e so perdonare. O d’ogni biasmo
Degno amor proprio, e dissennato e ingiusto!
35Se cispo guati con l’impiastro agli occhi
Le colpe tue, perchè la vista aguzzi
Più d’aquila o serpente a’ vizj altrui?
De’ tuoi difetti ancor registro tiensi.
Colui, dice taluno, è sdegnosetto,
40Non regge all’altrui frizzo. È messo in burla,
Perch’è tosato mal, perchè la toga
Non ben gli quadra al dosso, al piè la scarpa,
Ma per bontà va innanzi a tutti, è amico,
E chiude in rozzo corpo un alto ingegno.
45Or tu scandaglia te medesmo, e mira,
Se inserito abbia in te vizj Natura,
O mal costume. Che ne’ campi incolti
Germinar felce suol degna del foco.
Poniam mente allo stil de’ ciechi amanti,
50Cui delle amiche le più sozze mende,
Non che disgusto, recano diletto,
Come fa d’Agna il polipo a Balbino.
Vorrei che un tale error nelle amicizie
Avesse luogo, e che si fosse a quello
55Dalla virtù trovato un nome onesto.
Del figlio il padre non aborre, e noi
Aborrir dell’amico non dovremmo
Qual ch’ei s’abbia difetto. Un padre appella
Luschetto un figlio che ha stravolti gli occhi,
60Piccin quel ch’è pimmeo come a’ di nostri
Era Sisifo aborto di natura;
Bilenco chi stravolte ha le ginocchia,
E strambin chiama balbettando quello
Che mal si regge su i calcagni storti.
65Così da noi chi troppo il suo risparmia
Si nomini frugale, e chi ventoso
Mena di se jattanza un uom garbato
Che figura vuol far presso gli amici.
Se alcuno è truce e franco oltre il dovere,
70Di schietto e coraggioso abbiasi il nome;
S’è troppo caldo, risoluto il chiama.
Quest’è che le amistà lega, e conserva.
Ma noi siam usi alle virtù medesme
Cangiar sembiante, e intonacar vogliamo
75Con rea vernice un vaso puro e netto.
Uno è di buon costume? è abbietto e vile.
Quegli è tardo a parlare? è uno stordito.
Questi ogni agguato schiva, e il fianco inerme
A’ maligni non offre, (e ciò in un tempo
80Che l’invidia imperversa, e in ogni banda
Trionfa la calunnia), anzichè il nome
D’accorto e destro, ha quel d’astuto e finto.
Se alcun va schietto e in quella foggia, ond’io
Spesso a te godo, o Mecenate, offrirmi,
85Tal che interrompa con parlar molesto
Chi medita o chi legge, a lui, diciamo,
Manca il senso comune. Oh quanto sciocca
Formiam contro noi stessi e iniqua legge!
Poichè nessuno è senza vizj al mondo,
90Ottimo è que’ che n’ha la minor soma.
Un dolce amico i vizj miei ragguagli,
Com’è ben giusto, alle virtudi, e a queste
Di numero maggior, se pur son tali,
L’affetto inchini. S’egli vuol che a lui
95Io risponda in amor, con questa legge
Appo me troverà stadera uguale.
Se non vuoi che l’amico si disgusti
Delle tue natte, i suoi bitorzi escusa:
Chi per se vuol perdon, perdoni altrui.
100In somma giacchè in tutto sradicarsi
Non può nè l’ira, nè quant’altri vizj
S’attaccano agli stolti, e perchè dunque
Ragion non usa le misure e i pesi
Convenienti, nè a ciascun delitto
105Secondo il merto lor fissa il gastigo?
Se taluno mettesse in croce un servo,
Perch’egli nel levar di mensa i piatti
Trangugiò qualche pesce smozzicato,
E un po’ di salsa, tra i cervelli sani
110E’ si dirìa di Labeon più pazzo.
E pur quanto è maggior tua frenesìa?
Fa un lieve error l’amico, a cui se nieghi
Compatimento, ognun ti tien per aspro
E per rubesto, e tu l’abborri e sfuggi,
115Come fanno Drusone i debitori,
Che se al primo del mese i cattivelli
Pronti non son a snocciolargli il frutto
O il capital, quai servi a collo teso
Le scipide sue storie a udir gli astrigne.
120Un pien di vino scompisciommi il letto,
O fe cadere in terra una scodella
Già stata fra le man del vecchio Evandro,
O la fame gli fe torre un pollastro
Che stava nel taglier dalla mia parte,
125Per questo ho da pigliar l’amico in urto?
Che farei, se m’avesse svaligiato,
Rotto il segreto, oppur la fè tradita!
Chi vuol che uguali sien tutte le colpe,
Quando al fatto si viene è in grande intrico.
130Il senso e l’uso vi s’oppone, ed anche
L’utilità, che quasi al giusto è madre.
Quando gli uomini primi usciro al mondo
Muti e sozzi animali ebbero insieme
Per le ghiande e le tane ad azzuffarsi
135Con unghie e pugni, co’ baston dipoi,
Indi con l’armi che foggiò il bisogno,
Finchè inventate fur parole e nomi
A dinotar gl’interni sensi; e allora
Cessaron le battaglie, e alzate furo
140Città munite, e con le leggi esclusi
I furti, gli adulterj e le rapine.
Perocchè prima ancor d’Elena al mondo
Donne impudiche fur cagion di guerra,
Ma ignoti son que’ che di fere in guisa
145Cercando pasto alla lussuria ingorda
Spense la mano di rival più forte,
Come toro che sventra i men gagliardi.
Se a scorrer prendi d’ogni età gli annali,
Vedrai che incontro all’oprar fello e ingiusto
150Fur le leggi dagli uomini inventate;
Nè Natura scevrar dal torto il dritto
Può come il ben dal male, il pro dal danno.
Nè ragion mai ti proverà che fallo
Commetta ugual chi pochi fusti infranga
155Nell’altrui campo, e chi di notte involi
Con sacrilega man gli arredi a i numi.
Regola v’abbia che delitto e pena
Tra lor pareggi; nè flagello atroce
Solchi le spalle a chi di sferza è degno;
160Ch’io già non ho timor che tu alla frusta
Danni chi meritò maggior gastigo,
Poichè tu dì che l’assassinio e ’l furto
Son cose uguali, e di tagliar minacci
Con falce indifferente il poco e il molto,
165Qualor tu giunga a conseguire un regno.
Se chi è saggio tuttinsieme è ricco,
Buon calzolajo, ei solo è bello ed anche
Re, perchè brami aver ciò che possiedi?
Ei mi dirà, Tu non sai quel che insegna
170Il gran padre Crisippo. Il saggio mai
Fatto non si ha nè sandali nè scarpe,
Eppure il saggio è calzolajo. Come?
In quel modo ch’Ermogene è cantore
E musico eccellente ancorch’ei taccia;
175In quel modo che dopo aver gittato
Via gli stromenti e chiusa la bottega,
Era cordovanier lo scaltro Alfeno;
Così di tutto il saggio è gran maestro,
E così re. ― Sta in guardia che una turba
180Di ragazzi insolenti, o re maggiore
Di tutti i re, la barba non ti peli,
E se col nerbo non la tieni indietro,
Non ti s’affolli addosso, e tu frattanto,
O meschinello, invan ti sfiati urlando.
185Ma per finirla, mentre al bagno vai
Tu re con pochi soldi, e nessun altro
Che lo scempio Crispin ti fa la corte,
Io dolci amici avrò che alle mie colpe
D’inavvertenza accorderan perdono,
190Ed io del par compatirò lor falli
Ben volentieri, e tuttoche privato
Più di te, che re sei, vivrò contento.