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VIII
CRISTO SMARRITO
Sospirava e spargea
largo di pianto un fiume
la Dea, la vera Dea,
madre di vero nume,
ricercando il suo core,
il suo smarrito e fuggitivo Amore.
Iva la Verginella,
qual tortora solinga,
di questa parte in quella,
peregrina e raminga,
de la sacra cittade,
scorrendo or qua, or lá tutte le strade.
La valle, il piano, il colle
spiò dentro e d’intorno,
e fe’ spesso, qual folle,
donde partí ritorno;
giá seco afflitto e stanco
il santo vecchierel traendo il fianco.
Tre volte il Sol da l’Orto
rinacque e tre morío,
da poi che ’l suo conforto
dagli occhi suoi sparío;
stende il passo, il piè move
con sollecita cura, e non sa dove.
Poiché la terza aurora
vide uscir degli Eoi,
né spuntar vide ancora
il Sol degli occhi suoi,
anelando e piangendo
volse i bei lumi al ciel, cosí dicendo:
— Oh Dio, chi mi nasconde
il vago, ond’io sospiro?
Il chiamo, e non risponde;
il cerco, e nol rimiro.
Chi l’abbraccia e l’accoglie?
chi ’l contende a quest’occhi? e chi me ’l toglie?
Oimè, che ’l cor si strugge
infra sospetto e spene!
Lo spirito mi fugge,
fuggito ogni mio bene.
Sparito è il mio trastullo;
perduta ho, lassa! il mio divin fanciullo.
O figlie di Sionne,
ch’errando ite per via,
voi vergini, voi donne,
voi prego in cortesia,
date, datemi aviso
dove tanto splendor fa paradiso.
Narrategli il mio pianto
e la mia morte viva;
ditegli come e quanto,
abbandonata e priva
del suo celeste sguardo,
di dolore e d’amor languisco ed ardo.
Forse non conoscete
il mio sposo, il mio figlio?
se pur qual sia chiedete,
è candido e vermiglio:
non ha bellezza eguale,
lingua, penna o pensier tanto non sale.
Di colomba amorosa
ha le luci divine,
ha le labra di rosa,
ha d’ambra e d’oro il crine;
appo le guance intatte
fôran vil paragon porpora e latte.
Anima sconsolata,
perché non rompi il laccio,
che qui ti tien legata,
e non ne voli in braccio
a lui, veloce e lieve,
ch’aspettar colassú forse ti deve?
Deh! perché parlo a l’alma,
s’ella non è piú meco,
e fuor di questa salma
in lui vive, ei l’ha seco;
anzi, dipoi ch’io ’l crebbi,
altra mai, che lui solo, alma non ebbi!
Ma tu, dolce diletto,
pupilla amata e cara,
tesoro pargoletto
di questa vita amara,
deh! per qual strano caso
da le viscere tue stai sí lontano?
Chi teco, oimè, m’invola
ogni mia gioia e pace?
Lassa! e chi mi consola,
se tu, mio ben verace,
a me non ti riveli?
Dimmi, dimmi, ove sei? perché ti celi?
qual da me ti diparte
secreto e chiuso loco?
Cercherò, per trovarte,
terra e cielo, acqua e foco,
e ne l’inferno andrei,
s’inferno esser potesse ove tu sei.
Torna, deh, torna almeno,
o mio gradito pegno!
Come da questo seno,
giá tuo nido e sostegno,
s’Amor punto ti punge,
dolce sospiro mio, viver puoi lunge?
Ahi! di cui mi lamento,
forsennata ch’ io fui!
ch’io non devea momento
trar mai, lunge da lui.
Oh mal cauto Giuseppe,
che guardar tanto ben meco non seppe!
Tu ’l guarda, o sommo Padre,
tu, difensore eterno;
e voi, celesti squadre,
con pietoso governo,
tra le nemiche frodi
del vostro e mio Signor siate custodi! —
Vergine, a che ti lagni
che ’l tuo ben ti sia tolto?
S’or da lui ti scompagni,
lassa, non andrá molto
ch’andrai mesta e dolente,
sol perché ti sará troppo presente.
E perché piú, com’oggi,
da te non si divida,
fra solitari poggi
e fra turba omicida,
con immobili piante
staratti affisso ed inchiodato avante.
Allora in odio avrai
e la luce e la vista,
quand’offrir ti vedrai
imagine sí trista,
senz’alcun’ombra o velo,
se per pietá non la ti copre il cielo.
Pur langue intanto e manca
a diva Genitrice;
ma ecco, mentre stanca,
tapinella infelice,
a caso al tempio riede,
assiso infra’ rabini il figlio vede.
Sí come quando appare
a legno che vacilla
in tempestoso mare
face destra e tranquilla,
sparve ogni nebbia grave
de la sua stella al lampeggiar soave.
Chi poría dir la festa
de la trovata dramma?
chi di quell’alma e questa
e l’una e l’altra fiamma?
chi l’accoglienze e i baci?
Musa, se nol sai dir, contempla e taci!