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Questo testo fa parte della raccolta Saggi e discorsi (Martinetti)

Sul formalismo della morale kantiana.1


1. Uno dei problemi più oscuri e più discussi della morale kantiana è quello del carattere puramente formale del suo principio. Anche in questa, come in altre parti essenziali della sua dottrina, Kant non fa convergere le sue ricerche profonde in un’esposizione limpida ed unica: le preoccupazioni sistematiche e l’abito suo di rivolgere più e più volte lo stesso problema da punti di vista diversi senza mai venire ad una soluzione definitiva, hanno anche qui lasciato un vasto campo all’arbitrio ed all’abilità degli interpreti.

2. Il punto di partenza della morale è dato a Kant, come è noto, dal riconoscimento del dovere come valore pratico, del fatto che tra le molteplici tendenze pratiche del soggetto umano vi sono delle volontà caratterizzate da un’assoluta universalità e necessità: la quale, sebbene sia specificatamente diversa dalla necessità inerente ai principii dell’intelletto, rivela tuttavia chiaramente, nella sua assoluta indipendenza dall’esperienza, la comune natura e la comune origine dalla ragione. Come la critica della conoscenza parte dal riconoscimento di valori teoretici, ossia di verità universali e necessarie, per quindi esplicarle e giustificarle, ma non dà essa stessa a queste speciali conoscenze il loro caratteristico valore, così la filosofia morale mira ad esplicare teoreticamente e così indirettamente a giustificare il valore pratico del dovere, ma non lo crea e non è necessaria al suo sussistere: la moralità è un valore pratico che s’impone per la sua razionalità fin dall’inizio come un fatto originario. Questo carattere del dovere ne fa un a priori pratico, ossia una legge che s’impone alla volontà razionale in virtù del suo puro carattere razionale; e quindi esclude che esso, formulato nella sua purezza, possa dipendere da condizioni sensibili esterne, poste fuori dell’arbitrio nostro: come potrebbe infatti imporsi a noi come una legge assoluta, come un ordine razionale necessario, un’attività condizionata essenzialmente da circostanze eminentemente accidentali ed irrazionali?

Ciò posto, si comprende come il dovere sia per Kant costituito da una legge puramente formale. Se noi infatti da quel complesso di leggi pratiche che diciamo dovere, togliamo per astrazione, come non concorrenti essenzialmente nella determinazione della volontà morale, gli oggetti materiali del dovere, resta semplicemente una data forma della volontà, un carattere formale comune a tutte le volontà morali e costituente il momento essenziale della moralità. Le tendenze sensibili sono tutte essenzialmente condizionate dalla loro direzione verso un oggetto sensibile; le volontà morali, pure essendo tutte rivolte ad un fine esterno, non ne sono essenzialmente condizionate: più che mirare ad un fine esterno si può dire di esse che in occasione d’un’accidentale finalità esteriore mirano a realizzare in noi un carattere formale della volontà, la forma della moralità (Grundl. 399, 400, 401, 420, 421; pr. V. 27)2.

E quale è questa forma? Noi l’abbiamo veduto: la razionalità, il carattere del valore universale e necessario. Ogni dovere concreto ha naturalmente il suo oggetto materiale; ma il dovere in astratto non ne ha alcuno, non mira a questo o quel contenuto della vita: il fine suo è la forma razionale della vita, qualunque ne sia il contenuto. Noi potremmo quindi così formulare la legge: agisci razionalmente3. O più chiaramente: agisci in modo che la tua volontà (qualunque ne sia l’oggetto) possa avere di fronte alla tua coscienza un valore universale e necessario. O infine secondo le stesse parole di Kant (Grundl. 402): agisci in modo che tu possa anche volere che la tua massima debba diventare una legge universale. Kant ha illustrato questa formola con vari esempi (Grundl. 421 ss., pr. V. 27, 44, 69-70): il suicidio, la menzogna, l’egoismo, ecc., sono immorali appunto perchè, tradotti in una massima, non potrebbero venir eretti in legge universale.


3. Ma perchè non potrebbero? Questo è il punto decisivo. È vero che la stessa coscienza morale comune riconosce con sicurezza in ogni caso quali delle sue massime sono e quali non sono convertibili in legge universale: ma la filosofia della morale ha il dovere di mettere in luce quel secreto criterio al quale obbedisce la volontà morale quando con sicura spontaneità decide del valore morale delle azioni, di chiedere donde venga alla vita ordinata secondo la ragione pratica quel caratteristico valore che la coscienza nostra senz’altro le riconosce. Forse questo risiede nella stessa razionalità; la razionalità pratica (moralità) è giustificata per la riduzione sua alla razionalità teoretica, che non ha bisogno di altra giustificazione. Ma come è possibile questo passaggio? E la pura forma della razionalità basta realmente a caratterizzare l’indirizzo etico della vita? O piuttosto la razionalità pratica non è che l’indice della attività diretta verso un fine superiore che solo per questa via si rivela alla coscienza. Ma quale è allora questo fine? E come si può parlare ancora di legge puramente formale?

Questa è precisamente la difficoltà che venne fin da principio opposta a Kant dai suoi avversarî a cominciare dal recensente della Grundlegung nella Allgem. Deutsche Bibliothek4; ripetuta poi da Schleiermacher, Hegel, Schopenhauer, Beneke, Herbart, Trendelenburg, e recentemente dal Sigwart, dal Renouvier, dal Iodl, dal Windelband e da moltissimi altri5. Non è possibile, si dice, imporre un ordine, una forma razionale alla vita senza prefiggere nello stesso tempo in via essenziale un determinato fine, una materia del volere che, come tale, non è deducibile a priori dalla ragione. Quindi anche il preteso principio formale da Kant enunciato implica un fine materiale. In esso infatti si presuppone l’esistenza di una società di esseri razionali, che è evidentemente un dato dell’esperienza; come potrei infatti sapere dalla ragion pura che vi sono altre individualità oltre alla mia? Di più si presuppone in questi esseri razionali la presenza d’una finalità concreta che dà alle volontà loro un contenuto positivo. È perfettamente naturale infatti che, perchè uno spirito razionale si determini per certe volontà concrete, queste debbano essere di carattere razionale; ma il contenuto loro deve essere dato da qualche aspirazione positiva dello spirito verso l’utile o la perfezione etc., in una parola verso un fine non contenuto nella pura forma della razionalità. Si comprende per esempio che uno spirito razionale non possa volere una promessa menzognera, perchè una tale massima riuscirebbe ad una contraddizione; ma come mai questa semplice considerazione negativa potrebbe muovere all’azione uno spirito perfettamente indifferente, al quale nulla importi che vi siano o non vi siano promesse?6.

A quest’obbiezione fondamentale si aggiunge un altro gruppo di difficoltà, accennate già dal Fouillée, svolte specialmente dal Simmel, che sono direttamente rivolte contro la particolare espressione data da Kant al suo principio. Anche concesso che ogni azione immorale non sia suscettibile di venir eretta in legge universale, vi sono pure delle azioni morali che, universalizzate, perdono il loro senso e il loro valore. Se tutti mentissero, è vero che la menzogna non servirebbe più a nulla e riuscirebbe ad una contraddizione logica; «ma se tutti dessero le loro sostanze ai poveri, a che cosa servirebbe la carità?»7


4. Per risolvere queste difficoltà ci è necessario richiamare in breve sintesi la sottostruttura metafisica della critica kantiana specialmente in rapporto al concetto della forma.8 È un fatto, non stato ancora abbastanza rilevato, che per la sua distinzione dell’elemento materiale e formale Kant riproduce nel seno dell’idealismo subbiettivo l’antico dualismo platonico-aristotelico; con l’essenziale differenza però che il processo costitutivo della realtà per virtù del principio formale si identifica in Kant con l’attività formatrice dello spirito. Tutto ciò che ha realtà e valore è libera creazione della spontaneità dello spirito, la quale si esercita per mezzo della sua attività formale; in ogni momento lo spirito ha di fronte a sè un molteplice dato, una materia oscura, alla quale esso imprime una forma e conferisce un valore, teoretico o pratico, innalzandola ad un superiore grado di realtà. Quest’attività si può distinguere in due gradi, caratterizzati dall’intelletto e dalla ragione; noi potremmo anche denominarli, a potiori, lo spirito teoretico e lo spirito pratico.

Il primo comincia con il molteplice dell’intuizione sensibile e si chiude con la costituzione dell’esperienza, nella quale le intuizioni sono strette in rapporti universali e necessari per mezzo di concetti intellettivi puri e formano un sapere obbiettivo universalmente valido. Quest’attività teoretica dell’intelletto ha la sua corrispondenza in una fase pratica parallela: creando l’esperienza, essa apre all’uomo il dominio della realtà, introduce la possibilità della coltura e dà origine a tutte le arti che hanno per scopo il raffinamento dell’esistenza sensibile. Certo questo mondo dell’esperienza, che è una costruzione nostra, ci appare come un dato e le leggi, che gli abbiamo imposto come leggi delle cose stesse: ma l’analisi critica ne mette in luce il vero carattere e restituisce all’elemento formale tutto il suo valore. Se infatti la subordinazione delle impressioni subbiettive alle forme intellettive ci appare come una condizione necessaria della costituzione d’una realtà obbiettiva, ciò vuol dire che tale subordinazione costituisce un progresso nella realtà, che la realtà vera, alla quale le forme stesse ci rinviano, è una realtà intelligibile e che l’esperienza ne è solo, per gli esseri che hanno il loro punto di partenza nel senso, la più adeguata espressione possibile. L’attività intellettiva costituisce quindi, nel suo complesso, la creazione di un grado superiore della realtà e della vita, segna un compromesso fra l’originaria natura sensibile dell’uomo e quella realtà intelligibile pura che resta come il limite ideale del mondo creato dall’intelletto.

Se l’uomo non fosse che intelletto, egli sarebbe rimasto pago alla realtà dell’esperienza e non avrebbe aspirazioni che la trascendano. Ma in lui all’intelletto s’aggiunge la ragione: che è aspirazione a trascendere il dato, elevazione al disopra del mondo sensibile (Gdl. 452). Questo progresso verso una realtà soprasensibile non avviene però, secondo Kant, per mezzo della conoscenza; questa non giunge nel suo più alto sforzo che a mettere in luce l’insufficienza della realtà data ed a giustificare così negativamente l’esigenza di trascenderla. Il progresso avviene per la vita morale che è anch’essa sintesi formale, subordinazione delle attività sensibili ad una forma intelligibile: la moralità realizza nel campo pratico quell’aspirazione che la ragione teoretica vanamente persegue nelle idee. Certo non può dirsi che per essa l’uomo possa sentirsi nell’intelligibile e far di questo un oggetto della volontà: l’intelligibile agisce soltanto come una condizione limitativa, ordina le nostre tendenze in modo che il loro complesso sia conforme al carattere d’una causa razionale, in altre parole dà una forma razionale all’attività sensibile. Ma mentre nell’attività intellettiva la esperienza non trascende mai la sfera fenomenica ed è sempre ancora, anche nel suo sforzo supremo, un’espressione inadeguata dell’intelligibile, nella vita della ragione la moralità realizza praticamente la forma pura dell’intelligibile, è un contatto pratico con l’intelligibile puro.

Per la ragione pratica l’uomo soddisfa così all’esigenza suprema della sua natura, che è l’elevazione al soprasensibile. Anche questa partecipazione puramente pratica implica senza dubbio un contatto teoretico con l’intelligibile. Una conoscenza vera e propria dell’intelligibile non è possibile all’uomo, perchè le idee pure della ragione sono semplici unità formali alle quali manca l’intuizione corrispondente: ma per l’azione non è necessario che la realtà, nella quale essa si svolge, ci sia data nel vero essere suo: basta che ci sia data nei suoi rapporti con noi per mezzo d’una conoscenza analogica (Proleg. 357-8). Questa conoscenza pratica, analogica, soggettivamente sicura, sebbene oggettivamente incompleta e conscia della sua insufficienza, è da Kant chiamata, in opposizione al sapere dell’esperienza», «fede» (pr. V. 4, 121, 126, 133, 142 ss.); fede che diremo razionale o filosofica per distinguerla dalla fede comune o fede storica; perchè mentre questa non è veramente che l’adesione ad un sapere imperfetto, la fede che accompagna la moralità non si riferisce al campo che è oggetto del sapere e perciò, come non potrebbe per l’accedere di nuove esperienze diventar sapere, così, essendo sottratta all’azione di ogni futura esperienza, è immutabile e ferma tanto quanto il sapere (Was heisst sich im Denken orientiren, ed. Vorl., 156-7).


5. Così ci sta dinanzi nella sua totalità e nella sua unità la vita dello spirito, che è essenzialmente attività formatrice diretta verso l’intelligibile. Ciò che in questo riguardo caratterizza essenzialmente la dottrina kantiana è la teoria del primato della ragion pratica (pr. V. 119 ss.). Il conoscere ed il volerei erano per la metafisica anteriore due attività parallele: la realtà sensibile e la soprasensibile erano in pari misura l’oggetto dell’una e dell’altra. Per Kant invece la conoscenza vera e propria è limitata alla sfera dell’esperienza. L’attività formale del conoscere ha raggiunto il suo fine con la costituzione dell’esperienza: la quale è poi la condizione, la materia della vita morale. Al di là dell’esperienza la ragion teoretica non ha più alcuna applicazione positiva: anche come facoltà delle idee e come critica della ragione, la funzione sua è essenzialmente pratica (pr. V. 54-55). Di più la stessa conoscenza intellettiva è in ultima analisi volontà, azione, perchè ogni interesse in fondo è pratico ed anche l’uso della ragion teoretica ha la sua definitiva ragion d’essere solo in rapporto all’attività pratica (pr. V. 121).

Ma questa dualità della ragione non ne spezza l’intima unità e la continuità dello svolgimento. Come la ragion teoretica costituisce nell’esperienza un sistema che trova nella sua unità e coerenza la conferma della sua obbiettività, così la ragion pratica crea al di là dell’esperienza un regno ideale di fini, la cui unità ed armonia le dà la certezza del suo valore. La ragion teoretica non estende il suo dominio sull’intelligibile che è oggetto soltanto di fede filosofica: ma anche questa fede ha la sua preparazione e la sua giustificazione nella ragion teoretica, che nella critica di sè stessa pone, con il concetto del limite dell’esperienza, l’esigenza d’una realtà che la trascenda (pr. V. 121). D’altra parte la realtà empirica appare bensì, per virtù dell’intelletto, come un semplice meccanismo causale: una considerazione più profonda vede tuttavia in essa una creazione dello spirito ed uno strumento dei fini dello spirito e rende così possibile quella considerazione teologica della natura che mette questa in armonia con i fini supremi della ragion pratica.

Certo in nessuna parte Kant ha sistematicamente esposto una concezione di questo genere. Kant è stato sopratutto uno spirito analitico e più che considerare la realtà nella sua gradazione di valore e nella sua unità, si è arrestato ad ogni ordine di valori ed ha chiesto: dato questo valore, che cosa ne consegue? A quali principî esso ci sforza a risalire? Onde non solo bisogna guardarsi dall’attribuirgli senz’altro una determinata ed esplicita metafisica senza le numerose riserve e limitazioni critiche che caratterizzano essenzialmente la sua dottrina9; ma bisogna anche guardarsi dall’attribuirgli una precisa e particolare concatenazione di concetti e di problemi che non era nell’indole del pensiero. Tuttavia è fuor di dubbio che, almeno come opinione privata, a fondamento di tutto il suo pensiero sta una concezione idealistica della realtà, un idealismo formale, com’egli si esprime (r. V. 338): e che soltanto alla luce di questa metafisica secreta è legittimo sperare di trovar il vero senso delle sue conclusioni critiche.


6. Quest’idealismo formale ci spiega in primo luogo il concetto kantiano della metafisica in generale e dell’etica in particolare come discipline razionali pure. Se infatti la realtà non è una molteplicità omogenea che si distenda in una serie storica di carattere empirico, ma è una progressione di valori, nella quale gli elementi empirici sono, in un grado più alto di realtà, stretti in una sintesi razionale che in sè riassume e potenzia ogni realtà inferiore, è naturale che la filosofia, la quale deve rispecchiare il mondo da questo punto di vista, non sia una storia o, come Kant si esprime, una rapsodia, ma riproduca in sè l’ordine ed il valore della realtà considerata nell’espressione sua più alta e perciò sia un sistema razionale, una costruzione dialettica a priori. Nè nella critica del fatto logico, nè in quella del fatto morale è possibile quindi un procedimento psicologico o storico. Ogni ricorso a dati empirici significa la negazione del carattere puramente razionale dell’ordine logico ed etico: negazione che travisa dal punto di vista teoretico il carattere vero della moralità e della scienza e riesce anche, quanto alla prima, praticamente funesta (Grundl. 389, 406 ss., 425 ss.). Il filosofo deve accogliere in tutto il loro valore il dato logico ed etico come implicanti la totalità della realtà in un ordine nuovo e nella sua più alta espressione e ricercarne i fattori per ricostruirne idealmente il processo nella sua necessità interiore. Questo è il metodo da Kant applicato alla critica della conoscenza; questo è anche il metodo di un’etica pura (Grundl. 387 ss., 409, 410, 411 ss.)10.


7. Di qui si comprende ancora perchè ed in qual senso Kant parte dal riconoscimento del valore etico come fatto. «Si può chiamare la conoscenza di questa legge fondamentale (la legge morale) un fatto della ragione perchè essa non si potrebbe ricavare per ragionamento da dati antecedenti della ragione, ma s’impone a noi per sè stessa come una proposizione sintetica a priori che non è fondata su alcuna intuizione pura od empirica... Solo si deve ben notare che non è un fatto empirico, ma l’unico fatto della ragione pura» (pr. V. 31). «La legge morale, quantunque non ci dia nemmeno essa alcuna conoscenza dei noumeni, ci dà un fatto assolutamente inesplicabile dai dati del mondo sensibile e dalla ragione teoretica, che rivela un mondo puramente intelligibile, che anzi la determina in modo positivo e ce ne fa conoscere qualche cosa, cioè una legge» (pr. V. 43; cfr. ib. 42, 47, 55, 91-92)11. La posizione del fatto logico ed etico è la posizione della realtà originaria dell’apriori: il quale non è posto empiricamente, ma per la ragione, come qualche cosa che non si può negare se non negando la ragione stessa (pr. V. 12). Certo anche Kant non può trovare altrimenti il fatto morale che per l’osservazione della natura umana: ma questo non vuol dire che la morale kantiana si fondi sulla psicologia. Anche le leggi e le forme logiche sono da noi trovate nel dato psicologico: ma ciò non implica che dobbiamo esplicarle e fondarle per via psicologica. Vi è in tutti questi fatti, nella legge morale come nei principî logici, un carattere che trascende i confini della considerazione psicologica, che anzi questa non deve trovare sulla sua via, perchè il valore logico ed il valore etico considerati nella loro specifica unità ci rinviano a qualche cosa che non cade sotto nessuna osservazione empirica. Nè la «deduzione» o giustificazione che la Critica ne intraprende, contrasta con la posizione assoluta dei principî logici ed etici. La scienza e la matematica non hanno per sè bisogno di giustificazione dalla teoria della conoscenza: questa ne conferma, non ne fonda il valore (Proleg. 331). Così la moralità e le sue leggi non attendono di essere fondate dalla filosofia: questa ne riconosce soltanto e ne conferma il valore mettendole in rapporto con la totalità della ragione ed eliminando così possibili conflitti interiori che sarebbero funesti anche alla vita morale (Grundl. 404-5, 456; pr. V. 125-6; Urteilsk, 471 Anm.): di più sappiamo che la rappresentazione pura della legge ha sempre un’alta efficacia educativa (Grundl. 410-11, 412). La legge morale non è pertanto, secondo Kant, una generalizzazione empirica e nemmeno un fatto inesplicabile che la filosofia debba venerare senza cercar di comprenderlo: nella posizione della legge la ragione non fa che riconoscere, sotto l’aspetto pratico, la razionalità e la necessità del suo medesimo essere.


8. Dalla legge morale come dato, Kant procede quindi, coerentemente al suo metodo, per via puramente razionale alla ricostruzione del fatto morale nella sua totalità e nella sua purezza. Questa ricostruzione comprende essenzialmente due parti: nella prima Kant dal concetto di legge razionale perviene a stabilire che legge necessaria di ogni volontà razionale è il principio della determinazione autonoma della volontà; nella seconda, connettendo questo concetto con l’idea trascendentale della libertà, mostra che la stessa ragion teoretica ci rinvia negativamente, per la determinazione del suo limite, a quella realtà razionale pura che la ragion pratica attua positivamente con l’obbedienza alla legge.

Il fatto però che la ragion teoretica è incapace di determinare positivamente questa realtà razionale pura, come non elimina totalmente ogni pretesa della ragione a penetrare in questo mondo ed a darcene, almeno, per mezzo della fede, una rappresentazione simbolica, così non può eliminare dal nostro pensiero il grave problema del rapporto di questa realtà intelligibile con la realtà sensibile sotto l’aspetto metafisico. Come ha inteso Kant questo rapporto? Il mondo intelligibile è realmente solo un punto di vista (Grundl. 458), un correttivo della realtà empirica, un ideale regolativo, che, per quanto concepito nella sua purezza come indipendente da condizioni empiriche, ha pur sempre solo in realtà la sua attuazione ed il suo centro di gravità nella realtà empirica? O rappresenta invece un’altra forma di realtà assolutamente indipendente in sè dalle condizioni della realtà sensibile e che perciò, sebbene non sostanzialmente altra da questa, può a buon diritto rispetto ad essa considerarsi come un mondo trascendente? È ovvio che dalla soluzione di questo problema dipende anche la soluzione delle difficoltà sollevate dal principio morale kantiano. Perchè se lo intelligibile non è niente più che un «punto di vista» il fine ultimo dell’attività umana è pur sempre in concreto — anche se sia pensato come l’approssimazione progressiva ad un compito infinito — una finalità empirica: ed allora non si vede come sia possibile sostenere ancora il carattere puramente formale della legge. Se invece l’intelligibile è una vera realtà metafisica, la formula kantiana può aver bensì il carattere d’una vera legge formale: ma come è conciliabile allora questa interpretazione con la negazione radicale d’ogni conoscenza dell’intelligibile?

Ora è specialmente in questo punto capitale che ci è indispensabile il ricorso al latente substrato metafisico del pensiero kantiano. Il fatto d’aver tacitamente accolto dalla metafisica anteriore, con altri presupposti di minor importanza, il suo fondamento idealistico e d’averne combattuto aspramente nel tempo stesso gli svolgimenti dogmatici ci può benissimo spiegare e l’assenza in Kant d’una trattazione esplicita e la presenza di espressioni che hanno potuto legittimare in apparenza una interpretazione empirica. Ma il pensiero di Kant meno d’ogni altro soffre di essere interpretato, anzichè dal suo insieme, da poche espressioni isolate: questo metodo può servire ad alimentare le discussioni interminabili d’un’ermeneutica sofistica ed arbitraria, non a darci della dottrina kantiana un quadro coerente e storicamente esatto.


9. Il tentativo di spiegare il valore etico della forma razionale dell’agire senza ricorrere ad un’interpretazione metafisica ricorre già nei primi kantiani. Così p. es. nell’Hoffbauer12, il quale considera la forma razionale come costituita essenzialmente dall’unità interiore, dalla non contraddizione. Egli parte dal principio che chi vuole il fine deve volere i mezzi: qualunque sia il fine cui la volontà è diretta, essa deve pure sempre obbedire a questa legge formale di non contraddire sè stessa. Ora io, come essere dotato di volontà, voglio sopra ogni cosa la libera esplicazione della mia volontà: perciò debbo volere che l’attività mia e quella altrui sia un’attività concorde, retta da leggi universali, perchè solo col libero accordo di tutte le volontà io avrò le condizioni più favorevoli all’esplicazione della mia volontà. La legge suprema della volontà non è pertanto che una legge formale, la legge della massima coerenza di tutte le volontà: essa è assolutamente valida e superiore ad ogni volontà particolare, perchè è la condizione dell’esplicazione stessa della volontà genericamente considerata.

Più profondamente elaborata, ma, in ultima analisi, diretta nello stesso senso è anche l’interpretazione del Cohen13. Le idee non ci rinviano, secondo il Cohen, ad un mondo trascendente, ma sono soltanto regole a priori che dirigono l’intelletto nell’estensione indefinita dell’esperienza. La realtà intelligibile non è altro che il mondo stesso delle leggi che reggono il mondo sensibile: o meglio è il limite ideale verso il quale tende il pensiero nella sua aspirazione a risolvere senza residuo la realtà data nelle sue leggi generatrici. Così l’idea della libertà non è che il limite ideale della causalità sensibile: la totalità delle cause e degli effetti non è pensabile dalla ragione che come un sistema di fini: l’autonomia, la libertà è il concetto del fine assoluto, dell’autotelia, che solo può dare un senso al sistema di leggi causali dell’esperienza. Anche sotto l’aspetto pratico l’intelligibile non è quindi niente più che un «punto di vista». Dire che vi è per l’uomo un noumeno è dire che vi è una massima dal punto di vista della quale l’uomo deve considerare le sue azioni come libere e se stesso come fine ultimo. Il fine vero della legge morale è lo svolgimento dell’umanità, rispetto al quale ogni uomo è certamente mezzo, ma sempre anche fine; solo bisogna ricordare che questo svolgimento non è una trasformazione meccanica, ma una approssimazione progressiva ad una realtà ideale che è indipendente da questo processo. Questo termine ideale è l’unità razionale delle volontà umane: onde la perfezione formale della volontà singola sta appunto nella sua universalità, nella sua composizione con le altre volontà: soltanto la composizione ci dà una forma in opposizione alla molteplicità delle unità componenti e con la forma un nuovo valore. Il dovere è l’esigenza di questa forma universale della volontà che confonde le volontà singole nell’unità d’un solo cuore e d’un solo spirito e che s’impone necessariamente come motivo determinante indipendente dai sentimenti e dagli impulsi egoistici: il principio formale a priori non è che l’espressione della necessità di questa comunione degli esseri ragionevoli: nella rappresentazione di quest’ultima consiste in fondo la legge morale.


10. Ora certamente quest’idea, che l’unità interiore di tutte le volontà costituisce il fine morale supremo, è un concetto grandioso e profondo. Ed in apparenza questa esigenza etica è derivata dalla pura forma della volontà razionale. Soltanto la volontà razionale rende possibile all’uomo l’esplicazione delle molteplici attività, per le quali è tanto superiore al bruto: al disopra di tutti i fini singoli e di tutti i beni vi è quindi per lui un fine che è la condizione di tutti gli altri, la legge a priori di ogni attività: e cioè la razionalità della volontà, l’unità interiore della volontà con se stessa, senza la quale non è nemmeno possibile l’accordo d’un mezzo col rispettivo fine: l’ideale più alto è la perfezione della volontà umana in genere, l’armonizzamento di tutte le volontà umane in un regno di fini. Ma in realtà questa deduzione viene ad erigere in fine ultimo quello che è solo il mezzo (la volontà razionale), obliando i veri fini, i fini particolari e sensibili per cui quella ha valore; l’ideale suo è una volontà che vuole la pura forma di se stessa, cioè una volontà che nulla vuole, priva in sè stessa d’ogni contenuto concreto. Ora se l’accordo ideale di tutte le volontà umane ha per noi valore, ciò è perchè presuppone due cose: l’unità formale delle volontà e il contenuto concreto di queste volontà confusamente pensato come armonizzato in un’unica volontà (cfr. pr. V. 120). Tutte queste soluzioni presuppongono quindi tacitamente una finalità materiale che si afferma nell’unità della volontà all’infuori della sua forma universale: ed allora come è possibile ancora sostenere che la legge suprema è una legge formale?


11. Non è meraviglia pertanto che più d’un interprete del pensiero kantiano si sia ridotto a riconoscere esplicitamente la necessità di completare la legge formale per mezzo di fìnalità materiali. Così il Trendelenburg e lo Zeller14, che correggono Kant con Aristotele così il Paulsen15, che oppone alla morale formalistica di Kant una morale teleologica e vorrebbe dal bene obbiettivo riconosciuto dalla ragione — e cioè la conservazione ed il perfezionamento della vita spirituale collettiva — derivare la legge. Così infine anche il Cantoni16, per il quale il fine naturale è costituito dall’unione di tutti gli esseri intelligenti nella produzione e nel godimento dei valori spirituali più alti; principio che, dice il Cantoni, è per sè obbligatorio, perchè nessuno ci chiederà perchè dobbiamo in stretta unione coi nostri simili concorrere al progresso del sapere, dell’arte, ecc.; e che d’altra parte è sempre accessibile alla volontà buona, perchè con la sola disposizione del nostro volere noi lo realizziamo, almeno per quanto sta in noi.

Appena occorre rilevare che questa soluzione è un’esplicita rinunzia al principio kantiano che esclude rigorosamente ogni fondazione empirica della morale. Per quanto degno di considerazione sia l’ideale d’una comunione ideale degli spiriti, esso è pur sempre un bene, un oggetto concreto, che non può costituire una legge per lo spirito e non può muovere la volontà che per il tramite di considerazioni personali e subbiettive: esso non potrà quindi mai dare origine ad una legge a priori. Di più il godimento ed il possesso dei beni spirituali sono condizionati da troppe circostanze materiali perchè possano considerarsi come un bene interiore che è dato immediatamente alla volontà buona nella volontà stessa: non è necessario essere pessimisti per riconoscere quanta distanza interceda, anche nelle circostanze più favorevoli, tra la volontà buona diretta ai più puri beni spirituali e la realizzazione sua. Così non solo è tolto il carattere formale della legge, ma è tolto anche il contenuto più essenziale e più profondo di tutta l’etica kantiana.


12. Il carattere formale della legge è invece perfettamente comprensibile quando si consideri la legge morale, come una forma dalla realtà intelligibile: la quale «trasporta la volontà in una sfera tutt’altra dalla sfera empirica», in una realtà trascendente, la quale si rivela a noi solo nella sua azione formale sulla nostra volontà sensibile (pr. V. 34, 42). Certo questa forma ha per materia, nel mondo sensibile, i fini sensibili dell’uomo: essa non è, sotto questo rispetto, che «la condizione limitativa suprema di tutti i fini obbiettivi» (Grundl. 431, 454; pr. V. 65); la legge morale come forma in sè è altrettanto vuota quanto le forme della conoscenza, quando non trova la sua applicazione nel mondo dell’esperienza (pr. V. 30). Ma il concetto metafisico della forma ci rinvia ad una realtà superiore che esercita quest’azione formale ed è il termine ideale di quest’azione; al disopra di questo mondo sensibile, nel quale la legge morale è forma di volontà sensibili, vi è un mondo intelligibile, nel quale la legge morale è la legge naturale e fondamentale delle volontà razionali; questo è il mondo che Kant chiama il mondo archetipo (pr. V. 43) e che nella Cr. d. r. pura assimila al mondo delle idee platoniche (r. V. 246 ss.). L’attività morale non ha così tanto per risultato di dare una forma razionale alla vita sensibile quanto di farci partecipare ad una realtà superiore, della quale la ragion teoretica deve riconoscere l’esistenza, per quanto non sia poi in grado di determinarla più precisamente (pr. V. 135), ad un mondo soprasensibile, al quale noi diamo, almeno praticamente, una realtà oggettiva, perchè lo consideriamo come oggetto della nostra volontà razionale (pr. V. 44, 50). In questo senso Kant può dire che la moralità è «una metafisica oscuramente pensata» (Met. d. Sitt. 376, cfr. ib. 216). Sulla differenza di grado delle due realtà si fonda appunto il carattere di assoluta obbligatorietà del dovere, «perchè la ragione subordina necessariamente alla natura della cosa in sè ciò che appartiene al semplice fenomeno» (Grundl. 461); poichè è nel mondo intelligibile che l’uomo sente il suo proprio e vero io e poichè come essere sensibile non è che il fenomeno di sè stesso, perciò subordina il suo tendere sensibile, che in fondo respinge da sè come non veramente suo, alla volontà del suo vero io che è la volontà morale (Grundl. 457-8; pr. V. 87).


13. Certo questa realtà superiore non si rivela a noi altrimenti che con la sua attività formale, ossia con la legge morale. Essa dà all’attività nostra la forma intelligibile senza tuttavia far torto al suo meccanismo (pr. V. 43); impone ad una realtà inferiore un principio superiore, verso il quale la prima si orienta senza alcun turbamento dei rapporti interni. Quindi l’intelligibile non è un principio materiale dell’azione, ma sempre soltanto una legge formale; pur essendo in sè il vero fine ultimo dell’ azione morale, non ne è l’oggetto ma è soltanto per noi un «finis in consequentiam veniens» (Die Relig. 4) che si attua in un mondo inaccessibile alla nostra conoscenza. Il concetto di un mondo intelligibile non ha infatti nessun contenuto teoretico concreto, è una pura astrazione formale senza contenuto intuitivo (pr. V. 55-56): sotto l’aspetto della conoscenza non è veramente più d’un punto di vista che limita e riduce al suo giusto valore il concetto della realtà sensibile (Grundl. 462).

D’altro lato però la rappresentazione simbolica dell’intelligibile ci permette di dare in ogni momento un contenuto concreto al principio puramente formale dell’imperativo categorico e di rappresentarci una realtà morale obbiettiva alla quale dobbiamo subordinare, nel rispetto della forma, la nostra volontà. Già nella Fondazione Kant ci ha dato un esempio di questa obbiettivazione simbolica della legge morale nel suo regno dei fini (Grundl. 428-9, 436). In esso Kant non fa altro infatti che concretare in un regno di esseri razionali la razionalità astratta prescritta dalla legge: ma anche questo concetto è già una rappresentazione simbolica dell’intelligibile17; è un oggetto di fede filosofica (Grundl. 462). Più tardi questo semplice concetto ha avuto un più ampio, ma meno felice svolgimento nella dottrina dei postulati della ragione pratica. Genericamente questa realtà morale può venir rappresentata come lo svolgimento d’un sistema di principii razionali culminante in un’unità suprema: ciò che nel mondo archetipo costituisce un atto unico fuori del tempo si distende invece nel mondo ectipo in una progressione indefinita, in uno sforzo incessante verso la perfezione morale (pr. V. 122 ss.). Nulla quindi vieta di assumere lo svolgimento spirituale dell’umanità come il fine materiale della moralità, che dà in ogni momento un contenuto concreto alla pura legge formale: ma bisogna ricordare nello stesso tempo che il fine non è veramente costituito dal contenuto materiale per se stesso, bensì dalla forma, per mezzo della quale in ogni momento la sua totalità esprime in qualche modo la realtà intelligibile pura. Onde a torto si rimprovera a Kant d’aver contaminato la purezza del principio formale col presupporre nella sua formula la rappresentazione d’una società d’esseri razionali: poiché questa non è che una rappresentazione simbolica e non è, in ciò che rappresenta, nulla di empirico. Vero è piuttosto che la formola kantiana implica un elemento simbolico, ma nella sua massima semplicità schematica; Kant segue qui nella rappresentazione dell’ordine morale quella stessa norma che nei Prolegomeni prescrive alla rappresentazione simbolica di Dio (Proleg. 355 ss.).


14. Questo concetto del fine trascendente della legge e della sua rappresentazione simbolica ci permette ora di intendere meglio anche l’applicazione della formula della legge come criterio degli atti umani. Ciò che caratterizza per noi formalmente l’intelligibile è la sua razionalità (Proleg. 358, Grundl. 457); tutte le volontà morali debbono quindi potersi conciliare in un sistema universale di fini nel quale noi, per l’ignoranza profonda nella quale ci troviamo riguardo all ’ intelligibile in se stesso, non sappiamo rilevare altro che il carattere formale della razionalità (Grundl. 435). Per giudicare quindi se un’azione è o non è morale, io debbo considerarla nel suo rapporto non con l’ordine morale in sé, che è impossibile, ma con l’ordine morale come appare, come imperfettamente è adombrato dall’ordine morale sensibile. Al quale fine non basta che io consideri isolatamente la relativa massima e mi chieda se essa potrebbe essere voluta universalmente da me e da tutti gli spiriti razionali: la formula kantiana intesa letteralmente in questo senso è certo insufficiente a fondare anche il dovere più semplice. Chiedermi se io posso volere che una data massima valga come legge universale degli spiriti razionali, vuol dire trasportarmi dal punto di vista della collettività, chiedermi se la mia azione possa conciliarsi in un tutto razionale con il complesso dei fini degli spiriti razionali, se possa venir compresa in un unico ed identico volere come in una legge universale (Grundl. 441, pr. V. 28). La decisione circa la possibilità di quest’accordo è un atto del giudizio: quindi esige una specie di tatto morale, un dono di natura, che può venir esercitato, ma non appreso (r. V. 131 ss., Grundl. 389, pr. V. 67 ss.). Lo stesso avviene del resto anche del sistema delle conoscenze. Il valore della verità nasce, per noi, dall’organizzazione delle conoscenze: una conoscenza isolatamente considerata non è nè vera nè falsa. Ma sebbene nessuna delle conoscenze concrete abbia un valore assoluto, tuttavia il sistema loro costituisce un ordine formale nel quale vengono ad inserirsi le conoscenze successive e che ci dà un sicuro criterio della loro verità: una conoscenza acquista un valore universale ed obbiettivo dal suo accordo col sistema collettivo del sapere. Così il complesso dei fini morali concreti, pur non costituendo che un’immagine dell’ordine morale intelligibile e non implicando nessun fine morale assoluto, esprime tuttavia ed attua nel miglior modo la necessità formale dell’ordine intelligibile: quindi diventa il sicuro criterio della razionalità e della moralità di ogni atto intorno al quale possa sorgere dubbio. Il giudizio avviene così secondo un puro criterio formale perchè non dipende da nessuno degli oggetti o delle finalità esteriori della volontà; e tuttavia il criterio formale è tolto appunto, come nella conoscenza, dal confronto con quel complesso di oggetti e di finalità esteriori che è per noi la sola rivelazione possibile dell’ordine formale intelligibile.


15. Ciò posto si spiega il concetto svolto da Kant nella Tipica del giudizio pratico. Se noi potessimo direttamente confrontare la nostra volontà con l’ordine intelligibile, il giudizio avverrebbe senza difficoltà. Ma noi non possiamo confrontare la nostra volontà che con un ordine sensibile, nel quale tutto è retto da leggi necessarie e che quindi sembra non potere mai rappresentare in concreto la legge morale che è legge di libertà. Il concetto di «legge naturale», che da un lato si realizza in concreto negli oggetti sensibili, per l’altro è l’elemento di razionalità pura che l’intelletto introduce nel molteplice sensibile, è qui assunto da Kant a servire come schema, come tipo della razionalità intelligibile. Noi riteniamo una massima come con forme alla realtà intelligibile quando essa può rivestire la forma d'una legge naturale. — Ora l’ordine formale della realtà sensibile risulta da due ordini di leggi, leggi logiche e teleologiche: questa dottrina leibniziana è uno dei presupposti taciti e costanti del pensiero kantiano 18. A questa duplice esigenza debbono perciò rispondere le volontà morali: esse debbono poter venire erette in leggi senza contraddizione logica e senza che la volontà universale, della quale entrano a far parte, sia in disaccordo con se stessa. La prima esigenza dà origine ai doveri stretti, la seconda ai doveri meritorii ( Grundl. 402-3, 424). Di qui le due risposte che Kant dà negli esempi da lui addotti (Grundl. 321 ss.). Nel caso dei primi mostra che io non posso volere che la massima, p. es., di mentire valga come legge, perchè il mentire eretto in legge, negherebbe logicamente l’atto della manifestazione del pensiero per mezzo della parola (e quindi il mentire stesso). Nel caso dei secondi mostra che la volontà verrebbe in fondo a contraddire ai suoi fini più essenziali: contraddizione che viene alla luce anche sotto la forma della contraddizione dell’egoismo con se stesso. La considerazione delle conseguenze, tanto rimproverata a Kant come un’inesplicabile ricorso all’egoismo, non è se non la verificazione esteriore della impossibilità della universalizzazione della massima; perchè quando un’azione contraddice alla tendenza generica alla felicità che, come sappiamo, la legge morale ha per compito di regolare, non d’abolire (pr. V. 73, 78-79, 93; Relig. 50 ss.), a maggior ragione può credersi che sarà in contraddizione con quelle volontà provvidenziali dal punto di vista del tutto, che sono le leggi teleologiche. Questa verificazione esteriore è perfettamente legittima se si ricorda che l’ordine delle attività sensibili che si possono conciliare in una volontà universale non è per sè l’ordine morale, ma il tipo, l’immagine simbolica dell’ordine intelligibile, destinata a servire di criterio pratico. Onde anche già «la felicità e le conseguenze utili in numero infinito d’una volontà determinata dall’amor di sè, se questa volontà si ponesse nel medesimo tempo come legge universale della natura, sarebbero senza dubbio adattissime a servir di tipo del bene morale senza tuttavia confondersi con questo» (pr. V. 70). In questo senso deve intendersi il quarto esempio della Fondazione (Grundl. 423), nel quale Kant sembra fondare il dovere del soccorso vicendevole sulla considerazione che l’egoista indifferente non potrebbe contare sull’aiuto degli altri19. La massima dell’amor di sè non è condannata in principio dalla legge morale, ma deve essere universalizzata in modo da comprendervi la felicità degli altri (pr. V. 34): allora esso ha un oggetto unico ed universale, e può costituire un tutto armonico, mentre, limitato al proprio io, ha un oggetto suo esclusivo, opposto alle analoghe volontà degli altri e non può costituire un ordine universale; ciò che già si rivela nel fatto che esso cade subito (e questo dice Kant nell’esempio) in una pratica contraddizione anche con se stesso.

16. Quando il criterio dell’universalità non è più dato da una grossolana universalizzazione della massima, ma dalla armonizzazione di questa in una volontà di valore universale, si dissipano anche le difficoltà opposte in riguardo al carattere eminentemente individuale di ogni fatto morale20. Ogni azione è sempre condizionata da un complesso di circostanze di fatto, nessuna delle quali può dirsi assolutamente indifferente: ogni situazione morale è sempre un caso unico e può essere apprezzata pienamente solo se considerata nella sua concreta individualità. Ora come si può generalizzare un fatto simile? Questa impossibilità era prevedibile del resto a priori, perchè in ogni precetto morale ciò che ha veramente valore assoluto è l’elemento formale puro: le particolarità che individuano la legge sono circostanze empiriche costituenti la materia sensibile dell’ordine morale: le quali non possono quindi venir erette, nella legge, in condizioni assolute. Per questo nessun precetto è così assoluto che non possa entrare in collisione con altri precetti e subire delle eccezioni. Le massime generali «non rubare», «non uccidere», ecc. sono generalizzazioni approssimative che valgono per il maggior numero dei casi concreti, ma possono soffrire eccezioni in date circostanze. È condannabile, per esempio, il rubare il superfluo ai ricchi, come si narra di S. Crispino, per dare il necessario ai poveri? Uccidere è illecito: ma uccidere per legittima difesa è lecito: e tuttavia anche questa massima può in particolarissimi casi essere condannabile. In certi casi anzi una generalizzazione grossolana distruggerebbe il senso e il valore morale dell’atto: come, per esempio, nel caso della ribellione individuale, per motivi morali, alla legge positiva. Altro è quindi generalizzare una massima, altro universalizzarla, cioè considerarla sub specie aeternitatis, nel suo valore per la realtà universale, nel suo rapporto con l’ordine formale assoluto. Anche l’atto più individuale ed unico può avere, senza essere generalizzabile, un valore universale, può essere una legge della realtà. La generalizzazione non è che un aiuto al giudizio: generalizzare una massima vuol dire sottrarla, per astrazione, all’influenza delle tendenze e dei preconcetti personali, considerarla sotto un aspetto, dal quale è più facile un giudizio di valore obbiettivo. Questo vuol dire anche, nella maggior parte dei casi, spogliarla delle circostanze subbiettive che la individuano, ridurla in una forma generale che comprende, approssimativamente, tutti i casi concreti: ma non è in questo che risiede la vera e propria universalizzazione che sola decide, secondo Kant, del valore morale d’una massima21.


17. Poichè l’intelligibile puro non è dato a noi se non come forma del sensibile, esso non può costituire un ordine morale concreto, una vita morale se non subsumendo sotto di sè, come materia, l’elemento sensibile: l’ordine che ne risulta nel sensibile ci dà la rappresentazione simbolica dell’archetipo intelligibile. È quindi perfettamente logico che dal principio formale della moralità non si possa ricavare il sistema concreto dei doveri. Ciascuno di questi deve potersi giustificare per la sua subordinazione all’imperativo formale astratto: e ciascuno d’essi deve essere voluto non per il fine concreto che lo particolarizza, ma perchè concorre a costituire quel regno dei fini che è la più alta espressione della perfezione intelligibile. Ma non è necessario per questo che ciascuno possa venir derivato quanto alla materia e quanto alla forma dal principio formale: così «le leggi particolari (della natura) concernenti fenomeni empiricamente determinati non possono venir derivate integralmente dalle categorie, benchè nel loro insieme siano subordinate ad esse» (r. V. 127). Non è stata mai del resto opinione di Kant, nonostante qualche sua espressione poco felice, che si debba derivare i doveri concreti dall’imperativo categorico. Egli riconosce che la morale applicata ha bisogno di principi empirici e psicologici (r. V. 77, pr. V. 8); e se anche da principio ha considerato questa parte della morale come appartenente più propriamente all’antropologia (Grundl. 388), il suo contenuto è passato più tardi nella metafisica dei costumi. «Noi dovremo spesso prendere per oggetto la natura particolare dell’uomo, che è nota solo per esperienza, per mostrare in essa le conseguenze che si possono trarre dai principi morali generali: senza che perciò si detragga alla purezza di questi ultimi o se ne metta in dubbio l’origine aprioristica» (Met. d. Sitt. 216). Il fatto che la materia sensibile della legge morale è tolta, com’è inevitabile, dall’esperienza, non detrae perciò punto alla purezza del dovere. Ciò che in ogni singolo caso è veramente dovere non appartiene all’elemento empirico; ogni dovere particolare non fa che esprimere in condizioni empiriche diverse un’unica legge che è una forma intelligibile assoluta, indipendente in se stessa da qualunque condizione empirica22.


18. È innegabile che questa interpretazione avvicina singolarmente il principio kantiano al principio della morale wolfiana, del quale già Kant aveva riconosciuto il carattere formale23. Wolff aveva riposto il principio morale nella perfezione: e la perfezione umana consiste nell’accordo di tutte le azioni libere con sè e con l’ordine universale (Phil. pract. univ., II, § 9): la perfezione è in genere la armonia nell’unità (Ontol. § 503). Quindi la vita umana è perfetta quando vi è un tale accordo nelle azioni «ut nihil in iis deprehendatur quod contradicat aliis: quo ipso nascitur per totam vitam actionum systema in quo actiones omnes ita inter se sunt connexae ut unius ex aliis ratio reddi possit: quemadmodum veritates in systemate a se invicem de pendent» (Phil. pract. I, § 114)24. Con quest’armonia l’uomo rispecchia in sè ed in certo modo imita l’unità che dalla sapienza e dalla bontà divina procede nella natura delle cose: «homo igitur imitatur Naturam dum operam dat ut actiones ipsius omnes tum inter se tum cum fine ultimo connectantur. Et ita nascitur pulcherrima analogia inter vitam hominis moralem quam ex voluntate Dei vivere debet et quasi vitam Naturae eidem voluntati conformem» (ib. II § 74). Siccome la perfezione propria non può esser raggiunta che per via della cooperazione collettiva, così l’uomo deve tendere alla perfezione di sè e degli altri (ib. I § 221). Con la perfezione poi è connessa necessariamente la felicità: «cum perfectione sui felicitas necessario cohaeret» (ib. II § 50). Onde l’importanza che Wolff concede nella morale al sentimento; il quale, se spesso impedisce la visione chiara dell’armonia totale della vita, «in dominio perfecto» concorre con la ragione alla sua maggior perfezione (ib. II § 572).

Rimane però sempre la differenza capitale che la perfezione wolfìana è qualche cosa di empirico, perchè anche la realtà soprasensibile è da lui posta come una realtà data obbiettivamente al pensiero e perciò pensata, secondo Kant, con elementi empirici: l’unità formale è quindi più apparente che reale e la perfezione si riduce in realtà a quell’aggregato di beni esteriori ed interiori che si comprende comunemente col nome generico di felicità (pr. V. 41). Di qui la rapida degenerazione, nei suoi seguaci, del suo principio in un superficiale eudemonismo25; e quella mescolanza di principî razionali e di principî sensibili, che Kant critica così acerbamente nella sua Fondazione (Grundl. 388, 390, 410, 426, pr. V. 24). Kant invece distingue recisamente il mondo sensibile e l’intelligibile come due diversi gradi di realtà e considera l’unità formale della legge come una forma procedente da quel mondo intelligibile, «intorno al quale tuttavia non sappiamo nulla di più» (Grundl. 451, 457). Onde la sua separazione recisa del sentimento dalla ragione, della felicità dalla moralità e la possibilità d’un imperativo categorico non condizionato da alcun elemento empirico.


19. Con quest’origine trascendente della legge morale è strettamente connesso il suo carattere formale: la distinzione di materia e di forma è inseparabile dalla distinzione di gradi nella realtà. La partecipazione d’una forma non è che la partecipazione iniziale d’una realtà più alta: la realtà inferiore si dispiega come apparenza intorno ad un io più profondo, che a quella si oppone come il dover essere al semplice essere. Ed è appunto sotto questo aspetto che il principio formale, tanto nella conoscenza quanto nell’azione, può imporsi a priori alla coscienza come una necessità alla quale essa non può senza cotraddizione ribellarsi.

L’introdurre unità ed armonia nel nostro sapere per mezzo dei principî formali dell’intelletto è un’esigenza che esprime la natura più profonda dello stesso spirito conoscente: quindi essa è già effettivamente implicata anche dalla più elementare attività dello spirito in quanto conosce, dubita o nega. Così ogni volontà, che deliberatamente accetti o respinga una data linea di condotta, stabilisce una subordinazione di valori, costituisce la affermazione d’una natura razionale: come potrebbe quindi essa chiedersi ancora se debba o non riconoscere il principio formale della moralità dal momento che, questo negato, è implicitamente negata ogni subordinazione di valori, ogni dovere o non dovere? Nell’atto stesso che la volontà razionale si afferma, la sua stessa natura la costringe a cercare la perfezione sua nella sua razionalità interiore, nella sua unità: nè essa può sottrarvisi senza negare la natura sua e così queiratto stesso di deliberata volontà per il quale essa reputa razionale appunto il sottrarsi. La forma rappresenta inizialmente una realtà che trascende quella realtà che serva ad essa di materia, onde raccoglie in una forma superiore di realtà tutte le possibili manifestazioni della realtà inferiore, è la totalità assoluta di questa realtà. Si comprende perciò come la negazione della forma introduca una contraddizione della realtà con sè stessa: e come l’esigenza formale, sebbene apparentemente in sè astratta e vuota, rappresenti il fine ultimo di ogni attività e la condizione indeclinabile del suo valore. Qui la forma si identifica con l’attività più alta dello spirito, anzi non è sostanzialmente altro che lo spirito, la ragione: quindi è presente in ogni atto dello spirito razionale, il quale non può rinnegarla senza rinnegare simultaneamente sè stesso.


20. Se il valore assoluto, al quale in definitiva si riferiscono come al loro criterio supremo tutti i valori subordinati, può essere soltanto un’attività formale dello spirito, vale a dire ciò che lo spirito vive e costruisce in quanto è, nel seno d’una vita inferiore, la attività preformatrice d’un’esistenza superiore, che tuttavia non può mai determinare la prima altrimenti che come un ordine formale ad essa imposto, è naturale che esso non possa mai costituire una cosa, un dato, una realtà separabile dall’attività del soggetto razionale. Quando questo bene obbiettivo è posto in alcunchè di sensibile, si ricade apertamente nella concezione che fa servire la ragione solo di strumento alla vita inferiore alla ragione: ma anche quando si fa consistere questo bene in alcunchè di conforme alla ragione (p. es. la volontà divina), si pone come dato e conoscibile un ordine che in sè stesso è a noi inaccessibile; onde non è meraviglia che, come avviene nella conoscenza, quando questa si arroga di determinare l’intelligibile, esso si degradi realmente in un dato sensibile o almeno si ponga di fronte a noi nello stesso rapporto in cui sta ciò che ci è realmente «dato» (l’ordine sensibile), diventi un bene sensibile, egoistico, empiricamente determinabile e perciò relativo. Un preteso ordine razionale dato è infatti per ciò stesso che è «dato» un ordine superato, qualche cosa che si contrappone alla volontà razionale come un limite cieco ed irrazionale: la razionalità è inseparabile dalla vita della ragione. Di fronte ad esso la nostra ragione si ostina ancora sempre alla ricerca d’un perchè, e se un perchè si trova, si è posto al di là della legge suprema una ragione di volerla, una ulteriore legge suprema (Grundl. 432): in ogni caso l’imperativo morale si converte nella necessità d’agire per un certo interesse e sono tolte così con la autonomia della ragione la moralità e la libertà (Grundl. 432-3, 441, 444; pr. V. 23 ss., 64, 109 e spec. 146 ss.). «Quando un oggetto od il nostro rapporto con esso costituisce il fondamento ultimo dell’atto volontario, questo non appartiene più a sè stesso. A questo riguardo stanno sulla stessa linea Dio e la bellezza dei corpi terreni, la scienza e lo champagne: sono tutti valori esterni all’anima appartenenti ad un ordine reale od ideale nel quale stanno per sè, non per volontà nostra, e che perciò tolgono a questa, appena la muovono, la libertà»26. L’azione morale diventa allora uno strumento del fine a cui è diretta; allora non abbiamo più una formula d’obbligazione morale, bensì di abilità problematica (Untersuch. 299, Grundl. 441).


21. Il concetto d’un’azione formale dell’intelligibile è quindi ben diverso da quello dell’azione che potrebbe esercitare sulla volontà razionale la conoscenza dell’intelligibile nella sua essenza e nelle sue leggi: conoscenza che sarebbe incompatibile con la moralità (pr. V. 146-8). A buon diritto ogni morale non formale è da Kant accomunata nella condanna con la morale empirica: l’argomento di Kant contro la morale materiale, se non è irreprensibile nella forma, è nella sostanza inconfutabile. Morale materiale è, nel concetto di Kant, ogni morale che fa precedere al concetto di legge quello di oggetto, di «bene». «Dire che una morale materiale è possibile è dire che si può scoprire il fine al quale tende per l’essenza sua la natura umana e la via che permetterebbe di giungere o che almeno ci avvicinerebbe ad esso: è dire quindi che si può col ragionare determinare la natura del bene e concludere il dovere». Ora una morale materiale non è possibile, secondo Kant, per ciò che la legge morale deve essere universale e necessaria, mentre la volontà nostra non può essere legata ad un oggetto che per via della sensibilità, per il piacere ed il dolore, i quali sono fatti accidentali e subbiettivi, noti solo a posteriori e perciò incapaci di dare origine ad una legge universale e necessaria (pr. V. 21 ss., 33, 58, 63 ss.). A ciò si è giustamente osservato che anche nell’attività sensibile noi non tendiamo mai realmente al piacere: l’attività mira essenzialmente alla soddisfazione di bisogni, di tendenze ed il piacere non è il fine, ma il concomitante dell’attività che raggiunge il suo fine27. Ma in fondo questo non colpisce il punto essenziale dell’argomentazione kantiana: con la quale Kant ha voluto in sostanza dire che, dato come fine supremo un oggetto distinto dalla mia volontà razionale, il rapporto tra questo fine e la mia volontà non può mai essere una necessità razionale; è sempre una tendenza, un interesse, una soggezione arbitraria, in quanto, anche se apparentemente diretta verso un fine soprasensibile, non è infine giustificabile che per mezzo di un’inclinazione e quindi costituisce sempre un interesse patologico. In altre parole da ciò che è non si potrà dedurre mai ciò che deve essere; la nostra volontà razionale non può avere un oggetto ad essa esteriore, perchè l’oggetto suo vero trascende la conoscenza e perciò ogni volta che le si pone un oggetto, le si propone in realtà un oggetto della volontà sensibile e si trasforma l’imperativo incondizionato del dovere in un consiglio di saggezza pratica.


22. Il carattere trascendente del fine dell’attività morale ci spiega per ultimo l’indifferenza della volontà morale in rapporto ai risultati materiali delle nostre azioni (Grundl. 394). Se la forma inizia una realtà superiore, un ordine intelligibile che si realizza già nella stessa nostra volontà morale, che cosa importa ancora il lato esteriore delle nostre azioni, la nostra vita sensibile? Certamente, data la natura dell’essere nostro, la possibilità della vita morale presuppone la presenza di tendenze sensibili; anche Kant riconosce che le condizioni empiriche possono aver valore per la preparazione della vita morale (pr. V. 152). Di più conviene ricordare che la perfezione morale non è la conquista d’un momento: essa non è un atto unico, ma la creazione progressiva d’un mondo, la quale si dispiega dinanzi a noi come un compito infinito (pr. V. 32-33, 122 ss.). Ma la possibilità della partecipazione alla vita morale è già data con la ragione; quando la legge si è rivelata alla coscienza, il suo adempimento non dipende più da alcuna circostanza esteriore. Perciò la volontà morale realizza il suo fine appena posta: essa ci introduce in un mondo di interiorità pura, rispetto al quale tutte le grandezze materiali si risolvono in un’apparenza indifferente. Soltanto per questo la legge morale può essere veramente universale: perchè seguirla è sempre in potere di ciascuno e da questo punto di vista volere è veramente potere (pr. V. 62-63).

23. La filosofìa di Kant acquista così, come rettamente è stato avvertito28, un carattere metafisico religioso e si accosta al platonismo. L’uomo appartiene a due mondi, al sensibile ed all’intelligibile: la vita sensibile non è che la parvenza della vita intelligibile, che è la vita vera e più alta, ma nella condizione umana, inaccessibile alla conoscenza: appartenere a questa vita soprasensibile già nel seno dell’esistenza sensibile, far convergere verso di essa le tendenze sensibili — ecco la vera moralità. Certo noi non possiamo apprendere nulla di più intorno all’intelligibile; perciò appunto non possiamo dare un contenuto materiale alla legge ed all’ordine morale. Ma la ragione non solo ci conduce, almeno negativamente, nella conoscenza alla posizione dell’intelligibile; ma ci permette anche di rappresentarci in qualche modo l’intelligibile nel sensibile, di dare alla forma intelligibile una materia sensibile in modo da raffigurare simbolicamente lo stesso ordine intelligibile. Accanto alla conoscenza vera e propria essa suscita in noi la fede filosofica che è la facoltà di presentire e raffigurare con piena coscienza negli ordini medesimi della conoscenza empirica, senza turbarli, l’ordine superiore della realtà morale. Il merito essenziale di Kant è appunto in questo: nell’avere posto il centro di gravità della morale nel trascendente senza aver bisogno per questo di affidarsi a dubbie e pericolose speculazioni trascendenti. Egli ci preserva così tanto dall’empirismo, che non vede come la realtà data, lungi dal costituire l’essere unico e definitivo, non abbia altro compito che di rinviarci, per mezzo dei suoi elementi formali, ad una realtà più profonda; quanto dal soprannaturalismo volgare, che trasferisce in questa realtà superiore elementi e condizioni che fuori dell’ordine sensibile non hanno più alcun senso (pr. V. 70-71). Ma un tal punto di vista è inseparabile dal concetto del carattere puramente formale della legge: concetto che perciò non solo non conduce, come generalmente si asserisce e si crede, a contraddizioni e difficoltà insolubili, ma anzi conserva ancora oggi di fronte alla speculazione odierna tutto il suo valore.

  1. Estratto dalla Miscellanea di studi pubblicata per il cinquantenario della R. Accademia scientifico-letteraria di Milano.
  2. Le citazioni si riferiscono sempre, per le op. già pubblicate, all’ed. dell’Accademia di Berlino
  3. Così C. E. Schmid, Versuch einer Moralphilos.2, 1792, 183.
  4. Bd. 66, 2; riprod. nell’Hausius (Materialien zur Gesch. d. crit. Philos., 1793), 222 ss.; cfr. Tittel, Ueber Kants Moralreform, 1786; Zwanzinger, Comm. üb. Kants Kritik d. pr. V., 1794, 40 ss.; Garve, Ueber d. vornehmsten Prinz. d. Sittenlehre, 1798, 385 ss.
  5. Si veda per un’esposizione minuta Hägerström, Kants Ethik, 1902, 314 ss.; Messer, Kants Ethik, 1904, 173 ss.; Delbos, La philos. pract. de Kant, 1905, 357 ss.
  6. Hausius, o. c., 222 n.; Zeller, Vortr. u. Abhandl. III, 1884, 172; Cantoni, E. Kant, 1884, II, 222: Hartmann, Das sittl. Bewussts.2, 1886 278 ss.; Chiappelli, Sul carattere formale del principio etico, 1884, 16 Croce, Filos. d. pratica, 302 ss., Masci, Etica, 210 ss.
  7. Fouillée, Crit. d. syst. d. mor., 1883, 221.
  8. Sul dualismo kantiano della materia e della forma si veda Bollinger, Antikant, 1882, 259 ss.; Vaihinger, Komm., 1893, II, 61 ss.; Vorlander, Der Formalismus d. Kant. Ethik, 1893, 6 ss.
  9. Se il pensiero di Kant abbia un fondamento metafisico è stato discusso fin dal suo tempo (Schad, Ob Kants Philos. Metaphysik sei, nel Philos. Journal, X. 66-79, 261-366) e si discute ancor oggi (Vaihinger, Kant ein Metaphysiker? nelle Sigwart-Abhandl. 1900, 133 ss.; Paulsen, Kants Verhältn. zur Metaphysik, nei Kantsstudien IV, 413-447).
  10. Cfr. Mueller-Braunschweig, Die Methode einer Ethik, 1908.
  11. Si veda in questo punto Hegler, Die Psychol. in Kants Ethik, 1891, 89 ss.; Hägeström, o. c., 238 ss.
  12. Hoffbauer, Untersuch. üb. die wichtigsten Gegenst. d. Moralphilos., I, 1799. 47 ss., 86 ss.
  13. Cohen, Kant Begründ. d. Ethik2, 1910, v. specialmente 213 ss.
  14. Trendelenburg, Hist. Beiträge, III, 188 ss.; Zeller, Vortr. u. Abhandl. III, 182.
  15. Paulsen, Kant4, 1904, 344 ss.
  16. Cantoni, E. Kant, II, 230_ss.
  17. Hicks, Die Begr. Phænom. u. Noumenon, 1897, 235 ss.
  18. Per la finalità si v. p. es. Grundl. 395-6 e la nota del DELBOS, o. c., 90.
  19. Che ogni considerazione egoistica debba esser tenuta lontana è detto esplicitamente in Grundl. 403, 419, 434, 441; pr. V. 27-28.
  20. Simmel, Einl. in die Moralwiss. II, 32 ss., Kant 104 ss.
  21. Sull’individualizzazione della legge morale si cfr. K. Sternberg, Beitr. z. Interpr. d. krit. Ethik, 1912, 23-25.
  22. Hoffbauer. o. c., 340 ss.
  23. Untersuch. üb. die Deutl. d. Grunds. d. nat. Theol. u. d. Moral., 299. L’analogia è stata, del resto, spesso rilevata, come p. es. dall’Hoffbrauer, o. c. 84 ss., dallo Snell, Menon (1789) 229 ss. Onde i numerosi tentativi di conciliazione fatti in sul primo apparire della morale kantiana; v. p. es. Schelle, üb. den Grund d. Sittlichkeit, 1791 (nel vol. III dell’Hausius).
  24. Obbiezioni analoghe a quelle mosse contro il principio kantiano erano già state opposte anche al Wolff; v. ib. II, § 1.
  25. Vedi p. es. Feder, Lehrb. d. prakt. Philos., 1781; I. C. Hennings, Sittenlehre d. Vernunft, 1782; A. Schelle, Prakt. Philosophie, 1785.
  26. Simmel, Kant, 82.
  27. Cresson, La morale de Kant, 141, ss.
  28. Paulsen, o. p., 328; Vidari, Il moralismo di Kant, Riv. Filos. 1906, 501.»

Note

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