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I PRIGIONIERI
Nella Cocincina, un dinh non è altro che un tempio destinato al culto delle deità marittime, o a quella di Buddha o a quello di Fat o meglio Fo. Ogni villaggio, per piccolo che sia, ha il suo dinh, e nelle foreste succede spesso incontrare le loro rovine sul luogo ove un tempo sorgeva una borgata, e questi templi, non di rado, sono bellissimi, con torri, campanili, monumenti e dorature.
Il tempio al quale dirigevasi lo spagnolo per trovare un rifugio e contro la tempesta e contro gl'inseguitori, benché in gran parte diroccato, aveva ancora torri dai tetti arcuati a mo' dei ta-tzeu[1] cinesi ed era grandioso, con muraglie di marmo, tramezzate e colonnati di legno scolpiti a giorno, bassi rilievi e fregi dorati, che al balenar dei lampi rifulgevano qua e là.
Josè, anelante per la lunga corsa, sostenendo la bella Tay-See, macerato dall'acqua e pieno di contusioni per le cadute, dopo di aver attraversato una moltitudine di rovine che dovevano essere di un antico villaggio, giunse all'entrata del tempio, la cui porta, mezza sfondata, permetteva d'inoltrarsi.
Si arrestò un momento per tendere gli orecchi se udisse le grida di coloro che lo inseguivano, lanciò uno sguardo sotto le foreste circostanti per assicurarsi che nessuno lo spiava, ed entrò.
Faceva un oscuro da non vedere a due passi di distanza, essendo che i lampi eran divenuti assai più radi. Nulla meno, tendendo una mano innanzi per non urtare contro le colonne che sostenevano la vòlta, inoltrassi in una specie di corridoio, dove il vento entrandovi muggiva, scuotendo le mal ferme tramezzate, con sibili lugubri.
— Josè! Mio buon Josè! — esclamò la giovanetta stringendosi al suo petto spaventata. — Ove mi conduci, mio buon Josè?
— È un tempio, Tay-See, un tempio capitato per offrirci un rifugio — disse lo spagnolo che andava urtando fra le colonne. — Qua, fra queste rovine, io sfido Tay-Shung e tutti i maledetti che l'accompagnano. Nessuno violerà le mine di Buddha.
— Oh mio buon Josè!... Il dio irritato ci maledirà! Senti la sua voce.
— Non è che il vento, Tay-See, e il tuono che si propaga nel fondo del corridoio. Non aver paura che Buddha stesso, se questa notte apparisse, assassinerei pur lui!...
Il vento fischiava sempre con maggior violenza nel corridoio e dall'estremità, dove lo spagnolo muoveva, ne venivano mille fragori, mille urli, mille gemiti, da credere che una legione di demoni si divertissero a sbizzarrirsi nel tempio.
Tay-See, superstiziosa come tutti i suoi compatrioti che credono alla apparizione degli spiriti e degli dei, tremava tutta a quei fragori che per lei avevano del soprannaturale e pregava lo spagnolo d'arrestarsi, ma questi, che non temeva che la catana del maledetto Tay-Shung, continuò la traballante e incerta marcia, fino a che s'accorse d'essere giunto nel fondo del corridoio e di essere entrato nel tempio.
S'arrestò un momento, porgendo ascolto agli scoppi della folgore che l'eco ripeteva infinitamente su tutti i toni, quasi da credere che le muraglie crollassero, e al crepitar delle vòlte diroccate, per le quali cacciavasi il vento scuotendo furiosamente le campanelle delle torri, poi, con una pistola nella dritta, cingendo Tay-See colla sinistra, tirò avanti.
Il rimbombante tocco di una gran campana, suonato lì nel tempio, lo fece indietreggiar fino alla parete mentre la giovanetta gettava un grido di spavento esclamando:
— Josè, è il dio!...
Lo spagnolo sentì la fronte coprirsi di un freddo sudore, quando fissando gli occhi sbarrati, vide una gigantesca e bianca figura ritta nel mezzo del tempio.
— Chi va là! — gridò egli con voce rauca più per l'ira che per lo spavento.
Nessuno rispose alla domanda, né la figura si mosse.
— Fosse pure l'anima di Confucio, nessuno ti toccherà, Tay-See. Non è che una statua.
— E il tocco!... Era la voce del dio irritato.
— Non fu che il vento. Mi ricordo che sugli altari dei templi trovasi sospeso un gong.[2] Il vento lo scosse muovendo il battaglio. Ora lo vedrai.
— Ah! Josè... tutto è contro di noi.
Lo spagnolo per tutta risposta si spinse fino alla bianca figura.
Non era che una statua, un gigantesco idolo protettore del tempio. Al primo chiarore d'un lampo riconobbe Ba-chua-ngoc, una delle donne adorate dai cocincinesi e, sospesi sopra i diroccati altari, scorse i gong.
— Lo vedi, Tay-See, che né il tuo Buddha, né le anime dei morti hanno da fare con noi. Vieni, adorata Rosa del Dong-Giang, noi troveremo qua un asilo contro i furori del maledetto che c'insegue. Chi oserà entrare in un diroccato dinh!
E quando egli avrà perduto ogni speranza, quando la via sarà libera, noi spiccheremo il volo pel sud, come due pavoni innamorati. I miei non sono lontani, accampano alla confluenza del Dong-Giang col Tan-binch-giang, e una volta fra loro, la catana di Tay-Shung non ci raggiungerà mai più. Oh! Mia adorata Tay-See, come sarò felice io allora, quando sarò al tuo fianco, colle braccia attorno al tuo collo, colle labbra posate sulle tue! Daremo l'ultimo addio a questi luoghi, dove ogni foglia nasconde la tigre, e navigheremo verso i lidi dell'amore, verso i lidi della mia patria che sarà pur la tua. Senti, Tay-See, ti porterò lontano, tanto lontano che la mano del maledetto non ti possa più raggiungere, tanto lontano che la sua figura stessa, che la terribile visione, non ti apparirà più mai. Oh! Tu sarai sempre mia, non è vero Tay-See? Lascerai questa terra, per noi maledetta, senza rimpianti?
— Sì, Josè, sempre tua — mormorò la giovanetta lagrimando. — Lascerò con te la terra dei miei padri, la terra ove son nata, dove sono cresciuta.
— Oh! Non piangere, mia diletta. La Guadiana sarà il tuo Dong-Giang, le foreste d'aranci saranno le tue profumate foreste del calambuc. Giuralo, Tay-See, giuralo dinanzi alla tua divinità, alla tua Ba-chua-ngoc che tu vedi qua, che sarai sempre mia.
— Lo giuro, Josè.
— Che non rimpiangerai mai più il passato, che non rivedrai mai più Tay-Shung il maledetto, e io sarò il tuo schiavo.
— No, Josè, non rimpiangerò nulla, non rivedrò mai più Tay-Shung, sarò tutta tua!
Le labbra dello spagnolo baciarono i lunghi capelli di lei, baciarono le rosee labbra, e le braccia cinsero la bella Tay-See e i due cuori degli innamorati batterono all'unisono.
— Oh! Mia bella adorata fidanzata, quanto ti amo!...
D'un tratto lo spagnolo impallidì orribilmente e strinse la giovanetta al petto con brusca mossa.
Al di fuori, fra gli urli della tempesta, erasi udito squillare il pi.
— Dio!... Dio!... — balbettò lo spagnolo.
Sentì una terribile stretta al cuore, uno spasimo supremo, poi rialzando il capo con un impeto disperato e gli occhi in fiamme:
— È la chiamata di Tay-Shung! — esclamò.
Il suono acuto del pi tornò farsi udire e più vicino che mai.
Chi poteva suonare il pi con simile tempo, se non i guerrieri di Tay-Shung?
Non era possibile ingannarsi. Tay-Shung aveva scoperto e seguite le loro tracce, e quel malaugurato suono non era altro che un segnale di raccolta.
Un freddo sudore bagnò la fronte dello spagnolo ma era uomo risoluto a tutto.
— Oh! — esclamò egli con voce tuonante. — Giacché vieni ad assalirmi fino a questo tempio, ti voglio infrangere!
Armò risolutamente l'archibugio per lanciarsi alla difesa del corridoio, l'unica entrata del tempio. La giovanetta si aggrappò disperatamente a lui.
— Non lasciarmi, Josè! Non lasciarmi! — gridò ella.
Lo spagnolo si staccò dalle sue braccia.
— Lasciami, non voglio... non voglio che il maledetto ti strappi dal mio fianco! Tay-See, sono forte, sono armato, l'ira mi farà diventar leone, e cento Tay-Shung non mi fanno paura. Rimani, lo voglio, ti prego, rimani. Nessuno, finché io rimarrò in piedi, finché avrò una goccia di sangue entrerà nel tempio.
Per entrare, bisognerà passare sopra il mio cadavere. Se tu mi segui mi sentirei capace di diventare vigliacco, perché tu mi metti la febbre indosso, perché tremerò a ogni archibugiata colla paura che tronchi il gambo della Rosa del Dong-Giang!
— Se tu muori, Josè, io voglio morire assieme! Non lasciarmi sola! Non lasciarmi sola!
Al di fuori si udì più vicino suonare la chiarina.
— Vengono, addio Tay-See, se non ritorno mai più... se la morte mi colpisce, l'ultima parola, l'ultimo mio sospiro sarà per te!... No, sono pazzo, Tay-See, non morrò, perché Dio e il tuo Buddha sarebbero ingiusti. Ritornerò, saremo felici... Ah! Tay-See!...
Rimase lì come trasognato, cogli occhi fissi in quelli di lei, poi la strinse disperatamente al petto stampandole sulle gote un ultimo bacio.
— A noi due, Tay-Shung! A noi due — urlò egli poscia. Rinvenne barcollando la porta, e si slanciò nell'oscuro corridoio coll'archibugio in mano, mentre che la sventurata Tay-See, venutole meno le forze, intronata dallo spavento dalla radice dei capelli alle ugne, si lasciava cadere di sfascio ai piedi di Ba-chua-ngoc, mandando un sordo gemito.
Lo spagnolo sentivasi mancare l'animo di spingersi innanzi pensando che dietro lasciavasi l'amante, tutto paventando da parte del terribile Tay-Shung ma con l'ira serpeggiante nelle vene, una smania infernale di misurarsi coll'abborrito rivale, e risoluto a difendersi finché gli rimanesse goccia di sangue, si appostò dietro un colonnato, guatando con occhi strambuzzati le tenebre. Non aveva ancor respirato, che udì d'infrà le ruine, il rauco grido del pavone e la stridula voce del diim-sa. Scattò in piedi, e guardò coi capelli irti e il sudore sulla fronte. Allora, al chiaror tremulo d'un lampo, gli fu dato vedere una banda di cavalli, sulle cui gualdrappe cremisine infioccate se ne stavano curvi curvi i guerrieri di Tay-Shung, cogli sguardi fissi sul dinh, come già indovinassero che là stessero i fuggiaschi. Tre o quattro ombre si mostrarono all'entrata del corridoio.
— Chi va là! — gridò lo spagnolo imbracciando e puntando verso di esse l'archibugio.
Vi rispose un colpo di fucile la cui palla rimbalzò su di un colonnato sibilandogli agli orecchi, poi venti uomini, zitti zitti, inerpicandosi e colle mani e co' piedi sulle ruine, presero posto all'entrata del tempio. Il primo di essi che fece un passo, ricevette la scarica dello spagnolo in pieno volto: il poveretto gettò un urlo, barellò un istante battendo l'aria colle mani, poi giù rovinò come fulminato addosso ai compagni, che dettero prontamente indietro.
Lo spagnolo non mosse un passo caricando lesto lesto l'archibugio, assalito dalle caldane e da una smania di uccidere, ben sapendo che avrebbe avuto un gran da fare, non ignorando quanto scottasse a Tay-Shung di rifarsi dello smacco patito, e come, caduto in sua mano, il pezzo più grosso che gli avrebbe lasciato sarebbe stato l'orecchio.
Successe un breve istante di calma, poi i cocincinesi, aizzati dalla tuonante voce del capo che urlava come un energumeno e comandava con gesti imperatori promettendo sacchi di sapeh[3] se li veniva dato di aggravignare i fuggiaschi, ricomparvero. Era evidente, che per quanto amore portassero al capo, la paura di buscarsi una palla attraverso il petto li faceva andare di male in gambe a battersi, tuttavia si spinsero nel corridoio, sostenendosi con un fuoco d'inferno.
Josè però teneva duro e benché andasse camminando a granchio dinanzi a tanta furia, riparato dietro i colonnati, non lasciava andar a male colpo veruno e teneva in iscacco gli assalitori, parecchi dei quali vacillavano vomitando sangue.
Tay-Shung, che pareva che Buddha lo proteggesse da tanta grandine di palle, andava in bestia che fumava come un camino, vomitava torrenti di bestemmie confondendo tutti gli dei della sua religione, giurava di mettere in mucchio di calcinacci il tempio e di vendicarsi a colpo di fulmine.
La cosa durò così cinque minuti, l'uno sbarrando la via e gli altri invano cercando spezzar l'intruso, poi fra questi vi fu un fuggi fuggi generale. Il suono acuto del pi continuò solo a battere la carica. Josè, spossato, ferito in un braccio, credeva che ormai i cocincinesi battessero in ritirata, quando d'un tratto, udì la voce di Tay-See.
— Aiuto, Josè! Aiuto!... — gridava la giovanetta.
Sei o sette uomini si mostrarono dinanzi l'entrata del corridoio ricominciando il fuoco, ma lo spagnolo non li attese, né difese il passo. Fuori di sé, precipitossi verso il tempio a capo basso urlando con voce arrangolata, strozzata:
— Eccomi! Eccomi!...
Cozzò contro la porta con tal furia da crocchiarli tutte le ossa del corpo, ma era stata sbarrata di dentro. Smarrì la ragione, si sentì acciecato, si mise a tempestarla col calcio dell'archibugio, ma non ne ebbe il tempo d'abbatterla. I cocincinesi, visto il passo libero, irruppero colle catane alzate e le lance in resta nel corridoio, con Tay-Shung alla testa.
— Ah! Tuat.[4] — urlò questi con intraducibile accento, saltandogli addosso.
Josè, preso fra l'uscio e il muro, si precipitò su di lui, colla schiuma sulle labbra, martellando col calcio dell'archibugio a dritta e a manca, rovesciando tre o quattro degli assalitori. Ma inciampò, non vide più nulla: sei o sette uomini si gettarono su di lui e in meno che non si dica lo ridussero all'impotenza. Egli gettò un urlo straziante.
Il cocincinese lo guardò ferocemente.
— Ah! Ti tengo alfine!... — urlò egli calpestandogli il petto. — Ti tengo alfine!... Fate largo!...
La porta del tempio era stata aperta. Egli saltò via lo spagnolo che i guerrieri andavano legando strettamente, ed entrò nel dinh, dove una mano dei suoi, calatisi per un'apertura del tetto, sostenevano Tay-See svenuta. Alla vista della giovanetta illuminata dal rossigno bagliore di alcune torce resinose, egli, il terribile Tay-Shung, la belva, barellò come se fosse stato ubriaco e sentì farglisi il cuore grosso e un nodo serrargli la gola. La sua faccia quantunque bronzata e dura, si alterò in istrana maniera, e gli passarono sopra quanti colori ha l'arcobaleno.
A un suo cenno, deposero la svenuta ai piedi della statua di Ba-chua-ngoc e piantate le torce nel terreno uscirono tutti senza dir sillaba. Lasciato solo, Tay-Shung si lasciò cadere presso la giovanetta, cogli occhi dentro al viso di lei, mandando un profondo sospiro.
— Tay-See!... — esclamò egli con voce sorda e appassionata. — Oh! Perché, disgraziata Rosa del Dong-Giang, m'hai abbandonato... perché? Perché?... Che ti aveva fatto il povero Tay-Shung, che avevi di lamentarti di lui?... Non ti ho sempre amata, non ti ho sempre adorata, non sono stato sempre il tuo schiavo?... Ed ero felice, e avrei sollevato il mondo per te, e avrei sparso l'ultima goccia di sangue, e rinnegato la mia patria, il mio Buddha, abbandonato tutto, e parenti, e amici, e terra natìa per te!... E quella felicità or l'ho perduta, quella felicità che mi rendeva orgoglioso e la gelosia sola rugge ora e ruggirà in eterno nel mio cuore... e tutto per un uomo ch'è uno straniero, ch'è un bianco, un figlio delle razze maledette, un nemico!...
Un singulto lacerò il petto di Tay-Shung che si nascose la faccia fra le mani.
— E quest'uomo vive!... — esclamò egli con terribile esplosione di collera. — E questo sciagurato che mi avvelenò l'avvenire, quest'uomo che mi danna è in mia mano, e lei lo ama, questa tigre!... Ruini sul mio capo questo tempio che la vita per me è cessata, che ogni gioia pel povero Tay-Shung è morta!... Tay-See!... Tay-See!... Perché sei così bella che mi rendi pazzo, perché ti amo tanto, tu, l'adultera... l'adultera!...
Un gran scoppio di pianto soffocò la sua voce e il terribile guerriero pianse come un fanciullo. Credette impazzire. Egli si levò e precipitossi verso la giovinetta, ma d'un tratto s'arrestò cogli occhi strambuzzati e s'irrigidì, impietrì.
Tay-See, la bella Rosa del Dong-Giang, lo fissava e sugli occhi di lei brillavano due perle.
— Josè!... Josè!... — mormorò ella. — Dove sei mio adorato Josè?
Egli vacillò, una nube di sangue li velò gli occhi. Afferrò la giovanetta, la sollevò cieco di rabbia e di amore, la strinse al petto, la scosse, la baciò, la stritolò, la respinse avventandola contro la statua di Ba-chua-ngoc a farla cadere ai suoi piedi.
— Sciagurata!... Sciagurata!...
La giovinetta mandò un lamento.
— E tu lo invochi ancora — continuò Tay-Shung, adoperando più fiele che voce. — E tu lo chiami ancora il maledetto che mi rapì ogni felicità, e tu dimenticando i tuoi doveri di moglie, anteponi il nome di Josè a quello dello sventurato Tay-Shung! Adultera!... Adultera!...
Tay-See non si mosse. Pallida come morta, gli occhi vitrei, inariditi, lo guardava come trasognata. Ogni parola di lui era una trafitta al suo povero cuore che non batteva più che per Josè.
— Ma l'animale carnivoro ha fame — proseguì Tay-Shung che man mano inferociva nel dire. — L'animale carnivoro ha sete di sangue, e alla vendetta mia vi sacrificherò entrambi!... E quest'uomo io lo salvai dalle acque del Dong-Giang! Sciagurato, avrei voluto perdere le braccia quel giorno. Ma dimmi cattiva Tay-See, dimmi che io ti aveva fatto per tradire in tal guisa il mio amore. Non ti ho sempre circondata di cure, io?... Non ero tuo schiavo?... Non soddisfavo i tuoi più strani capricci?... Io, il guerriero Tay-Shung, lo schiavo di una donna, e di una donna che divenne adultera! Che ti fece quel bianco perché tu lo abbi ad amare, perché tu lo abbi ad anteporre a Tay-Shung, a un tuo compatriota?... E io, sciagurato, ho il coraggio di amarla ancora questa donna, ho il coraggio di dirle ancora che l'amo!... No, no, via questa donna, via questa visione che mi danna, via questo sentimento ch'è indegno d'un guerriero, si confondino le acque, cadano i templi, si scuotine i monti, si sfasci la terra e mi travolgano nelle loro mine, che per Tay-Shung non v'ha più felicità!...
Il guerriero nascose l'abbronzata faccia fra le mani. Tay-See lo guardò commossa, ma non disse parola. Oh! Non l'amava quell'uomo che l'aveva sacrificata, non lo poteva, la sua anima si ribellava a una tale idea. Josè, lo spagnolo Josè solo o la morte, era quello che voleva.
— Ma sei di pietra tu adunque, cuor di tigre! — ripigliò Tay-Shung scuotendola freneticamente.
— Lasciatemi, Tay-Shung — balbettò la giovanetta.
— Oh! Dimmi, dimmi che tu l'odi, quel bianco! Dimmi che ti rapì forzatamente! Non è vero, Tay-See, che tu lo disprezzi? Non è vero che tu ami il tuo povero Tay-Shung? Senti, mia bella Tay-See — proseguì egli con voce che più nulla aveva d'ira e d'amaro. — Sarò ancora tuo schiavo, ti adorerò più che fossi Buddha e Ba-chua-ngoc, mi sottometterò ai tuoi capricci, farò ciò che tu vorrai, mia Rosa del Dong-Giang, nulla per me sarà impossibile, e senza un lamento, senza un rimprovero. Ritorneremo a quei cari sogni della felicità, ti porterò meco lassù dove nessun essere umano potrà gridarti dietro adultera. Ti perdonerò quello che fu, tu dimenticherai Josè, e ci ameremo come due colombi innamorati. Oh! Dillo, dillo, Tay-See, che tu sarai ancora mia, e io cadrò, io, il terribile Tay-Shung, alle tue ginocchia!...
Il guerriero così parlando era tutto cangiato. La passione aveva preso il posto della tempesta. Le sue mani stringevano teneramente al suo petto la giovanetta e le labbra infuocate sfioravano quelle di lei.
— Lassù godremo doppia felicità, Tay-See, nessuno mai saprà quello che tu, in un momento di acciecamento, facesti. Ti canterò le canzoni dei miei monti che ti piacevano tanto, ti lascerò scorrer quei boschi doppiamente maestosi e più melanconici di questi, ti servirò se vorrai in ginocchio. Non sarò io il padrone, sarai tu, mi capisci, Tay-See, sarai tu, una donna! Dillo, dillo, e a un tuo cenno ti porterò meco e la testa del maledetto, di Josè, cadrà sotto la mia catana per sperdere l'ultima sua traccia!
La giovanetta lo guardò con istrano sguardo e si piegò gettando un sospiro.
— Tay-See!... Tay-See!...
— Non lo posso, Tay-Shung, è impossibile, non amo che Josè!... — mormorò lei.
— Ah! Sciagurata! — esclamò Tay-Shung con terribile accento. — Sciagurata! Sciagurata!...
Una bestemmia irruppe dalle frementi labbra. L'afferrò pei capelli, e la scagliò a battere il capo contro le pareti.
— Oh! La vendetta! La vendetta! — urlò egli con istrazio. — Poi venga la morte!...