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La vendetta di Tay-Shung
I prigionieri

LA VENDETTA DI TAY-SHUNG


Nella Cocincina, come in tutti gli altri stati della gran penisola Indocinese, l'adulterio è uno dei più gravi delitti che macchi il genere umano, uno di quei delitti che vengono irremisibilmente puniti colla morte e per di più, con una spaventevole morte.

Non è a credere che i cocincinesi sieno però fiori di moralità, tutt'altro. Turon è famoso e proverbiale per le sue donne senza pudore.

L'indulgenza singolare di Solone, che fece oscene leggi da permettere alle giovani di trafficare la loro bellezza ed i loro vezzi per procurare a se stesse e alla loro famiglia gli oggetti di prima necessità, è ratificata nella Cocincina, senza restrizione né di età né di condizione. Si dice che padri e mariti non abbiano scrupolo alcuno di lasciare ad un amante la figlia o la moglie. Ma basta che il marito trascini la donna dinanzi ai tribunali perché questa e l'amante sieno spacciati.

Basta un sospetto perché l'elefante, un con voi come lo chiamano i cocincinesi, che funziona da boia, abbia a schiacciare sotto i suoi piedi, o stritolare colla sua possente proboscide o d'infilzare sulle arcuate e aguzze zanne i colpevoli.

Tay-Shung non lo ignorava questo diritto che gli lasciava ampia libertà d'immolare i due sventurati e benché gli mancasse pure un sospetto, arbitro assoluto della loro vita, li sacrificò entrambi alla sua vendetta.

Ritornato alla cittadella quasi fuori di sé, pazzo d'ira e disperato, infocolato di gelosia, assetato di sangue, temendo che gli venisse meno il coraggio di condannare colei che fino a pochi momenti prima aveva amato alla follia, precipitò la terribile sentenza.

Radunati nella sua abitazione i più anziani della cittadella, fra i quali il tilan-hu e il quan-an padre di Kia che tutta notte aveva percorso le foreste cercando l'adorata figlia, di già fuggita con Thay-Mit, unendo al titolo di clauh-lemh quello binh-bo-thu-ong thu o presidente del consiglio di guerra, prima che il gong della mezzanotte suonasse, aveva già deciso la sorte dei due prigionieri.

Ancora storditi, i giudici, come la Rosa del Dong-Giang avesse potuto fuggire con un nemico della patria, inorriditi dall'enormità del delitto o del supposto delitto, determinati a dare un gran esempio alla popolazione e soprattutto paventando le ire del terribile Tay-Shung, non alzarono la voce in difesa della povera Tay-See, poche ore prima idolo della cittadella, e meno ancora in difesa dello spagnolo, uno straniero, un figlio dei maledetti bianchi.

Squillava il primo tocco della mezzanotte che abbandonavano l'abitazione, dopo di aver deciso che i due colpevoli, legati assieme, verrebbero giustiziati dal con voi all'indomani all'alba.

Tay-Shung, rimasto solo con Ca Bong, dopo di aver pronunciato la terribile sentenza che troncava il gambo alla bella Rosa del Dong-Giang, all'adorata Tay-See, sembrava istupidito, come se una mazzata gli fosse minata sul capo.

Non era più lo stesso uomo di pochi momenti prima, feroce per l'ira e per la gelosia che aveva reclamato intera vendetta.

Aveva la faccia cupa come la notte più oscura, terrea anziché bronzata, disfatta anziché fiera, gli occhi stravolti e senza bagliore e la fronte stretta stretta fra le raggrinzate mani.

Un rauco ruggito usciva come lontano brontolio di tuono dalla gola e un singulto, uno straziante singulto, sollevava a tratti l'ampio petto. Qualche cosa di umido andava raccogliendosi sotto le palpebre e correva sulle terree gote e che egli si affrettava tergere con una specie di furore.

Egli doveva soffrire sicuramente degli strazi indicibili, doveva sicuramente amare e amare forse con più follia di prima la povera Tay-See, e forse, in fondo all'anima, si pentiva, si struggeva, malediceva l'istante che aveva lasciato uscire l'atroce condanna.

Ca Bong, seduto di fronte a lui, crollava il capo e lo guardava con occhi commossi.

Si alzò, andò a trarre una mezza dozzina di fiasconi di ruon-manch, l'infernale bevanda e ne empì due tazze.

— Tay-Shung, mio povero amico — diss'egli dolcemente. — Bevi. L'ebbrezza è l'oblio.

Tay-Shung lo guardò con strano sguardo, poi afferrò come un pazzo la tazza e tracannò fino all'ultima goccia, la empì tre volte e tre volte la vuotò. Pareva che volesse spegnere l'arsura che lo divorava, calmare le torture del cuore: non vi riuscì.

— Non lo posso! Non lo posso! — muggì con voce disperata egli.

Le lagrime irrigavano il suo volto senza frenarsi più. Egli si strinse la fronte fra le mani con tal forza da farne gemere le ossa e si pugnò la testa strappandosi capelli.

— Non lo posso — proseguì egli. — Non lo posso! La ho qui, nel cuore, radicata nel cuore che mi arde, mi consuma! Non posso dimenticarla, l'adultera, la sciagurata, e io, Tay-Shung, l'amo ancora!... L'amo ancora!... L'amo ancora!...

Tornò a vuotare tre o quattro tazze ma gli sembrava ingollare acqua.

— Tay-Shung, — disse il luogotenente, — siamo forti.

— Forti! Forti! — esclamò quasi ferocemente il generale. — E non sono stato io forte adunque per precipitarla nell'abisso? Oh! Sono ben sciagurato, sono ben terribile!

— Ah! Tu rimpiangi quello che hai fatto, Tay-Shung.

— Sì, lo rimpiango, lo rimpiango. Vorrei cancellare ogni parola, vorrei distruggere questa condanna che troncherà tre vite. E nol posso, e non sono sì potente per farlo... sarebbe il disonore, sarebbe l'onta senza nome. Oh! Potessi farlo!...

— Tay-Shung, era l'adultera che condannasti.

Il generale lo guardò con due occhi che mettevano spavento.

— Taci!... Taci!... — esclamò egli con voce strozzata. — Sarei capace di ucciderti!

Si alzò e si mise a percorrere la stanza barcollando, colla faccia nascosta fra le mani, mugolando come una belva, poi tornò a sedersi e si mise a bere e a bere come volesse ubriacarsi.

— Lascia che beva, lascia che beva! — andava ripetendo fra una tazza e l'altra. — Potessi trovare un po' di oblio nell'ebbrezza, potessi addormentarmi per sempre e non svegliarmi più mai!

E beveva come un otre empiendo la tazza con mano convulsa, ma finì col frantumare i fiaschi e le tazze. Con un terribile pugno, mandò tutto sottosopra.

— Adesso mi arde — proseguì egli sordamente. — Mi pare che ingolli dell'altro fuoco che cangia in fuoco il sangue delle mie vene.

— Tay-Shung! — disse gravemente Ca Bong. — Cerca essere uomo.

— Uomo! Uomo! Ah! Se tu sapessi ciò che io soffro, se tu sapessi quali strazi mi dannano! Senti, Ca Bong, sono l'essere più infelice che esista sulla terra. L'amava, l'amava alla follia, e l'amo ancora, e bisogna che la perda e fui io a precipitarla nell'abisso. Ah! Perché, perché la vidi a Saigon e me ne innamorai?
Perché la feci mia? Fu la mia sventura, sarà la mia morte. Aveva sognato la felicità, l'ebbrezza fra le sue braccia, e non ebbi a provare che tormenti. Era sì bella! Era sì divina! Tu non puoi comprendere che sia amare alla pazzia e amare la bella Rosa del Dong-Giang!

Si cacciò le dita negli occhi, perché non isgorgassero le lagrime che calavano sotto le palpebre.

— Se mi avesse chiesto la vita, gliela avrei data, se m'avesse chiesto un regno, avrei gettato sottosopra Tu-Duc e la Cocincina per darglielo. E ora tutto sarà finito, non rivedrò più mai quel melanconico volto che mi faceva balzare in petto il cuore, più mai quegli occhi più belli delle stelle più brillanti, più mai la stringerò fra le mie braccia, più mai deporrò un bacio su quelle labbra divine!...
La voce, quella voce impareggiabile che mi rendeva felice fra i miei tormenti non la udrò più, mute saranno le labbra, come muta la voce del suo pi, e le foreste animate da quei gorgheggi, e l'abitazione e le rive del Dong-Giang, tutto tornerà al silenzio, al silenzio sepolcrale!... Dimmi tu, come potrò io vivere, dimmelo tu! Non sopravviverò a lei e scenderò con lei nella tomba, colla speranza di rivederla nel nirvana[1] di Buddha.

— E tu abbandoneresti così la patria pericolante, Tay-Shung. La priveresti del tuo braccio.

— La patria! La patria! Lei era la mia patria, lei era il mio re, lei era il mio dio! Spenta la patria, il re, il dio, che rimane? La seguirò nella morte e le nostre ossa si confonderanno assieme!...

Un breve silenzio regnò nella stanza rotto solo dai singhiozzi del guerriero.

— Chi è quest'uomo, — ripigliò egli ma con truce accento, — che sedusse la Rosa? Perché lo sciagurato venne sin qua ad avvelenarmi la felicità? Chi è questo essere così potente, da infrangere il cuore del terribile Tay-Shung? Che gli avevo fatto, perché venisse a precipitarmi nella disperazione eterna? Sono sì mostruosi questi bianchi, adunque? Non comprendono essi che sia avvelenare...

Si arrestò di botto e tese l'orecchio. Lontano lontano si udiva un martellar sordo.

Egli sentì la fronte a bagnarglisi di freddo sudore e i capelli rizzarglisi.

— Il recinto!... Il recinto!... — esclamò egli. — Senti il barrito del con voi! Il barrito del con voi che calpesterà la Rosa del Dong-Giang... Tay-See!...

Si alzò. Gli occhi mandavano fiamme e il volto pareva balenasse d'un lampo di gioia, d'un lampo di pazza speranza. Egli afferrò per le braccia Ca Bong e lo trascinò verso la porta.

— Vieni!... Vieni!.. — ripetè egli con voce arrangolata. — Tra mezz'ora, sarà giorno!

Uscì traendoselo sempre dietro e scese la via fino al fiume, dove arrestossi un momento a guardar la corrente. Ca Bong credette che meditasse un suicidio.

— Che fai disgraziato? — gli chiese il luogotenente.

— Questo era il suo posto favorito, qui non la rivedrò mai più se muore!

Continuò a camminare e lo condusse fino all'orlo del bosco.

— Odi? — chiese Tay-Shung. — Tutto è silenzio, tutto è tetro. Se muore, il bosco sarà tetro in eterno e silenzioso come una tomba.

— Sei pazzo, Tay-Shung — disse Ca Bong.

Tay-Shung per tutta risposta continuò la corsa dirigendo dalla parte opposta della cittadella. Ca Bong lo arrestò afferrandolo a mezzo corpo.

— Dove vai sciagurato? — gridò egli. — Dove vai?

— Bisogna che la veda — rantolò il generale. — Ho un lampo di speranza. Vieni, o è troppo tardi!

— E l'onore, Tay-Shung, e l'onore? Che si dirà di Tay-Shung! È adultera.

— Nessuno udrà più mai parlare né di Tay-Shung né della Rosa del Dong-Giang!

— Tay-Shung! Tay-Shung!...

— Taci, taci. Io scomparirò, tornerò alle mie montagne del nord, tu prenderai il mio posto a Bien-hoa. Tutti crederanno che io sia morto e nessuno, capisci, nessuno lassù, su quei monti saprà mai che Tay-See era l'adultera di Bien-hoa!

— Tu sei pazzo, Tay-Shung! Tu ti disonori, infrangi una brillante carriera!

— Non sono pazzo, Ca Bong. Non mi disonoro. Amo Tay-See!...

Erano giunti dinanzi a una gran capanna sulla cui porta vegliava un soldato colla catana sguainata. Tay-Shung gli fece un cenno e la porta fu aperta.

Wang, il carceriere, si presentò dinanzi a lui con una lanterna di carta oliata, in mano.

— Tay-Shung! — esclamò Wang.

— Zitto — mormorò con voce soffocata il guerriero. — Tay-See?...

— Dorme o credo che dorma.

Non chiese altro. Prese la lanterna e s'inoltrò in un basso corridoio di bambù, lasciando lì il luogotenente.

Si fermò un momento dinanzi a una stuoia che nascondeva una porta, parve esitare, indietreggiò come spaventato, come si fosse pentito, ma fu un lampo.

Sollevò la stuoia, ed entrò.

Tay-See era sdraiata sui cuscini di foglie di nipa. Aveva il volto nascosto fra le mani e pareva morta.

Tay-Shung si avvicinò a lei in punta dei piedi e stette un momento a contemplare la povera Rosa del Dong-Giang, la sua amata Tay-See. Tremava come avesse la febbre e le sue labbra si agitavano come volesse pronunciare un nome che non uscì dalla gola. Un capogiro lo prese e dovette appoggiarsi alla parete illuminando colla lanterna la faccia della giovanetta, una faccia d'alabastro, una faccia scarna, smunta, infossata. Un rauco singulto gli rumoreggiò in fondo al petto.

— Tay-See! Tay-See!... — esclamò alfine con voce rotta.

La giovanetta si sollevò sui gomiti e lo guardò ma senza ravvisarlo.

— Mia povera Tay-See — continuò egli dolcemente. — Mio povero fiorellino del Dong-Giang... guardami! Guardami! Sono il tuo Tay-Shung, il tuo amato Tay-Shung che vengo a salvarti.

La giovanetta sussultò e gettò un grido di spavento.

— Assassino! Assassino! — esclamò ella.

Tay-Shung cadde in ginocchio dinanzi a lei e prese le sue mani che coperse di baci.

— No, Tay-See, non sono assassino! — diss'egli. — Senti, fanciulla crudele, senti cattivo genio, io vengo a salvarti, vengo a condurti alle mie montagne. Senti, abbandono una carriera che io amava dopo di te, abbandono un nome che cento mandarini invidiavano, mi disonoro, mi uccido pel mondo e tutto per te. Vieni con me, seguimi ai miei monti, e io ti salverò dalla morte e io ti farò felice. Non voglio che tu muoia, non lo voglio, Tay-See!

In così dire aveva attirato la fanciulla fra le sue braccia e la copriva di baci e la stringeva teneramente al petto. La giovanetta volle respingerlo, si dibattè per qualche momento, poi si abbandonò a lui sfinita di forze.

— Lasciami morire, Tay-Shung, lasciami morire — mormorò disperatamente. — A che, farmi soffrire ancora? Ho sofferto per anni indicibili strazi, perché soffrirne altri? Non posso amarti, Tay-Shung, il cuore si ribellerebbe contro la forza del corpo, sento che nulla posso fare per te, sento che senza di lui sarebbe la morte. Sii generoso, adunque abbi pietà della povera Rosa del Dong-Giang. Lasciami morire, e morire con lui!

— Lui! Ancora lui! — ruggì Tay-Shung scuotendola furiosamente. — Ami ancora lui?

Tay-See non rispose e chiuse gli occhi comprimendosi il seno con ambe le mani.

— Senti, Tay-See, senti disgraziata fanciulla. È lui che tu ami, è lui che tu vorresti salvare, che vorresti far felice. Ebbene, se io lo liberassi?...

Tay-See riaprì gli occhi e lo guardò commossa.

— Io lo condurrò fuori da Bien-hoa, gli additerò la via del sud, lo lascerò ritornare fra i suoi compatrioti... ma guai, guai se si volgesse indietro, guai se gli saltasse l'idea di tornare... lo sbranerei coi miei denti!...

Tay-See scosse ripetutamente la testa.

— Rispondi! Rispondi! — ripetè Tay-Shung.

— Lasciami morire, Tay-Shung. Sarò più felice — mormorò la fanciulla. — Lui non accetterebbe, e io morrei egualmente. Lasciami così, muoio contenta.

— Ah! Nemmeno la morte vi separerà adunque?

— Nemmeno la morte, Tay-Shung.

— Oh! Ti assassino, miserabile!...

Aveva tratta la catana e già si avvicinava spumante d'ira. La punta della lama fe' uscire una goccia di sangue.

— Uccidimi! Uccidimi! Fra poco lo raggiungerò lassù!

— Ma io ti seguirò anche nella tomba, ti tormenterò anche all'inferno!...

D'un tratto si udì strepitare il gong al di fuori. L'arma gli cadde di mano.

— L'alba! L'alba! — esclamò egli con spavento.

Egli si precipitò sulla giovinetta e l'avvinghiò sollevandola.

— È l'alba! È l'alba, Tay-See! Vieni, vieni prima che arrivino!...

La poveretta si dibattè fra le sue braccia.

— Lasciami!... Lasciami!... Ti odio!... Ti disprezzo!

— Ti trascinerò anche se nol vorrai! — urlava Tay-Shung.

Egli si mise a trascinarla verso la porta malgrado la sua disperata resistenza.

— Aiuto, Josè! Aiuto, Josè! — gridò la giovanetta.

Egli s'arrestò mugulando come una tigre.

— Ho sete di sangue! Ho sete! Ho sete! — ululò egli. — Vieni maledetta, vieni adultera, che voglio vederti morire col tuo drudo. Adesso ti odio, ti esecro!...

I soldati erano giunti dinanzi alla capanna, trascinando seco Josè, strettamente legato che faceva sforzi sovrumani per spezzare le corde.

Nell'udire la voce di Tay-Shung, e nel vederlo sulla soglia della capanna, colla giovanetta fra le braccia, sentì tutto il sangue rimescolarglisi nelle vene.

Un'ondata di furore l'assalì.

Egli si gettò a testa bassa contro il guerriero, e con tal impeto, che fe' perdere l'equilibrio a parecchi dei soldati che lo circondavano. Ca Bong ebbe appena il tempo di gettarglisi dinanzi e d'afferrarlo strettamente per le braccia.

— Miserabile! Miserabile! — urlò lo spagnolo singhiozzando per lo strazio.

Tay-Shung vi rispose con un beffardo sogghigno. Gli si avvicinò cogli occhi quasi fuor dell'orbita e i lineamenti della faccia stravolti, e gettando con supremo disprezzo la giovanetta nelle mani dei soldati:

— Voglio vedervi morire — ghignò egli con satanica gioia. — Voglio vedere il vostro sangue, voglio vedere le vostre ossa e far schiacciare i vostri cuori ricolmi del veleno dei ranhò. Voglio vedervi stesi l'un l'altro dinanzi a me, e danzarvi sopra e sogghignare come un genio del male!...

Josè traballò come ubriaco, un nodo gli serrò la gola e la vista gli si intorbidì.

Volle maledire, volle bestemmiare, volle piangere, ma né suono alcuno uscì dalla gola serrata, né lagrima alcuna stillò dagli aridi occhi.

I soldati lo sollevarono di peso e lo gettarono su di un carro accanto alla sventurata Tay-See, che pareva fosse morta, e sferzati i cavalli, galopparono al recinto, mentre Tay-Shung, fosco in volto, truce, terribile, li seguiva ghignando come un dio della vendetta, come satana.

Era un triste mattino che proprio si adattava alla lugubre esecuzione.

Il cielo era grigio, nuvoloso, tetro, e una nebbiola carica di pestilenziali esalazioni ondeggiava pesantemente sulle paludi del Dong-Giang. Una pioggia sottile sottile crepitava sui tetti delle capanne, radunandosi in pozze nelle tortuose vie della cittadella, e un vento freddo e umido scendeva dalle montagne a scuotere il fogliame dei grandi alberi, a far gemere i rami e a ingolfarsi nelle guglie dei templi con mille strani suoni, facendo frullar le banderuole dei comignoli che stridevano lugubremente.

Il carro, portando i due sventurati e circondato da guerrieri, uscì dalla cittadella e s'arrestò al recinto, piantato isolatamente su di una pianura acquitrinosa.

Una folla enorme, accorsa da tutti i punti della valle per assistere al terribile spettacolo, si era di già aggruppata attorno alle stecconate.

Un lungo mormorio, paragonabile al muggito del mare udito in lontananza, accolse la comparsa del terribile corteo.

Josè, fino allora istupidito, a quella vista, alzò fieramente la testa con un gesto disperato, e gettò uno sguardo sprezzante su tutta quella folla avida di sanguinosi spettacoli. Afferrò con moto convulso la sventurata Tay-See che non aveva ancor dato segno di vita, pareva morta, depose un ultimo bacio su quelle gelide labbra, e soffocando un singulto che salivagli alla gola, balzò a terra.

Tay-Shung gli era accanto. Nel vederlo, indietreggiò come se una vipera l'avesse morso.

Lo spagnolo lo guardò con occhi strambuzzati, e tese il pugno chiuso verso di lui.

— Sii maledetto! — gli disse con voce strozzata. — Sii maledetto, che il rimorso t'accompagni ovunque, che lo spettro di Tay-See ti tormenti fino alla tomba!

Un impeto di furore tornò a prenderlo e fe' moto di saltare alla gola del guerriero.

I soldati ebbero appena il tempo di arrestarlo.

— Maledetto!... Maledetto!... Maledetto!... — muggì con disperato accento Josè, stringendo delirante al petto Tay-See. — Non hai adunque pietà, mostro dalla nera anima, della sventurata Rosa del Dong-Giang?...

Lo sciagurato non rispose. Indietreggiò a lenti passi, e tremante, tutto in sudore, pallido come cadavere salì al posto d'onore. Uno spasimo supremo, l'ultimo, contrasse orribilmente le sue labbra che sanguinarono sotto i denti. Un sordo rantolo rumoreggiò nel fondo del petto e si spense a fior di labbra.

Josè lo seguì collo sguardo smarrito.

— Dio!... Dio!... — mormorò lo sventurato. — Non v'ha più speranza!... Vieni, Tay-See, vieni, diletta Rosa del Dong-Giang! Nella tomba troveremo la felicità che ci fu negata quassù, dal mio e dal tuo dio!...

La giovanetta non rispose. Restò irrigidita fra le sue braccia.

Egli tornò a baciarla con appassionato trasporto, e mentre le lagrime, le ultime, stillavano sotto le palpebre, seguì i guerrieri nel recinto, dove fermossi spaventato, smarrito, alla vista di un gigantesco elefante che barriva strepitosamente agitando la tromba. Allora tutto il coraggio gli venne meno, ebbe paura, non volle morire, volle salvare la sventurata Tay-See.

— No!... No!... — esclamò singhiozzando. — Non voglio che muoia, non voglio che muoia!

Girò intorno uno sguardo supplicante.

— Abbiate pietà di lei!... Abbiate pietà della Rosa del Dong-Giang!... — esclamò egli con voce straziante. — Salvatela!... Salvatela!...

Mille braccia si tesero verso di lui minacciosamente e mille urla soffocarono le sue ultime parole.

— A morte gli adulteri!... A morte il bianco! A morte il codardo! — urlò la folla.

Lo sventurato alzò le braccia verso Tay-Shung aggomitolato nel suo palco.

— Tay-Shung!... Abbi pietà di lei!... Salvala, che io morrò!...

Tay-Shung aprì le labbra come volesse parlare, ma la sua voce non si udì, che fu coperta dalle crescenti minacce della folla tumultuante.

— A morte!... A morte gli adulteri!... — ripeteva implacabilmente la folla.

Lo spagnolo si sentì prendere dalla disperazione ed ebbe la pazza idea di tentare una impossibile fuga. Egli si avventò perdutamente sui guerrieri cozzando contro di essi colla testa, cercando di aprirsi il passo. Un guerriero gli ruppe l'asta della lancia sul cranio. Josè cadde sulle ginocchia, col volto coperto di sangue. Allora, mentre due kemays lo tenevano saldo pei polsi, il quan-an o capo della giustizia, ad un cenno di Tay-Shung, entrò nel recinto e lesse la sentenza rivolto all'elefante, che pareva comprendesse ciò che si chiedeva da lui, manifestando la sua gioia con ispaventevoli barriti.

Quando i gong strepitarono, lo spagnolo, ancora semistordito, non sentendosi più stringere i polsi, con supremo sforzo si rizzò. Trascinossi fino a Tay-See distesa sull'arena, sul cui smorto volto batteva un raggio di sole passato penosamente fra gli squarciati vapori.

Afferrò le mani della giovanetta; erano gelate. Egli si volse verso Tay-Shung col volto spaventosamente contrafatto. Un urlo giammai uscito da gola umana, un urlo supremo, straziante, gli uscì dalle labbra.

— È morta!... è morta!...

Un barrito spaventevole vi rispose e vide sopra di sé la tromba dell'elefante che sferzava l'aria. La vista gli s'intorbidì; chiuse gli occhi e cadde senza forze sul corpo di Tay-See.

Si udì un grido emesso da diecimila bocche, poi un battimani frenetico.

L'elefante passò la proboscide attorno ai due corpi, e gli spettatori udirono le ossa spezzarsi sotto la terribile stretta. Lo spagnolo riaprì gli occhi spaventosamente dilatati e mandò un rantolo, un sordo gemito. Tay-Shung s'irrigidì sulla sua sedia.

Allora il mostruoso carnefice sollevò nell'aria i due morti e li scosse ripetutamente, mostrandoli a tutti. Una pioggia di sangue, il sangue di Tay-See e dello spagnolo, cadeva sulla sabbia confondendosi reciprocamente.

Tay-Shung si cacciò le mani nei capelli e traballò.

— Basta! Basta!... — rantolò egli.

Ma era troppo tardi. L'elefante gettò nell'aria i due amanti, vi corse sotto colla testa alta, li ricevette sulle zanne dove s'infilzarono, indi rivoltandoli d'un colpo contro terra e sollevandosi sulle gambe posteriori, li schiacciò, li sminuzzò, li polverizzò.

Tay-Shung gettò un grido disperato.

— È morta!... è morta!... — ripetè egli.

Battè l'aria colle mani e rovinò al suolo, dilaniandosi colle unghie le carni e bestemmiando Buddha e gli uomini...

La stessa sera, mentre che la tempesta si scatenava Ca Bong e sei guerrieri seppellirono sui monti che chiudono la vallata del Dong-Giang gli avanzi dei giustiziati racchiusi in un'arca di legno odoroso. Un torreggiante calambuc e una ghirlanda di rose del Dong-Giang furono i soli che ornarono la tomba della sventurata Tay-See e dell'infelice spagnolo!...


Note

  1. Paradiso.

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