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Atto secondo

Scena quarta
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Atreo seguito da una Guardia che resta
nel fondo, e Detta

 

Ippodamia

Figlio, qual nube d’oscuri pensieri
Ti siede in fronte! Ah! ti serena omai;
Ed una madre, che suoi giorni visse
135Sì gran tempo infelici, afflitti e rei,
Deh! una volta rallegra.

Atreo

Alte cagioni
Pensieroso mi fanno: io cinto e avvolto
Sommi da mille ognor: pur sol mi resto.
140E se il consiglio mio, se il braccio e ’l petto
Mio non oppongon schermo, o madre, il trono
Vacillerammi.

Ippodamia

Infausto è il regno: e infausto
Più, se temuto è il re. Di schiavi e vili
145Tu se’ accerchiato; ognun t’adora, e sorte
T’arride amica. Ma se’ pago? – Tremi,
Diffidi; e a dritto. Traditori, un giorno
Ti porranno le mani entro le chiome;
Strapperanti il diadema, e riporranlo
150Ad altri in capo. – Pur... se d’un fratello
L’amor qui fosse... di temer sì grande
Uopo, Atreo, non avresti.

Atreo

E di qual mai
Fratello parli, o donna? Infame stirpe
Fatta è la nostra. Or ciò sol pensa, e taci.

Ippodamia

155Tuo sdegno è giusto; e del suo error Tïeste
La pena sconta...

Atreo

Errore!

Ippodamia

Alma bollente,
Giovane etade, e di vendetta brama
A’ delitti strascinano! Rapito
160Gli hai regno tu, rapita sposa, e in bando
Cacciato: or questo a mitigar non basta
Delitto forse?

Atreo

Spaventoso, orrendo,
Non più inteso misfatto, avvi ragione
165Che mitigar possa giammai?

Ippodamia

Ben alta
Pena portonne, e portane! Rammingo,
Abborrito da’ suoi, da’ rii pensieri
Ognor seguito, ci mena gli anni; e forse
Per inospite selve e per dirupi,
170Senza fossa di morte, disperato
Di sua man li troncò.

Atreo

Ben ciò rammento
Io pur; e in core di furor tremendo
Le vampe spegne mia pietà fraterna:
E tu tel vedi. Ha un lustro, ed io non mai
175Vendetta volli; eppur potea: svenati
Erope, e il figlio della colpa, a brani
Potea vederli, e contentarmi almeno
Per qualche istante. – Ma son io Tïeste? –
Or tu pon modo a femminil lamento.
180Che mal s’addice a te reïna: offusca
Ciò l’onor nostro; e alcun conforto traggi
Dal saper ch’egli vive; io te l’attesto;
Ei vive: e chi sa forse, all’amor primo
D’Erope fida.

Ippodamia

Ah! mal conosci il core
185Di quella donna sventurata. Orrendi
Sono suoi mali; e tu n’aggiungi orrendi.
Misera! Tal, tu ben lo sai, non era
Dell’imeneo dinanzi i giorni; in lei
Sol virtù risplendea: terrore or tutta
190L’anima le circonda. Or freme e piange,
Or chiama morte, e innorridisce. I tanti
Rimorsi suoi segno ci dan che nata
A’ misfatti non è. – Fato la trasse,
Ond’essere infelice.

Atreo

195E come vuoi,
Ch’io le ferree del fato leggi rompa?
Per me, felice ella pur sia. Che deggio
Far a suo pro? – Sposa la volli; e sposa
D’altri si fè. Rinnovellar dovrei
200Con donna infame incorrisposto amore? –
Tant’io non soffro.

Ippodamia

E tanto Erope mesta
Da te non vuol. Ultima grazia, e sola,
Atreo, ti chiede: il suo misero figlio.

Atreo

E del fanciullo a te ragione, o madre,
205Chieder men venni. Le sedotte guardie
(Che sotto scure lor pietà scontaro)
Pria di morir, agl’infernali Iddj
Giurár che, non ha guari, Erope ansante,
Pallida in volto, disperse le chiome,
210Pregò, pianse, donò. Vinti i custodi
Schiuser le porte alla furente donna.
Or dì: questa è la fede? E tanto abusa
Di mia pazienza? e si rispettan tanto
I voleri d’Atreo?

Ippodamia

215Più consigliata
A sua carcere il rese. Oh se sapessi,
Quanto è il dolor di madre, e com’è dolce
Fra le sventure contemplare un figlio!

Atreo

Se altrui lo celo, ella sel perde?

Ippodamia

Nulla
220Di ciò non ode; una parola sola
Gemendo sempre a mie ragion risponde:
Il figlio!

Atreo

Guardia, Erope a me.
La Guardia parte.     Secura
Faranla in breve i miei consigli, spero;
225Ove non basti, i miei comandi.

Ippodamia

Inulte
Non vanno in ciel le colpe; e i numi sono
Del male, e del ben memori: punirci
A loro spetta. Ah! se a lor pene aggiungi,
Che pur son tante, i tuoi gastighi, lassa!
230Che fia di quella dolorosa donna? –
Vedila come i suoi passi strascina
Pallida, muta; e di sua colpa ha in viso
L’orror.

Atreo

A sue querele altre più tristi
235Deh! non v’aggiunger, madre.

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