< Timeo
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Platone - Timeo (ovvero Della natura) (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
Capitolo XVI
Capitolo XV Capitolo XVII

Gl’Iddii, vaghi d’imitare la ritonda figura dell’universo, legarono i divini giri, che sono due, in un corpo sferale, questo che dimandasi da noi capo presentemente: il quale è divinissima cosa, e su le altre membra ha signoria. E componendo il corpo, sí glielo dettero a suo servigio; intendendo che quanti movimenti ci ha, tanti ne avesse egli ad avere. Perché dunque egli rotolando per la terra, la quale si leva e avvalla in ogni forma, là non penasse a montar su e di qua a calar giú, sí lo ebbero adagiato di questo cocchio. Onde fu fatto lungo il corpo, e sporse fuori quattro membra tese e pieghevoli; e fu Iddio fabbro di questi strumenti del cammino, per i quali quello appigliandosi e puntandosi, potette andare per ogni luogo, su portando lo abitacolo di quello che è divinissimo e santissimo. Cosí e per questa ragione diramarono dal corpo gambe e mani: e gli Iddii, pensando che il davanti è piú gentile cosa e piú fatto a signoria che il di dietro, per quel verso ebbero donato a noi in grandissima parte lo andare. E, convenendo che l’uomo avesse il davanti del corpo suo bene contrassegnato e dissimile, eglino, intorno un lato del capo sottoponendo la faccia, legarono quivi organi per ogni provvidenza dell’anima; e però la faccia ordinarono duce, la quale è da natura sua volta avanti.

Degli organi prima fabbricarono i luciferi occhi, e legaronli ivi, adoperando cosí. Il fuoco, quello che non ha potenza di ardere, ma sí di porgere dolce lume, quale è quello del giorno, procacciaron che divenisse corpo: imperocché il fuoco sincero ch’è dentro noi, fratello di questo fuoco del giorno, fecero ch’e’ scorresse per gli occhi; il limpido e il denso, tutto; costringendo il mezzo degli occhi, sí che alla parte piú crassa facesse intoppo, e lasciasse la via solo a quella piú limpida. E quando il lume del dí è intorno al rivo della vista, rifuggendosi allora il simile in verso del simile[1], intimamente meschiandosi, là dovunque s’abbattano sí fanno un corpo secondo lo indirizzamento dell’occhio. Il quale luminoso essendo e passionabile tutto simigliantemente a cagione della simiglianza delle parti sue, il moto di ciò che esso tocca o di ciò ond’esso è toccato, spandendo in tutt’il corpo nostro infino all’anima, arrecò questo sentimento per lo quale noi diciamo di vedere. Ma quando il cognato fuoco, quello del giorno, se ne va via per entro alla notte, allora scisso è il ruscello della luce degli occhi; perocché, uscendo fuori e entrando entro a un dissimile, si altera e spegne, non avendo piú amistà veruna con l’aria che è intorno, siccome quella che non ha fuoco. Allora il vedere si fa vano, e vien sonno. Imperocché le palpebre, le quali furono congegnate a salvamento della vista, chiudendosi, sí interchiudono la potenza del fuoco degli occhi, il quale allora spande gl’interiori moti e li uguaglia; e, uguagliati, si fa quiete; e se è molta quiete, sí viene sonno insieme con lievi sogni: e se mai sono rimasti moti piú vivi, essi, secondo la qualità e il luogo loro nel corpo, suscitano fantasmi somiglianti a cose di dentro o di fuori; i quali, svegliati che noi siamo, ci si girano ancora per la mente.

La cosa poi della formazione delle immagini negli specchi, e universalmente in tutti quanti i corpi lucidi e puliti, non è oramai niente forte cosa a chiarire; perocché dalla comunione del fuoco di dentro e di quello di fuori, e dall’unimento loro ogni volta sovra al polito piano dello specchio, in un corpo il quale si rimuti per molte guise e si adatti a quello, si fanno queste tali parvenze necessariamente; mischiandosi allora insieme su per lo polito e lucido specchio il lume che vien dalla faccia dell’obbietto con quello che deriva dagli occhi. E quello che è sinistro, pare destro; perciocché avviene che le parti della luce della vista si abbattono in quelle contrarie della luce delle cose, contro al modo usato. Ma il destro par destro, e il sinistro sinistro, quando la luce della vista in quel che si mesce con quella veniente dalla cosa, sé rivolve: e ciò incontra se la polita faccia dello specchio di qua e di là si leva, e manda il lume del destro lato dell’obbietto verso al lato manco del lume dell’occhio, e quello del manco a quello del destro. Un cotale specchio, colcato secondo la lunghezza della faccia, fa sí che paia riversata ogni cosa, mandando il di giú del lume dell’obbietto verso il di su del lume della vista, e il di su verso il di giú.

Tutte queste sono cagioni ausiliarie, delle quali giovasi Iddio come di ministre per recar quanto si può ad atto l’idea del bonissimo. I piú son di opinione che elle non siano cagioni ausiliarie, ma sí bene cagioni schiette di tutte le cose; da poi ch’elle raffreddano e scaldano, densano e spargono, e altri effetti operano simiglianti a questi. Ma non possono elle aver ragion né intelligenza a cosa niuna, imperocché l’anima s’ha a dire che è degli enti quello al quale solo convien possedere intelligenza, ed ella è invisibile; ma fuoco, acqua, aria, terra sono tutti corpi che si vedono.

Ora, colui che ha amore alla mente e alla scienza, dee primieramente cercare le cagioni prime, cioè quelle di natura intellettuale, e poi le seconde, cioè quelle che si generano da cose, le quali, da altre mosse, di necessità altre muovono alla loro volta. E cosí conviene fare anche a noi, cioè dire di tutt’e due le specie di cagioni sceveratamente, di quelle che operano con intelletto cose belle e buone, e di quelle private d’intelletto, che operano ogni volta a caso e disordinatamente.

E già delle seconde cagioni onde hanno gli occhi questa virtú loro, si è ragionato sufficientemente. Ora è a dire qual’è il piú gran bene degli occhi, per lo quale ce li ha donati Iddio. La vista io penso che è a noi cagione del maggior bene del mondo; perocché giammai dire non si poteva niuna di queste cose dell’universo, se non vedevamo noi astri, né sole, né cielo. Ora il dí e la notte, che noi vediamo, i mesi e i giri degli anni, ci hanno fornito il numero e il concetto del tempo, e il modo di cercare la natura dell’universo; onde ci siamo noi procacciato cosí la filosofia, della quale un maggiore bene né fu né sarà donato mai dagl’Iddii alla mortale generazione. Dico questo grande bene degli occhi; tutti gli altri da meno a che celebrare e laudare? dei quali occhi se alcuno è orbato, il quale non sia filosofo, egli si piangerebbe e farebbe lamento invano. Io dico, io dico che per la detta ragione Iddio ci ha trovato gli occhi e ci ha donata la vista, acciocché noi contemplando in cielo i giri dell’intelligenza, per le circulazioni della nostra mente ce ne giovassimo, le quali sono simili a quelli; se non che, quelli sono sereni, queste turbate; e appreso la dirittura e le ragioni de’ loro moti, imitando i non errabili giri dell’Iddio, i nostri proprii, i quali sono erranti, ricomponessimo.

Si dica pure la medesima cosa della voce e udito, cioè che per la stessa cagione e lo stesso fine ci furono donati dagl’Iddii; ché veramente la parola è indirizzata al fine sopraddetto, molto conferendo ella al conseguimento suo: e cosí quanto ha di giovevole nella musicale voce tutto deputato è all’udito, a cagione dell’armonia. E l’armonia che ha movimenti simili alle circulazioni della nostra anima, a chi si giovi sapientemente delle Muse non parrà ella fatta a procurare stolta dilettazione, come si pensa al dí d’oggi; ma sí perché fosse a noi aiutatrice a ricomporre in bello ordine le circulazioni della nostra anima, e a concordarle con lei medesima: sí, per questo fu donata a noi dalle Muse. E simigliantemente fu donato il ritmo, perché ci aiutasse a illeggiadrire l’abito, il quale è nei piú senza modo e grazia.


Note

  1. Questo lume di dentro, e il lume il quale è raggiato dalla cosa di fuori.
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