Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Questo testo fa parte della rivista Rivista italiana di numismatica 1893
Questo testo fa parte della serie Appunti di numismatica romana

APPUNTI

di

NUMISMATICA ROMANA



XXIX.


UN RIPOSTIGLIO SEMI-NUMISMATICO

trovato nelle vicinanze di roma.


Il titolo di quest’Appunto è forse un po’ enigmatico, ma è presto spiegato. Si tratta di un ripostiglio di bronzo (K. 3,650, N. 82 pezzi) trovato tre o quattro anni sono nelle vicinanze di Roma, in località che non mi fu possibile di precisare. — I pezzi di bronzo costituenti il ripostiglio rappresentano diversi degli stadii per cui il metallo passava successivamente per essere convertito in moneta; verghe intere o tagliate a pezzi, e questi pezzi più o meno battuti e lavorati per essere disposti a subire la coniazione.

È perciò che non m’è parso di poter classificare coll’epiteto di numismatico questo ripostiglio, il quale va considerato più che semplice metallo, ma meno che moneta. Comunque sia, il ripostiglio è preziosissimo, perchè ci fornisce alcune interessanti nozioni intorno al modo di fabbricazione delle monete di bronzo e precisamente intorno al taglio e alla preparazione dei tondini destinati ad essere coniati.

Mentre ancora molte incertezze regnano su tale punto e diversi sono i pareri e le supposizioni, come è naturale nelle cose che procedono per semplice induzione, qui possiamo approfittare della occasione, che ci si presenta assai raramente, di poter cogliere qualche osservazione sul vero.

Si suppone da molti che i tondini per la coniazione delle monete di bronzo venissero fusi. Da altri si vuole che fossero tagliati; ma senza che bene si sappia come l’una o l’altra operazione venisse praticata. Probabilmente ambedue i sistemi furono in uso presso i Romani o in epoche diverse o anche contemporaneamente; e se la fusione serviva pei pezzi di grandi dimensioni, il taglio era adoperato pei pezzi minori.

E una prova che questo secondo modo fosse usato, l’abbiamo nel nostro Ripostiglio, che ora ci conviene esaminare colla scorta delle due annesse tavole (N. VI e VII), nelle quali è completamente riprodotto a metà diametro dal vero. Nella prima tavola (VI) le sette verghe, che rappresentano la forma rudimentale primitiva della preparazione del metallo sono di sezione oblunga e quasi rettangolare; i pezzi che seguono sono frammenti di queste verghe tagliati a scalpello. Il primo ne è una estremità e così pure l’ultimo della prima riga, nel quale si vedono già praticate due incisioni le quali segnano i tre pezzi in cui doveva essere diviso. Un’altra incisione si vede pure sul secondo pezzo della stessa prima riga, evidentemente destinato ad essere diviso in due. Tutti gli altri pezzi sono già completamente staccati gli uni dagli altri, e, nell’ordine in cui essi sono disposti, lasciano scorgere il successivo progredire del lavoro di preparazione a martello, sia per appiattirli, sia per renderli di forma approssimativamente rotonda, finché si giunge ad avere dei veri tondini proprii alla coniazione come lo dimostrano gli ultimi riprodotti nella tavola, i quali hanno già la forma di moneta, anzi per esser tali non manca loro che il conio.

Il medesimo processo è egualmente visibile alla seconda tavola (VII), ove invece la forma primitiva del metallo è quella di una verga a sezione approssimativamente circolare. Il primo frammento è evidentemente tolto da una verga di sezione maggiore. Quelli che seguono invece si vede che furono tagliati da verghe come quella che ci è sola rimasta intera, frammenti che il lavoro progressivo del martello rende a poco a poco appropriati a servire da tondini per monete.

Il lavoro del martello però segue una via differente pei segmenti delle verghe piatte rappresentate alla Tav. VI e per quelli delle verghe rotonde della VII. Sui frammenti della prima si esercita nel senso longitudinale della verga poi nel senso degli angoli per ottunderli, e ottenere così la forma circolare voluta pel tondino; mentre sui frammenti di quelle rotonde, il martello fa il suo lavoro nel senso della sezione, per guadagnare in larghezza, ciò che la percussione fa perdere nello spessore; ma per arrivare sempre al medesimo risultato, d’avere dei pezzi di metallo proprii alla coniazione di monete.

Da tempo, e malgrado l’opinione contraria di parecchi egregi colleghi e anche di qualche coniatore di medaglie, tutti sostenitori del sistema della fusione, io m’ero formata la convinzione, che sempre mantenni, del taglio a scalpello e tale convinzione oggi la vedo con piacere confermata dal nostro ripostiglio.

Un attento esame dei bronzi imperiali fino oltre l’epoca di Gallieno, e dirò più precisamente l’esame dell’orlo di questi bronzi (giacchè le due faccie della moneta avendo subita la pressione del conio, non ci resta più che l’orlo, ove poter fare le nostre osservazioni) m’avea persuaso dell’uso del martello. Tale lavoro naturalmente veniva eseguito con maggiore o minore perfezione a seconda delle epoche, e così troviamo accurati e abbastanza rotondi i primi bronzi imperiali; notiamo un miglioramento sotto Nerone, un miglioramento più deciso sotto Traiano e Adriano al momento dell’apogeo dell’arte, — nel qual tempo parrebbe di vedere che alla perfezione dei contorni, oltre che il martello concorresse anche la lima; — poi un declino subito con Antonino Pio, il quale si accentua con M. Aurelio e Commodo; e, dopo un piccolo miglioramento sotto Caracalla, si precipita nuovamente coi Gordiani, coi Filippi, fino all’epoca di Treboniano, dì Traiano Decio e di Gallieno, quando i pezzi ci appaiono irregolarissimi e addirittura informi e il cui contorno talvolta s’avvicina piuttosto ad un quadrato irregolare che non ad un circolo, talchè è ben raro che il conio riesca a coprire completamente il tondino e perciò molte volte una sola parte delle leggende rimane impressa sulle monete.

Tornando al nostro ripostiglio, mentre credo inutile dare i pesi delle verghe, ho tenuto invece nota dei pesi di tutti i singoli pezzi ed eccone il prospetto.

Pezzi ottenuti dalle verghe piatte:

Pezzo triplo da gr. 45
Pezzo doppio 40
Pezzi semplici: N. 1 da gr. 29
„ 1 „ 28.50
„ 3 „ 28
„ 1 „ 23.50
„ 1 „ 25.50
„ 1 „ 16
„ 5 „ 15
„ 4 „ 14

„ 3 „13
» 3 » 11
Pezzi 27.

Pezzi ottenuti dalle verghe rotonde:

Pezzi semplici: N. 1 da gr. 15
„ 7 „ 13
„ 9 „ 12 1/2
„ 15 „ 12
„ 11 „ 11 1/2
„ 3 » 11
„ 4 „ 10
„ 1 „ 8
„ 1 „ 7
Pezzi 54 (escluso quello di dimensioni maggiori rappresentato pel primo nella tavola).


Questi pesi significano che i pezzi erano destinati a coniare dei sesterzi e dei dupondii, ossia dei grandi e dei medii bronzi assai probabilmente nel II e III secolo.

I pezzi riusciti più pesanti si sceglievano per coniare dei gran bronzi, e dopo un certo limite si destinavano ai medii bronzi, scartando e rifondendo quelli che fossero decisamente troppo leggeri, — così almeno parrebbe lecito argomentale. — Il modo di fabbricazione, quale ci risulta dal ripostiglio, ci illumina sulla enorme differenza di peso, che troviamo fra monete di bronzo della medesima specie e ci mette bene in guardia dal basare troppo certi ragionamenti o certe induzioni sul peso individuale delle monete di bronzo. Il bronzo all’epoca imperiale era moneta di conto; e, non possedendo gli antichi mezzi meccanici come li possediamo noi, per avere un frazionamento uniforme del metallo, non si badava tanto pel sottile sul più o sul meno, del peso.

Certo è che per tali differenze conviene ripetere quanto più sopra si disse relativamente alla maggiore o minore perfezione di lavoro e rotondità dei tondini. Come questi sono meglio fatti e più regolari nelle buone epoche, così più equilibrati sono i pesi, i quali oscillano sempre più quanto più cattivi sono i tempi e quanto più decade in tutto il resto la società. Così abbiamo il massimo della rotondità e della regolarità di peso nelle monete ai bei tempi di Traiano e d’Adriano, e raggiungiamo invece il colmo dell’irregolarità di forma dello squilibrio di pesi nell’infelice tempo di Gallieno.

Certo sbaglierebbe chi credesse che io voglia basare tutto il sistema della monetazione romana di bronzo sull’ispezione del nostro ripostiglio; fare cioè di questo un monumento che dovesse servire di norma inappellabile di giudizio. Tengo anzi a dichiarare che per parte mia non lo credo un ripostiglio ufficiale, — che non si vedrebbe il motivo per cui poteva essere stato nascosto un fondo di zecca ufficiale, — bensì quello di un privato falsario, il quale probabilmente l’avrà nascosto in un momento di panico che la sua industria venisse scoperta. Ma considerandolo pure come tale, io credo che si possa egualmente ritenere come una copia fedele di quanto si faceva nelle officine dello Stato. Nè il costo, né la fatica, né il tempo sarebbero stati maggiori a fondere addirittura i tondini invece che le verghe; e se il nostro falsario non lo ha fatto, bisogna conchiudere che l’uso non era tale. Per noi resta dunque stabilito che presso i Romani si usava apprestare i tondini per le monete nel modo che lo dimostra il nostro ripostiglio, modo che di certo non viene punto smentito, anzi secondo noi risulta riprovato, dalle osservazioni che si possono fare sulle numerosissime monete di bronzo, che l’antichità ci ha trasmesso.




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