< Una sfida al Polo
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Capitolo VII - I traditori
VI VIII

CAPITOLO VII.


I traditori.


Dik Mac Leod, il poco simpatico chaffeur, dopo un’abbondante colazione, durante la quale aveva dato una sorprendente prova del suo appetito, aveva lasciata la palazzina per recarsi a preparare il suo bagaglio, quando un uomo di statura quasi gigantesca e di forme massiccie, avvolto in un gran pastrano foderato di pelle di bisonte, che da qualche ora passeggiava poco lontano dalla cancellata che chiudeva il giardino, lo abbordò bruscamente, dicendogli:

— Vorreste permettermi una parola, mister? Se non m’inganno siete uno chaffeur, o almeno ne indossate il costume. —

Se il signor di Montcalm non si fosse trovato nel suo garage assieme allo studente per sorvegliare gli operai che davano gli ultimi colpi alla preparazione dell’automobile, avrebbe subito riconosciuto, con non poca sorpresa, in quel gigante il maestro di boxe di mister Torpon.

Dik Mac Leod, udendo quelle parole, si era fermato, osservando attentamente l’americano ed ammirandone sopratutto le forme imponenti.

— Dite pure, mister, — rispose finalmente.

— Questo veramente non è il luogo per fare delle confidenze, mio caro chaffeur, — rispose il yankee, lanciando un’occhiata sospettosa verso la palazzina del canadese. — Posso offrirvi un buon bicchiere di wisky od un grog?

— Un po’ di alcool non fa male quando si è mangiato abbondantemente, — disse l’ex-baleniere. — E poi io ho l’abitudine di non rifiutare mai un invito quando mi viene fatto da un gentleman.

— Avete fatto colazione dal signor di Montcalm?

— Avete proprio indovinato, signore.

— Allora un buon bicchiere di wisky vi farà digerire meglio d’ogni altro liquore.

— Anche due, mister. —

Il maestro di boxe attraverso la via che era in quell’ora piuttosto frequentata, e dopo d’aver svoltato l’angolo d’un vasto caseggiato, entrò in un bar, chiedendo un gabinetto ed una bottiglia di wisky, del migliore.

Pochi istanti dopo si trovava seduto di fronte allo chaffeur, in un salottino minuscolo e silenzioso.

— Bevete innanzi tutto, mister....

— Dik Mac Leod, — rispose l’ex-baleniere, vuotando d’un colpo il bicchiere e facendo scoppiettare la lingua con visibile soddisfazione. — Ed ora, signore, ditemi che cosa desiderate da me ed al più presto possibile, non avendo troppo tempo da perdere.

— Vorrei sapere se siete libero o se il signor di Montcalm vi ha arruolato.

— Parto pel Polo, mister.

— Coll’automobile di quel signore?

— Precisamente. Volevate forse farmi anche voi qualche proposta? —

Invece di rispondere, il maestro di boxe gli chiese bruscamente:

— Siete un uomo scrupoloso o ne avreste quando si trattasse di guadagnare una bella somma? —

L’occhio dell’ex-baleniere fiammeggiò sinistramente.

— Mi avete capito? — chiese l’americano, vedendo che lo chaffeur indugiava a rispondere.

— Pur di guadagnare del denaro, mi sentirei capace di scendere all’inferno e di andare a rompere tutte le corna di compare Belzebù, — disse l’ex-baleniere. — Perchè credete che io abbia accettato di condurre il signor di Montcalm al Polo? Per rivedere i ghiacci e fare la conoscenza, o meglio rinnovarla, cogli orsi bianchi, le foche e le morse? No; ma per la grossa somma che mi ha offerto, mio gentleman.

— Molto grossa?

— Eh!... Diecimila dollari.

— Che cosa direste allora se vi fosse una persona che ve ne offrisse altrettanti per impedire che il signor di Montcalm giunga proprio fino al Polo? —

Dik Mac Leod prese la bottiglia di wisky, si empì il bicchiere e dopo d’averlo vuotato d’un fiato lo depose sul tavolo con fracasso, dicendo:

— Che razza d’affare è mai questo?

— Un affare di diecimila dollari che potreste guadagnare, immobilizzando un’automobile, operazione semplicissima per uno chaffeur.

— Un colpo al radiatore ed è bella e finita, — disse l’ex-baleniere.

— Un affare di cinque minuti.

— Ma nemmeno d’uno, mio signore.

— E sareste proprio capace di darlo?

— Per diecimila dollari!... Farei saltare anche l’automobile e la vettura di rimorchio.

Basta un zolfanello e la benzina scoppia come una bomba insieme a tutti i suoi serbatoi.

— Che bel furfante!... — non potè a meno di pensare il maestro di boxe. Il signor Torpon ha avuto fortuna, e non sarà certo il signor di Montcalm che andrà a pranzare là dove s’incrociano tutti i meridiani. —

Levò da una tasca una bellissima pipa di schiuma levantina, regalo certamente del suo munifico allievo, la riempì di tabacco, impiegando un certo tempo che l’ex-baleniere occupava intanto a baciare amorosamente la bottiglia di wisky, l’accese, e dopo d’aver lanciato in aria tre o quattro boccate di fumo, in modo da avvolgersi quasi completamente dentro una nuvola, riprese:

— Sapete per quale motivo il signor di Montcalm tenta di recarsi al Polo?

— Eh!... — fece il baleniere. — Chi non lo sa? I giornali hanno parlato abbastanza.

È una sfida che finirà dentro gli occhi azzurri d’una ricca ereditiera yankee: miss Ellen Perkins, se non m’inganno.

— Benissimo, giovanotto.

— E che mister Torpon vorrebbe portare via al signor di Montcalm, è vero? — chiese lo chaffeur, sorridendo.

— Meglio che meglio. Ciò mi eviterà di darvi soverchie e poco interessanti spiegazioni.

— E mister Torpon ha mandato voi ad offrirmi una somma, per impedire che questo signor canadese vinca la sfida.

— Avete una intelligenza straordinaria, giovanotto. Al di là del S. Lorenzo fareste maggior fortuna che al Canadà.

— Pare che si possa farla anche sulla riva sinistra del fiume, mio gentleman, poichè centomila lire non si guadagnano facilmente in un giorno quando non si portano i nomi d’un Carnegie o di un Pierpont Morgan.

— Avete ragione.

— Ora spiegatevi meglio.

— Sareste deciso ad accettare la proposta che vi ho fatta?

— Sarà un tradimento assai nero, tuttavia pur di guadagnare una così bella giornata, che mi permetterà un giorno d’armare anch’io una goletta baleniera e di comandarla non più come marinaio, bensì come padrone, sono pronto a tutto.

— Galeotto, — brontolò il maestro di boxe, facendo un gesto di disgusto che sfuggì allo chaffeur, occupato in quel momento a mandar giù un altro bicchiere. — Giacchè sono venuto qui, cerchiamo di fare gl’interessi del mio allievo. —

Aspirò altre tre o quattro boccate di fumo, poi disse:

— A noi basta che il signor di Montcalm non superi il 90°. Conducetelo pure molto al nord, a noi non importa. Quello che ci preme è che lo immobilizziate prima di giungere al Polo.

Dove? Come? Quando? Questo riguarda voi.

— Diavolo!... — esclamo l’ex-baleniere, percuotendo il tavolo con un pugno formidabile. — E non avete pensato alla mia pelle? Che cosa ne farei dei vostri denari se io non potessi più ritornare?

— Passeranno ai vostri eredi, poichè io ho l’ordine di depositare, a quella banca che voi mi indicherete, i diecimila dollari intestati al vostro nome e non ritirabili prima di tre mesi. —

L’ex-baleniere fece una smorfia.

— Alla malora i miei eredi!... — esclamò. — Preferisco divorarmeli io quei dollari.

— Ritornate e li ritroverete.

— E se, come voi desiderate, o meglio m’imponete, immobilizzo il treno in mezzo ai ghiacci all’80° od all’85° od 88° parallelo, come farò poi io a tornarmene indietro? Io non mi occuperò della pelle degli altri se vorrete ma, by-god!... Ci tengo un po’ alla mia!...

— Vorreste guadagnare una somma così rispettabile senza correre nessun rischio? E poi, non vi sarà lassù mister Torpon coi suoi compagni e la sua automobile?

— Purchè riesca a spingersi tanto innanzi, — osservò lo chaffeur. — Bisogna conoscerle quelle regioni per farsi un’idea delle difficoltà che si possono incontrare.

— Esitate?

— Ah no!... Non voglio perdere un’altra fortuna.

— Accettate?

— Sì, mio gentleman.

— Quando parte il signor di Montcalm? — chiese il maestro di boxe.

— Domani a mezzanotte. Vuole andarsene senza fracasso e senza hurràh.

— Allora domani mattina, alle nove, vi aspetto qui coi diecimila dollari che andremo a depositare insieme, a nome vostro, alla banca che mi indicherete.

— Patto concluso: qua la mano, gentleman. —

Una stretta formidabile, una vera stretta all’americana, che fece fare al briccone una brutta smorfia, chiuse il dialogo.

Dik Mac Leod si alzò, un po’ traballando sulle gambe piuttosto malferme e se ne andò colle mani sprofondate nelle ampie tasche, borbottando:

— Ecco una bella giornata!... Lo sapevo io che cambiando mestiere avrei finito per fare una bella fortuna. Le foche, le morse e le balene che da tre anni lascio in pace, devono aver pregato per me.

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La mezzanotte suonava all’orologio del palazzo del governo, tosto ripetuta su diversi toni da tutti gli orologi dei campanili delle chiese cristiane e protestanti di Montreal, quando il cancello del giardino in mezzo a cui s’alzava il garage di Montcalm s’aprì per lasciar passare il treno destinato a conquistare il Polo artico.

Nevicava fortemente ed un vento freddissimo, che giungeva a grandi raffiche dalle immense pianure dell’Ontario, spazzava, sibilando sinistramente, le vie della città ormai già deserte.

Dik Mac Leod sedeva al volante; dietro di lui, ben avvolti in ampi gabbani di grosso feltro, stavano il signor di Montcalm e Walter, l’allegro studente bocciato.

Nella vettura a rimorchio, ben chiusa e tutta oscura, non vi era nessuno.

— Buon viaggio, padrone!... — disse il gigantesco portiere, alzando la lanterna e spalancando i cancelli. — Che Dio vi assista in così grande e così pericolosa impresa.

— Addio, mio buon Perrot, — rispose, con voce un po’ commossa, il signor di Montcalm. — Se gli orsi bianchi non ci divoreranno, prima di due mesi noi saremo di ritorno.

Ti manderò notizie dal forte Severn e da quello di Churchill, se non avrai premura. —

Poi alzando un po’ la voce disse allo chaffeur, che si era ben accomodato dietro allo scudo d’acciaio tutto ricoperto di hickory, perchè le sue gambe non avessero nessun contatto col metallo:

— All’ufficio telegrafico, prima di tutto.

— Bene, signore, — rispose l’ex-baleniere.

L’automobile infilò la larga via, rumoreggiando e brontolando, e spazzando dinanzi a sè la neve che si era già accumulate in alti strati.

Attraversò alcuni corsi a velocità moderata, qualche piazza, poi si fermò dinanzi all’imponente ufficio telegrafico, illuminato come in pieno giorno da una moltitudine di lampade elettriche.

Il canadese balzò a terra scuotendosi di dosso la neve, fece segno a Walter di seguirlo ed entrò dirigendosi verso uno sportello dietro cui sonnecchiava un impiegato.

— Speditemi subito questo ad Albany, — disse il signor di Montcalm, presentando un modulo già scritto.

L’impiegato sbadigliò un paio di volte, si accomodò sul naso gli occhiali e lesse:

«Albany — Miss Ellen Perkins.

Sono partito.

«G. di Montcalm».

— Null’altro? — chiese l’impiegato.

— Niente da aggiungere, — rispose il canadese.

Attese la ricevuta e tornò nell’automobile.

— Un po’ secco quel telegramma, — disse Walter, riprendendo il suo posto.

— Quella orgogliosa americana che per smania di farsi della réclame manda gli uomini che la corteggiano a rompersi il collo perfino al Polo, non merita di più, amico, — rispose il canadese.

— Ecco un amore poco saldo in gambe.

— Può darsi. Dik, avanti, e appena fuori della città non fate risparmio di benzina. Prima di giungere ai grandi banchi del Polo, ne troveremo dell’altra.

— Chi ce la provvederà, signor di Montcalm? — chiese lo studente. — Gli orsi bianchi non ne hanno mai tenuta di certo in serbo per comodità dei signori automobilisti.

— Ho prese le mie precauzioni, giovanotto mio. A quest’ora i due forti della Compagnia delle pelliccie della Baia di Hudson, che si trovano sui confini della regione abitabile, devono essere già stati avvertiti, per cura del rappresentante della Compagnia di Montreal, del mio passaggio.

Là non ci mancherà la benzina, ma dopo non dovremo contare che sulla nostra riserva.

Sarà dopo il forte Churchill che le grandi difficoltà ed i grandi pericoli cominceranno per noi.

— E per toccare quegli stabilimenti perduti fra le nevi polari voi avete prescelto la via più lunga?

— Precisamente, Walter. Se noi seguissimo invece la rotta a levante della baia d’Hudson, abbrevieremmo di molte centinaia di leghe il tragitto, ma là i forti mancano.

— E voi credete che Torpon seguirà invece quella?

— Così mi hanno riferito.

— Speriamo che vada ad affogarsi nello stretto d’Hudson, che troverà sulla sua rotta.

— E forse non ancora così solidamente gelato da poterlo attraversare, poichè lo raggiungerà troppo presto.

— Mentre noi?

— Mentre noi troveremo sempre terra fino alla Terra di Boothia, che si stende al di là del 70° parallelo e dalla quale potremo passare, senza alcuna difficoltà, sulla Terra di Somerset che spinge le sue punte settentrionali a pochi minuti dal 75°.

— A 15 soli gradi di distanza dal Polo.

— Sì, Walter.

— Ossia a sole novecento miglia.

— Precisamente.

— Distanza che noi potremo forse superare in ventiquattro ore.

— Oh, non correte tanto, amico, — disse il signor di Montcalm, sorridendo. — Su quei ghiacci non potremo spingere il nostro treno nè alla velocità di ottanta, nè di cinquanta e forse nemmeno di dieci miglia all’ora.

Chissà quali brutte sorprese ci offriranno quegli sterminati campi di ghiaccio.

Io non mi illudo di trovare dei paks abbastanza lisci per far correre le nostre ruote.

— Eppure io sono convinto, signor di Montcalm, — disse lo studente con grande entusiasmo, che noi riusciremo a sollevare il velo misterioso che copre quel dannato Polo nord.

— Si vedrà. —

Intanto l’automobile continuava a correre in mezzo alla neve che copriva le vie, mantenendo una velocità moderatissima di non più di trenta miglia all’ora, per non imprimere troppe scosse alla vettura di rimorchio.

Nevicava sempre a grandi fiocchi che il ventaccio faceva volteggiare in tutte le direzioni, ma nessuno se ne inquietava, poichè la capote di cuoio riparava magnificamente tanto lo chaffeur, quanto i suoi due compagni.

Alle dodici e mezza il treno, quasi da nessuno notato, volgeva le spalle ai vecchi bastioni di Montreal e correva attraverso alla bianca campagna per raggiungere l’Ottawa, nel suo corso superiore.

Quantunque la neve fosse già alta più d’un metro, la macchina funzionava magnificamente, aprendosi, senza fatica, un largo solco entro cui s’incanalavano le ruote, turbinando e sobbalzando.

Il canadese e lo studente, stanchissimi pei lavori compiti durante la giornata, a poco a poco avevano chiusi gli occhi, invitati al sonno dal sonoro russare della macchina, e godendosi il dolce tiepore che sfuggiva dai due tubi, volti uno verso la ridotta del guidatore e l’altro verso l’interno della vettura, ed ottenuto coi semplici residui dello scappamento.

Dik Mac Leod, rannicchiato dietro lo scudo protettore, colle mani coperte da grossi guanti di pelle di foca, aggrappato al volante, spalancava invece sempre più gli occhi. Temeva di incontrare qualche improvviso ostacolo, non essendo le strade canadesi così ben tenute, nè così sicure come quelle europee, quantunque le due grosse lampade a carburo, fissate sul davanti, spandessero due intensi fasci di luce che si prolungavano oltre i venti metri.

Alle cinque del mattino, il treno che aveva viaggiato tutta la notte, attraversava l’Ottawa sul ponte metallico della linea ferroviaria e si slanciava verso le grandi pianure dell’Alto Canadà, coperte d’immense boscaglie di pini bianchi, di aceri, di betulle, di quercie nere, rifugi quasi sicuri dei bufali, degli orsi, delle gigantesche alci e sopratutto dei lupi, specialmente grigi e neri.

Al fracasso prodotto dal treno passando sulle lastre d’acciaio del ponte, il canadese e Walter avevano aperti gli occhi.

— Come va, Dik? — chiese subito il signor di Montcalm.

— Benissimo, padrone, — rispose l’ex-baleniere. — La bufera di neve è terminata ed il freddo rassoderà presto quella che è caduta.

— E la macchina?

— Funziona meglio d’un orologio.

— Allora possiamo bere il the.

— Approvato, — disse l’ex-studente. — M’incarico io di andarlo a preparare. Non faccio per dire, ma gl’inglesi lo sanno fare meglio di tutti gli altri popoli. —

L’automobile fu fermata ed i tre uomini passarono nella vettura-salon, anche per vedere se tutto era rimasto in ordine durante quella prima corsa.

Bevuta la profumata bevanda, accompagnata da un paio di bicchierini di wisky e fatta una fumata, i viaggiatori tornarono al loro posto sull’automobile, riprendendo subito la corsa.

La strada ormai non esisteva più, poichè l’Alto Canadà è poco abitato e poco frequentato. Essendo però formato da pianure o boscose o coperte di laghetti e di vastissimi stagni, almeno nella sua parte meridionale, che gelano subito ai primi freddi, il viaggio non poteva presentare alcuna difficoltà.

Di quando in quando, attraverso gli squarci della nebbia, alzatasi coi primi raggi del sole, apparivano delle vaste fattorie, costruite per lo più in legname, con immensi recinti che si prolungavano per miglia e miglia, gremiti di grassi bufali durante la buona stagione, ma ora deserti.

Dei cavalieri, di tratto in tratto, si mostravano e si mettevano a galoppare dietro all’automobile, lanciando grida selvagge.

Erano per lo più irochesi, gli ultimi discendenti di quelle formidabili tribù che un tempo costituivano sei nazioni, ora ridotte solamente a cinque: gli Oneida, i Seneca, i Tusiarora, gli Onondaga ed i Cayuga.

L’ultima è ormai scomparsa per le guerre sanguinose e non ne esiste ormai più nessun rappresentante, nemmeno fra gli Assiboini e gli Algonchini.

Non vi è più nessun Mandano nel Canadà.

Quegli indiani vestiti ormai quasi all’europea, con un cilindro in testa spelato ed ammaccato, adorno di qualche etichetta di sardine di Nantes, con dei lunghi calzoni neri sbrindellati, che altro non conservavano dell’antico costume che una pelle di bisonte malamente conciata o qualche coperta variopinta e tutta rattoppata, facevano una ben meschina figura, quantunque non avessero ancora perduta la tinta più o meno bruno-rossastra e le capigliature lunghe.

Fenimore Cooper non avrebbe potuto più riconoscere in quei guerrieri degenerati nessuno dei suoi eroi.

— Peccato! — mormorava lo studente, il quale non si stancava di osservarli, quantunque non vedesse più, sopra i lunghi capelli svolazzanti, i diademi di piume multicolori, o sui loro dorsi le artistiche acconciature di tacchino selvatico. — La civiltà ha distrutto la poesia delle pelli-rosse perfino in mezzo alle regioni nevose. —

A mezzodì l’automobile, sempre rimorchiando splendidamente la carrozza-salon, dopo una corsa di oltre trecentocinquanta chilometri, si cacciava sotto le immense foreste che coprono ancora buona parte dell’Alto Canadà e che si spingono, quasi ininterrottamente, fino sulle sponde meridionali della vastissima baia di Hudson.

— Walter, — disse il canadese, — ecco il momento di provare la vostra abilità nel maneggio delle armi da fuoco. Entriamo nel regno della grossa selvaggina. Spero che non vi rincrescerà assaggiare un buon filetto di bisonte o d’alce o di mooses.

Io cercherò di aiutarvi, non essendo un pessimo tiratore.

— Non sareste nemmeno Canadese, — rispose lo studente bocciato. — Si dice che i vostri compatriotti siano i migliori cacciatori del mondo.

— Ed infatti la Compagnia delle pelliccie della baia d’Hudson preferisce arruolare i nostri piuttosto che gli altri.

Facciamo una fermata sul margine di questa gigantesca foresta per prepararci il pranzo. Chissà che intanto non ci passi a tiro di fucile qualche bel capo di selvaggina.

Dik, abbandonate il posto e lasciate che l’automobile russi.

Un po’ di riposo non le farà nemmeno male. —



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