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CAPITOLO XVI.
Durante tutta la giornata, la tempesta non cessò di ruggire intorno all’automobile ed al carrozzone, aumentando le inquietudini degli assediati, i quali temevano di vedersi seppellire sotto parecchi metri di neve.
La scomparsa della luce non portò nessun cambiamento.
Fioccava sempre ed il vento non finiva mai di ululare. Sulla vicina baia di Hudson la tempesta doveva infuriare tremendamente.
Il freddo aumentava. Un termometro appeso fuori da un finestrino aveva rapidamente raggiunto i 30°.
— Signor di Montcalm, — disse lo studente dopo la cena, che era stata piuttosto triste. — Come finirà questa faccenda? Se questa tempesta continuerà, noi finiremo per non poterci più muovere.
Tutta questa neve che si accumula intorno a noi gelerà e ci chiuderà come entro una morsa.
— Che cosa volete che vi dica? — rispose il canadese, il quale fumava la sua pipa seduto dinanzi al tavolino collocato sotto la lampada. — Aspettiamo che questa ira di Dio cessi.
— Può durare molti giorni.
— Oh!... Anche delle settimane, se non dei mesi, — disse l’ex-baleniere. — Ne so io qualche cosa.
— Se attaccassimo gli orsi?
— Se si trattasse di affrontarne uno, fors’anche due, vi direi, mio caro Walter, che io sono pronto a balzare fuori e ad impegnare risolutamente la battaglia.
Quattro!... Ah!... Sono troppi per tre uomini. Che ne dite, Dik?
— Che ci mangerebbero, — rispose il marinaio.
— Cerchiamo un qualche mezzo per farli scappare.
— Cercate pure, Walter.
— Se fossi certo che il carrozzone non prende fuoco, aprirei un buco nel pavimento e bagnerei per bene quelle bestiaccie.
— E perchè no!... — esclamò il canadese, colpito da quella idea originale. — Si spegne la stufa e la lampada ed ecco evitato il pericolo d’un incendio.
— M’intendevo di arrostirli, signore.
— Ah no, mio caro!... Abbiamo troppe munizioni e troppa benzina qui e non mi sorride affatto l’idea di saltare in aria insieme al carrozzone.
Voglio andare al Polo io!...
— Allora li arrostiremo quando verranno fuori.
— Sì, se si terranno a debita distanza.
— Approvate dunque la mia idea?
— Pienamente.
— Dik, aiutatemi.
— Mentre io cerco una grossa trivella, — disse il canadese.
Furono tolti il tavolo e parecchie casse e fu levato il tappeto di feltro, mettendo a nudo il tavolato.
Lo studente accostò innanzi tutto un orecchio, ascoltando attentamente ora più innanzi ed ora più indietro.
— Si odono? — chiese il canadese, che si era armato della trivella.
— Sono qui sotto, signore. Russano come contrabbassi scordati.
— Dik, spengete la stufa e la lucerna ed anche la vostra pipa, e portate qui una latta di benzina. Le precauzioni non sono mai troppe con un liquido così infiammabile. —
Il pavimento fu subito attaccato ed un buco della circonferenza d’un dollaro, fu ben presto aperto.
Gli orsi dovevano trovarsi proprio lì sotto, poichè il loro poderoso russare giunse subito più sonoro agli orecchi dei tre esploratori, accompagnato anche da qualche grugnito soffocato.
Qualcuno di quei bestioni doveva aver avvertito il rumore prodotto dalla trivella, quantunque fosse stata maneggiata con molta prudenza.
— Accostate la latta e lasciate colare attraverso il foro, Dik. Un paio di litri basteranno per inzupparli.
— Che si ubbriachino, signor Gastone? — chiese Walter.
— Non ho mai conosciuto il gusto degli orsi, — rispose il canadese. — Può darsi che la benzina piaccia a questi giganti.
— Procurerà in tal caso loro dei dolori atroci. Prepariamo la nostra piccola farmacia per poter somministrare loro un forte emetico.
— Sì, burlone. —
Un glu-glu li avvertì che la benzina cominciava a colare attraverso al foro.
— Vedremo se bevono, — disse lo studente. — Scommetto che sono capaci di leccarsi il pelame ed anche i baffi. —
Dei brontolii, che parevano dei ruggiti soffocati, lo persuasero invece del contrario.
— Hanno ragione, — disse il chiacchierone. — Avrebbero preferito dell’olio di foca.
Sarà per un’altra volta. —
Gli orsi, sorpresi da quella inondazione di nuovo genere, si agitavano furiosamente e soprattutto sternutavano sonoramente.
I loro poderosi dorsi urtavano il fondo del carrozzone con tale violenza, da imprimere alla casa viaggiante un vero movimento di rollìo.
— Walter, — disse il canadese. — Alle finestre coi mauser! Basta, Dik!... Riaccendete invece la stufa e subito preparatemi un po’ di canape che inzupperete nella benzina.
Guardate nella cassa N. 7.
— Signor Gastone, volete fare un arrosto? — chiese lo studente.
— Sì, d’orso vivo, — rispose il canadese.
Mentre l’ex-baleniere levava il recipiente chiudendolo per bene, si erano slanciati verso due finestrini dopo di essersi armati dei fucili.
Gli orsi stavano per abbandonare il loro rifugio e s’aprivano il passo attraverso la neve già gelata, scavando rabbiosamente.
Erano dalla parte della porta, poichè era proprio là che il carrozzone subiva i più poderosi urti.
— La stufa!... — gridò il canadese. — Vengono!...
— È pronto, — rispose Dik.
— La lampada ora.
— È fatto.
— Eccoli!... — gridò in quel momento lo studente.
Un orso enorme, forse più grosso ancora di quello che era stato ucciso, era comparso rizzandosi, con una brusca mossa, sopra lo strato di neve.
Muggiva come un giovane toro, alternando dei nitriti di cavallo.
Un altro gli aveva tenuto subito dietro.
Il canadese aprì il finestrino gridando a Dik:
— Accendete la canapa!... —
Una luce intensa illuminò l’interno del carrozzone. L’ex-baleniere aveva dato fuoco ad un grosso rotolo di canape incatramato ed inzuppato abbondantemente di benzina.
— Qui!... Qui!... Dik!... Gettate!... —
I due orsi si erano arrestati a tre o quattro metri dal carrozzone e pareva che attendessero i compagni prima di scagliarsi all’assalto.
Era il momento opportuno.
Dik d’un salto fu presso il finestrino che il canadese aveva precipitosamente abbandonato per lasciargli il posto e gettò la canapa fiammeggiante.
Una vampata gigantesca avvolse tosto i due disgraziati orsi il cui pelame era inzuppato di benzina.
Urla spaventevoli lacerarono l’aria, vincendo in potenza perfino i ruggiti della tempesta.
Le due bestie che ardevano come torcie e che si sentivano crepitare la pelle addosso e calcinare le carni sotto i morsi del terribile liquido, girarono per alcuni istanti su loro stessi come se fossero stati colpiti da una improvvisa pazzia, poi si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura nevosa lasciandosi dietro due immense striscie di fuoco e di scintille.
— Ah!... Poveri diavoli!... — esclamò lo studente. — Dovevano piuttosto lasciarsi ammazzare docilmente da noi e servirci dei copiosi pranzi.
Chi mangerà ora la loro carne arrostita alla benzina?
— Ci penseranno i lupi, — rispose l’ex-baleniere. — I loro stomachi non soffriranno. —
Aveva preparato un altro rotolo di canapa e l’aveva asperso di benzina.
Il canadese si era riaffacciato al finestrino.
Anche gli altri due orsi, attirati dalle urla dei loro compagni, ancora galoppanti fra la bufera di neve, si erano mostrati.
— Sotto, Dik!... — gridò. — Non li lasciate scappare!... —
Il baleniere diede fuoco alla canapa e la gettò nuovamente, colla mano sicura di un esperto fiociniere.
Il risultato, come era già da prevedersi, fu identico al primo.
I disgraziati animali che mai di certo avevano conosciuto il fuoco, furono avvolti in una gigantesca fiammata, e pazzi di dolore si erano slanciati a loro volta in mezzo alla tempesta di neve, mescendo le loro urla orribili a quelle del vento.
Per parecchi minuti i tre esploratori videro vagolare per la pianura quelle quattro torcie viventi spandendo di tratto in tratto dei grandi sprazzi di luce, poi l’oscurità ripiombò, e la neve che continuava a cadere con rabbia estrema coperse tutto.
— È finito, — disse lo studente, la cui voce sembrava un po’ commossa — Ah!... Che terribile fine hanno fatto quei poveri orsi!... Dal grande freddo sono passati improvvisamente al gran caldo e che caldo!... Non vorrei provarlo mai!...
— Avete cinque delitti sulla coscienza, dei quali dovrete rendere conto al genio protettore benigno di tutti questi abitanti del gran nord.
— Dovevamo lasciarci divorare dunque, come semplici bistecche? Con quelle bocche non vi era da scherzare.
Se il buon o cattivo genio polare verrà a rimproverarmi di aver fatto fare ai suoi figli una morte così atroce, lo inviterò a mettersi in mezzo a cinque dei suoi orsi e vedremo che cosa lasceranno di lui.
— La vostra idea è stata veramente meravigliosa, Walter. È vero che potevamo fare anche noi l’egual fine.
Se invece di fuggire si fossero precipitati contro il nostro carrozzone, che scoppio sarebbe avvenuto, se il fuoco si fosse comunicato!
— Lo ammetto, signor Gastone, ma quei bravi orsi hanno avuto il buon senso di non farlo.
— E siete loro riconoscente?
— Certo, — rispose seriamente lo studente.
— Ciò non v’impedirà però di assaggiare gli zamponi del bestione che è caduto sotto le nostre palle e che è affondato nella neve, quasi dinanzi alla porta.
— Per tutti i fulmini di Giove!... Me l’ero scordato!...
— Un cuoco che dimentica quattrocento chilogrammi di carne deve essere un pessimo cuciniere.
— No, uno stordito, signore, perchè io vi farò vedere come arrosolerò quegli zamponi.
— Uhm!... Uhm!... — fece Dik, guardando lo studente di traverso.
— Signor Gastone, — riprese Walter, — che proviamo?
— A che cosa fare?
— A issare quel bestione.
— Ci vorrebbe una grue con un buon paranco. Lo faremo a pezzi sul posto quando questa dannata bufera sarà cessata.
Pel momento preferisco fumare la mia pipa accanto alla stufa e leggere la storia delle spedizioni polari.
— Io allora andrò a cercare un trattato dell’Ottimo cuoco che ho veduto nella piccola biblioteca, per prepararvi dei manicaretti.... conditi coll’olio di foca.
— Ah!... Birbante!...
— Quando saremo giunti più al nord, signore, dovremo ben abituarci all’olio di quegli anfibi.
Io ho letto che Nansen, il famoso esploratore norvegese, cucinava i suoi pezzi d’orso, quando ne poteva avere, su una lampada alimentata con olio di foca.
— Questo è vero, anzi si dichiarava abbastanza soddisfatto di quella cucina veramente esquimese.
Andate pure a studiare, signor cuoco. —
Anche durante tutto quel giorno la tempesta non cessò di ruggire intorno al treno, nè la neve di cadere. Fortunatamente le raffiche si succedevano così violenti da disperdere rapidamente i grandi cumuli di nevischio che si formavano qua e là, diversamente il carrozzone sarebbe rimasto sepolto sotto uno strato di parecchi metri.
Solamente verso sera, nel momento in cui il sole, mostratosi per qualche minuto fra uno strappo delle nubi, «pallido come se avesse fatto una grave malattia» come diceva lo studente, il vento cominciò a cadere e la neve a sostare.
Un freddo intensissimo che superava i 35° era subito succeduto, trasformando la sterminata pianura in un immenso campo di ghiaccio tutto ondulato.
Alle 9 di sera non vi era più una nube in cielo e la luna splendeva meravigliosamente, facendo scintillare tutto lo spazio.
Era il momento di tentare qualche cosa per liberare il treno il quale poteva correre il grave pericolo di subire quelle terribili pressioni prodotte dal dilatarsi dei ghiacci e che schiacciano le navi più poderose come fossero nocciuole.
I tre esploratori, che avevano trascorsa quasi l’intera giornata sonnecchiando sui libri, invitati dal dolce russare della stufa, dopo essersi ben coperti, si armarono di picconi e di pale e sicuri ormai di non correre più alcun pericolo, saltarono sul campo di ghiaccio.
— Questo si chiama veramente freddo!... — esclamò Walter, fregandosi furiosamente il naso per paura che gelasse. — E non siamo ancora al polo!... Come fanno dunque gli esquimesi a resistere? È vero che sono prossimi parenti degli orsi bianchi!... —
Il ghiaccio si era ormai formato intorno al carrozzone ed all’automobile, d’uno spessore d’un paio di metri, ed aveva cominciato a stringere le ruote.
Non vi era un momento da perdere. Il treno correva il pericolo di venire sfondato prima che l’alba spuntasse.
I tre esploratori, consci della gravità della situazione, si misero valorosamente all’opera, maneggiando i picconi con suprema energia.
La prima cosa che misero allo scoperto fu l’orso, sulla cui carne molto contavano per aumentare le loro provviste di trecentocinquanta o quattrocento chilogrammi di eccellente carne.
Non potendo trarlo dalla buca, entro la quale stava gelando, a gran colpi di scure lo fecero a pezzi sul luogo, sacrificando la pelliccia per non perdere troppo tempo, poi dopo aver messo al sicuro quei grossi quarti sulla cima della vettura perchè si conservassero meglio, ripresero il duro lavoro.
Soltanto verso la mezzanotte riuscirono a raggiungere e liberare l’automobile, la quale aveva sfidata impavida la bufera senza riportare danno alcuno.
Si trattava ora di aprirsi dinanzi un solco a scarpata per prendere lo slancio e montare sul campo di neve, ed i tre esploratori, quantunque estenuati, vi si accinsero con novella lena facendo volare intorno a loro, a colpi di piccone, larghi pezzi di ghiaccio.
Al primo impallidire delle stelle, tutto era pronto per la partenza, ed il motore aveva ricominciato a sbuffare, pronto a slanciarsi animosamente alla conquista del Polo.
— Dik, — chiese il canadese, prima di dare l’ordine della partenza. — Quanta benzina avremo ancora?
— Tanta da poter percorrere comodamente quattrocento miglia senza aver bisogno di rifornirci.
— Allora lasciamo da parte il forte Severn e muoviamo direttamente su quello di Churchill. Così risparmieremo tempo.
— E ne guadagneremo su Torpon, — disse Walter. — Non so che cosa pagherei per sapere dove si trova quel bisonte.
— Speriamo che si trovi ancora sulle coste del Labrador, — rispose il canadese.
— Che riesca anche lui ad andare al Polo? —
Il signor di Montcalm guardò lo studente sorridendo:
— Voi dunque, — gli chiese, — siete ben sicuro di giungervi?
— Per tutti i fulmini di Giove!... Mi pare già di vedermi seduto sull’incrocio di tutti i meridiani dell’orbe terraqueo, signor Gastone.
Chi potrebbe dubitare che uomini come noi non vi giungano? Andremo a fumare la nostra pipa lassù ed a vuotare una buona bottiglia di champagne in onore del vecchio Polo.
— Questa vostra fiducia mi piace, Walter, — disse il canadese. — Sì, noi arriveremo al Polo.
— E prima di quel bisonte, anche.
— Certo, Walter.
— Allora posso gridare: hurràh pel Polo.
— Sì, mattacchione, e se.... —
Un brusco salto dell’automobile gli spezzò la frase.
— Che cosa succede, Dik? — chiese, riprendendo subito l’equilibrio.
— La via diventa pessima, signore, — rispose l’ex-baleniere. — Questa neve copre delle insidie che non sempre si possono evitare.
— Vi sono sotto dei crepacci che non si sa quanto siano larghi.
— Volete rallentare?
— Preferirei invece aumentare e passare sopra quelle spaccature in piena volata.
— Fate come volete, purchè la vettura di rimorchio non si spezzi.
— Rispondo io di tutto, signore. —
La interminabile pianura che si stende lungo le coste occidentali della baia di Hudson, spingendosi fino al golfo di Boothia, incominciava infatti a diventare pessima.
La tempesta che doveva aver infuriato con estrema violenza verso il nord, aveva accumulate la neve in quantità enormi, formando delle vere bastionate alte parecchi metri e che l’automobile era costretto a montare, non esistendo altri passaggi.
Per di più il gelo intenso l’aveva rassodata sopra i numerosi corsi d’acqua che si scaricano nella baia, in modo da non potersi più scorgere.
Una rottura dello strato nevoso poteva accadere da un momento all’altro sotto il peso delle due vetture, piuttosto considerevole, e delle gravissime conseguenze potevano succedere.
Lo chaffeur che ci teneva, dopo tutto, alla propria pelle per poter godersi più tardi i dollari di mister Torpon, aveva aumentata la velocità per passare di slancio sopra quei pericolosi ostacoli.
Da trenta miglia all’ora era passato alle cinquanta. Il motore funzionava rabbiosamente imprimendo alle ruote una rapidità vertiginosa.
La vettura traballava come una nave in piena tempesta, inclinandosi ora a babordo ed ora a tribordo, poi si alzava di colpo per superare le bastionate di neve che si succedevano senza interruzione e sempre più ripide.
Il canadese e lo studente sotto quelle scosse incessanti si urtavano l’un l’altro con grande pericolo di rompersi la testa.
Dik, aggrappato al volante, stava invece saldo come un blocco di granito e non cessava di aumentare la velocità, poco preoccupandosi della vettura.
Quella corsa pazza durava da un paio d’ore, quando alcune detonazioni rimbombarono in lontananza.
— Rallenta, Dik!... — gridò il canadese. — Siamo vicini a qualche forte.
— Che vi siano dei cacciatori qui? — chiese lo studente.
— Quelli della Compagnia delle Pelliccie.
— Allora Churchill non è lontano.
— Ah!... Come scappano!... —
Presso una collinetta erano comparsi degli animali somiglianti ai daini, ma molto più alti e più grossi di quelli comuni. Erano cinque o sei e fuggivano con grande rapidità sollevando, nella loro corsa sfrenata, coi robusti zoccoli, un turbinìo di nevischio.
— Che cosa sono? — chiese lo studente, il quale aveva preso un fucile, colla speranza di fare un buon colpo.
— Daini mooses, e se vi piace meglio, dei mangiatori di legno. È inutile che sprechiate una palla; qualcuno sarà già rimasto a terra poichè i cacciatori della Compagnia quasi mai mancano il bersaglio.
Ah!... Eccoli!... —
Due uomini coperti di pelli villose ed armati di fucile, muniti di racchette di rete per poter camminare anche sulla neve molle, erano comparsi a circa cinquecento passi dall’automobile la quale avanzava lentamente.
Vedendo la macchina si erano arrestati, poi entrambi, con una mossa simultanea, avevano puntate in aria le loro carabine scaricandole.
— Rispondete al saluto, Dik, — disse il canadese.
Un urlo lacerante che durò parecchi secondi, mandato dalla piccola sirena, risuonò per l’aria, ripercuotendosi contro la collinetta.
I due cacciatori affrettarono il passo ed in pochi istanti raggiunsero l’automobile, la quale si era arrestata dinanzi ad un bastione di neve.
Erano due giovani di forme vigorose, con barbe appena nascenti, gli occhi azzurri ed i capelli biondi, distintivi delle razze nordiche.
— Buon giorno, signori, — disse il più attempato dei due, portandosi una mano al cappuccio di pelle d’orso che lo riparava per bene dai grandi freddi e dai venti taglienti del settentrione. — Come mai vi ritroviamo qui, mentre quattro giorni fa eravate sulle coste del Labrador? —
Il canadese, udendo quelle parole, aveva fatto un soprassalto.
— Buon giorno giovanotti, — si affrettò a rispondere poi. — Siete cacciatori della Compagnia?
— Sì, signore, del forte Churchill.
— E siete ben sicuri di averci incontrati ancora? —
I due cacciatori si guardarono l’un l’altro, poi il primo riprese:
— Sicuri proprio no, ma noi abbiamo veduto passare una macchina simile alla vostra ad un miglio appena dalla costa della baia, sulla terra del Labrador.
— Proprio precisa?
— No, perchè non aveva dietro di sè una vettura.
— Chi la montava?
— Tre uomini.
— Avete parlato con loro?
— Non ne abbiamo avuto il tempo, e poi correva a gran velocità in mezzo alla bufera di neve che spazzava allora tutto il Labrador.
— E quando l’avete veduta quella macchina?
— Quattro giorni fa.
— Avevate attraversato la baia?
— Sì, per cacciare le lontre, e non siamo sbarcati che tre o quattro ore fa, lasciando la nostra scialuppa sulla spiaggia, entro una caverna ove potrà sfidare tutte le nevicate.
— Non poteva essere che l’automobile di quel bisonte di Tarpon, — disse Walter. — Ci si è messo d’impegno anche lui.
— Non poteva fare diversamente, — rispose il canadese. — Ero certo che avrebbe presa la via del Labrador per raggiungere poi gli stabilimenti danesi della Groenlandia.
C’incontreremo al Polo, se riuscirà ad arrivarci.
— Io spero di no, signor Gastone.
— Chi lo sa? Per nostro conto faremo il possibile per giungervi. —
Si rivolse ai due cacciatori i quali aspettavano pazientemente che quel dialogo terminasse, e chiese loro:
— Tornavate verso il forte?
— Sì, signore, — rispose il più attempato dei due. — La stagione della caccia è finita e non sarebbe prudente battere ora le grandi pianure.
Comincia lo svernamento anche pei cacciatori della Compagnia.
— Avete carico?
— Sette pelli di lontra che non varranno meno di mille dollari, signore.
— Quanto distiamo dal forte?
— Una sessantina di miglia.
— Ed i mooses li avete mancati?
— Erano troppo lontani, signore. D’altronde la loro pelle non vale gran che.
— Andate a prendere le vostre pelli di lontra e salite con noi. In un paio d’ore saremo al forte.
— Che macchine meravigliose s’inventano oggi!... — esclamò il cacciatore. — Grazie, signore, siamo con voi. —
Cinque minuti dopo il treno riprendeva la sua corsa verso il settentrione, costeggiando la baia d’Hudson, e due ore più tardi giungeva dinanzi al forte di Churchill, il più settentrionale che la Compagnia abbia fondato su quelle sterminate plaghe spazzate dagli uragani polari.