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Capitolo XVII - Una battaglia coi trichechi
XVI XVIII

CAPITOLO XVII.


Una battaglia coi trichechi.


La Compagnia delle Pelliccie, che conta oltre trecento anni di esistenza, tiene un numero ragguardevole di stabilimenti che chiamansi forti, disseminati su quella immensa regione che è sottoposta al dominio britannico e che dai confini degli Stati Uniti va fino oltre il circolo polare Artico, ed è bagnata dall’Atlantico e dal Pacifico.

Quei forti non sono gran cosa, poichè consistono in un fabbricato centrale, per lo più in pietra, ed in poche tettoie dove vengono conservate le pelliccie in attesa che la buona stagione permetta di spedirle verso i porti più prossimi per poi disperderle pel mondo intero.

Un capitano, chiamato il borghese, li comanda ed ha sotto di sè venti o trenta cacciatori, per la maggior parte canadesi, tiratori infallibili che di rado sbagliano i loro colpi, ed abituati a sfidare tutte le fatiche e tutte le intemperie.

Dopo lo sgelo quei bravi avventurieri si mettono in campagna, facendo strage di lupi, di volpi bianche ed azzurre, di martore, di foche, di morse, di alci, di wapiti, di daini mooses, di lontre dalla pelliccia preziosissima, che si paga perfino mille e cinquecento lire, ed anche di orsi bianchi.

Vanno lontano, percorrendo regioni quasi inesplorate, vivendo alla meglio sotto tende o capannuccie improvvisate con avanzi di navi naufragate e con ossami di balene e di capidogli, e non ritornano fino a che le loro slitte, tirate da grosse mute di cani, non siano ben cariche.

Quelli che rimangono al forte attendono le tribù indiane ed esquimesi che accorrono numerose a vendere pelli e ricevere in cambio coperte, polvere, fucili e ornamenti per le loro donne.

Alle prime nevicate i cacciatori tornano ai forti e durante l’inverno se la passano fumando e raccontandosi le loro avventure di caccia intorno alle stufe russanti.

Quantunque la selvaggina sia oggidì molto scemata, la Compagnia continua a fare affari d’oro, ripartendo fra gli azionisti somme considerevoli.

Il forte di Churchill è il più settentrionale di quelli fondati nella regione dell’Hudson, ma è anche quello che raccoglie maggior numero di pelliccie per la sua vicinanza al circolo polare Artico, dove la selvaggina si trova ancora abbondante, non spingendosi le tribù indiane fino lassù, e rare essendo quelle esquimesi.

Al pari degli altri consiste in una casa di pietra tale da poter resistere alle furiose bufere polari ed alle enormi nevicate, ed in poche tettoie che d’inverno sono riparate da bastionate di ghiaccio.

L’accoglienza che ebbero i tre esploratori, giunti come una bomba dinanzi al forte, fu entusiastica.

Il borghese, ossia il comandante e tutti i suoi uomini, una ventina, portarono come in trionfo quegli audaci, che si proponevano di levare il velo misterioso che copriva il terribile e fino allora inaccessibile Gran Nord, nel gran salone del forte, dove russavano due stufe monumentali, offrendo subito loro, giacchè era l’ora del pranzo, un piccolo banchetto inaffiato copiosamente da vini e da liquori.

Essendovi al forte una grossa provvista di benzina per l’illuminazione, il canadese non ebbe alcuna difficoltà a farsene cedere tanta da riempire tutti i suoi lattoni.

— Se noi rimarremo senza, — disse l’ospitale borghese, — bruceremo olio di foca o di morsa.

I miei uomini non sono così delicati da non soffrire un po’ di sgradevole odore. —

Quella notte gli esploratori si riposarono in buoni letti, al riparo dalle intemperie e soprattutto dal freddo che aumentava spaventosamente di ora in ora, ma all’indomani, ai primi albori, malgrado le proteste dei cacciatori che desideravano averli loro ospiti qualche giorno ancora, erano già sull’automobile, pronti a slanciarsi verso il Grande Nord.

Gli addii furono commoventi e gli auguri infiniti, e verso le otto, nel momento in cui la nebbia cominciava a diradarsi sotto gl’impetuosi colpi di vento del settentrione, il treno riprendeva la sua corsa fra gli hurràh rimbombanti ed i colpi di fucile della piccola guarnigione.

— Che brava gente!... — esclamò il campione di Cambridge, ancora entusiasmato dall’accoglienza ricevuta. — Avrei passato fra quei cacciatori l’inverno intero.

— Senza andare al Polo?

— Ah questo no, signor Gastone. Preferisco andare a vedere che cosa c’è lassù.

— E che cosa credete di trovare lassù? — chiese il canadese, ridendo.

— Che ne so io? Almeno uno dei due cardini del mondo al quale noi daremo un po’ d’olio.

Per Giove!... Dopo tante centinaia di secoli, deve essere bene arrugginito.

— Dite delle migliaia.

— Come volete, signor Gastone. Fa lo stesso.

Ma, dite un po’: che ci siano degli abitanti al Polo?

— Può darsi, amico, — rispose il canadese. — Gli esploratori Artici hanno trovato degli esquimesi nelle sue vicinanze, gente emigrata lassù chissà da quanti secoli, e che credeva di essere sola al mondo, non avendo mai avuto alcun contatto colle tribù del sud.

— Dite un po’ signor Gastone, da che parte sono venuti questi piccoli uomini che hanno preferite le pianure gelate del Polo alle fertili pianure del continente americano?

— Un tempo si credette che fossero giunti, intorno al mille, da una emigrazione asiatica passata attraverso lo stretto di Behring e poi dispersasi per l’America settentrionale.

Oggi invece, recenti scoperte hanno dimostrato che l’Asia non ha nulla a che fare colle razze primitive americane, perchè anche su queste terre si sono trovate tracce umane assai più antiche di quelle che finora erano state rinvenute nell’Europa e negli altri continenti.

— Me lo aveva già detto il mio professore Hart, quell’ottimo e terribile bevitore di birra, fra un salto e l’altro dell’allenamento per la sfida d’Oxford, ma io non ci avevo fatto gran caso.

Allora, da dove sono derivati questi americani, indiani ed esquimesi?

— Chi lo sa? Io vi posso solamente dire che in varie regioni del continente, specialmente in quello settentrionale, si sono trovati numerosi avanzi d’uomini vissuti ai tempi dei mammouth, ed anche molto più antichi, cioè avanti il periodo quaternario, in un’epoca nella quale la vita vegetale ed animale era ben diversa da quella d’oggi.

— Si direbbe che l’America ha avuto i suoi primi uomini prima ancora degli altri continenti, — disse lo studente.

— Tutto lo indicherebbe, — rispose il canadese, il quale era un uomo istruitissimo. — Or sono pochi anni, in una caverna dell’Arizona, fu trovata la mummia d’un bambino che fu giudicata appartenente all’epoca terziaria, e che aveva notevolissime somiglianze col pithecanthropus erectus, ossia della scimmia che più si avvicina all’uomo.

D’altronde ormai è provato che l’uomo, sia esquimese od indiano, visse qui avanti la fine del periodo glaciale, ossia in un’epoca in cui l’uomo forse non aveva ancora popolato il continente antico.

— Il continente americano doveva essere ben diverso da quello che è oggi, in quei lontanissimi tempi.

— Non aveva la forma che ha presentemente. La sua ampiezza era molto minore e si estendeva sopra i due oceani come una immensa isola allungata verso il Polo.

Molto diverse di quelle attuali erano allora la sua flora e la sua fauna, della cui ultima facevano parte delle specie gigantesche oggidì completamente e da gran tempo scomparse.

Come e quando quegli abitanti e quegli animali comparvero su queste terre, non è facile dirlo. È un problema che ha affaticato tante menti, senza che una così interessante questione sia stata definitivamente risolta.

Chissà che il Polo non riservi a noi delle straordinarie sorprese. Ohè, Dik, che cosa fate? —

Un rombo assordante sfuggiva in quel momento sotto le ruote dell’automobile. Si sarebbe detto che passasse sopra un ponte metallico d’una eccessiva sonorità.

— Da che cosa proviene questo fracasso dunque, Dik? — chiese nuovamente il canadese, alzandosi bruscamente.

— Pare che ci sia del vuoto sotto lo strato di ghiaccio, rispose finalmente l’ex-baleniere, rallentando subito.

— Passiamo forse sopra un fiume?

— Che ne so io, signore? —

Lo chaffeur stava per obbedire, quando si udì uno scricchiolìo fortissimo seguito da un crac spaventevole.

— Sprofondiamo!... — urlò Walter.

Lo strato gelato si era improvvisamente spezzato sotto il peso ed il treno intero era precipitato in un abisso apertosi sotto le sue ruote.

Tre urla si erano confuse in una sola, tre urla di spavento, seguite un istante dopo da un rombo.

Il canadese, lo studente e l’ex-baleniere si sentirono proiettati innanzi, come se una bomba fosse scoppiata dietro di loro, e stramazzarono in mezzo a degli ammassi di neve più o meno indurita, mentre il motore dell’automobile si arrestava di colpo.

Trascorsero parecchi minuti, poi un uomo si alzò penosamente, tastandosi le costole e le gambe.

— Corpo di tutti i fulmini di Giove e di tutti i suoi parenti!... — esclamò. — Questo si chiama un capitombolo, almeno all’Università di Cambridge!... —

Stette un momento immobile, come istupidito, guardando l’automobile e la vettura che si erano affondati in mezzo ad un enorme cumulo di neve, poi si slanciò avanti come un pazzo.

Aveva scorto un corpo umano pochi metri più innanzi.

— Signor Gastone!... Signore!... — urlò con quanta voce aveva in corpo.

Il signor di Montcalm giaceva dinanzi a lui colle braccia e le gambe allargate e gli occhi socchiusi.

— Fulmini!... — gridò lo studente, spaventato. — Del wisky, del gin!... —

Si precipitò verso la vettura che si trovava quasi rovesciata su un fianco, ma per un caso miracoloso ancora in buon stato, levò la sbarra che chiudeva la porta, si gettò nell’interno ed uscì con una bottiglia in mano.

Spezzò il collo contro la parete di ghiaccio e versò nella bocca aperta del canadese alcuni sorsi di wisky.

Uno sternuto sonoro fu la risposta, accompagnato da due o tre colpi di tosse.

— Buon segno!... — esclamò lo studente allegramente. — I morti non sternutano nè tossiscono. Hurràh!... Hurràh!... —

Il signor di Montcalm si era messo a sedere, guardandosi intorno con un vivo stupore.

— Walter, mi ubbriacate? — chiese con voce abbastanza robusta. — Ah!... Diavolo!... Siamo caduti, è vero?

— Pare di sì, signore, rispose lo studente.

— Mi ricordo vagamente....

— Ed anch’io.

— E Dik?

— Non so se sia morto o vivo. Spero però che la sua ossatura da bisonte non avrà ceduto.

— E l’automobile?

— Ce ne occuperemo più tardi, signore. Mi pare che non abbia gran che sofferto. Ce lo dirà Dik, se sarà ancora vivo.

— Ne avreste dubitato? — chiese in quel momento una voce un po’ ironica. — I balenieri hanno la pelle dura, mio caro signore. —

La testa di Dik era in quel momento comparsa fra un grosso ammasso di neve che si trovava a cinque o sei metri dall’automobile.

Una fortuna veramente prodigiosa aveva protetto i tre esploratori, poichè se fossero stati scaraventati un po’ più innanzi si sarebbero fracassate le ossa sulla superficie quasi liscia del sotto-campo di ghiaccio, duro quasi quanto il granito.

Il baleniere, facendo forza di braccia, uscì dal cumulo, si scosse di dosso la neve che gli si era appiccicata alla pelliccia, e dopo d’aver aspirata l’aria freddissima, empiendo per bene i suoi polmoni, disse:

— Nulla di spezzato nè dentro nè fuori. Non poteva andare meglio.

— Per noi, ma per l’automobile? — chiese il signor di Montcalm.

Lo chaffeur alzò impercettibilmente le spalle, poi rispose:

— Se avrà qualche cosa di rotto la medicheremo sul posto, senza mandarla all’ospitale.

— Che sarebbe troppo lontano, — aggiunse lo studente. — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... Dove siamo noi?

— Ve lo dirò io, — disse il canadese. — Sulla superficie gelata d’un corso d’acqua.

— E perchè questo vuoto? Si direbbe che noi siamo precipitati in una galleria.

— Perchè l’acqua prima era alta assai ed ha fatta la sua prima crosta di ghiaccio, poi si è abbassata ed ha formata questa, lasciando così un gran vuoto che può prolungarsi per parecchie centinaia di chilometri.

— E come faremo noi a risalire alla superficie? Ci vorrebbe un potente argano a vapore.

— Seguiremo il fiume fino alla sua foce.

— E dove andremo a finire?

— Nella baia d’Hudson, senza dubbio, — rispose il canadese.

Questa brutta avventura ci farà perdere del tempo.

— Non so che cosa farci, mio caro. E dunque, Dik? —

L’ex-baleniere che stava esaminando l’automobile, alzò la testa e dopo d’aver fatta schioccare la lingua, rispose:

— Bisogna credere che qualche Santo abbia protetto noi e la nostra macchina insieme. È vero che abbiamo fatto un salto di soli quattro metri, tuttavia potevano toccarci dei guasti irreparabili.

Se la benzina avesse preso fuoco, a quest’ora non rimarrebbero che i cilindri intatti.

Devo convenire però che questa automobile è stata costruita a prova di capitomboli.

— Nemmeno il radiatore si è guastato?

— Fortunatamente no.

— Ed il carrozzone?

— Ha resistito meravigliosamente e le sue ruote non hanno ceduto.

— Sicchè potremo riprendere la nostra corsa dentro questa galleria?

— Quando vorrete, signore. Ecco, udite come il motore funziona ancora perfettamente? I colpi sono regolarissimi.

— Allora, mio caro Walter, imbarchiamoci.

— Non desidero di meglio, signor Gastone, — rispose lo studente.

Rimontarono sui comodi sedili, ben felici di essersela cavata così a buon mercato: Dik riprese il volante ed il treno si rimise in moto sfondando impetuosamente i cumuli di neve.

Quella galleria si presentava meravigliosamente bella. La volta, formata da una crosta di ghiaccio ben consolidato, dello spessore di qualche metro, si manteneva ovunque ad un’altezza variante fra i quattro ed i cinque metri, mentre le due pareti, costituenti le rive del fiume, distavano cinquanta passi l’una dall’altra.

Una luce diafana, stranissima, trapelava attraverso lo strato superiore su cui si rifrangevano in quel momento i raggi del’astro diurno.

Il piano poi si svolgeva con larghi serpeggiamenti, come una splendida pista, con pochissimi ostacoli, poichè la superficie del fiume doveva essersi gelata quasi tutta d’un colpo, forse durante la bufera dei giorni precedenti, senza lasciare il tempo alla formazione dei piccoli, eppure noiosissimi hummoh.

Il fragore che produceva l’automobile, lanciato ad una velocità di quarantacinque miglia all’ora, era impressionante. Un rombo continuo si propagava sotto quella volta interminabile, ripercuotendosi indefinitamente. Un urlo della sirena era sembrato lo scoppio d’una gigantesca mina.

Dik, ben stretto al volante, guidava con una grande sicurezza ed abilità. Pilota sul mare, era tale in terra con non meno bravura.

Per tre ore il treno divorò lo spazio, seguendo le larghe curve del corso d’acqua, senza aver incontrato anima viva, poi Dik bruscamente rallentò.

Avevano allora percorso circa cento cinquanta miglia.

— Vi sono degli ostacoli? — chiese prontamente il canadese.

L’ex-baleniere, invece di rispondere, arresto il motore e si mise in ascolto.

Quando i fragori cessarono dentro la galleria, i tre esploratori poterono udire distintamente uno strano concerto a base di muggiti cavernosi, che si ripercuoteva sotto le vôlte con intensità sonora.

— Si direbbe che dinanzi a noi vi sono dei bisonti!... — esclamò lo studente, il quale, per ogni buon caso, si era armato del suo fedele mauser.

— Dei bisonti qui!... Siete pazzo, Walter? Non siamo già nelle praterie del Far-West, — rispose il canadese.

— Eppure questi sono muggiti, — disse lo studente.

— Non lo nego. Che cosa dite voi, Dik?

— Che siamo vicini alla foce di questo corso d’acqua, — rispose l’ex-baleniere, rimettendo in moto la macchina.

— Che sia l’acqua che produce questo fragore? — chiese lo studente.

— Preparate il fucile.

— Per accoppare chi?

— Le morse, signor mio, diventano talvolta pericolose quando sono in buon numero e si disturbano i loro accampamenti.

Si sono scelte la foce di questo fiume per svernare tranquillamente.

— È almeno buona la loro carne?

— Puah!... — fece l’ex-baleniere. — Tutt’al più il fegato.

— Ci prenderemo l’olio. Di quello almeno ne danno.

— Non è benzina, — disse il canadese. — Avanti, Dik, con prudenza. —

L’automobile si avanzava lentamente, seguendo una grande curva, la quale impediva di scorgere la foce del corso d’acqua.

Malgrado il fragore prodotto dal motore, i muggiti giungevano sempre, aumentando d’intensità.

Pareva che il campo dei trichechi fosse ben popolato, a giudicarlo da tutto quel fracasso.

Oltrepassata la curva, uno spettacolo terribile si offerse dinanzi agli occhi dei tre esploratori.

Radunati all’estremità della galleria, la quale finiva sui banchi di ghiaccio della baia d’Hudson, si trovavano tre o quattrocento anfibi, di dimensioni enormi, poichè quasi tutti misuravano non meno di tre metri di lunghezza con una circonferenza di due.

Erano delle morse, chiamate anche trichechi, e dagli esquimesi awak.

Quei mostri delle regioni polari, nella forma si avvicinano alle foche, ma sono più giganteschi, con un muso corto ed ottuso, le labbra fornite di grosse setole irte come quelle dei gatti in collera e armate di due lunghissime zanne, d’un avorio assai più fino di quello degli elefanti.

Il loro aspetto è terribile, mentre invece quei disgraziati sono tutt’altro che battaglieri, essendo in terra estremamente pesanti. Ciò non esclude però che assaliti, specialmente in mare, si difendano qualche volta disperatamente, affondando le imbarcazioni che osano attaccarli.

Vedendo l’automobile avanzarsi, tutti quei colossi si erano prontamente radunati come se fossero risoluti a chiuderle il passo, mandando nel medesimo tempo dei muggiti spaventevoli che talvolta sembravano dei veri ruggiti.

— Fulmini di Giove!... — esclamò Walter, il quale si era alzato, imbracciando il mauser. — Si direbbe che noi, invece di trovarci nelle regioni polari, siamo entrati in una foresta equatoriale abitata da una banda di ferocissimi leoni.

Se quelle bestie lì avessero degli artigli, poveri noi!...

— Fortunatamente non posseggono che delle zanne di superbo aspetto e niente affatto pericolose, — rispose il canadese.

— Non vorrei però provarle, signor Gastone.

— Non sanno servirsene quando questi anfibi si trovano a terra. Non vedete come si muovono a stento?

— Sfido io!... Sono botti d’olio!...

— È precisamente per quello che si arenano. Se fossero invece in acqua vedreste quelle botti balzare e rimbalzare sulle onde come gavitelli.

— Mastro Dik, voi che avete già conosciuto da vicino questi signori abitanti del Polo, diteci che cosa possiamo fare.

— Provatevi a sparare, — rispose l’ex-baleniere.

— Scapperanno.

— Lasciate che scappino.

— Per tutti i fulmini di Giove!... Come mostrano i denti e rizzano i baffi!...

— Fate fuoco!... Voi chiacchierate troppo.

— Non sono un baleniere io, mastro Dik. I lupi di mare, si sa già da lungo tempo, sono assai avari di parole.

— E prendono le balene.

— Ed io, pur chiacchierando, vi mostrerò, mastro Dik, come si ammazzano i trichechi. —

L’allegro campione di Cambridge balzo giù dall’automobile e sparò sei colpi uno dietro l’altro, facendo stramazzare altrettanti giganti polari. Sparava con una sicurezza meravigliosa ed anche con una calma stupefacente, che strappava grida d’ammirazione al canadese. Perfino il baleniere pareva estremamente stupito.

Sei morse, colpite tutte alla testa, erano cadute l’una vicina all’altra, senza però far indietreggiare le altre, le quali anzi parevano decise a scagliarsi contro il treno e tentare di metterlo a pezzi.

— Mastro Dik, — disse lo studente. — Che vogliano, queste otri d’olio, provare su di noi la robustezza delle loro zanne?

— Continuate, — rispose l’ex-baleniere. — Poi lancerò il treno a tutta velocità e passeremo su quei mastodonti che creperanno appunto come otri.

— E manderete l’automobile a sprofondarsi nella baia, — disse il canadese, il quale era pure balzato a terra, armato di un fucile.

— Non ci pensate, signore: io rispondo di tutto. —

Walter aveva riempito il serbatoio ed imbracciato nuovamente il mauser.

— Voi a destra, signor Gastone, ed io a sinistra. Per tutti i fulmini di Giove!... Dovremo preparare agli orsi bianchi un banchetto colossale?

— Sparate, — disse Dik. — Io mi preparo a caricare a fondo. —

Fu un vero fuoco di fila che rimbombò ai due lati dell’automobile. Lo studente ed il canadese gareggiavano in abilità e le morse cadevano sotto i loro colpi, fulminate da quei colpi meravigliosi che le toccavano al cuore o al cervello.

Le compagne, rese furiose per le perdite subite, non accennavano affatto a cedere il campo.

In file compatte, s’avanzavano verso l’automobile, trascinandosi penosamente, con delle contrazioni furiose, tentando di venire a contatto.

Ruggivano ferocemente, facendo rintronare la galleria tutta, provocando perfino delle piccole frane nello strato superiore.

— Salite, — disse ad un tratto l’ex-baleniere. — Giacchè si ostinano, passeremo egualmente.

Tanto peggio per quelli che rimarranno sotto le nostre ruote.

Tenetevi saldi!... —

Walter ed il signor di Montcalm si erano slanciati sui predellini, poi si erano messi dietro all’ex-baleniere, ricaricando prontamente i fucili.

— Bestie dannate!... — esclamò lo studente. — Non credevo che fossero così ostinati i barilotti d’olio. —

L’automobile prese lo slancio e si scagliò innanzi colla violenza d’un ariete che sfonda la porta d’una fortezza, passando quasi di volo attraverso quell’ammasso mostruoso di corpi.

Fu una serie di salti spaventosi che mise a dura prova i muscoli dei tre esploratori, poichè l’automobile passava, insieme al pesante carrozzone, sopra i disgraziati anfibi, lasciandosi dietro un vero fiume di sangue e d’olio.

Lo slancio era stato così improvviso e così fulmineo, che i trichechi non avevano avuto il tempo di tentare nessun attacco, nemmeno contro le pneumatiche, che passavano sui loro corpacci aprendo dei solchi sanguinosi.

In tre o quattro secondi il treno attraversò il campo e si precipitò verso l’uscita della galleria, slanciandosi sui banchi di ghiaccio che si erano formati lungo le spiaggie della baia d’Hudson.

L’ex-baleniere, che conservava il suo meraviglioso sangue freddo, virò quasi sui posto, a meno di trecento metri dai giganteschi ice-bergs che si erano già accumulati in gran numero, trasportati dalla corrente polare e spinti dai venti di levante, poi risalì di volata la costa riguadagnando la sconfinata pianura.

— Ventre di Giove!... — esclamò lo studente, il quale pareva che in quel momento si fosse dimenticatati i suoi eterni fulmini. — Questo marinaio è diventato uno chaffeur prodigioso.

Non potevate trovarne uno migliore, signor Gastone.

— È vero, — rispose il canadese. — Colpo d’occhio, mano sicura e un’audacia straordinaria.

Dik, come si presenta la pianura?

— Buona, signore, almeno per ora, — rispose l’ex-baleniere, sempre appoggiato al volante.

— Potremo giungere, prima che la notte scenda, al lago di Yath-kyed?

— Lo spero.

— Allora spingete pure, giacchè il ghiaccio è abbastanza liscio. Non dimentichiamo che Torpon corre pure verso il Polo.

— Lasciate fare a me, signore, — rispose l’ex-baleniere, con un risolino un po’ sardonico. — Andremo più presto dell’americano.

— Fate attenzione ai corsi d’acqua. Un altro salto potrebbe riuscirci fatale.

— Aprirò gli occhi, signore. —

L’automobile correva velocissima senza scosse, senza soprassalti, poichè la pianura polare si presentava bellissima come una pista. Pochi hummok di quando in quando si mostravano, formati all’ultima tempesta di neve, ostacoli insignificanti che l’ex-baleniere evitava facilmente.

Bande di uccelli polari si alzavano dinanzi al treno, spaventati dal fragore del motore. Erano gabbiani venuti dalla vicina baia di Hudson, borgomastri, piccoli plectrophanes nivales eternamente pigolanti, e graziosissimi auk, uccelli che vivono in stormi immensi e che gli esquimesi prendono in gran numero servendosi d’una rete simile a quella usata dai nostri ragazzi per impadronirsi delle farfalle.

Anche la piccola selvaggina si levava, scappando con rapidità fulminea e cacciandosi sotto gli hummok.

Ora era una magnifica martora, di quelle chiamate dai cacciatori della Compagnia di Pelliccie charsa, lunga un mezzo metro, con una coda di quaranta e più centimetri, col pelame giallo-brillante; talvolta invece era una coppia di linci polari che balzava fuori dalla neve e che s’allontanava soffiando rabbiosamente e scuotendo i due bizzarri pennacchi biancastri che adornano i loro orecchi.

Walter non mancava, di quando in quando, di sparare qualche colpo di fucile, ma la rapidità dell’automobile non gli permetteva di mandare le palle a giusta destinazione.

Due ore prima del tramonto, il treno, sempre lanciato a grande velocità, raggiungeva il North Lined, uno dei più bei laghi dell’alta terra hudsoniana, popolato sempre da stormi immensi di cigni trombettanti dalla mattina alla sera, ritrovo preferito dei cacciatori canadesi durante la stagione estiva, ma in quel momento assolutamente privo persino d’esquimesi.

Due colpi di fucile sparati dallo studente assicurarono una copiosa cena di carne eccellente e ben grassa.

Alle sei, nel momento in cui il sole scompariva in mezzo ad un fitto nebbione, che il gelido vento del nord spingeva furiosamente attraverso quelle desolate plaghe coperte di neve e di ghiacci, l’automobile si arrestava all’estremità meridionale dell’Yath-kyed, un altro lago perduto fra le alte terre hudsoniane.






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