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CAPITOLO XVIII.
Quella notte, passata sulle rive di quel lago gelato, fu tranquillissima, ed i tre esploratori poterono riposarsi placidamente sui loro piccoli ma soffici lettucci, russando insieme alla stufa che era stata lasciata accesa dopo la cena.
L’indomani una nebbia intensa copriva la sterminata pianura polare.
Il canadese, dopo aver rilevato alla meglio, sulla bussola, la posizione e aver fatti accendere i due potenti fanali, diede il segnale della partenza.
Era forse una imprudenza avventurarsi attraverso a quel denso strato di vapori che un vento freddissimo del nord ora lacerava ed ora addensava. Se Torpon non si fosse già spinto tanto innanzi, il canadese avrebbe accordato un giorno di riposo, non avendo stabilito il giorno per raggiungere il Polo; l’idea però che il rivale potesse giungere prima di lui all’incrocio di tutti i meridiani e spiegarvi la bandiera stellata dell’Unione Americana, lo spingeva ad affrettarsi.
— Aprite bene gli occhi, Dik, — disse, prendendo il solito posto insieme allo studente. — Non spingete troppo la corsa, almeno fino a che la nebbia non si sia diradata.
Se tutto va bene, faremo quest’oggi un bel tratto di via e ci lasceremo alle spalle il circolo polare artico. —
E l’automobile si era slanciata in mezzo a quel caos di vapori turbinanti, procedendo con una velocità di trenta miglia all’ora, velocità che se fosse durata sole dieci ore, avrebbe potuto condurre gli esploratori fino sulle coste meridionali del vastissimo golfo di Boothia.
La pianura si manteneva sempre abbastanza buona, quantunque, di quando in quando, si presentassero dei crepacci che l’ex-baleniere evitava con grande fatica e che talvolta invece superava quasi di volata, facendo subire alle due vetture dei soprassalti spaventosi.
A mezzodì il treno giungeva sulle rive del Chesterfied, una specie di fiord che staccandosi dalla baia d’Hudson s’inoltra entro terra per parecchie dozzine di leghe.
Essendo la sua superficie tutta gelata, l’automobile vi si avventurò, senza perdere tempo a girarlo verso ponente.
Giganteschi ice-bergs, alti due e perfino trecento metri, si erano qua e là accumulati, formando talvolta delle barriere che apparivano insuperabili.
Il freddo intenso li aveva però saldamente imprigionati entro il pak, sicchè non c’era pericolo che da un momento all’altro perdessero l’equilibrio e schiacciassero il treno.
Descrivendo delle grandi curve e dei vasti angoli, l’automobile avanzava sempre, perseguitato da vere nubi di volatili, i quali osavano perfino precipitarsi sugli esploratori colle loro grida rauche e discordi.
Erano così poco paurosi, che anche presi a fucilate, dopo qualche minuto tornavano alla carica.
Walter era riuscito a strozzarne perfino alcuni colle mani, e li aveva messi da parte, contando di prepararseli per la cena, quantunque il canadese ed anche l’ex-baleniere avessero fatto delle smorfie molto significanti. Valeva infatti molto meglio la carne dell’orso bianco, più saporita e meno coriacea.
Un’ora più tardi l’automobile correva nuovamente sulle pianure settentrionali, muovendo sul Wager River, che non è affatto un fiume, bensì un altro lunghissimo e largo fiord che sbocca di fronte all’isola di Southampton.
Il terreno era diventato nuovamente migliore, sicchè Dik, il quale pareva pel momento che si fosse dimenticato delle promesse fatte a mister Torpon, spingeva la velocità talvolta perfino a sessanta miglia all’ora.
Se non vi fosse stato il carrozzone, quel diavolo d’uomo non avrebbe esitato a lanciarlo anche a cento, non essendovi alcun pericolo di schiacciare delle persone, ma non doveva dimenticare il peso considerevole che il motore era costretto a trainare.
Ancora tre ore di corsa velocissima in mezzo ad un piccolo uragano di neve ed il treno giungeva sulle rive del golfo di Boothia, un grado e mezzo sopra del circolo polare artico.
— Se continuiamo così e non succedono guasti, fra cinque o sei giorni al più, noi faremo colazione al Polo, mio caro Walter, — disse il canadese, nel momento che l’automobile si arrestava.
— Siamo infatti molto innanzi, signor Gastone. Me ne accorgo dal freddo intenso.
Quanti gradi avremo?
— Trentacinque sotto.
— Brrr!... Eppure si può ancora resistere abbastanza bene.
— Perchè non soffia il vento del nord.
— Ci fermiamo qui?
— Voglio prima assicurarmi dello stato dei ghiacci.
— Correremo sul mare?
— Sarà molto meglio, Walter, così raggiungeremo più presto l’isola di Devon.
Lasciamo che si occupi Dik della cucina per oggi, e noi andiamo a fare una piccola esplorazione lungo la costa.
— Avete capito, mastro baleniere? — gridò lo studente. — Vi raccomando i miei gabbiani.
— Che mangerete voi solo, — rispose lo chaffeur. — Io preferisco un filetto d’orso bianco.
— Come vi piace: io tengo più ai miei volatili.
— Andiamo, Walter, — disse il canadese.
Presero i loro fucili ed i loro coltellacci, non essendo improbabile l’incontro di qualche orso bianco, e scesero la spiaggia interrotta da seni e da minuscoli fiords.
Tutto il golfo, il quale si prolunga fra la terra omonima che si frastaglia a ponente e quella di Baffin a levante, era gelato.
S’aprivano però qua e là dei larghi canali, in mezzo ai quali sfilavano gli ice-bergs.
Una luce intensissima, d’una bianchezza diafana, che il cielo, coperto di nubi gravide di neve, rifrangeva, lo illuminava tutto: era l’ice-blink.
— Che inverno precoce, — disse il canadese. — Guai se i balenieri si fossero quest’anno indugiati.
— Che ne troviamo qualcuno rinchiuso fra i ghiacci? — chiese lo studente.
— Può darsi, Walter. Questo freddo intenso è però favorevole a noi poichè potremo correre, senza alcun pericolo, attraverso i canali del Reggente e di Lancaster e raggiungere le terre di Lincoln e di Ellesmere. Oh!... Toh!... Che cos’è quella massa oscura che si scorge laggiù, rinserrata nel pak?
— Qualche trichecho forse?
— Non mi sembra, Walter. Si direbbe piuttosto un rottame.
— Possibile?
— Andiamo a vedere. —
Una massa piuttosto grigiastra, anzichè nerastra come una morsa od una foca, si scorgeva in mezzo al ghiaccio, ad un duecento metri da un piccolo fiord. Un animale non doveva certo essere, poichè scorgendo i due uomini avanzarsi, non avrebbe tardato a fuggire.
— Sì, deve essere un rottame o per lo meno una scialuppa, — disse il canadese.
— Una scialuppa, signore, — aggiunse Walter, il quale forse aveva la vista più acuta.
Affrettarono il passo avanzandosi sul ghiaccio e si avvidero di non essersi ingannati.
Una piccola scialuppa baleniera si trovava incastrata nel pak, con un fianco già sfondato dalle prime pressioni, e dentro vi era un uomo ormai ridotto allo stato di scheletro, semi-avvolto in una vecchia pelliccia.
Il cranio sporgeva da una parte; le due gambe dall’altra prive dei piedi, i quali si erano staccati e giacevano in fondo al battello.
Accanto a quel disgraziato vi era un fucile arrugginito, un’ascia ed un barilotto che doveva aver contenuto dei viveri e che ora invece era affatto vuoto.
— Chi sarà quest’uomo? — chiese lo studente, con voce commossa. — Che sia morto di fame e di freddo? —
Invece di rispondere, il canadese, passato il primo istante di doloroso stupore, era entrato nella scialuppa ed aveva messe le mani su un pezzo di carta ingiallita, su cui erano state vergate alcune righe con una materia rossastra, probabilmente del sangue.
Molte parole erano assolutamente indecifrabili, ma due colpirono subito il canadese:
«Sarya e barone de Tolt».
Un grido di profonda sorpresa gli era sfuggito.
— Una scialuppa della Sarya qui!... Come l’hanno condotta fino a questi luoghi le correnti polari? Ah!... Mi ricordo benissimo della disgraziata spedizione del barone de Tolt, che commosse non solo la Russia intera, ma anche tutti i naviganti polari dell’Europa e dell’America.
— Che cosa dite voi, signor Gastone? — chiese Walter, il quale continuava a guardare, con un misto di terrore e di compassione, quel teschio umano le cui vuote occhiaie pareva che lo guardassero. — Chi sarà questo naufrago sperduto sui mari del Grande Nord?
— Chi lo sa? Forse il barone de Tolt in persona od uno dei marinai che lo seguivano.
— Qui vi è una drammatica istoria che mi pare voi conosciate.
— È vero, Walter.
— Chi era dunque quel barone?
— Un ardito esploratore russo che nel 1900, ossia cinque anni or sono, si era proposto di esplorare le isole della Nuova Siberia, sulle quali sperava di trovare ancora qualche mammouth vivente o almeno ancora ben conservato fra i profondi strati sabbiosi.
Già molti denti giganteschi, d’un avorio ben più fino di quello degli elefanti, erano stati trovati su quelle terre desolate da indigeni siberiani spinti lassù dalle tempeste.
— Narrate, signor Gastone. I drammi polari mi interessano ed hanno destato sempre in me una profonda impressione, dopo che ho letto dei rapporti dell’Ammiragliato sulla terribile fine dell’Erebus e del Terror, che l’ammiraglio Franklyn conduceva al Polo e che l’Inghilterra ancora piange.
— Seguiamo la costa, Walter, — rispose il canadese. — La vista di questo disgraziato mi impressiona.
— E me non meno di voi, — rispose lo studente.
— Vi dicevo dunque, — riprese il canadese, rimettendosi in cammino, — che quel disgraziato scienziato voleva visitare quelle isole così prossime al Polo.
Aveva, a tale scopo, armata una nave che si chiamava la Sarya. Ai primi di Giugno del 1900 la spedizione aveva oltrepassato lo stretto di Kara filando lungo le coste siberiane.
Il ghiaccio era pessimo ed ostacolava continuamente la nave, minacciando ad ogni istante di rinchiuderla in qualche wake o nei grandi paks.
Alla fine di Settembre la Sarya veniva strettamente imprigionata sulle coste settentrionali dell’isola Taimer, oltre l’imboccatura dell’Jenissik.
Svernò in quel luogo, colla speranza che la prossima estate sciogliesse i grandi banchi di ghiaccio, ma soltanto verso la fine dell’Agosto potè muoversi, e dopo una lotta spaventosa cogli ice-bergs, si diresse verso le isole della Nuova Siberia.
Nel Settembre la Sarya raggiungeva l’isola Bennett, la famosa isola scoperta dall’equipaggio della Yeannette, perito così tragicamente, quasi tutto, di fame e di freddo alla foce della Lena, il grande fiume siberiano.
I ghiacci che circondavano quell’isola inospitale costrinsero il barone de Tolt a cercarsi un altro rifugio e lo trovò infatti in una baia dell’isola Kotelinoi.
Era ormai troppo tardi per pensare al ritorno. Il pak si stringeva da tutte le parti intorno alla poco fortunata nave e fu deciso un secondo svernamento.
Nella primavera del 1902 il coraggioso barone parte con delle slitte, una scialuppa, probabilmente quella che abbiamo trovata or ora, in compagnia d’un astronomo e di un medico, risoluto a raggiungere l’isola Bennett.
Aveva avvertito il capitano della nave che se dopo tre mesi non fossero tornati, si mettesse in cerca di loro.
La spedizione pareva però perseguitata da un triste destino.
Un’altra volta la Sarya, che nel frattempo aveva potuto
raggiungere la costa siberiana, approfittando del breve estate, per rifornirsi di viveri e di carbone, viene presa dai ghiacci.
Raggiungere l’isola Bennett era impossibile, ed erano già trascorsi cinque mesi.
Un coraggioso, votatosi prima ad una morte certa, il tenente Kolchak, parte a bordo d’un piccolo canotto, e passando fra i canali aperti fra i banchi di ghiaccio, dopo sforzi sovrumani riesce a raggiungere l’isola e la percorre in lungo ed in largo.
Trova finalmente un cairn, ossia una piramide formata di pietre, la atterra e vi trova dentro una scatola di zinco contenente una lettera scritta dal barone che datava dall’anno precedente, ossia dal Novembre 1902, se la memoria non m’inganna.
Il disgraziato esploratore diceva in quelle righe che stava per partire pel sud, non avendo viveri che per sole tre settimane.
Fu cercato invano e più nulla mai si seppe di lui e dei suoi compagni.
Si suppose che i ghiacci si fossero aperti sotto le slitte e che lo avessero inghiottito, mentre invece noi abbiamo ora la prova che lui solo o insieme all’astronomo o al medico si erano imbarcati sulla scialuppa baleniera forse colla speranza di raggiungere le coste della Siberia.
— Ma come quella imbarcazione può essere giunta qui? — chiese lo studente. — Non sono mai stato molto forte in geografia, tuttavia mi pare che le isole della Nuova Siberia siano lontane assai.
— Delle migliaia di miglia, mio caro Walter. Voi però dovete tener conto delle correnti le quali girano intorno al Polo da ponente a levante.
Pensate inoltre che questa scialuppa ha impiegato ben due
anni prima di incanalarsi attraverso il passaggio del nord-ovest scoperto da Mac-Clure e finire qui.
— E che cosa sarà succeduto degli altri due che mancano?
— Chi potrebbe dirlo? Forse quei disgraziati, rosi dalla fame, si sono divorati.
— Ah!...
— Forse che i superstiti della spedizione Franklyn non hanno fatto altrettanto? Si assassinavano per riempire le caldaie di carne umana.
— È orribile!...
— Il Polo, mio caro, ha avuto centinaia e centinaia, e forse delle migliaia, di vittime umane.
Orsù, ritorniamo. Ricomincia a nevicare ed il nebbione si avanza scendendo lungo il golfo.
Questa sera non faremo un passo innanzi. —
Dopo essersi accertati della resistenza del ghiaccio, risalirono la sponda bruciando qualche cartuccia contro i volatili polari e raggiunsero il treno proprio nel momento in cui la neve cadeva a larghe falde attraversando silenziosamente la nebbia che s’avanza va velocissima, tutto avvolgendo.
Il sole era già scomparso e la notte era scesa, ma una bella luce usciva attraverso i vetri del carrozzone e dal tubo della stufa uscivano dei profumi appetitosi.
— I miei gabbiani? — chiese lo studente, entrando.
— Pronti, signore, — rispose l’ex-baleniere, il quale si affaccendava intorno alla stufa, prestando tutta la sua attenzione ad un enorme pezzo d’orso bianco già perfettamente arrosolato.
— A tavola!... — aveva concluso il canadese, sbarrando la porta e sbarazzandosi della grossa pelliccia.
Tutta la notte la neve cadde senza interruzione; il freddo però era così intenso che la gelava quasi di colpo.
Nondimeno all’indomani, quantunque con molto ritardo, avendo dovuto i tre esploratori rompere il ghiaccio per un buon tratto, l’automobile ed il carrozzone ripartivano, scendendo sul golfo, che, come abbiamo detto, era gelato a perdita d’occhio, per raggiungere lo stretto del Reggente.
Il tempo era sempre pessimo ed il freddo così intenso da non poter più appoggiarsi ad un pezzo di metallo od impugnare un oggetto qualsiasi di ferro senza riportare alle mani delle vere bruciature.
I grossi guanti di pelle di foca erano stati messi in opera con poco piacere da parte di Walter, il quale si trovava imbarazzato a far uso dei suoi fucili.
E la selvaggina non scarseggiava sui banchi di ghiaccio, tutt’altro!... Di quando in quando dai canali salivano drappelli di foche e di morse, salivano per scomparire subito appena il treno s’avvicinava a loro.
Abbondavano sopratutto le volpi azzurre dalla pelliccia preziosissima, animali ormai quasi scomparsi nei dintorni della baia di Hudson, in seguito alle caccie accanite degli uomini della Compagnia.
— Valgono proprio molto, signor Gastone, quelle pelliccie? — chiese il campione di Cambridge, il quale le seguiva cogli sguardi ardenti, senza provarsi nemmeno a far fuoco, poichè le astute bestie si nascondevano subito in mezzo alla neve.
— Si pagano perfino duemila e cinquecento lire l’una, rispose il canadese, — ed il prezzo certamente aumenterà poichè sono diventate rarissime.
Un tempo si cacciavano non solo su questi territori, nell’Alaska e nelle isole dello stretto di Behring, bensì anche in Siberia e perfino nell’Europa settentrionale, ma ora non se ne trovano più.
Sono diventate rarissime poichè su 25,000 volpi che si uccidono ogni anno nel distretto di Beresow è molto se se ne trovano cinquanta di azzurre.
In Siberia su cento volpi non se ne trovano che tre o quattro, mentre una volta erano più numerose.
Solo in Groenlandia sono ancora abbastanza in buon numero, però anche là non tarderanno a scomparire.
— E da che cosa proviene quella splendida tinta azzurrognola?
— Alcuni credettero che ciò dipendesse più che altro dal cambiamento delle stagioni; ora però si suppone che derivi dal sesso e dall’età.
— E sono anche quelle delle volpi, signor Gastone? — chiese lo studente, il quale si era precipitosamente alzato.
— Quali?
— Per tutti i fulmini di Giove!... Che l’automobile abbia fatto, a nostra insaputa, una volata in pieno Far-West?
Si direbbero bisonti quegli animali che accennano a tagliarci la strada.
— Fermate, Dik!... — gridò il canadese. — Abbiamo dinanzi — a noi un grosso branco di buoi muschiati!... —