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CAPITOLO XXI.
Per due giorni l’automobile, avvolta sempre da quel fitto nebbione che non permetteva alla luce del sole di penetrare, rimase immobilizzata sul campo di ghiaccio del golfo di Bosnia.
La mattina del terzo giorno, dopo una notte burrascosa, accompagnata da furiose raffiche freddissime, l’automobile finalmente si riponeva in marcia fra una vera tempesta di neve.
La nebbia però, spazzata dalle folate, se n’era andata verso il sud, raccogliendosi all’estremità del golfo.
Il canadese e lo studente si erano messi sotto la capote dell’automobile, dietro all’ex-baleniere, per sorvegliarlo strettamente.
Ormai il sospetto, non infondato, si era infiltrato nei loro cuori e non volevano correre il pericolo di rimanere a mezza via.
Procedevano rapidamente poichè il ghiaccio si prestava meravigliosamente ad una corsa anche velocissima, non essendovi che dei rarissimi hummok incastrati fra i ghiacci.
In due ore raggiunsero le isole Murchison che si stendono lungo la costa occidentale della terra di Boothia, poi filarono verso la terra di Somerset, cacciandosi audacemente dentro il canale del Reggente.
Di quando in quando apparivano degli orsi bianchi i quali però, udendo la sirena fischiare, si affrettavano a fuggire a tutte gambe, abbandonando perfino le foche che avevano pescate sull’orlo dei crepacci e che stavano divorando.
La traversata, dal sud al nord, del canale del Reggente, non richiese più di quattro ore, poichè avendo trovato il pak quasi liscio, il canadese aveva ordinato a Dik di spingere la velocità dell’automobile a ottanta chilometri all’ora.
Già le coste meridionali della grande isola di Devon cominciavano a delinearsi, quando l’immenso pak sul quale l’automobile correva sfrenatamente, tutto d’un tratto comincio a vibrare in maniera strana ed a mugghiare come se un immenso armento di bisonti stesse in quel momento attraversandolo.
— Per tutti i fulmini di Giove!... — esclamò lo studente, assai impressionato da quei fragori che aumentavano di momento in momento d’intensità. — Sta per scatenarsi qualche spaventevole bufera? Eppure il cielo e sgombro di nubi e di nebbia.
— Sono le pressioni, — rispose il canadese, mentre Dik rallentava subito la corsa.
— Prodotte da che cosa?
— Da un salto improvviso del freddo. Il ghiaccio in questo momento aumenta il suo spessore, e non trovando più posto, il nuovo si accapiglia col vecchio tentando di sfondarlo.
All’Università di Cambridge vi avranno già insegnato che quando l’acqua gela aumenta considerevolmente il suo volume.
— Mi pare, — rispose lo studente, sorridendo. — E che cosa succederà ora?
— Una cosa gravissima, mio caro Walter, — disse il canadese, il quale appariva assai preoccupato. — Queste pressioni schiacciano le più solide navi come se fossero delle semplici nocciuole e sono le nemiche più temute dai navigatori artici.
— Ma la nostra automobile non è una nave, signor Gastone.
— Può correre egualmente dei gravissimi pericoli, poichè il pak, sotto l’enorme spinta del nuovo ghiaccio sarà costretto ad aprirsi, a creparsi, ed una spaccatura può manifestarsi, da un istante all’altro, sotto le ruote del nostro treno.
— Ed allora che succederebbe?...
— Un capitombolo in fondo al mare senza alcuna speranza di tornare a galla poichè il ghiaccio, durante le pressioni si apre e si chiude quasi istantaneamente.
— Le pressioni sono adunque i terremoti polari.
— Nè più nè meno, Walter.
— Diavolo!... — esclamò lo studente, grattandosi la punta del naso. — Io non sono mai stato un ammiratore dei terremoti.
— Dik, — chiese il canadese, — che cosa ci consigliate di fare?
— Aspettare, — rispose asciuttamente l’ex-baleniere, il quale aveva già fermato il motore.
— Non si potrebbe fare una volata fino all’isola di Devon? Là almeno potremmo riderci delle pressioni, poichè sulla terra ferma non avvengono.
— Ci occorrerebbe per lo meno una buona mezz’ora, signore. Aspettiamo qui che il movimento del pak cessi.
Il pericolo d’altronde sta qui come a dieci o venti miglia più innanzi.
— Walter, guardate il termometro.
— Quarantadue gradi sotto, — rispose lo studente.
— Mentre poco fa non ne segnava che 36. Che salto di freddo!...
— Me lo sento indosso, signor Gastone. Mi caccierei volentieri nel nostro carrozzone accanto alla stufa.
— Lo farete più tardi, quando il pericolo sarà cessato. Ecco che le pressioni ricominciano: come la finiremo noi? Stritolati od inghiottiti? —
L’immenso pak, dopo alcuni minuti di sosta, ricominciava a vibrare ed a rumoreggiare.
Delle fessure o meglio delle spaccature che si prolungavano per parecchi chilometri, di quando in quando si succedevano, accompagnate da detonazioni non meno intense di quelle prodotte dai pezzi grossi della marina.
Succedeva un altro momento di calma, poi quei fragori tutto d’un colpo acquistavano una sonorità spaventosa.
Mille muggiti si fondevano accompagnati da urla e da spari, poi il banco compresso enormemente ai suoi confini da una forza incalcolabile si curvava in alto, gonfiandosi come una gigantesca onda.
Allora avvenivano delle rotture. Dei canali si aprivano per rinchiudersi subito dopo d’aver vomitato blocchi di ghiaccio e masse d’acqua spumeggiante che si solidificava quasi istantaneamente.
Certe volte s’aprivano improvvisamente delle buche più o meno circolari e sorgevano delle punte di ghiaccio le quali s’ingrossavano rapidamente, s’alzavano in forma di torri e di campanili, per poi diroccare con un fracasso assordante che si ripercuoteva fino agli estremi limiti dell’orizzonte.
Guai se l’automobile si fosse, per caso, trovata presso qualcuno di quei centri di pressione!... Sarebbe stata schiacciata sul colpo dallo strapiombare di quegli enormi massi di ghiaccio.
— È uno spettacolo che fa tremare il cuore, — disse lo studente, il quale si teneva stretto al sedile, poichè la vettura oscillava come una nave percossa da un violentissimo rollìo.
— Non credevo che i ghiacci fossero capaci di animarsi.
E dureranno molto queste pressioni?
— Fino a quando il pak si sarà completamente assestato, — rispose il canadese. — Forse dei grandi ice-bergs sono scesi lungo lo stretto di Lancaster ed esercitano anche loro delle spinte poderosissime per aprirsi il passo e cacciarsi dentro quelle del Reggente.
— E noi giuochiamo la fortuna.
— Certo, Walter, e se la fortuna dovesse abbandonarci, allora potreste dare e per sempre un addio al Polo.
— Non poteva toccare a quel bisonte di Torpon un simile affare?
— Le pressioni non risparmieranno nemmeno lui.
— Potessero inghiottirlo insieme alla sua macchina.
— Siete più feroce di me, Walter.
— Quel bisonte mi è antipatico.
— Saldo, Walter!... —
Il ghiaccio si era gonfiato sotto di loro ed il treno era stato spinto in alto con un rombo spaventevole.
Per un momento i tre esploratori credettero che tutto fosse finito e che s’aprisse qualche immensa spaccatura, invece nulla accadde.
Il pak, dopo d’aver vibrato e dopo d’aver oscillato in tutti i sensi come se fosse diventato una massa liquida, s’abbassò bruscamente riprendendo il primiero livello.
Tre o quattrocento passi più innanzi però una torre di dimensioni enormi si era innalzata per cinquanta o sessanta metri, e dopo d’aver oscillato spaventosamente si era sfasciata, scagliando dei massi del peso di parecchie tonnellate, in tutte le direzioni.
La pressione del ghiaccio si era sfogata, e pel momento più nessun pericolo poteva minacciare i tre audaci esploratori.
— Credevo già di vedermi in fondo al mare, — disse lo studente, il quale era ancora pallidissimo. — Signor Gastone, l’abbiamo scappata bella.
— Anch’io per un istante ho creduto che tutto fosse finito, — rispose il canadese. — Se quella torre fosse sorta trecento passi più vicina, l’automobile ed anche il carrozzone sarebbero stati sminuzzati.
— E noi con loro. Che belle bistecche per gli orsi bianchi! Che il pak si risollevi? —
Invece di rispondergli, il canadese si volse verso Dik il quale, abituato a quei terribili spettacoli, non appariva affatto impressionato e gli disse:
— Lanciate e cerchiamo di guadagnare la terra ferma. Il freddo è aumentato d’un altro grado e le pressioni continueranno chissà per quanto tempo, il pericolo esiste qui come più innanzi.
Sfidiamolo. —
L’ex-baleniere scosse il capo, poi rimise in movimento il motore ed approfittando d’un momento di calma, scagliò le vetture a cento chilometri di velocità.
Aveva pur lui compreso che solo la terra ferma avrebbe potuto salvarli da un disastro spaventevole che poteva succedere da un momento all’altro.
Ben presto la corsa del treno divenne fulminea. Pareva che volasse, tutto avvolto in un turbinìo di sottilissimi aghi di ghiaccio i quali balenavano stranamente sotto gli ultimi raggi del sole.
Di quando in quando faceva dei balzi giganteschi e rollava disperatamente come un veliero sbattuto dalla tempesta, fra i mille muggiti delle formidabili pressioni che si potevano benissimo scambiare pei muggiti delle onde in furore, completando così l’illusione.
Intorno, il pak si sollevava, crepava, detonando, si alzavano bruscamente immani colonne di ghiaccio spinte in alto dalle possenti strette e che poi, come sempre, crollavano, lanciando a grandi distanze i loro blocchi i quali rimbalzavano in tutte le direzioni.
— Dio!... Comincio ad aver paura! — aveva esclamato lo studente. — Raccomandiamo le nostre anime. —
Vi era infatti da aver paura delle tremende convulsioni dell’immenso banco di ghiaccio, il quale s’apriva e si rinchiudeva come se sotto le acque un formidabile terremoto scuotesse le estreme parti del mondo settentrionale.
La terra di Devon era scomparsa fra una cortina di nebbie scendenti dal nord, ma l’ex-baleniere aveva la bussola dinanzi a sè, e quantunque l’ago fosse così inclinato da toccare quasi la rosa dei venti in causa dell’attrazione magnetica del polo, funzionava ancora abbastanza bene per non ingannarlo sulla vera direzione.
Ed intanto il treno continuava a correre, rombando spaventosamente, fra una vera tempesta di ghiacciuoli che cadevano non si sapeva da qual parte, lambendo profondi crepacci in fondo ai quali il mare rumoreggiava tentando di montare alla superficie del pak, saltando e balzando sopra i blocchi di ghiaccio disseminati in tutte le direzioni.
Mezz’ora era trascorsa e cinquanta chilometri erano stati divorati, quando la vettura fece un soprassalto e si rizzò come un cavallo che s’impenna sotto una terribile frustata, poi ricadde raddoppiando la corsa.
L’ex-baleniere aveva mandato un grido.
— Che cosa è accaduto, Dik? — chiese il canadese, il quale per poco non era stato scaraventato sul pak dal contraccolpo.
— L’automobile si è alleggerita e mi scappa sotto le mani.
— Alleggerita di che cosa?
— Corpo di tutti i fulmini di Giove!... — gridò in quel momento lo studente, il quale si era alzato aggrappandosi all’orlo della capote di cuoio. — La vettura si è staccata ed è rimasta indietro!...
— Mille dannazioni eterne!... — urlò il canadese.
— Devo frenare? — chiese Dik.
— Lasciamola andare per ora, — rispose il signor di Montcalm. — Tornare, sarebbe come cercare la morte.
Torneremo più tardi a riprenderla se il ghiaccio non l’avrà inghiottita.
Via, Dik!... Via!... —
Le pressioni ricominciavano in quel momento con rabbia crescente. Il pak, compresso contro le sponde meridionali dell’isola di Devon, si contorceva tutto come se fosse diventato di gomma.
Da tutte le parti sorgevano blocchi di ghiaccio, i quali saltavano fuori dalla grande massa coll’impeto di blocchi scaraventati in aria dallo scoppio di una mina.
La morte aleggiava intorno ai tre audaci e dava loro la caccia per afferrarli e seppellirli in fondo ai gelidi baratri dell’oceano artico.
Si poteva dire che ormai gareggiavano coll’orribile megera.
— Via!... Via!... — continuava a gridare il signor di Montcalm, con voce strozzata. — Lanciate Dik!... Lanciate!... —
L’ex-baleniere non aveva bisogno di quei consigli. Aggrappato disperatamente al volante, cogli occhi spalancati, quasi rannicchiato dietro lo scudo protettore, non scemava d’un metro la spaventosa velocità del motore pulsante febbrilmente.
Passarono altri dieci minuti lunghi come dieci ore pei tre disgraziati, poi la vettura s’alzò scagliandosi in mezzo ad una fitta cortina di nebbia.
— Saliamo la costa, — gridò Dik, — Tenetevi fermi!... Cerco di frenare!... —
Avevano raggiunto la terra ferma ed ormai le pressioni più non potevano afferrarli. Dalle pressioni però erano caduti in seno ad una furiosa tempesta di neve che si dibatteva in mezzo ad un fitto nebbione.
L’automobile risalì di volata una costa, traballando come un ubbriaco, spiccò una mezza dozzina di salti, poi sprofondò in mezzo ad un ammasso di neve.
Nel medesimo istante il motore cessò di colpo di funzionare.
— Dik, che cosa è avvenuto? — chiese con angoscia il canadese.
L’ex-baleniere esitò un momento a rispondere, poi abbandonando il volante disse:
— Un nuovo guasto è avvenuto, signore. Siamo immobilizzati.
— Grave?
— Chi lo sa? —
Il canadese e lo studente si guardarono l’un l’altro con estrema ansietà, poi il primo disse con rassegnazione:
— Fatalità questa volta.
— Che cosa faremo ora, signor Gastone? — chiese il secondo.
— Aspettare che la bufera cessi e poi ritornare sui banchi di ghiaccio a ricuperare il nostro carrozzone senza del quale non potremmo resistere a lungo ai terribili freddi del Polo.
— E se il mare l’avesse inghiottito?
— Tenteremo di avanzare egualmente.
— Senza viveri e senza stufa?
— Bruceremo il grasso degli orsi bianchi e l’olio delle foche.
— Ed i serbatoi di benzina che sono tutti nel carrozzone? —
Il canadese guardò lo studente con ispavento. Non aveva pensato alla benzina, la forza vitale ed unica dell’automobile che si era lasciata dietro in balìa alle formidabili pressioni del pak.
— Ebbene, signor Gastone? — chiese lo studente, vedendo il canadese diventato cupo.
— Che cosa volete che vi dica, Walter, — rispose finalmente il signor di Montcalm. — Se è stato ormai scritto sul gran libro del destino che noi dovremo morire senza vedere il Polo, sapremo affrontare la nostra fine da uomini forti.
Il Polo ha divorato in dieci secoli centinaia e centinaia di arditi naviganti: può divorare anche tre automobilisti.
Aspettiamo!... —