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CAPITOLO XXII.
L’uragano di neve scoppiava allora con una furia veramente spaventevole, come se volesse gareggiare colle terribili convulsioni del grande pak che si stendeva sul golfo di Boothia.
Un vento d’una violenza inaudita e così gelido da far screpolare la pelle dei volti e sopratutto le labbra, soffiava dal nord con ululati sinistri, sconvolgendo gli altissimi strati di neve che coprivano quella grande isola perduta ai confini del mondo abitabile.
Le folate, o meglio le raffiche, giungevano con tanta rabbia da scuotere l’automobile, quantunque questa fosse, per sua fortuna, sepolto nella neve fino sopra le ruote.
Il signor di Montcalm, Dik e Walter si erano rifugiati in fondo alla capote dopo aver abbassata e ben legata la grossa cortina di cuoio, portando con sè una bottiglia di gin, l’unica che ormai possedevano e la sola che potesse dare ai loro corpi intirizziti da 45° di freddo, un po’ di calore.
Ben stretti l’uno contro l’altro e avvolti nelle loro folte pelliccie d’orso bianco, attendevano pazientemente che quell’ira di Dio si calmasse.
Il canadese era diventato più taciturno di Dik; lo studente aveva perduto completamente il suo buon umore.
Di fronte a quel disastro non si sentiva più in grado di scherzare. Preferiva dare, di quando in quando, qualche bacio alla bottiglia per combattere alla meglio quel freddo feroce che non accennava affatto a diminuire.
La notte era scesa, una notte oscurissima marina, e la tempesta non cessava d’infuriare.
La neve continuava ad accumularsi intorno all’automobile formando dei bastioni alti tre ed anche quattro metri, che di quando in quando venivano sfondati dalla furia del vento polare.
— Bella notte, — disse ad un tratto lo studente, dopo di aver sbadigliato come un orso. — Che domani ci svegliamo con un contorno di ghiaccio? E la cena?
— Andate a prendervela nel carrozzone, disse il canadese.
— Se le pressioni fossero cessate mi ci proverei, signor Gastone, anche perchè io non sono mai stato abituato a coricarmi senza aver prima cacciato qualche cosa nel mio ventre, fosse pure un miserabile biscotto bagnato con un po’ di gin.
— Non vi consiglierei di avventurarvi sul pak con un simile tempo. Non andreste certamente molto lontano.
— Freddo e ventre vuoto!... Questo non può durare.
— Volete un altro consiglio?
— Dite pure, signor Gastone.
— Stringete la cintura dei vostri calzoni, copritevi bene e chiudete gli occhi. Chi dorme non sente più gli stiracchiamenti dello stomaco.
— Farò come voi dite.
— Dik, accendete un fanale per tenere lontani gli orsi bianchi. Potrebbero approfittare di questa tempesta per farci una visita, da me non certo desiderata.
— E da me anzi invocata, signor Gastone, — disse lo studente. — Sarebbe l’arrivo della cena e di non so quanti pranzi poi.
— Potreste però servire voi da cena a quei messeri dalla bianca pelliccia. —
Attesero che la lanterna fosse accesa, si misero accanto le armi, fecero riabbassare la tenda di cuoio, e dopo di aver vuotate le ultime gocce della bottiglia, si ricacciarono in fondo alla vettura, stringendosi bene dappresso, per scaldarsi un po’ reciprocamente.
Al di fuori la bufera si scatenava sempre più formidabile.
Il vento scaraventava addosso alla vettura, fra ululati e ruggiti spaventosi, una grandine di ghiacciuoli ed immense colonne di neve.
Vi era il pericolo che tutto rimanesse seppellito prima che sorgesse l’alba.
La stanchezza, le emozioni provate ed il freddo che li intorpidiva ebbero ben presto ragione sulle apprensioni, ed i tre uomini non tardarono ad addormentarsi.
Lo studente soprattutto, malgrado la mancanza della cena, non aveva tardato a cadere nel mondo dei sogni.
Sognava di trovarsi in un grande albergo americano, seduto dinanzi ad una tavola copiosamente imbandita, e fornita d’un bel numero di bottiglie di champagne, e di essere lì per allungare una mano verso un magnifico pudding appena levato dal forno.
La mano infatti fu allungata dallo studente anche se dormiva, ma quale fu il suo stupore nel sentirsela afferrare da certe granfie che un momento prima, nel sogno, non aveva vedute dinanzi a sè!... Sentendo quella stretta si era svegliato di colpo spalancando gli occhi.
La tenda di cuoio era caduta ed una massa enorme, che la luce della lanterna volta verso l’interno della vettura illuminava, si era arrampicata sul dinanzi dello scudo protettore, allungando due zampaccie villose verso lo studente che si era addormentato quasi dietro al volante.
Walter con una mossa fulminea aveva ritirata la mano urlando a piena gola:
— Aiuto!... Aiuto!... Gli orsi bianchi!... —
Il canadese e Dik, strappati bruscamente dal loro torpore da quelle grida terribili, erano balzati in piedi stringendo ognuno una Colt.
Vedendo quella massa bianca si misero a sparare all’impazzata, bruciando fino l’ultima cartuccia.
L’orso, poichè si trattava realmente di uno di quei giganti abitatori delle regioni polari, imbarazzato dal volante che gli aveva impedito di avanzare, ricevette quel fuoco di fila senza nemmeno protestare.
Crivellato a brucia pelo dai proiettili delle grosse rivoltelle, si piegò da un lato, poi rotolò giù dalla vettura scomparendo sotto la neve prima che Walter, il quale era riuscito a trovare uno dei due mauser, avesse avuto il tempo di dargli il colpo di grazia che d’altronde non era necessario.
— Ve lo avevo detto io che malgrado la tempesta ci avrebbero fatta qualche sgradita visita? — disse il canadese, mentre Dik rimetteva a posto la tenda di cuoio per arrestare la neve che il vento spingeva dentro la vettura. — Nemmeno la luce dei fanali arresta più queste bestiaccie.
— Che sia proprio morto, signor Gastone? — chiese Walter.
— Con dodici palle che ha ricevuto? Io credo che nessuna sia andata fuori bersaglio.
— I lupi non ce lo mangeranno? Ci tengo a ritrovarlo intatto per rifarmi della cena che mi è mancata.
— I lupi sono piuttosto scarsi oltre il circolo polare artico, e poi non oseranno lasciare le loro tane con una notte così orribile.
Walter riprendiamo il nostro sonno.
— Volentieri, signor Gastone. Ora che so di non dover morire di fame dormirò più tranquillo. —
Si rincantucciarono in fondo alla vettura, ricaricarono per precauzione le armi, quantunque avessero la convinzione di non ricevere altre visite da parte di quei pericolosi signori del Polo, e non tardarono a riprendere il sonno così bruscamente interrotto.
Al mattino la tempesta infuriava ancora e, sempre con eguale violenza, la neve continuava a turbinare.
Una semi-oscurità avvolgeva l’isola quantunque la dormita degli esploratori si fosse prolungata fino dopo le dieci.
Intorno alla vettura si erano accumulate delle enormi masse di neve le quali oltrepassavano la capote.
— Siamo come sepolti, — disse lo studente, mentre Dik si sforzava di far agire il motore per riscaldare un po’ l’interno della vettura. — Come faremo a uscire, signor Gastone?
— Colle nostre gambe e colle nostre picozze, — rispose il canadese. — Fortunatamente nella cassa abbiamo anche dei badili per aprirci il passo.
— E ritrovare il nostro orso, signore. Se mi dovesse mancare anche la colazione mi sentirei di morire molto presto.
— Il grande freddo domanda la sua parte di carbone che pei nostri corpi deve essere rappresentato da carne, a qualunque specie d’animali appartenga.
— E dove cucineremo noi le nostre bistecche? Non abbiamo qui la stufa.
— Se fossimo degli esquimesi non ci troveremmo imbarazzati, Walter.
— Volete dire?
— Che si potrebbe farle arrostire sulla fiamma dei fanali.
— Puah!... — fece lo studente sputando un pezzo di ghiaccio che gli si era formato in bocca.
— Ed allora, mio caro, divoreremo le nostre bistecche crude. Su, prendete i picconi e le pale e cerchiamo di liberare la vettura dalla neve che la stringe da tutte le parti, prima che geli completamente.
Dopo cercheremo l’orso.
— Mi premerebbe prima, signor Gastone.
— Abbiate un po’ di pazienza, signor affamato. Sbarazziamo almeno prima le ruote per evitare che il ghiaccio faccia scoppiare le pneumatiche. —
Lavorando febbrilmente liberarono dapprima la parte anteriore della vettura che era quasi scomparsa sotto la neve, poi assalirono i bastioni di ghiaccio che tendevano a restringersi contro le ruote per effetto delle pressioni che si manifestano anche a terra, non però colla violenza spaventosa che si nota sui paks.
Per quattro ore quei tre uomini, quantunque sfiniti dalla fame, maneggiarono ora i picconi ed ora le pale, sotto una continua bufera di neve, poi ottenuto, almeno pel momento, uno spazio sufficiente, si misero in cerca dell’orso.
Il bestione, sprofondando, aveva aperta una buca nella neve, sicchè non fu difficile scovarlo, quantunque sepolto sotto uno strato di due metri.
A gran colpi di scure il canadese e l’ex-baleniere gli troncarono le zampe posteriori senza perdere tempo a scuoiarlo tutto, poi si affrettarono a rifugiarsi sotto la capote non potendo più resistere alla furia del vento ed al freddo intensissimo che aveva raggiunto ormai i 45°.
Togliere la pelle e tagliare a fette uno zampone ben grosso fu l’affare di pochi momenti.
— Rosbif sanguinanti riscaldati sotto la neve! — gridò allegramente lo studente. — Cucina polare!... —
Ed i tre uomini, divorati dalla fame, assalirono quel gigantesco prosciutto divorando a crepapelle e senza provare alcun ribrezzo.
Si provarono poi ad accendere le pipe, ma dovettero ben presto rinunciare, poichè dopo poche tirate si trovavano in bocca un pezzo di ghiaccio ed il tabacco si spegneva.
Il termometro sospeso all’esterno era disceso di altri due gradi in meno di un’ora.
— Finiremo per morire gelati, se questa tempesta non cessa, — disse lo studente, il quale pensava al tiepido carrozzone riscaldato dalla russante stufa.
Non potendo recarsi fino alla spiaggia per vedere se la loro vettura esisteva ancora od era stata inghiottita, non trovarono di meglio che di riaddormentarsi, ciò che riuscì loro facile poichè le bassissime temperature intorpidiscono l’uomo più vigoroso annichilendogli quasi il cervello.
Anche durante tutto quel giorno la bufera rumoreggiò ed urlò intorno alla vettura, però la neve dopo mezzodì era completamente cessata.
I tre esploratori che si erano svegliati, ne approfittarono per cercare di riparare il guasto toccato al motore.
Come già il canadese ne aveva avuto il sospetto, il pezzo che avevano forse troppo frettolosamente saldato, si era nuovamente spezzato. Fortunatamente il radiatore non aveva nulla.
Dik, sorvegliato strettamente dallo studente e dal canadese, il quale lo aiutava, si mise di buona o mala voglia all’opera, e prima che le tenebre scendessero il motore aveva ricominciato a funzionare.
— A domani, — disse il canadese. — Lasciamo che questa notte la neve si rassodi, poi ci scaveremo una via per far rimontare la vettura che si trova due buoni metri sotto lo strato.
Durante la notte anche la bufera, che durava da due giorni, finalmente si calmò, sicchè al mattino sulla grande isola regnava una calma relativa.
La neve era però caduta in così grande quantità che lo spessore del ghiaccio era aumentato di quasi tre metri, rendendo l’atmosfera quasi irrespirabile tanto era fredda.
Il canadese ed i suoi compagni, quasi completamente assiderati, malgrado lo spessore delle loro pelliccie, con un ultimo sforzo aprirono un varco nella massa gelata, improvvisando una strada saliente verso la superficie del ghiaccio, poi lanciarono l’automobile, ansiosi di tornare sul pak.
Avrebbero ritrovata la loro vettura che portava con essa tutte le loro speranze, poichè nei suoi fianchi stavano rinchiusi i serbatoi di benzina? Ecco quanto si chiedevano ansiosamente.
Se il golfo di Boothia l’aveva inghiottita potevano considerarsi come perduti, poichè l’automobile non avrebbe potuto percorrere più d’una cinquantina di chilometri nè, anche se avesse avuto una grossa riserva di benzina, proteggerli contro i terribili freddi del Polo artico.
La tempesta di neve aveva trasformata la costa meridionale dell’isola. Se due giorni prima era quasi piana, ora mostrava una serie infinita di ondulazioni più o meno accentuate, simili alle rolling prairies delle sconfinate praterie del Far-West, che l’automobile però superava facilmente, pur rollando e beccheggiando disperatamente.
Con una volata di mezz’ora, a sessanta chilometri di velocità, la vettura raggiunse la costa, arrestandosi bruscamente sulla cima sotto una poderosa stretta di freni.
Il canadese, lo studente e perfino il flemmatico Dik erano balzati in piedi.
L’immenso pak, tutto scintillante d’una luce intensissima in causa del rifrangersi dei raggi solari, si stendeva dinanzi a loro.
In mezzo a quello scintillìo che accecava, un punto oscuro attrasse subito l’attenzione dei tre esploratori.
— Il nostro carrozzone!... — gridò il canadese.
— Sì, il nostro vagone-salon!... — urlò lo studente dimenando le braccia come le ali d’un mulino. — Hurràh!... Hurràh!... La conquista del Polo è assicurata!... —
Anche Dik pareva commosso. Dopo tutto non doveva garbargli troppo di trovarsi arrestato al di là del circolo polare artico in piena panne, colla sola risorsa di ritornarsene al Canadà a piedi sia pure coi diecimila dollari di mister Torpon.
— Dik, — disse il canadese. — Il pak a quanto pare ha ripreso il suo equilibrio. Possiamo scendere?
— Sì, signore.
— Andiamo a riprendere il nostro carrozzone.
— Purchè il motore non si guasti ancora.
— Lasciate a me allora il volante, — disse il signor di Montcalm, con tono un po’ acre. — È impossibile che ogni momento succedano dei malanni ad una macchina che è stata costruita con tutte le cure possibili.
Si direbbe che voi avete sbagliato mestiere.
— E che avreste fatto meglio a continuare a fare il baleniere, — aggiunse Walter.
Dik si era alzato, lanciando sui due uomini un brutto sguardo.
— Pare che mi vogliate offendere, — disse poi, con calma glaciale. — Se siete stanchi di me, ditemelo francamente, ed io me ne tornerò al Canadà colle mie sole gambe, purchè mi si dia un fucile colle relative munizioni.
— Per farvi mangiare dagli orsi bianchi? — disse lo studente.
— Siete pazzo, Dik? — disse il canadese.
— Uh!... Un baleniere non ha paura nè del freddo, nè degli orsi. Se volete, parto subito.
— Riprendete il volante, — comandò il canadese, con voce imperiosa. — Io vi ho arruolato e dovrete venire con noi fino al Polo.
— Avete ragione, — rispose asciuttamente l’ex-baleniere, dopo una breve esitazione.
Tornò a sedersi dietro il volante e dopo d’aver guardato per qualche istante la spiaggia che scendeva rapidissima, rimise in moto il motore, tenendo una mano sul freno.
Più che una discesa fu uno scivolamento, poichè le ruote erano state chiuse. La vettura balzò finalmente sul pak, il quale aveva riacquistata la sua immobilità e filò verso quel punto grigiastro che ingrandiva a vista d’occhio, scomparendo la distanza rapidissimamente.
Dopo d’aver girato intorno a numerosi e giganteschi ice-bergs, i quali erano riusciti a cacciarsi a forza dentro l’immenso campo di ghiaccio, la vettura potè finalmente raggiungere il carrozzone scampato miracolosamente alle formidabili pressioni che avrebbero potuto stritolarlo in un attimo e mandarlo rotto in fondo al golfo di Boothia. Nessun danno aveva subito. Solamente le sue ruote si erano affondate nel ghiaccio e l’intera massa si era inclinata su un fianco.
— Signor Gastone, — disse lo studente, il quale era balzato a terra prima di tutti. — In questo miracolo io vedo una straordinaria protezione da parte della fortuna verso di noi. Ora non dubito più di poter sedermi in quel punto dove tutti i meridiani s’incrociano e di bagnarli con una bottiglia di champagne.
— Lo spero anch’io, Walter, — rispose il canadese. — Sono anch’io fermamente convinto ormai che la fortuna ci abbia accordata la sua intera protezione.
Dik, guardate di attaccare e rinforzare le catene. Ne abbiamo altre in serbo.
E noi, Walter, accendiamo la stufa e sgeliamoci le membra che ne hanno proprio bisogno dopo tanto freddo.
— E prepariamoci un pranzetto più o meno luculliano per riscaldare anche le nostre budella, signor Gastone, — rispose lo studente. — Corpo di tutti i fulmini di Giove!... La carne dell’orso mi scendeva nello stomaco come pezzi di ghiaccio.
— Lascio a voi preparare la minuta, signor ghiottone.
— E vedrete che fagiolata fumante vi preparerò io!... Me l’ha insegnata la mia povera mamma, e come le faceva eccellenti!... —
Il bravo e sempre allegro giovanotto balzò nella vettura per accendere la stufa prima di tutto, mentre il canadese e Dik si occupavano dell’allacciamento delle catene che si erano spezzate durante quella corsa disperata attraverso al pak.
Un’ora dopo i tre esploratori si trovavano riuniti intorno alla stufa, dinanzi ad un pranzetto sapientemente preparato dallo studente.
Avevano proprio bisogno di un po’ di calore esterno e sopratutto interno dopo due giorni passati quasi a digiuno fra una temperatura oscillante fra i 42° ed i 45° sotto lo zero.
Quantunque avessero desiderato riposarsi alcune ore sui loro lettucci, il timore che le terribili pressioni potessero ancora sorprenderli li decise a riprendere senz’altro il viaggio.
Lasciarono molto a malincuore quel tiepido ambiente, allietato dal russare dolcissimo della stufa, e ripresero il loro posto nella vettura non senza aver prima rifornito il serbatoio della benzina.
Con una volata rapidissima riguadagnarono l’isola di Devon e dopo una breve fermata per fare il punto, alle tre pomeridiane tagliavano il 75° parallelo.
Lo stesso giorno, con un tempo relativamente calmo, si accampavano sulle rive settentrionali di quella vasta terra, di fronte allo stretto di Jones che era completamente gelato ed in vista dell’isoletta di Coburg.
L’indomani, dopo una notte tranquillissima, rischiarata da una magnifica aurora boreale, passavano sulla terra di Lincoln, terra appena esplorata lungo le coste e che si ignora ancora esattamente se sia una grande isola o se sia congiunta alla terra di Ellesmore.
Il ghiaccio era sempre buono e permetteva all’automobile di percorrere senza fatica i suoi cinquanta chilometri all’ora.
Qualche orso di quando in quando si mostrava, subito salutato da una scarica di mauser, e anche delle foche e delle morse apparivano in vicinanza delle coste, presso i buchi che avevano aperti nei banchi di ghiaccio per venire a respirare e godersi qualche pallido raggio di sole.
Il secondo giorno da che avevano lasciato il pak del golfo di Boothia, correvano già sulla terra di Ellesmore, una delle ultime esplorate dai navigatori americani ed europei in questi ultimi anni.
Le difficoltà però cominciavano a farsi sentire di miglio in miglio che l’automobile si avvicinava al Polo.
Dei vasti canali di quando in quando interrompevano la corsa, canali a mala pena gelati, quantunque il freddo si mantenesse sempre elevato, obbligando gli esploratori a fare dei lunghissimi giri.
Ora invece erano ammassi formidabili di vecchi ice-bergs, che la cortissima estate da tanti anni non aveva potuto sciogliere, che si presentavano dinanzi al treno senza mostrare alcun passaggio, il che obbligava gli esploratori a perdere delle lunghissime ore ed a sprecare molta benzina per cercare una salita abbastanza accessibile.
Ora erano i pak dei larghi stretti aperti al di là della terra di Ellesmore, che mettevano a dura prova ed a grandi rischi quei tre animosi — o meglio i due animosi — colle loro pressioni.
Da quattro giorni correvano senza posa, talvolta bersagliati da improvvisi uragani di neve, quando verso il mezzodì del quinto giorno il treno passò sulla terra di Smith, una delle più settentrionali e delle meno note.
— Prendiamoci ventiquattro ore di riposo, — disse il canadese, dopo che l’automobile, con grande fatica, ebbe superata l’alta costa, sprofondando fino all’altezza delle ruote in un campo di neve non ancora rassodato. — Ne abbiamo bene il diritto.
— È ancora molto lontano questo signor Polo? — chiese lo studente.
— Io spero, fra due giorni, se nulla di grave succede, di sturare la nostra famosa bottiglia di champagne sull’incrocio dei meridiani e di vuotarla....
— Alla salute dei begli occhi di miss Ellen Perkins, — interruppe Walter.
Il canadese lo guardo socchiudendo più volte gli occhi, poi rispose bruscamente:
— No.... alla nostra. Pranziamo; e poi, giacchè il vento non ci tormenta e la temperatura è diventata stranamente mite, andremo ad esplorare un po’ il paese ed a cacciare. —