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Capitolo X.
Di lì a qualche momento approdò una barchetta coperta, da cui scesero tre persone, e se ne vennero cicalando verso l’abitazione di Tofei. Uno di questi era l’ormai celebre Sachicci Dai-tre-simboli; e lo seguiva a sinistra il medico di compagnia, Jabuvara Cicusai, famoso per mandar la lingua più rapida dei cucchiaini con cui rimescolava le sue medicine, e valentissimo in fatto d’intrugli e di consulti medici nei salotti. Gli veniva a destra Fucazen, il buffone abilissimo a far la parte di pappagallo, vestito di quel suo solito gabbano, in cui per ornamento si leggeva scritta per tutti i versi la voce ZEN, ultima sillaba del suo nome.
«Ora dunque, signor Tofei, potremo ristorarci con una tazza nel vostro albergo, non è vero?»
«Volentierissimo!» rispose il padrone di casa; e prima che quelle due male lingue incominciassero a motteggiarlo, corse ad aprire l’usciuolo della porta di dietro, e fece strada ai tre ospiti, dicendo: «Per quanto sia caldo e scuro questo mio loghicciuolo, spero che Lor Signori potranno ricrearvisi un poco, in grazia della spossatezza in cui si trovano.»
«Andiamo, non tanta modestia! Fra le diverse stazioni di barche, questo albergo di Fanazachi1 primeggia per la singolarità della costruzione. Benchè non vi siano pergolati, nè monti di rododendri e di azalee sulle pareti di legno nero, con quel tempietto di Kennin che nasconde il palancato, con quelle piante messe in giro soltanto per formare una siepe, tutto va a meraviglia, a meraviglia!»
Non appena queste parole, pronunziate al solito da Cicusai con voce sonora, giunsero all’orecchio di Ofana, anch’essa discese dal secondo piano. «Che miracolo, signor Sachicci! Io son molto contenta che i vostri piedi, non avendo alcuna direzione, vi abbian trascinato da queste parti meridionali.»
«No, non è questo. Come voi già sapete, dovunque io vada, non prendo impegni: questo è il mio costume, anzi la mia singolarità. E non di meno il mio andare a zonzo ha talmente passato i limiti, che anche mia madre, buona com’è, se n’è un poco meravigliata e lagnata. So che ha detto: — Quel tristarello di Sachicci, quello che una volta, vinto per caso dal sonno, si faceva guanciale dell’arnese da far conti,2 e fin ne’ sogni parlava del dare e dell’avere; quello che fra’ giovani era una rarità, era tutto dedito al commercio, aveva in orrore gli spassi; quello insomma che in ogni buona cosa non aveva l’eguale; dopo esser caduto in mano de’ medici, dopo che questi ebbero dichiarato il suo male una ipocondria cronica senza pericolo della vita, dopo essere stato da me stessa istigato a prendersi qualche spasso; oggi si è fatto dei passatempi una inclinazione invincibile e un’abitudine. Da qualche anno a questa parte non si è preso più alcun pensiero degli affari di casa. Così il mio bravo signorino Dai-tre-simboli, come credo che ora lo chiamino, con quegli emblemi della rovina dei patrimoni, si va facendo una bella riputazione! Il veder poi quel medico e quel giullare che gli vengono sempre in casa, e non gli danno mai un buon consiglio, è ciò che più mi stizzisce. — Questi lamenti di mia madre mi furono riferiti dal mio sostituto: e però d’allora in poi, per un centinajo di giorni, non ho più messo piede fuori della soglia.»
Mentre Sachicci ancora parlava, gl’inseparabili suoi compagni esclamarono a un tratto: «Che affare è questo? Curioso davvero! Con un tempo così bello si sente tonare.»
Ofana sorrise nel vedere quei due che, buffoneggiando, si tappavan gli orecchi; ed aggiunse: «Se quel nuvolone viene innanzi, questa notte davvero vuol fare fracasso. Non si può sapere quel che sarà, ma gl’indizi non sono belli.»
Con questo porgeva la tazza a Cicusai, che, recandosela in mano e continuando a guardare curiosamente da tutte le parti, riprese: «Là in fondo al rialto del pavimento veggo sospeso un cartellone pieno di caratteri: e quello so che è una famosa preghiera. Ma sul dinanzi vi è una scatola in forma di cane, a cui veggo che sono state messe intorno, come in offerta, sette diverse specie di confetture. Le nostre antiche leggende parlano di un bove adorato; ma un cane adorato che novità è?»
Tofei, a tal domanda, fece d’occhio al medico e rispose: «Questo è ciò che mia moglie chiama le sette congiunture. Non è vero, Ofana?»
«Sicuro! noi ne facciamo gran caso;» replicò questa per ischermirsi da una risposta categorica.
Ma il medico, dopo aver fatto un certo conto sulle dita, soggiunse: «Ho scoperto a puntino, Signora, quanti anni avete. Quella bambina piccina piccina, Ojosci, essendo ancora sotto i cinque anni,3 voi prestissimo avrete compíto i vostri bei trenta.» E rideva.
Qui Ofana s’allontanò, rispondendo alle risa di Cicusai con un gesto che voleva dire: Quanto volentieri ti darei un ceffone!
Allora Fucazen osservò: «Coi vostri oziosi discorsi avete fatto fuggire la padrona di casa. Ma, a proposito di fuggire, in questo paravento qua si veggono rappresentati un giovane ed una donna che di nascosto si trafugano, e là di rimpetto una fila di ponti. A che fatto allude questa pittura?» Così dicendo Fucazen voleva finir di spiegare tutto il paravento.
Ma il padrone di casa gli disse: «Non si dia troppo da fare; può lasciarlo pure piegato, perchè è sempre la stessa veduta. Quel primo è il ponte ai Susini, l’altro è il ponte del Fior di sacura, e il terzo è il ponte a Sonezachi. Poco tempo fa, quando fu pubblicato il melodramma d’Ofaz Tocubeje, io comprai queste scene da teatrino domestico, e ne feci un paravento.»
«Poichè avete menzionato il melodramma di Tocubeje,» ripigliò Cicusai con la sua solita petulanza, «mi fate venire in mente che in questi ultimi anni abbiamo avuto qui una celebre cantante per nome Comaz Dai-due-pettini. Pare che questo soprannome abbia fatto fortuna; e non vi par’egli, che Dai-tre-simboli, Dai-due-pettini, siano appellazioni che vogliano esser pronunziate a coppia e di séguito? Non vi pare, signor Sachicci, che, dando così alla farsa un doppio titolo, le si aggiungerebbe celebrità? Quel che ora occorra allo scopo, è vostra bisogna.»
Sachicci accortosi che il suo medico era mezzo brillo, cercò di farlo tacere, dicendo: «Ho certamente sentito parlare anch’io di questa Comaz, ma finora non so d’averla veduta mai. Triste massima è quella che insegna di prender norma dalle tortuosità dei paraventi per far fortuna:4 sciagurata reputazione quella che di sè lasciano alla posterità con tali arti queste cantanti e ballerine, questi fior d’angeli; e più sciagurato chi passa in esempio fra il numero di quegli sciocchi che giungono a darsi la morte per amor di costoro. Di non aver mai preso fin qui alcuno di simili impegni, io mi faccio una vera compiacenza. In conclusione, che altro sono, ballerine e cantanti, se non merce da vendere e da comprare? Spandi oro a larga mano, e ne farai la tua voglia. Re degli stolidi chi le crede sincere e fedeli!»
Questa invettiva era appena al suo termine, allorchè dal secondo piano discese Comaz Dai-due-pettini. Quando si voltò a salutare Ofana, che la seguiva per accompagnarla, gli occhi di Sachicci furono come percossi da inusitato splendore. Tremandogli la mano che reggeva la tazza, non accorgendosi che il liquore gli si versava sulle ginocchia, non accorgendosi neppur di parlare ad alta voce, domandò: «Chi è quella cantante5 che io veggo là?»
«È precisamente,» gli fu risposto, «quella Comaz Dai-due-pettini, di cui poc’anzi parlava il signor Cicusai.»
Sentendo questo, Sachicci spensieratamente gettò la tazza, e rassettatosi la cintura in atto di partire, «Ebbene,» disse, «d’ora innanzi, mettendomi intorno a costei, ho trovato come passare allegramente il mio tempo.»
Mutato animo, mutato cielo, rinfrescandosi l’aria per una buona scossa che incominciava a cadere, «Orsù,» aggiunse, «compagni miei, famosi per essermi sempre alle costole, seguitemi senza indugi.»
E quei due, sorbita un’ultima tazza mentre si alzavano, raggiunsero Sachicci, che già in compagnia di Tofei teneva dietro a Comaz, alla volta di Scima-no-ucci.
- ↑ È il nome della casa ed è insieme il casato che ora ha preso Tofei.
- ↑ È una tavola con fili di ferro, lungo i quali scorrono pallottole, che collocate in diversi modi, ajutano a computare.
- ↑ Cicusai parla ironicamente. Ojosci aveva ora nove anni.
- ↑ Si vegga la Prefazione dell’Autore, verso la fine.
- ↑ All’acconciatura di Comaz conosce Sachicci che quella è una cantante.