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VILLA GLORIA.
Sonetti in dialetto romanesco, originali, — che dopo il Belli pare impossibile, — ha trovato modo di farne Cesare Pascarella. Già in quelli del Morto de campagna e della Serenata diè a divedere anni addietro la potenza che aveva a intuire e rendere la verità austera. In questi di Villa Gloria il Pascarella solleva di botto con pugno fermo il dialetto alle altezze epiche.
Tutto qui è vero: non è il poeta che parla, è un trasteverino che vide e fece: per ciò l’epos nasce naturale e non per convenzione, nella forma dialettale. Il trasteverino è uno egli stesso, ripeto, dei settanta; ha quindi un animo quale ci bisognava alla gran gesta; ha la osservazione profonda e sicura, per quanto commossa, delle cose e degli uomini; ha il cuore risoluto e pietoso: senza descrizioni, senza divagazioni, senza fantasticherie (ché non c’era tempo) ma tenendo conto di tutti i particolari (ché a tutto si doveva badare per vincere o per morire bene, un gruppo com’erano), egli racconta; e nella lontananza di diciotto anni l’ardore rimeditato e risentito dell’animosa sua gioventù gl’illumina del bagliore d’una fantasia severa il racconto; e in quel racconto, nel cospetto di Roma, fra il Tevere e l’Aniene, in quella campagna, con quei nomi, a quella stagione, dalle concitazioni del duro e muscoloso linguaggio la linea epica si solleva e si distende per i venticinque sonetti monumentale. Non mai poesia di dialetto italiano era salita a quest’altezza. Grandissima l’arte e la potenza del Porta e del Belli, ma in una poesia che nega, deride, distrugge: classica quanto si vuole l’arte del Meli, ma fuor della vita, in una Arcadia superiore. Scolpire la idealità eroica degli italiani che muoiono per la patria, con la commozione d’un gran cuore di popolo, con la sincerità d’un uomo d’azione, in poesia di dialetto nessuno l’aveva pensato, nessuno aveva sognato si potesse. Ho caro che la prova sia riuscita a questi giorni che paiono di abbassamento e che l’abbia fatta un romano.
- 1° luglio 1886.
A
BENEDETTO CAIROLI.
I.
A Terni, dove fu l’appuntamento,
Righetto ce schierò in d’una pianura,
E lì ce disse: — Er vostro sentimento
4Lo conosco e nun c’è d’avé pavura;
Però, dice, compagni!, v’arimmento
Che st’impresa de noi nun è sicura,
E Roma la vedremo p’un momento
8Pe’ cascà’ morti giù sott’a le mura.
Pe’ questo, prima de pijà er fucile,
Si quarcuno de voi nun se la sente
11Lo dica e sorta fora da le file.
Dice: non c’è gnisuno che la pianta?1 —
E siccome gnisuno disse gnente,
14Dopo pranzo partissimo in settanta.
II.
E marciassimo fino a la matina
Der giorno appresso. Tutta la nottata!
A l’arba poi, fu fatta ’na fermata
4Su l’erba zuppa fracica de brina.
Traversassimo un fiume de rapina2,
Lassassimo la strada, e traversata
’Na macchia, se sboccò su ’na spianata
8E venissimo in giù pe’ la Sabina.
Dove che dietro a noi c’era pe’ scorta
N’onibussetto tutto sganghenato,
11Dov’uno ce montava un po’ pe’ vorta.
Pe’ strada er celo ce se fece cupo,
E venne l’acqua che nun ci ha lassato,
14Finché non semo entrati a Cantalupo.
III.
A Cantalupo, drento a ’na chiesola
Righetto ce divise in tre sezione,
E dopo avecce letto l’istruzione,
4Fece: — Ripeto n’antra cosa sola:
Si fra voi c’è quarcuno che ciriola3,
Lo dica e nun se metta soggezione. —
Gnisuno arifiatò. Fece: — Benone!
8Vedo che sete tutti de parola.
Ma perchè non ce sia gnisun intoppo
(È inutile a sta’ a fa’ mezze parole)
11S’io morissi c’è l’antro che viè’ doppo. —
E lì de novo tutti in marcia. Arfine,
Caricassimo tutti le pistole
14E a Corese passassimo er confine.
IV.
E a l’arba, mentre c’era un temporale,
’Rivorno da Firenze li cassoni
Dove c’erano drento li foconi4
4De quelli de la guardia nazionale.
Furno depositati in d’un casale
E dopo, assieme a l’antre munizioni,
Li portassimo drento a du’ barconi
8Presi da ’n capo-presa5 padronale.
Fatto er carico, sopra a ’gni barcone
Ce fu messa la legna e fu ridotto
11Come quelli che porteno er carbone:
In modo ch’uno nun capisse gnente.
Poi dopo s’accucciassimo de sotto
14E venissimo in giù co’ la corrente.
V.
Avanti a tutti, drento a ’na gozzetta,
Come stassero lì a guardà’ er carbone,
C’ereno li Cairoli de vedetta;
4E noiantri giù a fonno ner barcone,
Sentimio da la riva la trombetta
De le truppe der papa! A Teverone,
Verso notte, se scense e ’gni sezione
8Fu dislocata drento a’ na barchetta.
E m’aricordo ch’una era tarlata
E che cór sego e co’ li stracci pisti
11Lì su la riva fu calatafata.
Dopo annassimo da li doganieri,
Li legassimo tutti come Cristi,
14E furno fatti tutti prigionieri.
VI.
Dopo fatta ’sta prima operazione,
Lì, ce se fece notte in mezzo a fiume:
C’era nell’aria come n’oppressione
4De fracico e ’na puzza de bitume:
Nun se sentiva che scrocchià’ er timone
Pe’ nun impantanasse ner patume;
E verso Roma, in fonno a l’estensione,
8Se vedeva ariluce’ come un lume.
Un lume che sur celo era ’n chiarore.
E lì pe’ fiume, in quer silenzio tetro,
11Fòr che l’acqua non c’era antro rumore.
E in fonno a la campagna, a l’aria quieta,
De notte, er cupolone de San Pietro
14Pareva de toccallo co’ le deta.
VII.
Sangue de la Madonna! Che nottata!
Quanno che m’aritorna a la memoria,
Me pare come un pezzo de ’na storia
4Che quarcuno m’avesse arriccontata.
Avemio da stà’ a Roma a fa’ l’entrata
Pe’ trovacce la morte o la vittoria,
E invece er giorno dopo a Villa Gloria...
8Destino! Basta, sotto a la spianata,
A mezzanotte, in mezzo a la corrente
Se fermassimo p’aspettà’ er chi-viva.
11Aspetta, aspetta, aspetta... Gnente!... Gnente!
Riguardassimo bene de lì intorno:
Manco un’anima!... Annassimo a la riva.
14Per aspettà’ che se facesse giorno.
VIII.
E a l’arba fu smontato dar battello,
E piano piano, senza move’ un deto,
Perché non se scoprisse er macchiavello,
4S’agguattassimo drento in un canneto.
Dopo, Righetto fece cór fratello:
— Annate in cinque su pe’ sto querceto,
E scannajate un pò’ pe’ sto stradello
8Si ce fosse un ricovero segreto;
Ché staremo a vedé’ quer che succede;
Intanto lì ce se potrà rimane’
11Finché quarcuno non se faccia vede’. —
E mentre annamio sopra, intorno intorno
Se sentiveno batte’ le campane
14De Roma, che ce daveno er bongiorno!
IX.
Pe’ la macchia trovamo un frattarolo,
— Faccia a terra, per Cristo! — Poveretto!
L’intorcinamo drento ar farajolo
4E j’appuntamo le pistole in petto.
E lì, ner mentre lo tenemio stretto,
Giovannino je fa: — Voi sete solo?
Dice: — Per carità, so’ er vignarolo;
8Mi’ moje è annata a Roma cór carretto;
Io so’ ’n povero padre de famija...
— Ce so’ li papalini? — So’ innocente...
11— Fate la spia? — Me faccio maravija!
— Be’, allora, dice, datece ristoro. —
E pe’ facce pijà’ pe’ bona gente
14Je fu pagata ’na moneta d’oro.
X.
E quer vecchio tremanno de pavura
Ce portò sopra ar monte, in d’un casale,
Che invece era ’n casino padronale
4Dove che ce se va in villeggiatura.
Fu aperto. Visitassimo le mura;
E dopo avé’ girato pe’ le sale
E avé’ visto che lì tanto er locale
8Quanto la posizione era sicura,
Fu mannato a chiamà’ l’antri de sotto;
Furno messi lì intorno l’avamposti,
11E poi fu fatto un piccolo complotto:
E mannassimo a Roma, ar Comitato,
Uno, pe’ dije che stamio anniscosti
14Sintanto che non fosse aritornato.
XI.
Dopo, Righetto assieme a Giovannino
Sortirno dar casale e perlustrorno
Li contorni, e siccome lì vicino
4Scoprirno ’na casetta, ce mannorno
Tre fazioni, perché si de lì intorno
Se fosse visto quarche papalino,
Ce dassero er chi-viva su ar casino.
8Defatti, poco dopo mezzogiorno,
Vengheno su de corsa du’ fazioni;
E dice: — Che li possino ammazzalli!
11S’è vista ’na patuja de dragoni.
Se so’ avanzati fino sotto ar muro;
Hanno dato la fuga a li cavalli,
14E so’ spariti in giù pe’ l’Arco Scuro.
XII.
Righetto allora, ch’ebbe er sentimento
Che la patuja de ricognizione
Voleva di’ l’annunzio der cimento,
4Chiama Giovanni assieme a la sezione,
Che c’ero io pure, e dice: — Sur momento
Va a la casetta e pîa la posizione. —
Annamo, e mentre stamio chiusi drento,
8Dice: — All’armi! Ce semo... Un battajone! —
Sortìmo. Se mettemo alliniati,
(Saremo stati in tutto dicissette!)
11E guardassimo sotto pe’ li prati;
E in fonno fra le fratte de li spini
Vedemo luccicà’ le bajonette.
14— Viva l’Italia!... So’ li papalini.
XIII.
Arrivati a la porta der cancello,
La tromba dà er segnale foc-avanti.
Se fermeno. Scavarcheno er murello,
4E incominceno er foco tutti quanti.
E mentre stamio tutti lì davanti
A la casetta, drento ner tinello
Er vignarolo in mezzo a quer fraggello
8Stava a cantà’ le litanie de’ santi.
E intanto ch’er nemico s’avanzava
E ’gni palla fischiava pe’ cinquanta,
11Sentìmio Giovannino che strillava,
Imperterrito immezzo a la tempesta,
Dice: — Pensate che semo settanta
14E che ci avemo sei cartucce a testa.
XIV.
Nun sparate che quanno so’ vicini... —
(E intanto che veniva un battajone,
Se vedeveno l’antri papalini
4Che saliveno in su pe’ lo stradone):
— Perdio! Nun se spregamo li quatrini...,
Strillava Giovannino, attenti... unione...
Nun sparate che quanno so’ vicini...,
8Fermi... fermi, perdio! Fermi... attenzione... —
E intanto che le truppe s’avanzaveno,
Che se po’ di’ che stamio faccia a faccia,
11Le palle, fio de Cristo, furminaveno.
Ma quanno che ce córse tanto poco,
Che quasi je potemio sputà’ in faccia,
14Ninetto urlò: — Viva l’Italia! Foco!
XV.
E lì ner mejo der combattimento
De lotta a còrpo a còrpo davicino,
Ecco Erìgo fuggenno come er vento;
4Guarda la posizione un momentino
E strilla, dice; — Addietro, sacramento!,
Ché ve fregheno, addietro, Giovannino!
Addietro, ché restate chiusi drento
8Prigionieri... De corsa!, giù ar casino! —
Lì a la mejo facessimo er quadrato,
E vortassimo in giù pe’ lo stradone
11Dietro a Righetto a passo scellerato.
E ’rivati ar casale s’agguattassimo
Tra le rose e le piante de limone,
14E accucciati lì sotto l’aspettassimo.
XVI.
Allora, dopo questo, li sordati
Che nun capirno ch’era ’na finzione,
Credennose che fossimo scappati,
4Vennero pe’ pijà’ la posizione.
E mentre stamio tutti aridunati,
Li sentimio venì’ pe’ lo stradone
Urlanno come ossessi scatenati;
8Ma Righetto che stava inginocchione
Avanti a tutti, fece: — Attento... Attento!... —
E quanno che ce stiedero davanti,
11Righetto ch’aspettava quer momento,
Buttò via la berretta, fece ’n sarto,
Strillò: — Viva l’Italia!, e córse avanti,
14E noi dietro je dassimo l’assarto.
XVII.
Ar vedecce sortì’ da la piazzetta
Come er foco che uscisse de ’n vurcano,
Preso de fronte, er reggimento sano
4Se mette a fugge’ verso la casetta.
Noi, pe’ poteje fa’ la cavalletta,
S’arrampicamo sopra a ’n farso piano,
E mentre li vedemio da lontano
8J’annamo sotto co’ la bajonetta;
Ma mentre p’arrivalli c’era poco,
Sangue de Dio! Bum... bum... sentimo un botto
11E vedemo ’na nuvola de foco.
Ce calò sopra a l’occhi com’un velo...
L’assassini, scappanno giù de sotto,
14Ci aveveno sparato a bruciapelo.
XVIII.
Allora quelli che restamio dritti
Se buttassimo giù su lo stradale,
E quanno se vedessimo sconfitti
4Ritornassimo drento ner casale.
E siccome mancava er generale,
Fu detto: — Si ce danno li diritti
De l’onori de guerra, stamo zitti;
8Si no, morimo tutti... tanto è uguale. —
Se fece notte: e mentre stamio drento
Ner casale aspettanno li sordati,
11Ce parve de sentì’ com’un lamento.
Annamo su la porta tutti uniti,
S’affacciamo, orecchiamo pe’ li prati:
14— So’ li nostri, perdio! So’ li feriti!
XIX.
Allora se buttamo giù p’er prato,
Fra l’arberi, a l’oscuro, e annamo in traccia
De li feriti... E dopo avé’ cercato
4Dove successe er fatto, fra l’erbaccia,
Sotto a n’arbero secco, fu trovato
Righetto! Stava steso, co’ le braccia
Spalancate, cor petto insanguinato
8Dar sangue che j’usciva da la faccia.
Mentre je damio l’urtimo saluto
De li morti, tra l’arberi lontani
11Sentimo un antro che strillava ajuto;
Seguimo er sono, e sotto d’un ulivo
Ce trovassimo steso Mantovani,
14In d’un lago de sangue, ancora vivo!
XX.
Ner casale fu messo su un divano,
E mentre je sfilamio la giberna
C’insegnò sur un fianco co’ la mano
4Come ci avesse ’na ferita interna.
Allora j’accostamo ’na lanterna
Sur fianco; lo scoprimo piano piano...
Sangue de Cristo! C’era ’na caverna,
8Che je c’entrava ’n braccio sano sano!
Se mettessimo tutti inginocchiati.
Lui co’ le mano s’acchiappò la gola
11E ce fissò co’ l’occhi spalancati:
Fece ’no sforzo, s’arzò su dar letto
Come volesse di’ quarche parola,
14E je cascò la testa sopra ar petto.
XXI.
Allora quelli che ereno spirati
Li portassimo drento a la cucina,
E accanto, ne la camera vicina,
4Ce mettessimo l’antri più aggravati.
E aspettanno che fosse la matina,
Cusì a la mejo furno medicati;
Ma, senza un filo de ’na medicina,
8Era ’na cosa da morì’ straziati.
Tanto ch’a uno p’infasciaje ’n osso
D’un braccio, ce toccò a strappà’ li tòcchi
11De le camicie che portamio addosso.
Che strazio ch’è vedé’ soffrì’ la gente
Che te guarda cór core dentro a l’occhi,
14Staje davanti e nun poté’ fa gnente!
XXII.
Un passo addietro. Dopo er tradimento
De la scarica, appena inteso er botto,
Righetto e Giovannino in quer momento
4Cascorno, sarv’ognuno, a bocca sotto.
Dice ch’allora, mentre er reggimento
Scappava giù p’er prato, sette o otto
Che li veddero senza sentimento
8Tornorno addietro e je riannorno sotto.
E Giovannino in mezzo a quer macello,
Sporco de sangue, intanto che menaveno
11Cercò côr petto de coprì’ er fratello;
Ma dopo la difesa disperata,
Intanto che le truppe riscappaveno,
14Cascorno giù fra l’erba insanguinata.
XXIII.
E verso notte, dice, che Righetto
(Mentre ch’er sono de l’avemmaria
De Roma je sonava l’angonia)
4Fece: — Povera mamma! Benedetto!... —
Poi je crebbe l’affanno drento ar petto
E fece: — Si m’avrai da portà’ via
Voj’ esse’ seppellito a casa mia. —
8Fece un lamento e cascò giù. Ninetto
Allora lo chiamò. Strillò più forte.
Nun rispose. Lo prese pe ’na mano,
11Era gelata. Er gelo de la morte!
Je diede un bacio e tartajanno a stento,
Speranno d’esse’ inteso da lontano,
14Strillò: — M’è morto Erìgo in sto momento.
XXIV.
E da lontano se sentì un sussuro
D’antre voci. — M’è morto mi’ fratello! —
Strillò Ninetto, e dopo fece: — Io puro
4Sento che moro e vado a rivedello... —
E intanto ch’antre voci lì a l’oscuro
Je parlaveno senza de vedello,
Strillò: — Si camperete, ve scongiuro,
8Dice, de facce seppellì’ a Groppello. —
E quanno che le forze j’ amancorno,
Che lui se crese a l’urtimi momenti,
11Strillò: — Viva l’Italia! — Intorno intorno
J’arisposero, e fu l’urtimo strillo:
Poi s’intesero ancora antri lamenti
14E dopo... tutto ritornò tranquillo.
XXV.
E noi che s’aspettamio ’gni momento
La truppa, nun vedenno più gnisuno,
A l’arba, de comun consentimento,
4Fu deciso de sciojese. Quarcuno
Rimase ner casale chiuso drento
Co’ li feriti; e de nojantri, ognuno,
Dopo che s’approvò lo sciojimento,
8Se sbandassimo tutti. Quarchiduno
Fu preso a Roma a piazza Barberina;
L’antri sperduti in braccio de la sorte
11Agnedero a schizza’ pe’ la Sabina,
Li più se riformorno in carovana,
Passorno fiume, presero le córte6
14Drento a li boschi, e agnedero a Mentana.
- ↑ [p. 186 modifica]che la pianta? intendi: che abbandona l’impresa?
- ↑ [p. 186 modifica]fiume de rapina: torrente
- ↑ [p. 186 modifica]che ciriola: che tentenna
- ↑ [p. 186 modifica]foconi: fucili vecchi, arruginiti
- ↑ [p. 186 modifica]capopresa: padrone dei barconi che navigano nel Tevere
- ↑ [p. 186 modifica]còrte: scorciatoje