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Capo Quarto - La lingua e la poesia volgari; i poeti e gli artisti fiorentini contemporanei di Dante.
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CAPO IV.




la lingua e la poesia volgari; i poeti e gli
artisti fiorentini contemporanei di dante.

(anni 1274-1289)



Così vidi adunar la bella scuola94
     Di quel Signor dell’altissimo canto,
     Che sovra gli altri, com’aquila, vola.



Vedesi da quanto precede, che può chi ’l voglia noverare tra’ fanciulli meravigliosi e precoci il nostro Dante, innamorato e poeta in sul compiere del suo nono anno. Ad ogni modo, la prima vocazione, il primo studio di lui, fu la poesia. Della quale dunque avendo a dir quì, non perciò prenderemo a narrare delle origini della nostra lingua e della nostra poesia: storia, anche questa, nota di qua e di là dell’Alpi per li lavori di Crescimbeni, Quadrio, Àndres, Muratori, Tiraboschi, Corniani, Ginguené e Sismondi. Fra’ quali tutti poi, il Muratori, siccome al solito, inferiore per amenità d’esposizione, così forse prevale per giustezza e profondità. È noto ad ognuno, esser nata la lingua nostra, come tutte le altre moderne europee, dalla mescolanza dell’antica latina usata nel mondo romano, colla tedesca portataci da’ conquistatori Germani ; abbondare l’elemento germanico tanto più in ogni lingua, quanto più furono probabilmente numerose le schiatte nuove stanziate in ogni paese, e così più che nell’altre nella lingua inglese, che è ancor lingua del ja o jes; poi nella francese settentrionale o lingua d’ oil; poi nella meridionale o lingua d'oc; e finalmente nella spagnuola o nell’italiana, che ambe sono lingue del si. Anzi, tra’dialetti stessi italiani si osserva maggior mescolanza di parole e desinenze tedesche, quanto più essi sono settentrionali; e il meno mescolato e più latino, è il sardo, come l’osservò già Dante stesso nel libro del Vulgare Eloquio1. Del resto, siffatta distinzione delle lingue per il segno dell’ affermazione, oltre che è seguita da Dante2, era universale a’ tempi suoi, ed anche prima, quando diede il nome di Linguadoca a quella parte di Francia. La mescolanza nacque certo fin dai primi stanziamenti de’ Tedeschi nel secolo V, e s’accrebbe poi a poco a poco. Veggonsene tracce crescenti nelle leggi barbariche del secolo VII; poi nel famoso giuramento bilingue dei figliuoli di Ludovico Pio nel secolo IX; poi via via più nei documenti rimastici del X dell’XI. Ma in tutte queste lingue del medioevo più affini allora che non adesso, e comprese sotto il nome comune di lingue o lingua romana o romanza, le prime composizioni letterarie che si trovino, sono senza dubbio le poesie de’secoli XI e XII scritte in Francia e fuori nelle due lingue francesi oil e d’occa, od anzi cantate qua e là da que’rapsodi o giullari, che andavano con un nome solo in due desinenze di Troveri o Trovatori. I primi par che fossero i troveri in lingua d'oil; fra cui sono noverali un Conte di Sciampagna, Riccardo re d’Inghilterra, e forse [[:w: Federico Barbarossa|Federico Barbarossa]] imperadore, che ci mostrano così quella lingua cantata in tutto il settentrione romanzo ed anche tedesco. E fin nei tempi di Dante siam per vedere tal lingua usata da un Italiano maestro di lui. Ma la vicinanza della lingua d’occa con gli Arabi di Spagna, fiorenti allora in ogni sorta di lettere e più in poesia, diede intanto maggior dolcezza e più allettamenti ai canti de’ trovatori, accolti in sul principio del secolo XIII nelle splendide corti dei Conti di Tolosa e di Provenza. Così in questa lingua d’occa o provenzale furono più numerosi i poeti e trovatori; fra’quali tutti, il Dante vanta come principale Arnaldo Daniello, di lui dicendo:

Versi d’amore e prose di romanzi
Soverchiò tutti.

PURG. XXVI. 118-119.

In lingua provenzale poetarono non pochi Italiani: Bordello mantovano, che ritroveremo fra’principali personaggi della Commedia; Dante stesso, che al luogo citato del Purgatorio fa parlare in provenzale quell’Arnaldo, e che in provenzale scrisse poi una Canzone; Petrarca, che scrisse in questa non pochi versi; e più tardi, se Italiana abbia a dirsi, la gentil Cristina da Pisano. Ma continuando la Trovatoria a seguir le più splendide corti del secolo XIII, ella passò così alla corte di Federico II in Puglia e Sicilia, e perciò alla lingua DEL . I migliori trovatori e poeti italiani furono allora Siciliani; e prima Federigo II stesso, Pier delle Vigne, e poi Giullo d’Alcamo, Pier d’Aitino, ed altri parecchi. Ma anche nel resto d’Italia erano poeti: San Francesco d'Assisi, autore del rozzo ma bello Inno al Sole; Fra Pacifico, seguace di lui in religione e poesia; ed alcuni altri; superati tutti poi da Guido Guinicelli, di quella Bologna, dove era antico già uno Studio di tutte lettere. Questo Guido, morto nel 1276,1 e così probabilmente non conosciuto di persona da Dante, è da lui posto come inferiore al provenzale Arnaldo Daniello, ma come primo dei poeti italiani dell’età anteriore alla propria, e chiamalo

Padre
Mio, e degli altri miei miglior, che mai
Rime d’amore usar dolci e leggiadre.3

PURG. XXVI. 97-99.

Ma prima di venire a’ contemporanei di Dante, egli è da osservare, che non solo la poesia, ma pur la prosa volgare, e tutte le lettere, e pur le arti, ed in somma la civiltà tutta, giunsero sì in Toscana più tardi forse che in altre provincie italiane; ma, giunte che vi furono verso la metà del secolo XIII, vi presero un andamento, una forza progressiva, per cui superarono in breve e l’Italia, e gli altri paesi di lingue di , d’acca o d'oil, e in somma tutto il mondo cristiano. È fatto certo, avvertito da tutti, non contrastato da nessuno; ma di che voglionsi cercar bene le cagioni. Viderle alcuni nell’aria e nel cielo di Firenze, il quale tuttavia era il medesimo e prima e dopo, e più non produsse il medesimo effetto; altri nelle ricchezze e nel commercio fiorentino, il quale fu evidente effetto delle medesime cause di attività; altri finalmente nella signoria della lingua, la quale, secondo la storia, e al dir di Dante, era prima in Sicilia e in Bologna, e che di nuovo fu effetto e non causa e in ogni modo non avrebbe che fare colle arti cresciute pur esse, pur esse parte di tanta nuova civiltà. Ma il vero è, che una causa comune è da cercare a tutta questa attività spiegantesi allora a un tempo e del pari nelle lettere, nelle arti e nel commercio. Né questa parrà poi difficile a trovarsi, se si cerchi nella condizione speciale della Toscana, e di Firenze in particolare; cioè in quella stessa tardità, che abbiamo in lei notata, nel prender parte alle rivoluzioni dei due secoli XII e XIII. Vedemmo che fu dell’ultime ad aver governo proprio, e nomi di Comune e di Consoli nel secolo XII; dell’ultime ad aver le regalie al principio del XIII; dell’ ultime, poi, ad aver le parti guelfe e ghibelline, de’ nobili e de’ plebei, cosicché non era giunta ancora né alla tirannia popolare, né a quella di uno. All’incontro, quasi tutti gli altri Comuni d’Italia erano giunti ad uno di questi periodi peggiorati; aveano sfogata lor gioventù in quelle lotte; erano caduti nelle esagerazioni e nei danni di quella rivoluzione, di che Firenze (valendosi della sperienza altrui) non prendea se non i vantaggi. Le altre erano già arrivate ad una precoce vecchiezza, quando ella giovane e forte serbava ancora tutta la sua attività primitiva. Nell’altre s’era compiuta la rivoluzione comunale quando non era in pronto la civiltà a trame profitto; in Firenze compievasi quando era opportuno. Anche ai tempi nostri, così fecondi di tali sperienze, vedemmo quanto vigore ed attività d’ogni sorta abbiano le genti all’uscire delle rivoluzioni, quando son brevi; quanta stanchezza, quando prolungate. Le città dell’altre provincie d’Italia, e Pisa fra le toscane, trovaronsi in quest’ ultimo caso verso la metà del secolo XIII, quando la lingua e le arti erano apparecchiate a sorgere; e non ebbero più forza restante a coltivarle. All’incontro, le città toscane, Siena, Pistoja, Arezzo, Lucca e Firenze, si trovarono nel primo caso, capaci ancora di attività. Ma Firenze ne trasse il frutto principale, o perché principale fra queste, o perché dalla rivoluzione del 1266 ella rimase più delle altre costante, ed anzi non mutò più mai la sua parte guelfa. E se avremo a vedere, nel corso delle nostre narrazioni, e dividersi la parte guelfa, e sorgerne nuove parti, e poco mancare che ella non vi perdesse e la sorgente civiltà e l’uomo che doveva avanzarla più; volle pure la fortuna di Firenze, che quest’ uomo si fosse già educato ed innalzato tanto durante la sua pacifica e lieta gioventù, da non poter più indietreggiare dagli studi, dalle opere incominciate; e che, quasi invito, servisse più di niun altro all’avanzamento ulteriore della patria sua. Del resto, se Dante fosse slato solo frutto di quella felice condizione di Firenze, potrebbe! dir caso, e non effetto necessario. Ma non solo, anzi nemmi’n primo in tempo, ei fu solamente sommo fra molti; e multi non sorgono a caso mai.
A ciò dimostrare basterebbe la quantità dei nomi di poeti toscani che furono di poco predecessori o contemporanei di Dante: Guittone d'Arezzo, Guido Orlandi, Chiaro Davanzati, Salvino Doni, Mico o Mimo Mocato da Siena, Gallo Pisano, Guido Lapo, Cecco Angiolieri, Brunetto Latini, Dino Frescobaldi, Dante da Majano, Bonaggiunta da Lucca, Gino da Pistoja, Guido Cavalcanti, ed altri forse che, più oscuri, è inutile andar cercando4. Né di questi stessi ci fermeremo a dire se non ciò che spetti più presso a Dante. Guittone d’Arezzo è tenuto per primo, e fu certo de’primi poeti toscani posteriori a’primi siciliani; e, contemporaneo di Guido Guinicelli bolognese, morì poco prima o poco dopo la nascita di Dante. Il quale il rammenta con poca lode di poesia, là dove, datane tanta al provenzale Arnaldo Daniello e detto di un Limosino che alcuni a torto gli anteponevano, aggiunge:

Cosi fa’ molti antichi di Guittone,
Di grido in grido pur lui dando pregio,
Fin che l’ha vinto ’l ver con più persone.

PURG. XXVI., 124-128.

Vedremo altrove, poi, chi fossero queste più persone. Di Brunetto Latini, che fu più grammatico ed uomo di stato, che non buon poeta, diremo più giù trattando di quelle arti. Di Frescobaldi il troveremo fedele ed ufficioso amico di Dante, e cagion forse della ripresa del divino Poema. Di Dante da Majano già vedemmo l’altiero disprezzo con che, egli adulto, rispose al primo saggio del fanciullo Dante Alighieri; che ben potrebbe servir d’esempio, ma non servirà probabilmente, a1 quei provetti possessori di qualche gloria letteraria, che disprezzano i principianti pur destinati ad oscurarli. Dante da Majano aveva allora gran fama, e non che in Firenze o Toscana, ma più lungi, fino in Sicilia, culla di tutte quelle glorie; dove una Nina poetessa, tanto, benché da lungi, s’innamorò dei versi di lui, o di lui stesso, che con lui corrispondendo in poesia, non altrimenti voleva esser chiamata, che la Nina di Dante. Né era dubbio allora qual Dante: pochi anni dopo sarebbe stato dubbio; e pochi altri ancora, quel da Majano non fu cognito se non agli storici speciali di letteratura: e il Dante disprezzato è l’immortale.
Più noti assai, e più degni di esserlo, sono gli altri due gentili risponditori al primo Sonetto puerile di Dante: Guido Cavalcanti e Cino da Pistoja. Dante nel libro del Vulgare Eloquio cita continuamente Cino, e sé appresso, così: Cino in Pistola, e l’amico suo5. Tuttavia ei non introduce di niuna maniera il nome di lui nel Poema; e sembra che Gino gliene sapesse mal grado, meno per sé, che per Selvaggia, la donna sua; la quale, morta anch’essa, egli avrebbe voluto veder collocata con Beatrice in Paradiso. Né fu questa la sola conformità tra Dante e Cino; anch"esso poi cacciato di sua patria Pistoja, e per la medesima parte Bianca; anch’esso ramingo per Italia, ed invano reduce con Arrigo VII; ma che invecchiato più che Dante, ebbe tempo a vedere mutata la propria fortuna. Cino, gran giureconsulto di quell’età, n’e riputato il primo poeta dopo Dante, e Dante stesso in quelle citazioni sembra cortesemente porlo innanzi a sé; ma Petrarca, a cui non incombeva tal cortesia, esaltandolo come primo, mostrò forse la verità di quella osservazione: che nel giudicar degli emuli si suol porre primo chi dovrebbe esser secondo; e secondo, colui che tutti pongono il primo6.
Ma per noi, il più importante di tutti questi poeti è certo Guido Cavalcanti, il primo amico ed il compagno di tutta la gioventù di Dante. Era d’una delle famiglie maggiori, e Guelfa anch’essa, della città, e figliuolo di Messer Cavalcante de’Cavalcanti, posto nell’Inferno di Dante tra miscredenti7. Non trovo in che anno nascesse; ma era, d’una ventina d’anni almeno, più vecchio che Dante, posciachè nel 1266 sposava la figliuola di Farinata degli Uberti, il glorioso capo Ghibellino della generazione antecedente. Fu questo uno de’ parecchi maritaggi fatti tra Guelfi e Ghibellini a quell’epoca del ripatriare dei primi; maritaggi trattati con animo di concordia, ma che, rimanendo superiore e sola la parte Guelfa, misero in sospetto le famiglie così apparentate coi loro contrarii8. E in tale sospetto, e forse in tal realtà di Guelfo pendente a Ghibellino, rimase poi Guido Cavalcante; e il vedremo trar Dante con seco. E sì, che tutte le memorie dell’età ci mostrano in Guido uno di quegli uomini i quali risplendono naturalmente in gioventù nel cerchio degli amici, e se lor bastila vita e la fortuna, nella loro città. Dino Compagni lo ritrae qual "giovane gentile, cortese ed ardito, ma sdegnoso e e solitario, ed intento allo studio". E il Boccaccio, che pur ne parla altrove, dice di lui in una Novella, che: "oltre a quello che fu uno de’ migliori laici che havesse il mondo, ed ottimo philosopho naturale (delle quali cose poco la brigata curava), sì fu egli leggiadrissimo, et costornato, et parlante huomo molto; et ogni cosa che far volle, et a gentil huomo pertinente, seppe meglio che altro huom fare; et con questo era ricchissimo, et a chiedere a lingua sapeva honorare cui nell’animo gli capeva che il valesse.... Ma perciocché Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva; et perciò che egli alquanto teneva della opinione degli Epicurei, si diceva traila gente volgare, che queste sue speculazioni eran solo di cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse". Anche il Sacchetti narra una novella di Guido Cavalcanti: che giocando a scacchi, e disturbatone da un fanciullo, si alzava a batterlo, e n’aveva poi il lembo della gonnella inchiodato alla panca per vendetta; e fa le meraviglie poi di tal malizia centra "colui che forse in Firenze suo pari non avea". Così rimaneva Guido nella memoria e nelle tradizioni della sua città, e in quelle novelle antiche che sono alla storia fiorentina di quei tempi poco meno che le tante memorie private alla storia di Francia sotto a Ludovico XIV od a Napoleone. Quanto poi a quell’accusa data a Guido d’Epicureo, allora poco diversa da miscredente, assai ed anche troppo ne fu disputato tra’ moderni; non rimanendo documenti da deciderne, se non volesse prendersi come testimonianza a prò di Guido un pellegrinaggio ch’ei fece a San Jacopo di Gallizia. Ma avendo egli probabilmente al ritorno, preso amore a quella Mandetta che ei celebra nelle sue poesie, "se questo » (osserva il buon Tiraboschi) fu l’unico frutto che dal suo pellegrinaggio ei raccolse, meglio avrebbe fatto a starsene in sua casa". Ma noi lasceremo in pace e lui e la sua Mandetta; e quanto alle conseguenze del suo pellegrinaggio, nel quale fu tentato di ammazzarlo da Messer Corso Donati nemico ed emulo suo in Firenze, ne parleremo poi quando di queste inimicizie cittadine, diventate parti importantissime al nostro assunto. E di Guido come poeta, basti dir quì, che alcune delle sue poesie si leggono anche oggi per gentili; e che Dante citando due volte de’ versi suoi nel libro del Vuìgare Eloquio9, l’accenna poi nel Poema quasi primo de’ suoi contemporanei, ivi cosi trascurando Cino da Pistoja. Se a ragione, o a torto, ne giudichino gl’intelligenti. Forse Guido, primo dei due nella sua amicizia, perciò gli parve primò in poesia; che anche i più generosi possono ingannarsi di tal maniera. Ma ad ogni modo, non s’attribuisca mai ad invidia; della quale, oltrecche non fu peccato di Dante, non può mai essere il caso qui, che ei ben sapeva essere sopra a tutti e due, e il diceva. Nel Purgatorio egli trova Buonaggiunta da Lucca, uno dei più oscuri fra’ poeti che nominammo. Buonaggiunta dubita se colui che vede è Dante, e prosegue:

Ma dì s’io veggio qui colui che Cuore
Trasse le nuove rime , cominciando:
Donne, ch’ avete intelletto d’ amore.

Ed io a lui: io mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, ed in quel modo
Ch’ei della dentro, vo significando.

O frate, issa10vegg’io, diss’egli, il nodo
Che 1’Notaio, e Guittone, e me ritenne
Di qua dal dolce stil nuovo eh’ io odo

Io veggio ben come le vostre penne
Diretro al dittator sen vanno strette,
Che delle nostre certo non avvenne.

E qual più a gradire oltre si mette,
Non vede più dall’uno all’altro stilo;
E quasi contentato si tacette.

PURG. XXIV. 49-63.

Nel qual passo, che è come un’arte poetica ad uso di tutte le nazioni e le età, non mi fermerò ad osservare nè le bellezze, che sono tante quante le parole; e nemmeno quella ragione della superiorità di alcuni poeti d’ogni tempo: Io mi son un che, quando Amar mi spira ec.; nè la ragione contraria che fa i concettisti di tutte le età, i seicentisti di tutte le lingue: E qualpiù a gradire oltre si mette ec. L’ assunto mio non è di andar dietro alle bellezze poetiche del mio Autore; e tengomi alle osservazioni storiche. Adunque, qui Dante distingue chiaramente due scuole italiane di poesia: l’antica di Guitton d’Arezzo, del Notajo da Lentino, di Buonaggiunta, e gli altri oscuri, freddi e concettisti; e la nuova poi, quella del dolce stil nuovo, ispirato da amore vero; nella quale, benchè non li nomini qui, son da porre quegli altrove da lui tanto lodati, i due Guidi, Guinicelìi e Cavalcanti, e Cino da Pistoja, e sè stesso. E si vede che Dante lodator dei tempi andati per li costumi, non l’era poi per la poesia; onde è ragione di tenerlo per giusto là e qui, senza invidia ai contemporanei dove li biasima, e senza adulazione dove li loda. Quanto ad esso poi, si deduce chiaramente dai versi 49-51, che quella canzone a Beatrice già da noi citata nella narrazione degli amori,

Donne, ch’avete intelletto d’amore

fu la prima posta nella prima pubblicazione, or diremmo edizione, delle proprie poesie; e che egli, come risulta del resto da ogni memoria, n’ebbe fin d’allora nome di uno fra gli ottimi, se non forse di ottimo poeta di sua età. E tal certo il possiamo dir noi ; e tal pare ch’ egli tenesse sè stesso.
Imperciocchè, in un altro luogo del Purgatorio, dove sono puniti i superbi, ei riconosce fra essi Oderisi da Gubbio, uno di que’ miniatori di codici ch’oggi ancora s’ammirano.

O, dissi lui, non se’ tu Oderisi
L’onor d’Agobbio, e l’onor di quell’arte
Ch’alluminare è chiamata in Parisi?

Frate, diss’egli, più ridon le carte
Che pennelleggia Franco Bolognese:
L’onore è tutto or suo , e mio in parte

Ben non sare’ io stato si cortese
Mentre ch’io vissi, per lo gran disio
Dell’eccellenza, ove mio core intese.

Di tal superbia qui si paga il fio:
Ed ancor non sarei qui, se non fosse
Che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

O vanagloria dell’umane posse,

Com’ poco il verde in su la cima dura,
Se non è giunta dall’etadi grosse!11

Credette Cimabue nella pintura
Tener lo campo; ed ora ha Giotto il grido,
Sì che la fama di colui oscura.

Così ha tolto l’uno all’altro Guido12
La gloria della lingua; e forse è nato
Chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

PURG. XI. 79-99.

E seguono altri versi ancora più solenni, che lasciamo, osservando solamente di quest’ultimo, che quasi tutti i commentatori s’accordano a intendervi che Dante accennasse sè stesso.
Nè furono soli i poeti a circondar Dante ne’ suoi anni giovanili: sórta era pure la prosa volgare, ed avea seguiti i medesimi andamenti. Primo scrittore di prose volgari dicesi Matteo Spinello, storico pugliese della metà del secolo XIII; secondo, e vicinissimo a lui, Ricordano Malaspina, storico fiorentino fino al 128613. Seguirono in breve Dino Compagni e {{AutoreCitato|Giovanni Villani}}, contemporanei di Dante; ma quegli più vecchio, questi più giovane di lui: i quali amendue avremo occasioni di conoscere ampiamente. Avevano pur allora incominciato a novellare alcuni antichi, ma non era nato ancora il sommo dei novellatori; e forse già vivevano fra Jacopo Passavanti, ed altri scrittori di libretti di divozione, e vite de’ Santi. Ma di tutti questi non mentovati da Dante mai, nè entrati nelle azioni di lui, basti aver fatta memoria, a compiere il novero degli scrittori che gli fecer corona in patria.
Bensì i nomi di Cimabue e di Giotto, pur testè introdotti, mi ammoniscono a far cenno dell’arti, che furono un altro grande e simultaneo progresso, un’altra parte di quella civiltà fiorentina. È noto, come sórte le arti antichissimamente nell’Italia, a un tempo, se non prima, che in Grecia; non progredite poi, ed anzi spentevisi ai primi tempi romani, ci fossero riportate dai vinti Greci; e quindi da essi, più che dai Romani, coltivate fino al tempo della barbarie: come poi, durante questa, dormissero, e non fossero se non di rado, e goffamente trattate dagli artefici bizantini: e come finalmente nel secolo XII, in tempi già vicini al nostro assunto, elle rinascessero in Pisa, potentissima e ricchissima fra le città d’Italia, nell’edificazioni del Campo Santo, del Duomo, della Torre e del Battistero, e per opera poi di Nicola Pisano scultore. Rinacque allora l’arte, non più a morire in fasce come l’antica italica, o a viver d’imitazioni e di opere straniere come la romana; ma tutta nuova ed originale italiana, e più specialmente toscana, a correre un periodo splendidissimo, e non cessato in Italia, e a diffondersi quindi in tutto il mondo moderno cristiano. Del resto, tal progresso dell’arti seguì le medesime vie, al medesimo tempo che quell’altro delle lettere; essendo esse dalla vicina Pisa venute a mezzo il secolo XIII in Firenze. Dove, trascurando i più oscuri, primo appunto si conta Cimabue; e, scolaro, seguace e superator di quello, Giotto, l’altro nomato da Dante e contemporaneo di lui. Quanto grandi fossero i passi fatti fare all’arte dal primo, quali dal secondo, non è assunto nostro il ragionarne; ma vedesi in tutto, che ne furono meravigliati i contemporanei. Nè Dante si contentò di testimoniarne, e rallegrarsene, ma fu coltivatore, o se si voglia, dilettante d’arti; e primo fra gli scrittori, fu amico del primo artista di sua età. Bella fratellanza, e non insolita, tra’ sommi; i quali lasciano a lor minori le invidiuzze, e le dispute di superiorità tra l’arti diverse d’ognuno. Di Giotto, nato nel 1276 e morto nel 1336, e così sopravvivuto a Dante, dice Benvenuto da Imola, che ebbe famigliarità con esso; e narra che nella sua gioventù dipingendo una cappella a Padova, vi capitò Dante, e fu dal pittore condotto a casa14. Il Vasari poi riferisce, che le storie dell’Apocalisse dipinte da Giotto in S.ta Chiara di Napoli, “furono per quanto si dice, invenzioni di Dante; come per avventura furono anche quelle tanto lodate d’Ascesi..... E sebbene Dante in questo tempo era morto, potevano aver avuto, come spesso avviene fra gli amici, ragionamenti”. Che Dante poi di sua mano disegnasse egli stesso, ci è ricordato in un luogo della Vita Nova, che recheremo poi; “e che egregiamente disegnasse”, ce lo afferma Leonardo Aretino, il secondo dei Biografi di lui, che potè forse vedere de’ suoi disegni15.

Ed ora si scorge quali fossero i progressi d’ogni maniera, lingua, poesia, prosa, ed arti, già fattisi al sorgere di Dante; e qual luogo già distinto ei vi tenesse fin d’allora intanto che v’ottenesse il primo. Ma vedesi, che ei non fu, come dicesi da taluni, quasi astro solitario in notte nuvolosa, o rigogliosa pianta in deserto; chè queste sono immagini fantastiche e fuor di natura e verità. Nè so terminare questo specchio della civiltà e dello splendore di Firenze nei primi anni di Dante, senza pur aggiungervi una narrazione del Villani, che mi sembra compiere il ritratto della vita colà vivuta. “Negli anni di Cristo 1283, del mese di giugno” (così ai diciotto anni compiuti di Dante) “per la festa di s. Giovanni, essendo la città di Firenze in buono et pacifico stato, et in grande, tranquillo e utile per li mercatanti et artefici, et massimamente per li Guelfi, che signoreggiavano la terra, sì si fece nella contrada di santa Felicita oltr’Arno, onde furono capo i Rossi con loro vicinanza, una nobile e ricca compagnia, vestiti tutti di robe bianche, con uno signore detto dello Amore. Per la qual brigata non s’intendea se non in giucchi et in solazzi, et balli di donne et di cavalieri popolani, et altra gente assai honorevoli, andando per la città con trombe et molti stromenti, stando in gioia et allegrezza, a gran conviti di cene et desinar!. La quale corte durò presso a due mesi, e fu la più nobile e nominata che mai si facesse in Firenze et in Toscana. Alla quale corte vennero di diverse parti e paesi molti gentili uomini di corte e giucolari, e tutti furono ricevuti e n provveduti honorevolmente. Et nota, che ne’ detti tempi la città di Firenze co’ suoi cittadini fu nel più stato che mai fosse, et durò infino li anni di Christo 1289, alhora che si cominciò la divisione tra ’l popolo e grandi, e appresso tra’ Bianchi e Neri. Et havea ne’ detti tempi in Firenze da CCC cavalieri di corredo, e molte brigate di cavalieri e di donzelli, che sera e mattina riccamente metteano tavola, con molti huomini di corte, donando per le Pasque molte robe vaie; onde di Lombardia e di tutta Italia vi traevano buffoni, e bigerai, e huomini di corte a Firenze; e tutti erano veduti allegramente; e non passava per Firenze nullo forestiere huomo di rinomio, e da ricevere honore, che a gara non fosse invitato e ritenuto dalle dette brigate, e accompagnato a piede, e a cavallo per la città, e per lo contado, come si convenia.”16

  1. Vulg. Eloq., lib. I, cap. 11.
  2. Vulg. Eloq., lib. I, cap. 8.
  3. Di Arnaldo parla più volte nel Vulg. Eloq. nello senso; pp.285, 295, 304, 311, ediz. di Zatta, Venezia. Anche il Petrarca dà il primato ad Arnaldo nel Trionfo d’Amore. Di parecchi altri troveri e trovatori vedi pur Dante in parecchi luoghi del Vulg. Eloq.
  4. Vedi Tiraboschi lib. III, c.3 - Ginguenè, c.6 - Pelli, p.82; e Dante Vulg. Eloq., lib. III, cap.13
  5. Vulg. Eloq., lib. I, c.10, 13, 16; lib. II, c. 2,5,6.
  6. Tirab., tom.IV, p.412; V, pag. 306; Ginguené, tom. II, pp.217, 232.
  7. Inf., X.
  8. Villani, Rer. It., XIII, p. 252.
  9. Lib. II, cc. 7, 12.
  10. Issa per adesso, modo lucchese.
  11. Cioè: se non sopravvengono età più grosse, più oscure, senza emuli nè superatori.
  12. Cioè: Guido Cavalcanti fiorentino e Guido Guinicelli bolognese.
  13. Tirab. IV, pp. 341, 343.
  14. Benven. Imol. Com. Purg. XI, in Murat. Ant. Ital. I, p. 1185.
  15. Leonardo Aretino in Dante, Ediz. Minerv. p.59.
  16. Giov. Vill., Rer. It. XIII, p. 297.

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