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§1. Avendo in questi giorni posto fine a un'opera assai lunga, mi venne appetito di volere, per ristoro dello affaticato ingegno, leggere alcuna cosa vulgare; perocché, come nella mensa un medesimo cibo, così nelli studii una medesima lezione continovata rincresce. Cercando adunque con questo proposito, mi venne alle mani un'operetta del Boccaccio intitolata: Della vita, costumi e studii del clarissimo poeta Dante, la quale opera, benché da me altra volta fusse stata diligentissimamente letta, pur al presente esaminata di nuovo, mi parve che il nostro Boccaccio, dolcissimo e suavissimo uomo, così scrivesse la vita e i costumi di tanto sublime poeta, come se a scrivere avesse il Filocolo, o il Filostrato, o la Fiammetta. Perocché tutta d'amore e di sospiri e di cocenti lagrime è piena, come se l'uomo nascesse in questo mondo solamente per ritrovarsi in quelle dieci Giornate amorose, le quali da donne innamorate e da giovani leggiadri raccontate furono nelle cento Novelle: e tanto s'infiamma in queste parti d'amore, che le gravi e sustanzievoli parti della vita di Dante lascia a dietro e trapassa con silenzio, ricordando le cose leggiere e tacendo le gravi. Io adunque mi posi in cuore, per mio spasso, scriver di nuovo la vita di Dante con maggior notizia delle cose estimabili. Né questo faccio per derogare al Boccaccio, ma perché lo scriver mio sia quasi in supplimento allo scriver di lui.
§2. I maggiori di Dante furono in Firenze di molto antica stirpe, in tanto, che lui par volere in alcun luogo i suoi antichi essere stati di quelli Romani che posero Firenze: ma questa è cosa molto incerta, e secondo mio parere niente è altro che indovinare. Di quelli che ho io notizia, il trisavolo suo fu messer Cacciaguida cavalier fiorentino, il quale militò sotto lo 'mperadore Currado. Questo messer Cacciaguida ebbe due fratelli, l'uno chiamato Moronto, l'altro Eliseo. Di Moronto non si legge alcuna successione: ma da Eliseo nacque la famiglia nominata gli Elisei, e forse anche prima avevano questo nome; di messer Cacciaguida nacquero gli Aldighieri, così vocati da un suo figliuolo, il quale per stirpe materna ebbe nome Aldighieri. Messer Cacciaguida, e' fratelli e loro antichi abitaron quasi in su 'l canto di Porta san Piero, dove prima vi s'entra da Mercato vecchio, nelle case che ancor oggi si chiamano degli Elisei, perché a loro rimase l'antichità. Quelli di messer Cacciaguida, detti Aldighieri, abitarono in su la piazza dietro a San Martino del Vescovo, dirimpetto alla via che va a casa i Sacchetti, e dall'altra parte si stende verso le case de' Donati e de' Giuochi.
§3. Dante nacque negli anni Domini 1265, poco dopo la tornata de' Guelfi in Firenze, stati in esilio per la sconfitta di Monte Aperto. Nella puerizia sua nutrito liberalmente e dato a' precettori delle lettere, subito apparve in lui ingegno grandissimo, e attissimo a cose eccellenti. Il padre suo Aldighieri perde' nella sua puerizia: nientedimanco, confortato da' propinqui e da Brunetto Latini, valentissimo uomo secondo quel tempo, non solamente a litteratura, ma agli altri studii liberali si diede, niente lasciando a dietro che appartenga a far l'uomo eccellente. Né per tutto questo si racchiuse in ozio, né privossi del secolo; ma vivendo e conversando con gli altri giovani di sua età, costumato ed accorto e valoroso ad ogni esercizio giovanile si trovava; in tanto, che in quella battaglia memorabile e grandissima, che fu a Campaldino, lui, giovane e bene stimato, si trovò nell'armi combattendo vigorosamente a cavallo nella prima schiera; dove portò gravissimo pericolo, perocché la prima battaglia fu delle schiere equestri, nella quale e' cavalieri che erano dalla parte delli Aretini, con tanta tempesta vinsero e superchiarono la schiera de' cavalieri fiorentini, che sbarattati e rotti bisognò fuggire alla schiera pedestre. Questa rotta fu quella, che fe' perdere la battaglia alli Aretini; perocché i loro cavalieri vincitori, perseguitando quelli che fuggivano per grande distanza, lasciaro a dietro la loro pedestre schiera; sì che, da quindi innanzi, in niuno luogo interi combatterono: ma i cavalieri soli e di per sé, senza sussidio di pedoni, e i pedoni poi di per sé senza sussidio de' cavalieri. Ma dalla parte de' Fiorentini addivenne il contrario, ché, per esser fuggiti i loro cavalieri alla schiera pedestre, si ferono tutti un corpo, e agevolmente vinsero prima i cavalieri e poi i pedoni. Questa battaglia racconta Dante in una sua Epistola, e dice esservi stato a combattere, e disegna la forma della battaglia; e per notizia della cosa saper dobbiamo, che Uberti, Lamberti, Abati e tutti gli altri usciti di Firenze erano con li Aretini; e tutti gli usciti d'Arezzo, gentiluomini e popolani guelfi, che in quel tempo tutti erano scacciati, furono co' Fiorentini in questa battaglia. E per questa cagione le parole scritte in Palagio dicono: - Sconfitti e' Ghibellini a Certomondo; - e non dicono gli Aretini, acciocché quella parte delli Aretini che fu col Comune a vincere, non si potesse dolere. Tornando adunque al nostro proposito, dico che Dante virtuosamente si trovò a combattere per la patria in questa battaglia: e vorrei che 'l Boccaccio nostro di questa virtù più tosto avesse fatto menzione, che dell'amore di nove anni e di simili leggerezze, che per lui si raccontano di tanto uomo. Ma che giova a dire? la lingua pur va dove il dente duole, ed a cui piace il bere sempre ragiona di vini.
§4. Dopo questa battaglia tornò Dante a casa: e alli studii più ferventemente che prima si diede, e nientedimanco niente lasciò delle conversazioni urbane e civili: cosa miracolosa!; ché studiando continovamente, a niuna persona sarebbe paruto ch'egli studiasse, per l'usanza lieta e conversazione giovanile. Nella qual cosa mi giova riprendere l'errore di molti ignoranti, i quali credono niuno essere studiante, se non quelli che si nascondono in solitudine ed in ozio; e io non vidi mai niuno di questi camuffati e rimossi dalla conversazione delli nomini, che sapesse tre lettere. Lo 'ngegno alto e grande non ha bisogno di tali tormenti, anzi è vera conclusione e certissima, che quello che non appara tosto, non appara mai: sì che stranarsi e levarsi dalla conversazione, è al tutto di quelli che niente sono atti con loro basso ingegno ad imprendere.
Né solamente conversò civilmente con li uomini Dante; ma ancora tolse moglie in sua gioventù, e la moglie sua fu gentile donna della famiglia de' Donati, chiamata per nome monna Gemma, della quale ebbe più figliuoli, come in altra parte di questa opera dimostreremo. Qui il Boccaccio non ha pazienza, e dice le mogli esser contrarie alli studii; e non si ricorda che Socrate, il più sommo filosofo che mai fusse, ebbe moglie e figliuoli, ed offizii nella republica della sua città; e Aristotele, che non si può dire più là di sapienza e di dottrina, ebbe due mogli in diversi tempi, ed ebbe figliuoli e ricchezze assai. E Marco Tullio, e Catone, e Seneca, e Varrone, latini sommi, filosofi tutti, ebbero moglie, figliuoli ed offizii, e governi nella republica. Sì che perdonimi il Boccaccio: i suoi giudicii sono molto frivoli in questa parte, e molto distanti dalla vera opinione. L'uomo è animal civile, secondo piace a tutti i filosofi; la prima congiunzione, della quale multiplicata nasce la città, è marito e moglie; né cosa può esser perfetta dove questa non sia, e solo questo amore è naturale, legittimo e permesso.
§5. Dante adunque tolta donna, e vivendo civile e onesta e studiosa vita, fu adoperato nella republica assai, e finalmente, venuto all'età debita, fu creato de' Priori, non per sorte, come s'usa al presente, ma per elezione, come in quel tempo si consumava fare. Furono nell'uffizio del Priorato con lui messer Palmieri degli Altoviti, e Neri di Messer Iacopo degli Alberti ed altri colleghi, e fu questo suo Priorato nel 1300. Da questo Priorato nacque la cacciata sua, e tutte le cose avverse ch'egli ebbe nella vita sua, secondo esso medesimo scrive in una sua Epistola, della quale le parole sono queste: "Tutti li mali e gli inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio Priorato ebbono cagione e principio; del quale Priorato benché per prudenzia io non fussi degno, niente di meno per fede e per età non ne ero indegno, perocché dieci anni erano già passati dopo la battaglia di Campaldino, nella quale la parte ghibellina fu quasi al tutto morta e disfatta; dove mi trovai non fanciullo nell'armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima per li varii casi di quella battaglia". Queste sono le parole sue. Ora la cagione di sua cacciata voglio particularmente raccontare, perocché è cosa notabile, e il Boccaccio se ne passa con piede asciutto, che forse non gli era così nota come a noi, per cagione della Storia che abbiamo scritta.
§6. Avendo prima avuto la città di Firenze divisioni assai tra Guelfi e Ghibellini, finalmente era rimasa nelle mani de' Guelfi; e stata assai lungo spazio di tempo in questa forma, sopravvenne un'altra maladizione di parte intra' Guelfi medesimi, i quali reggevano la republica: e fu il nome delle parti Bianchi e Neri. Nacque questa perversità prima, ne' Pistolesi e massime nella famiglia de' Cancellieri; ed essendo già divisa tutta Pistoia, per porvi rimedio fu ordinato da' Fiorentini che i capi di queste sette ne venissero a Firenze, acciocché là non facessero maggior turbazione. Questo rimedio fu tale, che non tanto di bene fece a' Pistolesi per levar loro i capi, quanto di male fece a' Fiorentini per tirare a sé quella pestilenzia. Perocché avendo i capi in Firenze parentadi ed amicizie assai, subito accesero il fuoco con maggiore incendio per gli diversi favori che avevano da' parenti e dalli amici, che non era quello, che lasciato avevano a Pistoia: e trattandosi di questa materia in publico e in privato, mirabilmente s'apprese il mal seme, e divisesi tutta la città in modo, che quasi non vi fu famiglia nobile né plebea, che in sé medesima non si dividesse, né uomo particulare di stima alcuna, che non fusse dall'una delle sette; e trovossi in molti la divisione essere tra fratelli carnali, che l'uno di qua e l'altro di là teneva.
Essendo già durata la contesa più mesi, e multiplicati gl'inconvenienti, non solamente per parole ma ancora per fatti dispettosi ed acerbi, cominciati tra' giovani e discesi tra gli uomini di matura età, la città tutta stava sollevata e sospesa. Addivenne, che essendo Dante de' Priori, certa ragunata si fe' per la parte de' Neri nella chiesa di Santa Trinita; quello che trattassero fu cosa molto segreta, ma l'effetto fu di fare opera con papa Bonifazio VIII, il quale allora sedeva, che mandasse a Firenze messer Carlo di Valois de' Reali di Francia, a pacificare e a riformare la terra. Questa ragunata sentendosi per l'altra parte de' Bianchi, subito se ne prese suspizione grandissima; in tanto, che presero l'armi, e fornironsi d'amistà, e andarono a' Priori aggravando la ragunata fatta, e l'avere con privato consiglio presa deliberazione dello stato della città; e tutto esser fatto, dicevano, per cacciargli di Firenze: e per tanto dimandavano a' Priori, che facessero punire tanto prosuntuoso eccesso. Quelli che avevano fatta la ragunata temendo anche loro, pigliarono l'armi, e appresso i Priori si dolevano delli avversarii, che senza deliberazione publica s'erano armati e fortificati, affermando che sotto varii colori gli volevano cacciare; e domandavano a' Priori che li facessero punire, sì come perturbatori della quiete publica. L'una parte e l'altra di fanti e d'amistà fornite s'erano; la paura, e il terrore, e il pericolo era grandissimo. Essendo adunque la città in armi e in travagli, i Priori, per consiglio di Dante, provviddero di fortificarsi della moltitudine del popolo, e quando furono fortificati, ne mandarono a' confini gli uomini principali delle due sette, che furono questi: messer Corso Donati, messer Geri Spini, messer Giacchinotto de' Pazzi, messer Rosso della Tosa, e altri con loro. Tutti questi erano della parte Nera, e furono mandati a' confini a Castel della Pieve, in quel di Perugia. Della parte de' Bianchi furono mandati a' confini a Serezzana: messer Gentile e messer Torrigiano de' Cerchi, Guido Cavalcanti, Baschiera della Tosa, Baldinaccio Adimari, Naldo di messer Lottino Gherardini, e altri.
Questo diede gravezza assai a Dante, e contutto ch'esso si scusi come uomo senza parte, niente di manco fu riputato pendesse in parte Bianca, e che gli dispiacesse il consiglio tenuto di chiamar Carlo di Valois a Firenze, come materia di scandali e di guai alla città; e accrebbe la 'nvidia, perché quella parte de' cittadini che fu confinata a Serezzana, subito ritornò a Firenze, e l'altra parte confinata a Castel della Pieve si rimase di fuori. A questo risponde Dante, che quando quelli di Serezzana furono rivocati, esso era fuori dell'uffizio del Priorato, e che a lui non si debba imputare: più dice, che la ritornata loro fu per l'infirmità e morte di Guido Cavalcanti, il quale ammalò a Serezzana per l'aere cattiva, e poco appresso morì. Questa disagguaglianza mosse il Papa a mandar Carlo di Valois a Firenze; il quale, essendo per riverenzia del Papa e della Casa di Francia ricevuto nella città, di subito rimise i cittadini confinati, e appresso cacciò la parte Bianca per rivelazione di certo trattato fatta per messer Piero Ferranti suo barone: il quale disse essere stato richiesto da tre gentili uomini della parte Bianca, cioè da Naldo di messer Lottino Gherardini, da Baschiera della Tosa e da Baldinaccio Adimari, di adoperar sì con messer Carlo di Valois che la lor parte rimanesse superiore nella terra; e che gli aveano promesso di dargli Prato in governo, se facesse questo: e produsse la scrittura di questa richiesta e promessa, con gli suggelli di costoro. La quale scrittura originale ho io veduto, perocché ancor oggi è in Palagio tra l'altre scritture publiche; ma quanto a me, ella mi pare forte sospetta, e credo per certo che ella fusse fittizia. Pure, quello che si fusse, la cacciata seguitò di tutta la parte Bianca; mostrando sdegno Carlo di questa richiesta, e promessa da loro fatta.
§7. Dante in questo tempo non era in Firenze, ma era a Roma, mandato poco avanti imbasciadore al Papa, per offerire la concordia e la pace de' cittadini: nientedimanco, per isdegno di quelli che nel suo Priorato confinati furono della parte Nera, gli fu corso a casa, e rubata ogni sua cosa, e dato il guasto alle sue possessioni, e a lui e a messer Palmieri Altoviti dato bando della persona per contumacia di non comparire, non per verità d'alcun fallo commesso. La via del dar bando fu questa: che legge fecero iniqua e perversa, la quale si guardava in dietro, che il Podestà di Firenze potesse e dovesse conoscere i falli commessi per lo addietro nell'ufficio del Priorato, contuttoché assoluzione fusse seguita. Per questa legge citato Dante per messer Cante De' Gabbrielli allora Podestà di Firenze, essendo assente e non comparendo, fu condannato e sbandito, e publicati i beni suoi contuttoché prima rubati e guasti.
§8. Abbiamo detto come passò la cacciata di Dante, e per che cagione e per che modo: ora diremo qual fusse la vita sua nello esilio. Sentito Dante la ruina sua, subito partì da Roma, dove era imbasciadore, e camminando con gran celerità ne venne a Siena; quivi intesa chiaramente la sua calamità, non vedendo alcun riparo, deliberò accozzarsi con gli altri usciti: e il primo accozzamento fu in una congregazione delli usciti, la quale si fe' a Gargonsa, dove, trattate molte cose, finalmente fermaro la sedia loro ad Arezzo, e quivi ferono campo grosso, e crearono loro capitano generale il conte Alessandro Da Romena, ferono dodici consiglieri, del numero de' quali fu Dante, e di speranza in speranza stettero per infino all'anno 1304. Allora, fatto sforzo grandissimo d'ogni loro amistà, ne vennero per rientrare in Firenze con grandissima moltitudine, la quale non solamente d'Arezzo, ma da Bologna e da Pistoia con loro si congiunse; e giugnendo improvviso, e subito presono una porta di Firenze, e vinsono parte della terra. Ma finalmente bisognò se n'andassero senza frutto alcuno.
Fallita dunque questa tanta speranza, non parendo a Dante più da perder tempo, partì d'Arezzo e andossene a Verona, dove, ricevuto molto cortesemente da' Signori della Scala, con loro fece dimora alcun tempo, e ridussesi tutto a umiltà, cercando con buone opere e con buoni portamenti racquistar la grazia di poter tornare in Firenze per ispontanea rivocazione di chi reggeva la terra; e sopra questa parte s'affaticò assai, e scrisse più volte, non solamente a' particulari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo: e intra l'altre una Epistola assai lunga, che incomincia: Popule mee, quid feci tibi?
§9. Essendo in questa speranza Dante di ritornare per via di perdono, sopravvenne l'elezione di Arrigo di Luzimborgo imperadore, per la cui elezione prima, e poi per la passata sua, essendo tutta Italia sollevata in speranza di grandissima novità, Dante non poté tenere il proposito suo dell'aspettare grazia, ma levatosi con l'animo altero, cominciò a dir male di quei che reggevano la terra, appellandoli scellerati e cattivi, e minacciando loro la debita vendetta per la potenza dello 'mperadore contra la quale diceva esser manifesto loro non avere alcuno scampo. Pure il tenne tanto la riverenza della patria, che venendo lo 'mperadore contra Firenze, e ponendosi a campo presso la porta, non vi volle essere, secondo lui scrive, contuttoché confortator fusse stato di sua venuta. Morto dipoi lo 'mperadore Arrigo, il quale nella seguente state morì a Buonconvento, ogni speranza al tutto fu perduta da Dante: perocché di grazia lui medesimo si avea tolto la via per lo parlare e scrivere contro i cittadini che governavano la republica, e forza non ci restava, per la quale più sperar potesse: sì che, deposta ogni speranza, povero assai trapassò il resto della sua vita, dimorando in varii luoghi per Lombardia e per Toscana e per Romagna, sotto il sussidio di varii Signori, per infino che finalmente si ridusse a Ravenna, dove finì la sua vita.
§10. Poiché detto abbiamo delli affanni suoi publici, e in questa parte mostrato il corso di sua vita, diremo ora del suo stato domestico e de' suoi costumi e studii.
Dante, innanzi la cacciata sua di Firenze, contuttoché di grandissima ricchezza non fusse, nientedimeno non fu povero, ma ebbe patrimonio mediocre, e sufficiente a vivere onoratamente. Ebbe un fratello chiamato Francesco Aldighieri; ebbe moglie, come di sopra dicemmo, e più figliuoli, de' quali ancora oggi resta successione e stirpe, come di sotto faremo menzione. Case in Firenze ebbe assai decenti, congiunte con le case di Geri di messer Bello suo consorto; possessioni in Camerata e nella Piacentina ed in Piano di Ripoli: suppellettile abbondante e preziosa, secondo lui scrive. Fu uomo molto pulito, di statura decente e di grato aspetto, e pieno di gravità: parlatore rado e tardo, ma nelle sue risposte molto sottile. La effigie sua propria si vede nella chiesa di Santa Croce, quasi al mezzo della chiesa dalla mano sinistra andando verso l'altar maggiore, e ritratta al naturale ottimamente, per dipintore perfetto del tempo suo. Dilettossi di musica e di suoni, e di sua mano egregiamente disegnava; fu ancora scrittore perfetto, ed era la lettera sua magra e lunga e molto corretta, secondo io ho veduto in alcune epistole di sua mano propria scritte. Fu usante in giovanezza sua con giovani innamorati, e lui ancora di simile passione occupato, non per libidine, ma per gentilezza di cuore; e ne' suoi teneri anni versi d'amore a scrivere cominciò, come veder si puote in una sua operetta vulgare, che si chiama Vita Nuova. Lo studio suo principale fu poesia, ma non sterile, né povera, né fantastica; ma fecundata e inricchita, stabilita da vera scienza e da moltissime discipline.
§11. E per darmi ad intendere meglio a chi legge, dico che in due modi diviene alcuno poeta. Un modo si è per ingegno proprio agitato e commosso da alcuno vigore interno e nascoso, il quale si chiama furore e occupazione di mente. Darò una similitudine di quello che io vo' dire: beato Francesco non per iscienza, né per disciplina scolastica, ma per occupazione e astrazione di mente, sì forte applicava l'animo suo a Dio, che quasi si trasfigurava oltre al senso umano, e conosceva di Dio più che né per istudio né per lettere cognoscono i teologi; così nella poesia, alcuno per interna agitazione e applicazione di mente poeta diviene; e questa si è la somma e la più perfetta spezie di poesia: e onde alcuni dicono i poeti essere divini, e alcuni li chiamano sacri, e alcuni li chiamano vati. Da questa astrazione e furore che io dico, prendono l'appellazione; gli esempii li abbiamo da Orfeo e da Esiodo, de' quali l'uno e l'altro fu tale, quale di sopra è stato da me raccontato; e fu di tanta efficacia Orfeo, che e sassi e selve moveva con la sua lira; ed Esiodo, essendo pastore rozzo e indotto, solamente bevuta l'acqua della fonte Castalia, senz'altro studio poeta sommo divenne: del quale abbiamo l'opere ancora oggi, e sono tali, che niuno de' poeti litterati e scientifici lo vantaggia. Una spezie adunque di poeti è per interna astrazione ed agitazione di mente; l'altra spezie è per iscienza, per istudio, per disciplina ed arte e per prudenzia: e di questa seconda spezie fu Dante; perocché per istudio di filosofia, teologia, astrologia ed arismetica e geometria, per lezioni di storie, per revoluzione di molti e varii libri, vigilando e sudando nelli studii, acquistò la scienza la quale dovea ornare ed esplicare con li suoi versi.
E perché della qualità de' poeti abbiamo detto, diremo ora del nome, per lo quale ancora si comprenderà la sustanzia: contuttoché questa sono cose che mal si possono dire in vulgare idioma; pur m'ingegnerò di darle ad intendere, perché, al parer mio, questi nostri moderni poeti non l'hanno bene intese; né è maraviglia, essendo ignari della lingua greca. Dico adunque, che questo nome Poeta è nome greco, e tanto viene a dire, quanto Facitore. Per aver detto insino a qui, conosco che non sarebbe inteso il dir mio; sì che più oltre bisogna aprire l'intelletto. Dico adunque de' libri e delle opere poetiche. Alcuni uomini sono leggitori dell'opere altrui, e niente fanno da sé, come addiviene al più delle genti; altri uomini sono facitori d'esse opere, come Virgilio fece il libro dell’Eneida, e Stazio fece il libro della Tebaida, e Ovidio fece il libro Methamorphoseos, e Omero fece l’Odissea e l’Iliade. Questi adunque, che ferno l'opere, furono poeti, cioè facitori di dette opere che noi leggiamo; e noi siamo i leggitori, e loro furono i facitori. E quando sentiamo lodare un valent'uomo di studii e di lettere, usiamo dimandare: - Fa egli alcuna cosa da sé, lascerà egli alcuna opera da sé composta e fatta? - Poeta è adunque colui che fa alcuna opera, cioè autore e componitore di quello che altri legge. Potrebbe dire qui alcuno, che, secondo il parlar mio, il mercatante che scrive le sue ragioni e fanne libro, sarebbe poeta; e che Tito Livio e Salustio sarebbero poeti, perocché ciascun di loro scrisse libri e fece opere da leggere. A questo rispondo: che fare opere poetiche non si dice se non in versi; e questo addiviene per eccellenza dello stile, perocché le sillabe e la misura e il suono è solamente di chi dice in versi, e usiamo di dire in nostro vulgare: - Costui fa canzone e sonetti; - ma per iscrivere una lettera a' suoi amici, non diremo che lui abbia fatto alcuna opera. Il nome del poeta significa eccellente e ammirabile stile in versi, coperto e adombrato da leggiadria e alta finzione; e come ogni presidente comanda e impera, ma solo colui si chiama Imperadore ch'è sommo di tutti, così chi compone opere in versi, ed è sommo ed eccellentissimo nel comporre tali opere, si chiama Poeta. Or questa è la verità certa e assoluta del nome e dell'effetto de' poeti; lo scrivere in istile litterato o vulgare non ha a fare al fatto, né altra differenza è se non come scrivere in greco o in latino.
§12. Ciascuna lingua ha sua perfezione, e suo suono, e suo parlare limato e scientifico; pur, chi mi domandasse per che cagione Dante più tosto elesse scrivere in vulgare che in latino e litterato stilo, risponderei quello che è la verità: cioè che Dante conosceva sé medesimo molto più atto a questo stilo vulgare e in rima, che a quello latino o litterato. E certo molte cose sono dette da lui leggiadramente in questa rima vulgare, che né arebbe potuto, né arebbe saputo dire in lingua latina e in versi eroici. La pruova sono l'Egloghe da lui fatte in versi esametri, le quali posto sieno belle, nientedimanco molte ne abbiamo vedute più vantaggiatamente scritte. E, a dire il vero, la virtù di questo nostro poeta fu nella rima vulgare, nella quale è eccellentissimo sopra ogn'altro; ma in versi latini e in prosa, non aggiugne a pena a quelli che mezzanamente hanno scritto. La cagione di questo è, che il secolo suo era dato a dire in rima; e di gentilezza di dire in prosa o in versi latini, niente intesero gli uomini di quel secolo, ma furon rozzi e grossi, e senza perizia di lettere; dotti nientedimeno in queste discipline al modo fratesco e scolastico.
§13. Cominciossi a dire in rima, secondo scrive Dante, innanzi a lui circa anni centocinquanta; e furono i principi in Italia Guido Guinizzelli bolognese, e Guittone cavaliere Gaudente d'Arezzo, e Buonagiunta da Lucca, e Guido da Messina, i quali tutti Dante di gran lunga soverchiò di sentenze, e di politezza, e d'eleganza, e di leggiadria in tanto, che è opinione di chi intende, che non sarà mai uomo che Dante vantaggi in dire in rima. E veramente egli è mirabil cosa la grandezza e la dolcezza del dire suo prudente, sentenzioso e grave, con varietà e copia mirabile, con scienza di filosofia, con notizia di storie antiche, con tanta cognizione delle storie moderne, che pare ad ogni atto essere stato presente. Queste belle cose, con gentilezza di rima esplicate, prendono la mente di ciascuno che legge, e molto più di quelli che più intendono. La finzione sua fu mirabile, e con grande ingegno trovata; nella quale concorre descrizione del mondo, descrizione de' cieli e de' pianeti, descrizione degli uomini, meriti e pene della vita umana, felicità e miseria e mediocrità di vita intra due estremi; né credo che mai fusse chi prendesse più ampia e fertile materia da poter esplicar la mente d'ogni suo concetto, per la varietà delli spiriti loquenti di diverse ragioni di cose, di diversi paesi e di varii casi di fortuna. Questa sua principale opera cominciò Dante avanti la cacciata sua, e di poi in esilio la finì, come per essa opera si può vedere apertamente. Scrisse ancora Canzone morali, e Sonetti: le canzone sono perfette e limate e leggiadre, e piene d'alte sentenze; e tutte hanno generosi cominciamenti, siccome quella canzona che comincia: Amor, che muovi tua virtù dal Cielo - Come il Sol lo splendore, dove fa comparazione filosofica e sottile intra gli effetti del sole e gli effetti d'Amore; e l'altra che comincia: Tre donne intorno al cor mi son venute, e l'altra che comincia: Donne, ch'avete intelletto d'Amore. E così in molte altre canzone è sottile e limato e scientifico; ne' sonetti non è di tanta virtù.
Queste sono l'opere sue vulgari; in latino scrisse in prosa e in verso: in prosa un libro chiamato Monarchia, il quale è scritto a modo disadorno, senza niuna gentilezza di dire. Scrisse ancora un altro libro intitolato De vulgari Eloquentia; ancora scrisse molte Epistole in prosa; in versi scrisse alcune Egloghe, e 'l principio del libro suo in versi eroici; ma non gli riuscendo lo stile, non lo seguì.
§14. Morì Dante nel 1321, a Ravenna. Ebbe Dante tra gli altri un suo figliuolo chiamato Piero, il quale studiò in legge e divenne valente; e per propria virtù, e per lo favore della memoria del padre si fece grand'uomo, e guadagnò assai, e fermò suo stato a Verona con assai buone facultà. Questo messer Piero ebbe un figliuolo chiamato Dante, e di questo Dante nacque Lionardo, il quale oggi vive, ed più ha figliuoli. Né è molto tempo, che Lionardo antedetto venne a Firenze con altri giovani veronesi, bene in punto e onoratamente; e me venne a visitare, come amico della memoria del suo proavo Dante; ed io gli mostrai le case di Dante e de' suoi antichi, e diegli notizia di molte cose a lui incognite, per essersi stranato lui e i suoi della patria. E così la Fortuna questo mondo gira, e permuta gli abitatori col volgere di sue rote.