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Capo Decimo - I Bianchi e i Neri. Il Giubileo, la terza idea del Poema. Il Priorato.
Libro I - Capitolo IX Libro I - Capitolo XI


Nel mezzo del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura,
Che la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual’era è cosa dura
Quella seiva seivaggia ed aspra e forte,
Che nel pensier rinnova la paura

Tanto è amara, che poco è più morte.

INF. I.

A te convien tener altro viaggio
..................................................................
So vuoi campar d’ esto loco selvaggio.

Ivi.

dopo lunga tenzone
Verranno al sangue, e la parte selvaggia
Caccerà l’altra con molta offensione.

INF. VI.

Il parteggiare che seguì in Firenze, in quasi tutta Toscana, e in alcune città all’intorno, non fu se non un suddividersi della parte guelfa; quel suddividersi che sempre succede di qualunque parte dopo qualche tempo di vittoria e bal danza, in puri e non puri, più e meno esagerati. E come pur succede sovente, i puri o più esagerati ebbero, ajutati da fuori, la vittoria; e i meno puri, tacciati prima di parte contraria, poi condannatine e dispersi, si confusero in breve con questa. Pochi anni durarono siffatti accidenti di parte guelfa; e i nomi di Neri e Bianchi incominciati nel 1300, già dieci anni dopo più non s’udivano, perduti di nuovo in quelli primitivi di Guelfi e Ghibellini. Quindi è che tal episodio avrebbe poco interesse, e sarebbe appena notato nella storia d’Italia o nella fiorentina stessa, se non vi si trovasse impigliato il nostro sommo Autore; tanto che, dopo l’amore di lui, è l’evento più importante di sua vita, e quello a che più sovente allude nel divino Poema. Sarebbe perciò degnissimo soggetto di storia speciale, e potrebbe trarsi da molti scrittori di quel tempo; Dino Compagni, Giovan Villani e Marchionne Stefani principalmente. Ne’ quali, per vero dire, non poche contraddizioni si trovano, ed alcune forse impossibili a tórre. Ma questo è oramai un inconveniente di tutte le storie moderne, nelle quali, abbondando i documenti, è difficile che s’accordino tutti: ondeche, chi vuoi servire alla bellezza del la narrazione, suol fare certezze delle incertezze; ma chi vuoi seguir verità prima d’ogni cosa, forza è che dica le cose certe come certe, e le dubbie come dubbie, e così nuoccia alla scorrevolezza della narrazione. Mi perdonino i leggitori di non saper essere se non degli ultimi; e massimamente tentando io, quasi primo, d’ordinare quei fatti1. E mi perdonino poi, di recar qui più che mai gli squarci originali. Ei mi si dirà forse che non fo guari più che trascrivere; ma io non ho cuore di mettere parole mie in luogo di quelle di tali storici contemporanei, i quali sono insieme i più efficaci scrittori di nostra lingua. Del resto, e il Serassi nella Vita del Tasso, e molti oltremontani in quella qualità di storie che chiamano Memorie, mi hanno dato l’esempio.
Quali fossero i Donati e messer Corso lor capo, quali i maleficii di lui nella propria famiglia contro i consorti, quali forse le sue soverchierie a Dante suo affine, e quali certo le sue inimicizie contro Guido Cavalcanti, il primo amico di Dante, già avemmo occasione di dirlo. E già pur accennammo la sua inimicizia massima contra messer Vieri de’ Cerchi; e la voce, falsa o no, che corse nei paesi più lontani d’Italia sull’origine di essa. Gli storici fiorentini, poi, non ne danno altra cagione, se non quella peste di che non vanno scevri gli stati grandi, ma che è continua e quasi nativa nei piccoli, e più maligna tra vicini, la invidia. Questa poi del vicinato di Dante crebbe sì da farsi, per cagione di lui, immortale. Per le invidie si cominciarono tra’ cittadini le sette, et una principale et maggiore si cominciò nel sesto dello scandalo, di Porta San Pietro, tra quelli della tasa de’ Cierchi e la casa de’ Donati. L’una parte si mosse per invidia, e l’altra per salvatica ingratitudine. Della casa de’ Cierchi era capo messer Vieri de’ Cerchi; et elli e quelli di casa sua erano di grande affare possenti, et di grandi parentadi, et ricchissimi mercatanti; che la loro compagnia (cioè casa di commercio) era delle maggiori del mondo. Huomini erano morbidi, salvatichi e ’ngrati; siccome genti venuti in piccol tempo in grande stato et potere2". Dove nota quel nome di sesto dello scandalo dato a quello de’ Cerchi e Donati e Dante. E nota principalmente quel soprannome dato ai Cerchi di selvatichi; il quale, sia che fosse come a dire campagnuoli, inurbani, mal inciviliti, sia che pur venisse loro dalle selve di Val di Sieve e del Pivier d’Acone ond’erano originarii3, fu dato loro così generalmente, che da principio la parte loro fu pur chiamata la parte selvaggia, e così ancor la chiama Dante4. Detto poi ciò che già riferimmo de’ Donati, continua il Villani: "Vicini erano in Firenze et in contado; et per la conversatione della loro invidia con la bizzarra salvatichezza, nacque soperchio e sdegno tra loro". E Dino Compagni: "Alcuni di loro comperarono il palagio de’ conti Guidi, che era presso alle case de’ Pazzi e de’ Donati, i quali erano più antichi di sangue, ma non sì ricchi. Ondeveggendo i Cerchi salire in altezza, avendo murato e cresciuto il palazzo, e tenendo gran vita, cominciarono avere i Donati grande odio contra loro. Il quale crebbe assai, perchè messere Corso Donati, cavaliere di grande animo, essendogli morta la moglie, ne ritolse un’altra, figliuola di messere Accerito da Gaville, la quale era reda; ma non consentendo i parenti di lei perchè aspettavano quella redità, la madre della fanciulla, vedendolo bellissimo uomo, contro alla volontà degli altri conchiuse il parentado. I Cerchi, parenti di messere Neri da Gaville, cominciarono a sdegnare, e a procurare non avesse la redità; ma pur per forza l’ebbe. Di che si generò molto scandalo e pericolo per la città e per speziali persone".
A ciò era quella inimicizia in sul principio del 1300, quando ad accrescerla venne un’altra non dissimile da Pistoja. Nè paja strana questa importanza delle inimicizie private; le quali dette faide ne’ tempi barbari, furono principalissimo motore d’azioni d’allora in poi, e duravano a quelli di che parliamo; tantochè non pur iscusabili ma sacre eran tenute da tutti e da Dante stesso, in ciò solo forse non progredito oltre al secolo suo. Famoso è il luogo dell’Inferno, dove incontrato un consorte od agnato suo, Geri del Bello, già violentemente morto e non vendicato per anco da nessuno del sangue, scostasi questo sdegnoso contro Dante, e Dante spiega poi e scusa siffatto sdegno a Virgilio:

O Duca mio, la violenta morte,
Che non gli è vendicata ancor, diss’io,
Per alcun che dell’onta sia consorte,

Fece lui disdegnoso, onde sen gio
Senza parlarmi, si com’io stimo;
Ed in ciò m’ha el fatto a sè più pio.

INF. XXIX. 31-56.

Or dunque "essendo in Pistoja una famiglia, la quale passava per numero più di cento uomini d’arme, non però d’antichità grande, ma di possanza, d’avere e di persone quanto è detto, e d’amicizia assai, li quali discesero d’uno ser Cancellieri Notaio, e da lui aveano nome ritenuto Cancellieri, il nome di schiatta; di che ne discesero di due donne figliuoli, che fecero lo numero in questo di cento sette uomini d’arme; e l’una discensione fu della donna che si chiamò Madonna Bianca, e quelli che di lei scesero furono detti Cancellieri Bianchi; di che, per opposito gli altri si dissero Cancellieri Neri (e fu divisione da loro, per lo partire, come detto è, per le due donne; ma pure erano discesi grandi, ed insieme infino a questo dì si conteneano con gli detti nomi); addivenne, come il nimico della umana generazione vuole, che giuocando l’uno coll’altro, uno figliuolo di messer Guglielmo Cancellieri Neri, il quale avea nome Lore, fedì a Petieri, figliuolo di messer Bertacca Cancellieri Bianchi. Tornato messer Guiglielmo a casa, non facendo di questo stima grande, altro che di riprendere il figliuolo, disse: Va a messer Bertacca, e chiedigli perdono, e vuoglia a pregare il figliuolo, che ancora perdoni egli a te; e mandò seco un vicino, dicendo, che se simile a lui fosse intervenuto, si sarebbe contro al perdonare fatto. Il figliuolo ubbidì al padre; giunse a casa di messer Bertacca, lo quale era addolorato del figliuolo ferito. Udito costui, disse: Tu fou sti poco savio a venirci, e tuo padre a mandartici. Di che essendo nella sua casa un terreno allato ad una sua stalla ov’era una mangiatoia, lo fece prendere, e fecegli tagliare la mano, e dissegli: Porta la mano al tuo padre, che qua t’ha mandato. Il giovane così concio si partì, e tornossi al suo padre. Quando il padre il vide, allora, come ragionevolmente esser dovea di simile cosa, entrò nell’arme egli ed i suoi; di che molte zuffe ne seguirono, e d’una parte e d’altra ne morì, e la città di Pistoja se ne divise5". Narrato, poi, o accennato questo fatto da tutti gli storici della Toscana, è dagli uni posto in dietro all’anno 1286, dagli altri come succeduto poco prima del 13006. Ma ad ogni modo, ei fu al principio di quest’anno, che produsse il suo mal effetto in Firenze, innestando la inimicizia de’ Bianchi e Neri di Pistoja, e dando i nomi a quella de’ Cerchi e Donati di Firenze7.
Imperciocchè, essendo Firenze capo della Taglia Guelfa, ella esercitava la supremazia sulle città minori di quella Taglia, e così sopra Pistoja; ed ora, temendo non se ne turbasse la parte, ella prese la signoria di Pistoja, e chiamò in Firenze stessa a confino i principali e più da temersi de’ Cancellieri Bianchi e Neri. "La parte de’ Neri si ridusse a casa Frescóbaldi Oltr’Arno; la casa de’ Bianchi a casa Cierchi nel Garbo, per parentadi ch’aveano tra loro. Ma come l’una pecora amalata amala l’altra et corrompe tutta la greggia, così questo maladetto seme uscito di Pistoja, stando in Firenze corruppe tutti i Fiorentini, et partìlli d’insieme; che prime tutte le schiatte et casati de’ nobili, appresso tutti i popolani, si partiro, et chi favorava l’una parte et chi l’altra. Per la qual cosa et gara cominciata, non che i Cancellieri per li Fiorentini si racconciassono insieme, ma i Fiorentini per li Cancellieri furono divisi e partiti, multiplicando di male in peggio". Trovansi negli storici gli elenchi delle famiglie che seguirono la parte de’ Cerchi, già Selvaggia ora de’ Bianchi, e quelle che seguirono la parte de’ Donati ora de’ Neri. I quali tralasceremo come a noi meno importanti. Ma giova l’osservazione del Villani: che alla parte Bianca de’ Cerchi, oltre le nomate, o s’accostare altre case et schiatte di popolani et artefici minuti, e tutti i grandi e o popolani ghibellini; et per lo séguito grande ch’aveano i Cerchi, il reggimento della città era quasi tutto in loro potere". Così, mutandosi l’andamento solito delle due parti, per cui quasi sempre e per ogni dove Ghibellini erano i grandi e Guelfi i popolani; qui, all’incontro, i popolani furono se non più Ghibellini, ma meno Guelfi che i grandi: il che venne senza dubbio da ciò che vedemmo di quel mobile o tesoro di parte guelfa, che era nella mano de’ grandi, e che Giano della Bella avea tentato invano di tórre loro. Adunque: "la parte guelfa" (cioè il governo speciale di essa), "per tema che le dette parti non tornassero in favore de’ Ghibellini, sì mandarono a Corte a Papa Bonifatio, che ci mettesse rimedio. Per la qual cosa il detto Papa mandò per messer Vieri de’ Cierchi, et come fu dinanzi da lui, sì ’l pregò che faciesse pace con messer Corso Donati et con la sua parte, promettendoli di mettere lui et suoi in grande et buono stato in Firenze, et di farli gratie spirituali, come sapesse addomandare. Messere Vieri, come che nelle altre cose fosse savio cavaliere, in questo fu poco savio, troppo duro e bizzarro, o che della richiesta del Papa nulla volle fare, dicendo che non havea guerra con ninno; onde si tornò in Firenze, e il Papa rimase molto sdegnato contro a lui e contro a sua parte". Essendo, poi, così a guardarsi l’una dell’altra le parti, ma non per anco rotta per niun fatto la guerra tra esse, e visitandosi gli uni gli altri, avvenne che si trovarono insieme in casa messer Vieri, la mattina del 23 aprile di quell’anno 1300, una moglie di messer Filippo che era de’ Bianchi, ed una moglie di Bernardo Donati. Le quali sendo per esser messe a tavola l’una allato all’altra dalla moglie di messer Vieri, disse a questa il marito: Non far cosi, che non son d’un animo. Tramezza chi che sia. Disse la moglie di Bernardo: Messere, voi fate una gran villania a far me o i miei di parte, o nemici di persona; ed ho voglia di andarne fuori. Di che la moglie di messer Vieri disse: E tu te ne va; e se non fosse messer Vieri, che la prese, ella si partia. Ma non di meno, come femmina che poco usò cortesia, disse: Ora m’avete fatta la seconda vergogna, ed’ è gran villania a cercare le donne. Messer Vierì, con tutto che fosse savio cavaliere, disse: Bene sono il diavolo le femmine, e andò più oltre e lasciòlla. Tornò a casa la donna, e disse più là che non era stata la faccenda". Il marito venne a dolersene con messer Vieri; e disprezzato da esso e malmenato dagli altri di casa Cerchi, trovandone uno poi al ritorno presso a casa sua, lo assalì col coltello e ferìllo alquanto; e così, da un pettegolezzo femminile venne il primo alterco e il primo sangue.
Sette giorni appresso, sendo il dì di calen di maggio (quello che vedemmo principio a Dante di così diverse cose, ventisett’anni prima in casa Portinari), e facendosi le feste consuete di donne e d’uomini con più balli sulla piazza della chiesa di Santa Trinita, v’arrivò a cavallo una brigata di giovani de’ Cerchi, che erano armati perchè si guardavano dei Donati , ed andavano per Firenze vedendo le feste. E stando a vedere così a cavallo, sopravvenne una brigata de’ Donati, i quali o non riconoscendo di dietro i Cerchi, o appunto perchè li riconoscessero, si spinsero loro addosso coi cavalli. Quindi a rivolgersi i Cerchi e far rumore, e dal rumore all’armi, e alle ferite di parecchi; fra’ quali, a Ricoverino di messer Ricovero de’ Cerchi fu mozzo il naso, ben non si seppe da chi, e fu taciuto da que’ de’ Cerchi stessi per farne poi più sicura vendetta. E perchè anche i circostanti cittadini, favoreggiando chi gli uni chi gli altri, s’erano messi nella mischia, ne rimase turbata tutta la città, "Et come la morte di messer Buondelmonte il vecohio fu principio di parte guelfa et ghibellina, così questo fu incominciamento di grande ruina di parte guelfa e della nostra città. Et nota, che l’anno dinanzi a queste novitadi, erano fatte le case del Comune che cominciavano al pie del Ponte Vecchio sopr’Arno verso il castello Altafronte, et per ciò fare si fece il pilastro a pie del Ponte Vecchio, et convenne che si rimovesse la statua di Marte; et dove guardava prima verso levante, fu rivolta verso tramontana; onde per lo augurio delli antichi fu detto: Piaccia a Dio che la nostra città non habbia grande mutatione". E fu pur accennata da Dante nel Poema questa superstizione fiorentina, che attribuiva tutti i malanni della città a quella statua recisa, ed all’ira del demonio Marte, spogliato già della sua protezione della città da San Giovanni Battista. Nell’Inferno un peccatore dimandato chi egli sia, risponde tacendo il proprio nome :

Io fui della Città che nel Battista
Cangiò ’l primo padrone , ond’ ei per questo
Sempre con l’arte sua la farà trista.

E se non fosse che ’n sul passo d’Arno
Rimane ancor di lui alcuna vista,

148 Quei cittadin che poi la rifondarno
     Sovra ’l cener che d’Attila rimase,
     Avrebber fatto lavorare indarno.

Inf. XIII.


Ed anche in altri luoghi accenna la medesima opposizione e lotta tra i due protettori, il celestiale e l’infernale8.


Poco prima o poco dopo questi due fatti, un altro ne avvenne9, il quale già toccava più presso a Dante. Dicemmo la inimicizia di messer Corso Donati e Guido Cavalcanti, il quale naturalmente co’ giovani che avean promesso d’essergli in aiuto ( con essi probabilmente Dante) era ora della parte selvaggia o Bianca o de’ Cerchi. Ed “essendo un dì a cavallo con alcuni da casa Cerchi, con uno dardo in mano spronò il cavallo contro a messer Corso credendosi esser seguito da’ Cerchi per farli trascorrere nella briga; e trascorrendo il cavallo lanciò il dardo,, il quale andò in vano. Era quivi con messer Corso Simone suo figliuolo, forte e ardito giovane, e Cecchino de’ Bardi, e molti altri con le spade, e corsongli dietro; mi non lo giugnendo li gettarono de’ sassi, e dalle finestre gliene furono gittati, per modo che fu ferito nella mano. Cominciò per questo l’odio a multiplicare. E messer Corso molto sparlava di messer Vieri, chiamandolo l’asino di porta„ (dal sestiere di porta s. Pietro) perchè era huomo bellissimo ma di poca malizia, nè di bel parlare; e però spesso dicea: ha ragghiato l’asino di porta. E molto lo spregiava e chiamava Guido Cavicchia10. E così rapportavano i giullari; e spezialmente uno si chiamava Scampolino, che rapportava molto peggio non si dicea, perchè i Cerchi si movessono a briga co’ Donati11„. Aperta con pubblicamente la guerra tra le parti, e più forte facendosi nel governo la Bianca pendente a Ghibellinismo, “i capitani della parte guelfa e il loro consiglio, temendo che per le dette sette et brighe parte ghibellina esultasse in Firenze (che sotto titolo di buono reggimento già ne facea il sembiante, et molti ghibellini tenuti buoni huomini erano cominciati a mettere in su li uffici) et ancora quelli che teneano parte Nera, per ricoverare loro stato, sì mandarono loro ambasciadori a Corte a Papa Bonifacio, a pregarlo che per bene della città di Firenze et di parte di chiesa vi mettesse consiglio. Per la qual cosa incontanente il Papa fece legato a ciò fare frate Matheo d’Acquasparta, Cardinale Portuense dell’ordine dei frati Minori, et mandollo a Firenze del seguente mese„ (giugno ) “dell’anno 1300, e da’ Fiorentini fu ricevuto a grande onore12„.

Ma prima di passare a ciò che avvenne al Cardinale in Firenze durante il priorato di Dante che stava per incominciare addi 15 di quel mese di giugno, ei ci convien dire di una novità che fin dal principio di quell’anno occupava l’attenzione non che di Roma, ma d’Italia e di tutta la Cristianità. Tempi erano, ne’ quali le passioni buone e cattive erano esaltate e sfrenate sì più assai, e così i delitti più frequenti che non ai dì nostri; ma pur tra le passioni e i delitti regnava universalmente una fede inconcussa, ed un amor pieno e devoto alla religione de’ padri, a quella religione che se non fosse per natura sua cattolica, s’avrebbe a dire per istoria specialmente italiana. Nè monta che alcuni pochi, come vedemmo, avesser nome di Epicurei, e sorgesse poco dopo una eresia ristretta fra alcune ville dell’alpi Novaresi; chè questa medesima ristrettezza, e il niuno appiglio trovato nella opinione nazionale, mostrano appunto la unanimità di quest’opinione cristiana, cattolica e devota alla Sede Romana. Ed all’appressare dell’anno ultimo del secolo si sparse tra’ cristiani una voce: essere uso antico di questa Santa Sede di concedere ad ogni tale centesimo anno una indulgenza plenaria13 . Non s’ha memoria di tale antichità dell’uso; e pare anzi che l'indulgenza plenaria fosse prima riserbata a coloro che andavano a’ Santi Luoghi di Soria, e che dalle palme riportate dicevansi Palmieri ed erano riputati principali tra que’ divoti viaggiatori, chiamandosi Romei quelli che visitavano Roma , e Pellegrini in ge^ nerale quelli che s. Jacopo di di Gallizia ed altri luoghi santi. Quindi, da tal voce, ad accorrere in quell’anno immensa folla di Romei al centro comune della Cristianità. E papa Bonifazio, sia che avesse mossa egli o secondasse quella voce, concedette quella indulgenza ai Romani che per trenta dì e a forestieri che per quindici visitassero le chiese de’ Santi Apostoli Pietro e Paolo. Piene quindi le vie d’Italia, pieni gli alberghi di Roma, abbondante ivi ogni vettovaglia, abbondantissimi i doni. Al ponte Sant’Angelo che mette a San Pietro, fu d’uopo fermare lungo il mezzo uno steccato, affinchè andassero gli uni per una sponda, e tornassero gli altri per l’altra; e Dante, vedendo all’Inferno una folla divisa a quel modo, ne toglie il paragone come di cosa veduta probabilmente co’ propri occhi:

Come i Roman, per l’esercito molto,
L’anno del Giubbileo, su per lo ponte
Hanno a passar la gente modo tolto:

Che dall’un lato tutti hanno la fronte
Verso ’l castello, e vanno a santo Pietro;
Dall’altra sponda vanno verso ’l monte.

INF. XVIII. 28-33.

Dugento mila forestieri furono tutto l’anno in Roma; da due milioni si conta che vi passarono; "e il Papa ne ebbe innumerevol pecunia; perciocchè stavano dì e notte all’alatare di San Pietro due chierici, tenenti in mano rastelli, e rastellanti pecunia infinita". Così Guglielmo Ventura, cronachista d’Asti, che vi si trovò. Di Firenze vi fu il nostro Giovanni Villani; il quale dopo averne narrato, e detto pure che "della offerta fatta per li pellegrini molto tesoro ne crebbe alla Chiesa; e’ Romani per le loro derrate furono tutti ricchi", aggiunge poi: "Et trovandomi io in quello benedetto pellegrinaggio nella santa città di Roma, veggendo le grandi et antiche cose di quella, et leggendo le storie et gran fatti de’ Romani, scritte per Virgilio, et per Sallustio, Lucano, Titolivio, Valerio, Paolo Orosio et altri maestri di historie, i quali così le piccole come le grandi cose descrissero, etetiandio delli stremi dello universo mondo, per dare memoria et esemplo a quelli che sono a venire; presi lo stile et forma da loro, tutto che degno discepolo non fossi a tanta opera fare. Ma considerando, che la nostra città di Firenze, figliuola e fattura di Roma, era nel suo montare ed a seguir grandi cose disposta, siccome Roma nel suo calare, mi parve convenevole di recare in questo volume et nuova cronica tutti i fatti et cominciamenti d’essa città... Et così, mediante la gratia di Cristo, nelli anni suoi 1300, tornato io da Roma, cominciai a compilare questo libro, a reverentia di Dio et del beato santo Ioanni, a comendatione della nostra città di Firenze".
Ma un altro libro, uno di gran lunga maggiore, fu probabilmente ispirato dal Giubileo. Vedemmo la prima idea del Poema concepita da Dante, vivente ancora Beatrice; e la seconda in sul principio del 4293, dopo la visione avuta di lei morta. Ma negli anni corsi d’allora in poi, il matrimonio, i figliuoli, forse altri amori, certo la vita compagnevole, e poi i negozii pubblici, le ambascerie, le inimicizie private e le parti sorgenti, avevano senza dubbio impedito Dante dal lavorarvi molto ed efficacemente. Ancora, e forse principalmente, era Dante in queste due prime prove, scoraggiato, impacciato da un errore, una mala via, uno stromento inadeguato all’alto e libero ingegno suo; dico la lingua latina, morta, e mal maneggiabile da lui. Restano a chiaro documento e del fatto, e della inferiorità di tali prove, i tre primi versi di esse:

Ultima regna canam fluido contermina mundo
Spiritibus quae lata patent, quae proemia salvimi
Pro meritis cuique suis data lege tonantis.

Ad ogni modo, il Poema italiano, qual è, e che incomincia:

Nel mezzo del cammin di nostra vita

cioè al 35° anno di Dante; il Poema che corre nella settimana santa di quest’anno 1300, e in cui con invariabil legge non trovansi all’altro mondo se non i morti prima di quell’epoca, e non son narrati se non i fatti allor compiuti, predicendosi solamente i posteriori; certo è, dico, che questo Poema che abbiamo, non fu nè potè essere scritto cosi se non dopo quell’epoca. La scelta della quale, poi, non potè essere determinata se non da una delle due ragioni o impressioni seguenti del Poeta: o l’esser questo l’anno del Giubileo, e l’avervi assistito Dante, e l’aver preso allora qualche forte risoluzione di ritorno a virtù, alla virtuosa memoria di Beatrice ed alla vita contemplativa, lasciando la selva de’ vizii e delle parti; ovvero l’esser questo stato l’anno del priorato, e così l’origine delle sventure di Dante. Io crederei l’uno e l’altro. Ancora si può dubitare se allora o più tardi, in Roma o altrove, ei concepisse questa terza e definitiva idea del Poema; ma ei non la potè concepir prima, e il potè fin d’allora. E ad ogni modo, quest’anno, questo mese d’aprile 1300, restarono certo nell’animo di lui quasi epoca principale e media tra ’l salire e scender di sua vita; quella a cui riferì poi quinci e quindi l’altre anteriori e posteriori.
E già è questa ragione potentissima di credere, con molti de’biografi, che Dante assistesse al Giubileo. Giunge poi, a prova speciale, che non sembra possibile venisse mai in mente al Poeta quel paragone così particolare del ponte Sant’Angelo allor diviso, se ei non l’avesse con gli occhi propri veduto. E s’aggiugne, che un’altra memoria del giubileo pur si trova nel Purgatorio; cioè che v’andò l’amico di lui, il maestro di musica Casella, morto al ritorno, e cosi allora allora approdato al Purgatorio. Il quale egli stesso ne dice:

Veramente, da tre mesi egli ha tolto
Chi ha voluto entrar, con tutta pace:

Ond’io, ch’et’ora alla marina vólto,
Dove l’acqua di Tevere s’insala,
Benignamente fu’ da Lui ricollo.

PURG. II. 98-102.

Se, poi, andò Dante al Giubileo, certo ei dovett’essere ne’ primi sei mesi dell’anno anteriori al suo priorato. E quantunque molto incerte restino le congetture aggiunte a congetture, tuttavia non mi tratterrò di dire un mio dubbio: che delle due ambascerie mandate in questo principio del 1300 dai Capitani di parte Guelfa a papa Bonifazio, una potè essere esercitata da Dante. Una tale della medesima parte gli vedemmo esercitare non un anno addietro. Ora, poi, nel suo priorato, siamo per vederlo tutto guelfo ancora, e d’accordo col Legato, ed imparziale tra le due suddivisioni Bianca e Nera: onde si fa molto probabile, che in occasione di tale ambasceria a Roma egli assistesse al Giubileo, e da quella tornasse appunto quando assunse il priorato. Ad’ogni modo, certo è da tutte le Memorie, che eletto egli dalle Arti secondo gli Ordini di Giustizia del novantatrè, entrò Priore addi 15 giugno, e vi rimase due mesi, secondo il costume. Furono i cinque colleghi di lui Nolfo di Guido, Neri di messer Jacopo del Giudice, Nello (o Neri) di Arrighetto Doni, Bindo dei Donati Bilenchi, e Ricco Falconetti; il Gonfalonier di Giustizia Faccio da Micciole, e il notajo (cioè segretario) loro ser Aldobrandino Uguiccione da Campi. Della qual elezione, dice, poi Danto stesso in una lettera or perduta "Tutti li mali e tutti gli inconvenienti miei dalli infausti comizi del mio priorato ebbero cagione e principio. Del quale priorato benché io per prudenza non fossi degno, niente di meno per fede e per età non ne era indegno; perocché dieci anni erano già passati dopo la battaglia di Campaldino, ec". Dove è da notare per quel che seguirà, quella confessione dell’errore d’imprudenza, solo riconosciuto da Dante; il quale è tanto più credibile in ciò, quanto più superbo e schietto uomo ci si mostra per ogni dove. Ed or veggiamo quali abbiano potuto essere siffatti errori, quali fossero ad ogni modo gli eventi di quel priorato.
Giunto a Firenze, forse con Dante, certo di giugno e così all’intorno all’entrar di que’ Priori, il cardinal d’Acquasparta, Legato di papa Bonifazio, a far pace tra le due fazioni che dividevano la Guelfa Firenze, "ei vi fu ricevuto a grande onore. Et lui riposato in Firenze, richiese al Comune la balia (potestà straordinaria e come dittatoriale) di pacificare insieme i Fiorentini; et per levare via le sette Bianca et Nera, volle riformare la terra, et raccomunare li offici (cioè darli senza distinzione di parte, mentre ora li vedemmo quasi esclusivamente di parte Bianca); et quelli dell’una parte et dell’altra ch’erano degni di essere Priori, mettere in sacchetti a sesto a sesto, et trarli di due mesi in due mesi, come la ventura venisse, che per le gelosie delle parti et sette incominciate, non si faceva eletione de’ Priori per le capitudini delle parti, che quasi la città non si commovesse a subuglio, e tal hora con grande apparecchiamento d’arme. Quelli della parte Bianca che guidavano la signoria della terra, per tema di non perdere loro stato et d’essere ingannati dal Papa e dal Legato per la detta o riformazione, presono il piggiore consiglio et non vollono o ubbidire: per la qual cosa, il detto Legato prese sdegno e tornossi a Corte, e lasciò la città di Firenze scomunicata et interdetta". Così il Villani; molto saviamente certo, per quanto possiam noi giudicare. Ma nota, che per questi che presono il piggior consiglio debbono intendersi i capi di parte Bianca, che avevano il sopravvento, che guidavano la signoria della terra; e non forse i priori, o almeno non tutti.
I particolari di questo fatto del Cardinale, o almeno quelli che mettendolo in sospetto dei Bianchi signoreggianti, fecero rigettare le proposizioni di lui, ci sono serbati da Dino Compagni, testimone e partecipe. "Alla vigilia di San Giovanni (e così al nono dì del priorato di Dante) andando l’Arti a offerere, come era usanza, ed essendo i Consoli innanzi, furono manomessi da certi Grandi e battuti, dicendo loro: Noi siamo quelli che demmo la sconfitta in Campaldino, e voi ci avete rimossi dagli uffici e onori della nostra città. I Signori sdegnati ebbono consiglio da più citladini, e io Dino fui uno di quelli. E confinarono alcuni di ciascuna parte (dal che vedesi che la baruffa tra le Arti, e i popolani e i grandi, fu considerata e fu veramente tra Bianchi e Neri, tra Cerchi e Donati, avendo così allora tre nomi ognuna della parti); cioè, per la parte de’Donati, messer Corso e Sinibaldo Donati, messer Rosso e messer Rossellino della Tosa, messere Giachinotto e messere Pazino de’ Pazzi, messere Geri Spini, messere Porco Manieri e loro consorti, al Castel della Pieve; e per la parte de’ Cerchi, messer Gentile e messer Torrigiano e Carbone de’ Cerchi, Guido Cavalcanti, Baschiera della Tosa, Baldinuccio Aldimari, Naldo Gherardini e de’ loro consorti a Serezano, i quali ubbidirono e andaron ai confini". Ma già qualche imparzialità, giusta o ingiusta, sembra che fosse in questa condanna; posciachè era così confinato messer Corso capo di parte Nera, e non messer Vieri capo di parte Bianca. E quindi forse ciò che segue: "Quelli della parte de’ Donati non si voleano partire, mostrando che tra loro era congiura. I Rettori (sinonimo di Priori) gli voleano condannare, e se non avessono ubbidito e avessono preso l’arme, quel dì avrebbono vinta la terra; perocché i Lucchesi (Guelfi vecchi e caldi), di coscienzia del Cardinale, veniano in loro aiuto con grande esercito di uomini. Vedendo i Signori (altro sinonimo di Priori) che i Lucchesi veniano, scrissono loro, non fossono arditi a entrare in su loro terreno. E io mi trovai a scrivere le lettere. E alle villate si comandò pigliassono i passi; e per istudio di Bartolo di messere lacopo de’ Bardi tanto si procurò, che i Lucchesi ubidissono.
Molto si palesò allora la volontà del Cardinale, che la pace ch’egli cercava, era per abbassare la parte de’ Cerchi, e innalzare la parte de’ Donati. La quale volontà per molti intesa, dispiacque assai; e però si levò uno di non molto senno, il quale con uno balestro saettò uno quadrello alla finestra del vescovado dove era il Cardinale, il quale si ficcò nell’asse. E il Cardinale per paura si partì di quindi, e andò a stare Oltrarno,a casa messere Tommaso de’ Mozzi, per più sicurtà.
I Signori, per rimediare allo sdegno avea ricevuto, gli presentarono fiorini MCCC nuovi; e io glieli portai in una coppa d’ariento e dissi:Monsignore, non gli disdegnate, perché siano pochi; perché sanza i consigli pati lesi non si può dare più moneta. Rispose gli avea cari, e molto gli guardò, e non li volle.
Piace qui trovare insieme, e non pur della medesima parte ma trattanti ed operanti insieme, due uomini quali Dante e Dino Compagni : grande e fiero il primo, come ognun sa; e molto più bonario, ma non tuttavia senza una cotal dolce fortezza, il secondo. E se a due tali uomini pur aggiugniamo Guido Cavalcanti della medesima parte Bianca, e Giovan Villani, che se non ne fu, fu anche meno dei Neri contrarii, noi veggiamo così riuniti in quella parte se non i maggiori, certo i migliori uomini di Firenze: ondechè, se noi pure sentiremo qualche parzialità per quella parte, parmi che vi ci possiamo abbandonare, senza scrupolo ch’ella ci venga per soverchio amore al nostro protagonista. La parte Bianca fu la parte popolana in governo popolano, la parte della preservazione delle leggi esistenti, e cosi della legittimità o legalità; e la Nera, o dei Grandi, o di messer Corso, era quella della rivoluzione e del sovvertimento dello stato presente, in che avea fiorito parecchi anni la città. Vero è, che potea parere restaurazione di uno stato più antico; ma siffatti tentativi più o meno scusabili dove son leggi antiche e ben definite, il sono meno assai colà dove la volontà di tutti o dei più sia la sola legge costante e durevole. E tale era certo Firenze14.
Finalmente prendiamo da Leonardo Aretino la partecipazione di Dante in tutto ciò. "Essendo la città in armi e in travagli, i priori per consiglio di Dante, provvidero di fortificarsi della moltitudine del popolo; e quando furono fortificati, ne mandarono a’ confini gli uomini principali delle due sette, i quali furono questi: messer Corso Donati, messer Geri Spini, messer Gianchinotto de’Pazzi, messer Rosso della Tosa, ed altri con loro; tutti questi erano per la parte Nera, e furono mandati a’ confini al castello della Pieve in quel di Perugia. Dalla parte dei Bianchi furon mandati a’ confini a Serrazzana messer Gentile e messer Torrigiano de’ Cerchi, Guido Cavalcanti, Baschiera della Tosa, Baldinuccio Adimari, Naldo di messer Lottino Gherardini ed altri. Questo diede gravezza assai a Dante; e contuttochè esso si scusi (certo nella medesima lettera or perduta, di che riferiamo testè l’altro squarcio) come uomo senza parte, nientedimeno fu riputato che pendesse in parte Bianca; .... E accrebbe l’invidia perchè quella parte di cittadini che fu confinata a Serrazzana, subito ritornò a Firenze; e l’altra ch’era confinata a castello della Pieve, si rimase di fuori. A questo risponde Dante (certo pur nella detta lettera) che quando quelli di Serrazzana furono rivocati, esso era fuori dell’edificio del priorato, e che a lui non si debba imputare. Più dice, che la ritornata loro fu per la infirmità e morte di Guido Cavalcanti, il quale ammalò a Serrazzana per l’aere cattivo, e poco appresso morì15. Anche il Villani mostra che ambe le parti furono richiamate, benchè prima e per la ragione detta, la Bianca. "Questa parte stette meno ai confini; chè furono revocati per lo infermo luogo; et tornonne malato Guido Cavalcanti onde morìo. Et di lui fu gran dannaggio, perciocchè era, come filosofo, virtudioso huomo in molte cose, se non ch’era troppo tenero et stizzoso16". Del resto la scusa di Dante non è forse compiuta, potendo essere che egli, anche uscito di priorato, aiutasse con parzialità l’amico suo. Ma tal aiuto dato fuori d’ufficio fu ad ogni modo men colpevole; e ne l’accusin coloro a cui giovano i rigori delle condanne politiche, chè io non ardirei nemmeno riprender troppo Dante, se, come dubito, la ferita ricevuta in cuore dalla morte dell’amico lo fece anche più caldo nella parte di lui.
Ed ecco che siam così già condotti fuori del priorato bimensuale di Dante; gli eventi importanti del quale furono dunque il ricevimento del legato paciero cardinal d’Acquasparta; la dimanda di questo per aver balia onde accomunare gli uffici tra le due parti; le difficoltà fattevi dalla parte Bianca che li teneva, e la baruffa destata per impazienza d’averli dalla parte Nera; il doppio esilio de’ capi d’ambe le parti intimato da’ priori, non forse senza qualche parzialità effettiva o preparata per li Bianchi; e quindi l’obbedir de’ Bianchi e il ricalcitrar de’ Neri congiurati co’ Lucchesi e il loro obbedire stentato; e finalmente le minacce della plebaglia contro il Cardinale, la satisfazione datagliene daì priori, e a malgrado di questa il partirsi di lui scomunicando la città. Quanto segue è evidentemente posteriore al priorato.
E così prima il ritorno di Guido Cavalcanti infermo, ma che non morì se non al principio dell’anno seguente, e con esso quello d’alcuni o tutti gli altri Bianchi, e poco appresso quello di alcuni o tutti i Neri. Imperiocchè al mese di dicembre ritrovansi parecchi degli uni e degli altri a Firenze, e ritrovansi ad azzuffarsi di nuovo; il che dimostra quanto savio fosse stato il provvedimento di Dante e degli altri priori di giugno. "Advenne che del mese seguente di decembre messere Corso Donati et suoi seguaci ed quelli della casa de’ Cerchi, et loro seguaci armati a una morta da casa i Frescobaldi, sguardandosi insieme l’una parte et l’altra, si vollono assalire; onde tutta la gente, ch’era alla morta, si levarono a romore. Et così fuggendo, tornando ciascuno a casa sua, tutta la città fu ad arme, facendo l’una parte et l’altra grande ragunata a casa loro. Messere Gentile de’ Cerchi, Guido Cavalcanti, Baldinuccio et Corso delli Adimari, Baschiera dalla Tosa, et Naldo Gherardini, con loro consorti et seguaci a cavallo et a piedi, corsono a porta s. Piero, a casa messer Corso Donati, et non trovandoli ivi corsono a s. Piero maggiore, ov’era messer Corso Donati co’ suoi consorti e ragunata, dai quali furono riparati, et rincalciati, et fediti con onta et vergogna della casa de’ Cierchi e di loro seguaci: et di ciò furono condannati l’una parte et l’altra dal Comune17".
Dal trovar Guido Cavalcanti ancora a cavallo in questa baruffa si deduce che quantunque infermo non morì se non al principio del 1301. E se non m’inganno poi, la vicinanza di tal morte di Guido all’epoca del poema è accennata in esso dalle dubbiezze di Dante e Cavalcante Cavalcanti. Dante dice a Cavalcante che Guido figliuolo di lui ebbe forse Virgilio a disdegno - E Cavalcante:

Di subito drizzato gridò: come
Dicesti: egli ebbe? non viv’egli ancora?
Non fiere gli occhi suoi lo dolce lume?

Quando s’accorse d’alcuna dimora
Ch’io faceva dinanzi alla risposta,
Supin ricadde e più non parve fuora.

INF. X.


Ad ogni modo e fra tali contese e tali zuffe finiva in Firenze l’anno ultimo del secolo XIII; nè diversamente, e come dice il Villani, fortuneggiando incominciava poi il seguente.

Note

  1. Il Dionigi nella Preparazione alla nuova Ediz. di Dante, ha pur fatta tal narrazione. Vedi Tom. I, cap. IV-XV.
  2. G. Vill., p. 369, e concorda col ritratto fattone da Dino Compagni, p. 480.
  3. Parad. XVI, 65.
  4. Vedi il luogo dell’Inf. VI, messo in fronte del presente capitolo, dove non è dubbia tal denominazione della parte de’ Cerchi, e i due luoghi ivi pur posti del canto I° non avvertiti fin’ora, ch’io sappia, sotto tal rispetto; e che interpretati storicamente così, pajonmi dar nuova luce alla tanta disputata allegoria della selva.
  5. Marchionne Stefani, tomo IV (X delle Delizie degli Eruditi Toscani); p. 4. - Vill., p. 367 - Dino Comp., p. 484.
  6. Vedi il Pelli, p. 98, n.11, quelle dubbiezze.
  7. March. Stef., pag. 4.
  8. Parad. XVI,47 e 145
  9. Narrato da Dino C. che non segue ordini di tempo, onde non si può dedurre la data della narrazione. Parrebbe posteriore alla inimicizia già rotta tra’ Cerchi e Donati dal veder Guido fidarti d' esser seguito dai primi. Ma parrebbe anteriore dal veder che non fa seguito ecc. ecc.
  10. Il testo Murat. ha: chiamaval Guido Cavicchia, che certo non ha senso, che Vieri si chiamasse Guido. Una variante poi (d’un amanuense forse che voleva correggere il testo} mette Vieri invece di Guido. Ma non mi par buona nemmeno questa, che dà così al solo Vieri due soprannomi. Come leggo io, colla sola soppressione di un l resta im soprannome per uno a Vieri ed a Guido, dati loro dall’insolente messer Corso.
  11. Dino Comp. p. 481
  12. Giovan Villani p. 374
  13. Vedi Muratori annal. all’ann. 1300.
  14. Noi abbiamo quì per narratore un uomo principalissimo, che per ben tre volte partecipa al fatto narrato. Quindi già ogni altra narrazione contraria o del Villani, qualunque storico talora più diligente, e di Leonardo Aretino, quantunque storico speciale di Dante, non dovrebbe avere forza.
  15. Leon. Aret., p. 55.
  16. Vill., p. 373.
  17. Gio. Vill., p. 372, si confronti con Dino, p. 480, e March. Stef. p. 9.
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