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Ma quello ingrato popolo maligno
Che discese di Fiesole ab antico,
E tiene ancor del monte e del macigno,
Ti si farà per tuo ben far nemico:
Ed è ragion; chè tra lazzi sorbi
Si disconvien fruttare il dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
Gente avara, invida, e superba;
Da’ lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,
Che l’una parte e l’altra avranno fame
Di te, ma lungi fia dal becco l’erba.
Faccian le bestie Fiesolane strame
Di lor medesme, e non tocchin la pianta,
S’alcuna sorge ancor nel lor letame,
In cui riviva la semente santa
Di quei Roman, che vi rimaser quando
Fu fatto il nidio di malizia tanta.
................................................
Tanto vogl’io, che vi sia manifesto,
Pur che mia coscienza non mi garra,
Ch’alla Fortuna, come vuol son presto.
Non è nuova agli orecchi miei tale arra:
Però giri Fortuna la sua ruota
Come le piace, e ’l villan la sua marra.
INF. XV.
Del mese di gennaio 1301, essendo andati i Cerchi a lor possessioni in Valdisieve, e tornandone poi lungo a quelle de’ Donati, perchè non pareva a questi conveniente, che quelli passassero appiè di casa loro, nè a quelli d’aver a torcere lor via e girare un gran paese attorno a Firenze, s’azzuffarono presso alla Pieve a Remuole, ed ebbervi feriti dell’una parte e dell’altra. Per la qual cosa, secondo le leggi e i due esempi già dati, furono accusati gli uni e gli altri e condannati dal comune, della raunata e degli assalti. Dei Donati, la maggior parte per non poter pagare furono messi in prigione. I Cerchi avean di che, ma non furono lasciati pagare da alcuni di lor parte, che temeano non fosse questa un’arte degli avversari per consumarli con le paghe di siffatte condanne. Mentre dunque erano sostenuti in carcere gli uni e gli altri, avvenne il dì del Berlingaccio o giovedì di Carnovale, che mangiando i Cerchi co’ soprastanti, mangiarono d’un migliaccio di porco avvelenato, di che morirono quattro de’ Cerchi, e Pigello Portinari, e Ferrano de’ Bronci. Di ciò fu incolpato un soprastante chiamato Ser Neri Abati ch’era della parte de’ Donati; ma fosse o no, non se ne fece vendetta1. "Nella città ne fu gran rumore, perchè erano molto amati. Del quale maleficio fu molto incolpato messer Corso. Non si cercò il maleficio, però che non si potea provare, ma l’odio pur crebbe di giorno in giorno; per modo che i Cerchi gli cominciarono a lasciare alle raunate della parte (cioè della parte guelfa) e accostarsi a’ popolani e reggenti, da’ quali erano ben veduti, sì perchè erano huomini di buona condizione e umani, e sì perchè erano molto serventi, per modo che da loro aveano quello che voleano, e simile da’ rettori. E molti cittadini tirarono da loro; e fra gli altri messere Lapo Salterelli, e messere Donato Bistori Giudici, e altre potenti schiatte. I Ghibellini similmente gli amavano per la loro humanità, e perchè da loro traevano de’ servigi, e non faceano ingiurie. Il popolo minuto gli amava, perchè dispiaque loro la congiura fatta contro a Giano. Molto furono consigliati e confortati di prendere la Signoria; chè agevolmente l’avrebbon avuta per la loro bontà, ma mai non la vollono consentire2." Vedremo anche più giù fino al fine, i Bianchi aver sempre più bontà ma meno vigore, che i loro avversari. Epperciò, molto bene furono seguiti prima, ma disprezzati poi da Dante.
Un anno era oramai che durava questa contesa delle due parti, e già a parecchi di ciascuna erano state date tre condanne, la prima di confino ond’erano poi tornati, le due altre di multe e di prigioni. Stavansi i Bianchi soddisfatti di quel ritorno3, e ancora della maggior potenza che avevano nel governo. Non così i Donati quasi esclusi da esso, o meno messer Corso, il quale non che patir tale esclusione dicesi volesse fin d’allora tutta la Signoria, più per sè stesso che per la parte sua, di che non gli caleva guari più che dell’altra4. Quindi al principio di quest’anno 13015 si adunarono i capi della parte de’ Donati, messer Geri Spini, messer Porco Manieri, messer Rosso della Tosa, messer Pazino de’ Pazi, Sinibaldo di messer Simone Donati ed altri lor seguaci e ancora i capitani di parte guelfa congiurando per mandar di nuovo al Papa ed averne un nuovo paciero, ed anzi precisamente per chiamar fin d’allora Carlo di Valois fratello del Re di Francia. Il Compagni non nomina fra questi congiurati di santa Trinità messer Corso Donati; ma nominandovelo il Villani, lo Stefani, e l’Ammirato che ne riferisce anzi un lungo discorso, dobbiam pur credere che vi fosse. Più strano è trovarvi, quantunque opponente, presente pure lo stesso Dino Compagni, che del resto vedesi sempre più de’ Bianchi che de’ Neri. Forse era de’ capitani di parte guelfa; e perchè questi in generale tenevansi per favoritori de’ Neri potè essere chiamato per l’ufficio che tenea, ed andarvi egli per moderarli. Ma ei sembra aver vergogna di specificare lo scopo preciso di quel convegno, dicendo solo che era per cacciare i Cerchi, e che furono assegnate molte false ragioni. Ma aggiunge poi non pochi particolari, "Dopo lunga disputa messer Buondelmonte savio e temperato cavaliere, disse, che era troppo gran rischio, e che troppo male advenire ne potea, e che al presente non si sofferisse. E a questo consiglio concorse la maggior parte, però che messer Lapo Salterelli avea promesso a Bartolo di messer Jacopo de’ Bardi, a cui era data gran fede, le cose si acconcerebbono per buon modo; e sanza niente fare si partirono."
"Ritrovandomi in detto consiglio io Dino Compagni, desideroso d’unitàe pacie fra’ cittadini, avanti si partissono, dissi:Signori, perchè volete voi confondere, e disfare una così buona Città? Contro a chi volete pugnare? contro a’ vostri fratelli? che vettoria arete? Non altro che pianto. Risponsono:che il loro consiglio non era, che per spegnere scandalo, e stare in pacie."
"Udito questo m’accozzai con Lapo di Guaza Ulivieri, buono e leale popolano; e insieme andammo a’ priori, e conducemovi alcuni erano stati al detto consiglio; e tra i priori e loro fummo mezzani; e con parole dolci raumiliamo i signori. E messere Palmieri Altoviti, che allora era de’ signori, fortemente li riprese sanza minaccie. Fu loro risposto, che di quella raunata niente si farebbe, e che alcuni fanti, erano venuti a loro richiesta, fussono lasciati andare senza essere offesi; e così fu da’ signori priori comandato".
"La parte adversa continuamente stimolava la signoria, gli punisse, perchè aveano fatto contro a gli ordini della giustizia per lo consiglio tenuto in santa Trinità per fare congiura contra il reggimento."
"Ricercando il segreto della congiura, si trovò, che il conte di Battifolle mandava il figliuolo con suoi fedeli e con armi a petizione de’ congiurati; e trovaronsi lettere di messer Simone de’ Bardi (certo il marito vedovo di Beatrice) per le quali scrivea facessono fare gran quantità di pane, acciò che la gente, che venia, avesse da vivere; il perchè chiaramente si comprese la congiura ordinata per lo consiglio tenuto in santa Trinità, onde il Conte e ’l figliuolo, e messer Simone furono condannati in grave pena.6". Alle quali condanne è aggiunta poi quella di messer Corso dagli altri storici che l’han messo fra’ congiurati. E il vero è che trovasi poi confinato a Massa Trabaria, e, rotto il confino, a Roma; dove con gli Spini suoi partigiani, e mercatanti, cioè banchieri del Papa, continuava e spigneva sue brighe per far venire lo straniero nella patria sua, ond’era poi da questa condannato negli averi e nella persona7. E così rimasero questa volta cacciati i soli Neri e la città del tutto in potere dei Bianchi8.
Ridussero quindi i Bianchi a lor parte i Pistoiesi, che avevano fino allora serbate le due ed eletti i loro Anziani dell’una e dell’altra. Avendo testè data giurisdizione ai Fiorentini di mandarvi podestà e capitano, fuvvi ora mandato Cantino Cavalcanti, il quale essendo Bianco fece eleggere di tal parte tutti gli anziani, e così di maggio rimase Bianca Pistoia. E seguirono poi le solite cacciate, e i disfacimenti della parte contraria, sotto quello e i seguenti capitani, finchè ebbe quella infelice città a caro prezzo scontata la colpa d’aver dato nuove parti all’Italia9. Ed è predetta tal cacciata dei Neri, precedente la rivoluzione contraria di Firenze, nell’Inferno dallo scellerato Vanni Fucci:
Apri gli orecchi al mio annunzio ed odi:
Pistoia in pria di Neri si dimagra,
Poi Firenze rinnova genti e modi.
INF. XXIV.
Così è: il pericolo delle parti è tanto maggiore nè paesi più piccoli. Ne’ grandi elle si straziano e si consumano almeno da sè, e viene alfine dalla stanchezza universale la quiete; mentre all’incontro ne’ piccoli accorrono o per gli uni o per gli altri gli stranieri, i quali per qualunque parte vengano sono un male peggior d’ogni parte. E questa si può dire la storia perpetua d’Italia, e di quasi tutte le sue provincie e città; e questo già avvenuto a Pistoia, avvenne in breve a Firenze. Era Papa Bonifacio gran guelfo, e fino allora grande amico del Re di Francia Filippo il Bello; tutti e due uomini immaginosi in politica, intraprendenti, irrequieti; e già da alcun tempo trattavano insieme che venisse a Italia Carlo di Valois fratello del Re, quello che avea rinunciato al regno d’Aragona perchè il regno di Sicilia tornasse agli Angioini. Chè, non effettuatosi tal ritorno per essersi fatto gridare Re de’ Siciliani Federigo Aragonese, veniva ora Carlo di Valois per fargli contro un’impresa, e poi forse per esser fatto Imperadore dal Papa contro Alberto d’Austria, e chi sa quali altri sogni. Intanto nel venire avea a passare presso Firenze divisa, presso a Romagna disobbediente al Papa. Messer Corso promettitore come fuoruscito, gli Spini importanti come banchieri di corte, pressavano che Carlo si sviasse di poco, per fare in Toscana il paciero. Consentivano tutti gli interessi, fecesi l’accordo facilmente.
E corsane voce in Firenze ne fu grande naturalmente l’apprensione, massime de’ Bianchi i quali tenevano tutti gli uffici, e il meno che avessero a temere era di doverli accomunare se non perderli del tutto, e con essi la patria. Le voci di Firenze durante l’avvicinarsi di Carlo per Bologna e poi per Roma sono rapportate così al vivo da Dino Compagni al principio del suo bellissimo secondo libro, che pur prendendone lunghi squarci, mi duole di quanti lascio per brevità. Ma leggasi da chi n’abbia agio tutto quel secondo libro nel testo; chè una narrazione più bella per sè, e più istruttiva de’ tempi non credo si trovi. "Divisi così i cittadini di Firenze, incominciarono a infamare l’uno l’altro per le terre vicine, e in Corte di Roma a Papa Bonifazio con false informazioni; e più pericolo feciono le parole falsamente dette in Firenze, che le punte dei ferri. E tanto feciono col detto Papa, dicendo, che la città tornava in mano de’ Ghibellini, e che ella sarebbe ritegno de’ Colonnesi (nemici particolari del Papa intorno a Roma) e la gran quantità di danati mischiata con le false parole, che consigliato d’abbattere il rigoglio de’ Fiorentini promise di prestare ai Guelfi Neri la gran potenzia di Carlo di Valois de’ Reali di Francia, il quale era partito di Francia per andare in Cicilia contro Federigo di Araona. Al quale scrisse: lo volea fare paciero in Toscana contro i discordanti della Chiesa. Fu il nome di detta commissione molto buono; ma il proponimento era contrario; perchè, volea abbattere i Bianchi e innalzare i Neri, e fare i Bianchi nimici della casa di Francia e della Chiesa".
Essendo già venuto messer Carlo di Valos a Bologna, furono a lui ambasciatori de’ Neri di Firenze, usando queste parole:Signore! merzè per Dio!Noi siamo i Guelfi di Firenze, fedeli della Casa di Francia. Per Dio prendi guardia di te, e della tua gente, perchè la nostra città si re.....10".
"Partiti gli ambasciatori de’ Neri, giunsono i Bianchi, i quali con grandissima reverenzia gli feciono molte proferte, come a loro signore. Ma le maliziose parole poterono più in lui, che le vere, perchè li parve maggior segno di amistà il dire Guarda come tu vai, che le proferte. Fu consigliato, che venisse per lo cammino di Pistoia, per farlo venire in isdegno co’ Pistolesi; i quali si maravigliarono, facesse la di là, e per dubbio fornirono le porte della città con celate arme e con gente. I seminatori degli scandali li diceano:Signore, non entrare in Pistoia, perchè e’ ti prenderanno; però che egli hanno la città segretamente armata, e sono huomini di grande ardire, e nimici della casa di Francia. E tanta paura li misono, che venne fuori di Pistoia la via d’un piccolo fiumicello, mostrando contro a Pistoia mal talento. E quì s’adempiè la profezia d’un antico villano, il quale lungo tempo innanzi avea detto:Verrà di Ponente un signore su per l’Ombroncello, il quale farà gran cose; il perchè gli animali, che portano le some, per cagione della sua venuta andranno su pelle cime delle torri di Pistoia. Passò messer Carlo in Corte di Roma senza entrare in Firenze, e molto fu stimolato, e molti sospetti gli furono messi nell’animo. Il Signore non conoscea i Toscani, nè le malizie loro. Messer Muciato Franzesi, cavaliere di gran malizia, piccolo della persona ma di grande animo, conoscea bene la malizia delle parole erano dette al Signore; e perchè anche lui era corrotto, li confermava quello che pe’ seminatori degli scandali gli era detto, che ogni dì gli erano d’intorno.
"Avevano i Guelfi Bianchi ambasciadori in corte di Roma, e i Sanesi in loro compagnia; ma non erano intesi. Era tra loro alcuno nocivo uomo; fra’ quali fu messere Ubaldino Malavolti, giudice sanese, pieno di gavillazioni. Il quale ristette per cammino per addomandare certe giuridizioni d’uno castello il quale tenevano i Fiorentini, dicendo che a lui appartenea; e tanto impedì a’ compagni il cammino, che non giunsono a tempo11."
Or fra questi ambasciadori noi ritroviamo il nostro Dante. Ogni memoria concorda a mostrarci, che dal suo priorato fin allora, e così dall’autunno 1300, a questo del 1301, fu grande il credito e la potenza di lui in Firenze, e in quella che può ben dirsi Parte sua oramai, posciachè si vede ch’ei la servì, benchè con moderazione. La Parte stessa de’ Bianchi era parte moderata, di Guelfi riaccostatisi a’ Ghibellini; e durante il loro signoreggiare, non furono colpevoli di nessuno di quegli eccessi onde solevano macchiarsi le parti estreme, e onde molto in breve si macchiarono i loro contrarii. Continuavano i Bianchi, i Cerchi ad essere in tutto buona gente, molto più che i Neri e i Donati, ma molto meno destri e meno forti; e correa principalmente gran differenza tra l'Asino di Porta e il Barone Malefammi. E così è che Dante pur dannando le due Parti seguì quella men cattiva, secondo il precetto antico, che vuol ch’una pur si segua dagli uomini attivi; e la seguì quantunque egli certo la conoscesse più sciocca e fiacca che dee dirsi gran virtù in uomo così diverso. Nè tutto ciò è congettura nostra. Solenni sono le parole del Boccaccio; le quali, quantunque generali e forse anco declamatorie, mi pajono vere assai più che non quelle erroneamente precise di Leonardo Aretino, disprezzator del Boccaccio. Il quale, dunque, dopo quelle parole recate sull’entrata di Dante ne’ pubblici uffici, continua così:"In lui tutta la pubblica fede, in lui tutta la speranza, in lui sommariamente le cose divine e le umane pareano esser fermate. Ma la fortuna, nimica dei nostri consigli e volgitrice d’ogni umano stato, comechè per alquanti anni nel colmo della sua rota gloriosamente reggendo il tenesse, assai diverso fine il principio recò a lui, in lei fidandosi di soperchio. Era al tempo di costui la fiorentina cittadinanza in due parti perversissimamente divisa, e colle operazioni de’ sagacissimi ed avveduti principi di quelle, era ciascuna possente assai; intanto che alcuna volta l’una e alcuna volta l’altra reggeva, oltre al piacere della sottoposta. A voler riducere in unità il partito corpo della sua Repubblica pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio; mostrando a’ cittadini più savi, come le gran cose per la discordia in brieve tempo tornano al niente, e le picciole per la concordia crescono in infinito. Ma poichè vide vana essere la sua fatica, e conobbe gli animi degli uditori essere ostinanti (temendolo giudicio di Dio), prima propose di lasciare del tutto ogni pubblico uffizio e vivere seco privatamente; poi, dalla dolcezza della gloria tirato, e dal vano favore popolaresco, ed anche dalle persuasioni de’ maggiori; credendosi, oltre a questo, se tempo gli occorresse, molto più di bene poter operare per la sua città se nelle cose pubbliche fusse grande, che esser privato, e da quelle del tutto rimosso....; non si seppe e non si potè da quella dolcezza guardare.
Fermossi, adunque, Dante a seguire gli onori caduchi e la vana pompa de’ pubblici uffici; e veggendo che per sè medesimo non poteva una terza parte tenere, la quale giustissima la ingiustizia delle altre due abbattesse tornandole ad unità, con quella si accostò nella quale, secondo il suo giudicio, era più di ragione e di giustizia; di giustizia; operando continuamente ciò, che salutevole alla sua città patria e a’ suoi cittadini conosceva12". Vedesi in tutto ciò, che la moderazione di Dante non era nè debolezza, nè dubbiezza, nè doppiezza; e tal moderazione che non suol aver credito prima de’ pericoli, l’acquista e serba finchè durano, per perderlo poi quando son passati, ma riacquistarlo quando sieno spente le parti, appresso ai posteri. Del disprezzo poi di Dante per la propria Parte, noi vedremo molti cenni e nelle azioni di lui, e nel poema.
Ma una delle più disprezzanti parole che sieno mai state pronunciate da qualsiasi superbissimo e di sè senziente uomo, è quella famosa da lui detta al partire per la presente ambascerìa, e pure rapportata dal Boccaccio:"Molto presunse di sè, nè gli parve meno valere, secondochè li suoi contemporanei rapportano, che ei valesse. La qual cosa, tra le altre volte, apparve una notabilmente. Mentre ch’egli era con la sua setta nel colmo del reggimento della Repubblica, e conciofussecosachè per coloro li quali erano depressi fusse chiamato, mediante papa Bonifazio ottavo, a ridirizzare lo stato della nostra città un fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia, il cui nome fu Carlo; si ragunarono a un consiglio, per provvedere a questo fatto, tutti i principi della setta, con la quale esso teneva. E quivi, tra l’altre cose, provvidero che ambascerìa si dovesse mandare al Papa, il quale allora era a Roma, per la quale si inducesse il detto Papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui con concordia della detta setta la quale reggeva, far venire. E venuto a deliberare chi dovesse esser principe di cotale legazione, fu per tutti detto, che Dante fusso desso. Alla quale richiesta, Dante alquanto sopr’a sè stato, disse:Se io vo, chi rimane? e se io rimango, chi va? quasi esso solo fusse colui che tra tutti valesse, e per cui tutti gli altri valessono. Questa parola fu intesa e raccolta; ma quello che di ciò seguisse non fa al presente a proposito, e però passando avanti, il lascio stare13". E che ne seguisse, non ci è detto altrove dal Boccaccio, ma è chiaro pur troppo; pagandosi caro ne’ paesi piccoli i disprezzi, che ne’ grandi sono disprezzati.
Del resto, un’altra colpa (e non che scusabile, bella questa) s’ebbe Dante: quella d’opporsi all’intervento straniero. Della quale il vedremo accusare e condannare poi, come se egli avesse fatta tale opposizione durante il suo priorato. Ma non è probabile che allora la facesse; chè a giugno 1300 non era Carlo di Valois avviato ancora a Italia. Onde converrebbe dire, che l’idea di fare venire costui fosse stata suggerita al Papa fin da mezzo il 1300 da messer Corso, durante il suo primo esilio avuto da’ Priori di cui era Dante; che non è impossibile: o che l’accusa data poi a questo, vera in altro tempo, fosse stata trasportata al tempo di suo priorato per aggravarla; che è anche meno impossibile in tempi di parti, cioè di calunnie. Ad ogni modo, che Dante s’opponesse in qualunque tempo alla venuta di Carlo di Valois, è certo da tutti i documenti, e da quanto seguì, e poi da quanto vèdesene nel Poema. E dee restare tal colpa come il più bel fatto della vita di lui.
Ed or che sappiamo Dante dell’ambasceria a Roma e con qual animo, torniamo con interesse nuovo alla narrazione del Compagni:"Giunti li ambasciadori in Roma, il Papa gli ebbe soli in camera, e disse loro in segreto:Perchè siete voi così ostinati? umiliatevi a me; e io vi dico in verità, che io non ho altra intenzione che di vostra pace. Tornate in dietro due di voi, e abbiano la la mia benedizione, se procurano che sia ubbidita la mia volontà.
In questo stante, furono in Firenze eletti i nuovi Signori, quasi di concordia d’amendue le parti, uomini non sospetti e buoni; di cui il popolo minuto prese grande speranza, e così la parte Bianca, perchè furono uomini uniti e sanza baldanza, e aveano volontà d’accomunare gli uffici, dicendo: Questo è l’ultimo rimedio.
I loro adversari n’ebbono speranza, perchè gli conosceano uomini deboli e pacifici, i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente potergli ingannare.
I Signori furono questi, che entrarono a dì 15 d’ottobre 1304. Lapo del Pace Angiolieri, Lippo di Falco di Cambio, e io Dino Compagni, Girolamo di Salvi del Chiaro, Guccio Marignolli, Vermiglio di Iacopini Alfani, e Piero Brandani gonfaloniere di giustizia. I quali, come furono tratti, n’andarono a Santa Croce, però che l’uficio degli altri non era compiuto. I Guelfi Neri incontanente furono accordati andargli a vicitare a quattro e a sei insieme, come loro accadeva, e diceano:Signori, voi siete buoni uomini, e di tali avea bisogno la nostra Città. Voi vedete la discordia de’ cittadini vostri. A voi la conviene pacificare, o la Città perirà. Voi siete quelli che avete la balia, e noi a ciò fare vi proferiamo l’avere e le persone di buono e leale animo. Risposi io Dino, per commessione dei miei compagni, e dissi:Cari e fedeli cittadini, le vostre profferte noi riceviamo volentieri; e cominciare vogliamo a usarle, e richieggiamvi che voi ci consigliate, e pognate l’animo a guisa, che la nostra Città debba posare. E così perdemo il primo tempo, che non ardimo a chiudere le porte, nè a cessare l’udienza a’ cittadini; benchè di così false profferte dubitavamo, credendo che la loro malizia coprissono con loro falso parlare.
Demo loro intendimento di trattar pace, quando si convenìa arrotare i ferri; e cominciamoci da’ Capitani della parte guelfa, i quali messer Manetto Scali e messer Neri Giandonati, e dicemo loro:Onorevoli capitani, dimettete e lasciate tutte l’altre cose, e solo vi operate di far pace nelle parti della Chiesa, e l’uficio nostro vi si dà interamente in ciò che domanderete.
Partironsi i Capitani molto allegri e di buono animo, e cominciarono a convertire gli uomini, e dire parole di piatà14". Ma tra i Neri che avevano oramai da sperare tutto dal tempo, e i Bianchi che pensavano poter sempre alla peggio terminare tutto con accomunare gli uffici, non fecesi nulla; nè pace nè guerra, nè altro che aspettare.
"E così ordinarono e procurarono i Guelfi Neri che messer Carlo di Valois, che era in corte, venisse in Firenze; e fecesi il diposito pel soldo suo e de’ suoi cavalieri, di fiorini settanta mila, e condussonlo a Siena. E quando fu quivi, mandò ambasciadori a Firenze messer Guglielmo Francioso cherico, uomo disleale e cattivo, quantunque in apparenza paresse buono e benigno, e uno cavaliere provenzale che era il contrario, con lettere del loro Signore.
Giunti in Firenze, visitarono la Signoria con gran riverenzia, e domandarono a parlare al gran consiglio; che fu loro concesso. Nel quale per loro parlò uno advocato di Volterra, che con loro aveano, uomo falso e poco savio; e assai disortinatamente parlò, e disse:che il sangue reale di Francia era venuto in Toscana solamente per metter pace nella parte di Santa Chiesa, e per grande amore che alla Città portava e a detta parte; e che il Papa il mandava siccome Signore, che se ne potea ben fidare; perocchè il sangue della Casa di Francia mai non tradì nè amico nè nemico. Il perchè dovesse loro piacere venisse a fare il suo uficio.
Molti dicitori si levarono in piè, affocati per dire e magnificare messer Carlo; e andarono alla ringhiera tosto, ciascuno per essere il primo. Ma i Signori niuno lasciarono parlare. Ma tanti furono, che gli ambasciadori s’avidono, che la Parte che volea messer Carlo era maggiore e più baldanzosa, che quella che non lo volea; e al loro Signore scrissono, che aveano inteso che la parte de’ Donati era assai innalzata, e la parte de’ Cerchi era assai abbassata.
I Signori dissono agli imbasciadori,risponderebbono al loro Signore per ambasciata. E intanto, preson loro consiglio, perchè essendo la novità grande, niente voleano fare sanza il consentimento de’ loro cittadini.
Richiesono, adunque, il Consiglio Generale della parte guelfa, e delli settantadue mestieri d’Arti, i quali aveano tutti Consoli, e imposono loro: che ciascuno consigliasse per scrittura, se alla sua Arte piacea, se messer Carlo di Valos fusse lasciato venire in Firenze con piacere. Tutti risposono a voce e per scrittura, fusse lasciato venire, e onorato fusse come Signore di nobile sangue; Salvo i Fornai, che dissono, che nè ricevuto nè onorato fusse, perchè venìa per distruggere la Città.
Mandaronsi gli ambasciatori, e furon gran cittadini di popolo dicendogli, che potea liberamente venire, commettendo loro, che da lui ricevessono lettere bollate, che non acquisterebbe contro a noi niuna giuridizione, nè occuperebbe niuno honore della città, nè per titolo d’imperio15nè per altra cagione, nè le leggi della città muterebbe nè l’uso. Il dicitore fu messer Donato d’Alberto Ristori, con più altri giudici in compagnia. Fu pregato il cancelliere suo, che pregasse il signore suo, che non venisse il dì d’Ognissanti, però che il popolo minuto in tal dì facea festa con i vini nuovi, e assai scandali potrebbono incorrere, i quali, con la malizia de’ rei cittadini, potrebbono turbare la Città. Il perchè deliberò venire la domenica seguente, stimando che per bene si facesse lo indugio.
Andarono gli imbasciadori più per avere la lettera innanzi la sua venuta, che per altra cagione, avvisati, che se avere non si potesse, come promesso aveva, prendessono riafidanza (cioè nuove istruzioni) e a Poggibonzi gli negassono il passo. Il quale era ordinato d’afforzare per salvezza della Terra. E commissione n’ebbe di vietargli la vivanda messer Bernardo de’ Rossi, che era vicario in questo tempo.
La lettera venne e io la vidi, e feci copiare, e tennila fino alla venuta del signore; e quando fu venuto, io lo domandai, se di sua volontà era scritta. Rispose:Sì, certamente.
Quelli che ’l conduceano, s’affrettarono; e di Siena il trassono quasi per forza, e donarongli fiorini diciassette mila per avacciarlo, però che lui temea forte la furia de’ Toscani, e veniva con gran riguardo. I conducitori lo confortavano, e la sua gente; e diceano:Signore, e’ sono vinti; e domandano indugio di tua venuta per alcuna malizia, e fanno congiure; e altre sospinte gli davano: ma congiura alcuna non si faceva.
Stando le cose in questi termini, a me Dino venne un santo e onesto pensiero, immaginando:Questo signore verrà, e tutti i cittadini troverà divisi; di che grande scandalo ne seguirà. Pensai, per lo uficio ch’io tenea, e per la buona volontà che io sentia ne’ miei compagni, di raunare molti e buoni cittadini nella chiesa di San Giovanni; e così feci. Dove furono tutti gli ufici, e quando mi parve tempo, dissi:Cari e valenti cittadini, i quali comunemente tutti prendeste il sacro baptesimo di questo fonte, la ragione vi sforza, e stringe ad amarvi come cari fratelli, e ancora perchè possedete la più nobile città del mondo. Tra voi è nato alcuno sdegno per gara d’ufici; gli quali come voi sapete, i miei compagni e io con sagramento v’abbiamo promesso d’accomunargli. Questo signore viene, e conviensi onorare. Levate via i vostri sdegni, e fate pace tra voi, acciò che non vi trovi divisi. Levate tutte le offese e ree volontà, state tra voi di quì addietro; siano perdonate e dimesse, per amore e bene della vostra Città; e sopra questo sacrato fonte, onde traeste il santo battesimo, giurate tra voi buona e perfetta pace, acciò che il signore che viene, truovi i cittadini tutti uniti. A queste parole tutti s’accordarono, e così feciono, toccando il libro corporalmente, e giurarono attenere buona pace, e di conservare gli onori e giurisdizion della città. E così fatto, ci partimmo di quel luogo.
I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano lagrime e baciavano il libro, e mostrarono più acceso animo, furono i principali alla distruzion della Città: de’ quali non dirò il nome per honestà, ma non posso tacere il nome del primo che fu cagion di fare seguitare a gli altri; il quale fu il Rosso dello Strozza, furioso nella vista e nell’opere, principio degli altri, il quale poco poi portò il peso del sacramento.
Quelli che haveano mal talento, dicevano, che la caritatevole pace era trovata per inganno. Ma se nelle parole ebbe alcuna fraude, io non debbo patire le pene, benchè di buona intenzione ingiurioso merito non si debba ricevere. Di quel sacramento molte lacrime ho sparte, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia16".
Ai quali particolari resta solamente ad aggiungere, che Carlo venne in Italia con parecchi conti e baroni, ma con soli 500 cavalieri francesi, a cui s’aggiunsero bensì molti fuorusciti Guelfi e Neri di Romagna e Toscana; che ricevette dal Papa il titolo di conte di Romagna e paciero di Toscana; e che, abboccatosi con Carlo re di Puglia, avea fermata l’impresa di Sicilia per la primavera vegnente, finiti che fossero nell’autunno e l’inverno quegli affari di Toscana. Tutto ciò era poco bello o grande perun signore di quel sangue reale di Francia, di che, in mancanza di forze effettive, si parlava tanto. Ondechè si vede, se avesse ragione Dante poi di chiamare piaggiatore questo straniero.
Del resto, tutta la situazione di lui in quest’anno, da noi tentata spiegare, è da lui altamente descritta in quella sublime poesia che abbiamo posta sopra, e che speriamo resti quindi più chiara a qualunque leggitore.
Note
- ↑ March. Stef. p. 9. - Villani, p. 372 - Dino Comp. p. 450.
- ↑ Dino Comp., p. 480.
- ↑ Dino Comp., p. 483.
- ↑ Vedio le storie dell’Ammirato.
- ↑ Questa della congiura di s. Trinità è la sola data che non si possa fissare precisamente. Io prenderei a seguir anche quì Marchionne Stefani che la mette a gennaio (p.44); ma l’Ammirato (p.211) la pone nel gonfalonierato di Chiarissimo Buonapace che fu da mezzo febbraio a mezzo aprile (March. Stef. p. 15). Dino Comp. (p. 484) sembra porla durante il priorato di Palmieri Aldovisi che fu da mezzo aprile a mezzo giugno (March. Stef. p. 16). Probabilmente la congiura fu a gennaio, e l’altre due date sono non di essa ma degli eventi che ne seguirono. Del resto non importa alla storia di Dante. Veggano i diligenti eruditi Fiorentini, se ciò importi abbastanza alla loro storia per curarne.
- ↑ Dino Comp., pp. 483, 484.
- ↑ March. Stef. p. 44; Vill. p. 373; Ammir. pp. 208 - 212; Dino Comp. p. 481
- ↑ La seconda parte di questa frase è tratta da tutti gli storici. Alla prima contraddicono in apparenza, Villani, Stefani, e Ammirato mettendo dopo la congiura di s. Trinità non questo, ma il primo e doppio esilio delle due parti. Ma ciò vedemmo per testimonio irrecusabile di Dino esser avvenuto durante il viaggio del Cardinale nel priorato di Dante a giugno - agosto 1300. E che non sia succeduto di nuovo lo provano: 1° La narrazione contraria di Dino, di nuovo testimone oculare anzi partecipe. 2° Il parlarsi da tutti di un esilio di messer Corso a Massa Trabaria diverso da quel primo di Castel della Pieve. 3° L’accordarsi appunto tutti in dir Firenze in mano de’ Bianchi d’allora in poi fino a novembre. 4° E finalmente l’accordarsi pure a ciò i citati versi di Dante
...e la parte selvaggia caccerà l’altra con molta offensione.
- ↑ Vill. p. 374; Dino p. 484
- ↑ Manca nell’originale la fine (Nota del testo Muratoriano.)
- ↑ Dino Comp., pp. 487, 488.
- ↑ Bocc., Vita di Dante, pp. 30-32.
- ↑ Bocc., Vita di Dante, pp. 78, 79.
- ↑ Dino Comp., pp. 488, 489.
- ↑ Osservisi quì non solo la costante gelosia di questi Comuni diventati repubbliche, ma quella speciali ed antica de’ diritti d’imperio. Carlo di Valois non avea propriamente che far coll’imperio; ma que’ repubblicani erano avvezzi a udir invocare tal nome a torto, come a diritto; e poi sempre temeano che chicchessia, anche lontanissimo dalla dignità imperiale, vi potesse giugnere da un momento all’altro. E forse ciò temeano allora particolarmente di Carlo.
- ↑ Dino Comp., pp. 489, 490, 491.