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Siate, cristiani, a muovervi più gravi,
Non siate come penna ad ogni vento
E non crediate ch'ogni acqua vi lavi
Avete il vecchio e il novo testamento,
E il Pastor della chiesa che vi guida;
Questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro vi grida,
Uomini siate e non pecore matte,
Sì che il giudeo tra voi di voi non rida;
Non fate come agnel che lascia il latte
Della sua madre, e semplice e lascivo
Seco medesmo a suo piacer combatte.
Così Beatrice a me, com'io lo scrivo.
Ma intanto che dimorava Dante là presso agli Scaligeri, uno scandalo grave all’Italia, a tutto il mondo cristiano, era succeduto; la morte di Bonifazio VIII. Con questo, Dante aveva più volte trattato da amico, ottenendone tutto ciò che aveva chiesto; da questo poscia era stato o abbandonato od anche perseguitato; e contro questo più che contro nessuno ei rivolse poi da nemico or vendicativo or generoso l’ira sua, ira ghibellina oramai e così estesa a non pochi altri predecessori e successori di lui. Perchè poi tale ira è non solo punto principalissimo della vita e del poema di Dante, ma per il gran credito di lui fu ed è invocata da molti, che non tengon conto di ciò che vi potè essere di giusto e d’ingiusto, nè delle circostanze e differenze de’ secoli, forza è pure che ci mettiamo a nostra possa a discernere tutto ciò, e ad accennare che fosse la potenza papale in quel tempo, chi e quali fossero i papi mentovati da Dante.
La potenza temporale dei papi, se per essa si intenda la loro ricchezza, incomincia senza dubbio da Costantino e da’ primi imperadori cristiani del IV secolo; se il credito, l’influenza politica nella città di Roma e in Italia, ella incomincia colle prime invasioni barbare nel V secolo, e viene estendendosi per opera di Gregorio Magno e de’ successori fino a tutto il VII secolo; se s’intenda la potenza governativa su Roma e parecchie altre città dell’Esarcato, ella incomincia prima del 730, quando queste si sollevarono, si confederarono, si liberarono sotto ai Papi Gregorio II e Gregorio III contro agl’imperadori Iconoclasti di Costantinopoli (liberazione poco avvertita finora, la quale precedette d’oltre a tre secoli quella delle città lombarde pur fatta poi sotto la protezione de’ papi); se finalmente s’intenda quella potenza che equilibrò, moderò ed impedì di compiersi la monarchia universale degl’imperadori franchi e tedeschi, ella incomincia dal quel dì del Natale dell’anno 800 quando il papa ed il popolo romano restaurarono l’imperio occidentale e gridarono ad esso Carlo Magno. Da quel dì nacque una singolare una singolare complicazione di potenze e dipendenze tra papi e imperatori; una complicazione non ben definita allora nè poi, fonte di beni e di mali per molti secoli, fonte di grandi errori in molte storie anche presenti. Il quel dì il papa e il popolo romano appoggiandosi non solo a quell’elezione presente, ma ancora alla natura antica ed al nome dell’imperadore romano tennersi per elettori e incoronatori di esso. Ma viceversa, da quel dì l’imperadore (che prima come patrizio era già principale) fu principe del popolo di Roma; e così, come patrizio, come principe, come parte in somma di esso, si tenne poi partecipe e confermatore dell’elezione del papa; pretensione, a dir vero, anche degli imperadori Bizantini, ma meno esercitata fin allora per la lontananza ed impotenza di quelli. Quindi l’imperio romano, quella gran monarchia universale di tutto il medio evo, ebbe come due capi, due contrappesi, due potenze dipendenti l’un dall’altra nell’elezione; e caduta appena la possente mano fondatrice di quell’edifizio, e venuto al forte Carlomagno un debole successore, subito incominciarono quelle parti di Chiesa e Imperio, che durarono quasi sempre poi, e non mutarono se non il nome quando quattro secoli dopo elle si chiamarono Guelfa e Ghibellina. Sono ora da gran tempo e felicemente spenti siffatti nomi, e sarebbe certo quanto così sciocca intenzione quella di risuscitarli nella pratica; ma nella storia impossibile è non ricordarli ognuno secondo la propria opinione, e chiunque scriva di questi tempi sarà detto Guelfo più da più Ghibellini di lui, Ghibellino dai più Guelfi, e se sta in mezzo, or Guelfo or Ghibellino dagli uni e dagli altri. Non tanto poi per andare incontro a tali accuse, quanto affinchè chi mi legge giudichi facilmente dei miei giudizi, io fin di qua mi confesserò Guelfo fino a questo segno: che credo quel contrappeso della potenza papale essere stato sommo benefizio della divina provvidenza ad impedire tra i varianti disordini del medio evo il rinnovamento della tirannia dell’antico imperio romano; o se si voglia natural conseguenza del cristianesimo che rendeva impossibile oramai tal tirannia, necessario, felicemente inevitabile quel contrappeso. Compiuto il fatto del cristianesimo, il rappresentante de’ principii di esso, il centro, il capo di esso non poteva non propugnare que’ principii, non farsene arma a combattere i principii contrari, qualunque volta paressero prevalere; non poteva anzi non prevalere esso, come a poco a poco prevalse nell’opera sua principale. Per l’Italia poi in particolare, credo che da tal potenza del papa più specialmente italiana, sia venuta per opera principalmente di quella gran triade dei Gregorio VII, Alessandro III ed Innocenzo III la liberazione dei comuni; e quindi quella lingua, quelle arti, quella civiltà ch’ella ebbe il bene di godere la prima, e la gloria di dar poi alle altre nazioni cristiane. Che i papi abbiano così impedito, non che l’Italia, come dice Machiavelli, ma pur la Germania, di riunirsi in un gran regno, io lo credo facilmente: ma credo che fu un gran bene per l’Italia in tutti questi secoli, quando il re di quel regno sarebbe stato un imperatore straniero. Ad avere un vero regno nazionale, ben altro impedimento furono gl’imperatori, che non i papi. E in tutto, ne’ primi veggio e venero uno stromento provvidenziale ad unir forse le nazioni cristiane; ma all’Italia in particolare, non veggo che siane venuto niun bene mai: ondechè ridirò, che in ciò ell’era destinata a soffrire per tutti. Ma nello spettacolo della succesione dei papi, tutto in me è graditudine a quella Provvidenza che li destava a benefizio universale della Cristianità; ma più speciale, più precoce, più glorioso all’Italia, primogenita della civiltà non per altro, se non per essere stata albergo e sedia dei propugnatori e fondatori principalissimi di essa.
Ma i papi furono uomini e non angeli: l’opera di tutti insieme è immortalmente meravigliosa; le opere politiche di ognuno, furono, come di uomini, le une buone, altre cattive, altre buone per un rispetto e cattive per l’altro. Tra il fine del secolo IX, tutto il X e il principio dell’XI, essendo l’età in che l’elezione del papa fu più soggetta agl’imperatori, e così più dipendente dalle parti, ella fu pur l’età dei papi peggiori, e quindi in tutta la Cristianità dei peggiori ecclesiastici. Ma alla metà dell’XI secolo, se ne scandalizzò la Chiesa, se ne scandalizzarono i buoni ecclesiastici. Ne restano irrefragabili documenti gli scritti di San Pier Damiano; gli scritti, e più le opere di Gregorio VII: due Santi diversi, il primo de’ quali si ritrasse finalmente a piangere e pregare nella solitudine, il secondo a pregare e combattere e vincere nell’universo mondo contro la simonìa dell’elezione papale e delle altre, e contro la corruzione ecclesiastica. Quindi, all’incontro, e ad un tratto (che mostra la grande influenza personale di quel sommo uomo), segue per due secoli l’età dei maggiori papi che sieno mai stati. Ma attendasi bene, la loro stessa grandezza come pontefici, l’occuparsi negli affari maggiori della Cristianità, nocque talvolta alla loro qualità di principi italiani, di capi di parte guelfa: chè, per quanto sieno stati vituperati da’ Ghibellini antichi e nuovi per la loro resistenza contro agli imperadori, essi (pur troppo!) non resistettero abbastanza, non resistettero a segno di ripuadiar del tutto la potenza straniera, di liberar francamente, compiutamente e definitivamente la Nazione, e di riunirla in confederazione perenne. Aveano allora i papi tre gran pensieri, dati loro dalla natural situazione. Primo, l’unione spirituale della Cristianità, che traeva seco la civiltà; secondo, l’unione temporale di tutti gli Stati cristiani per rinnovar le Crociate; terzo, solamente gli affari d’Italia. E quanto più erano buoni i papi e di animo adeguato al loro alto ufficio, tanto più seguirono tal ordine d’importanza dei tre pensieri: di che, se noi come Italiani ci potremmo lagnare, noi come cristiani nol dobbiamo, nè il possono poi di niuna maniera gli stranieri. Ad ogni modo, alla metà del secolo XIII, quando incomincia l’assunto nostro, portando essi papi, come gli altri italiani, la pena di quell’errore comune di non aver compiuta la loro indipendenza, già erano caduti, quasi stanchi da quella gran potenza propugnata dai tre sommi, ad una potenza minore, simile all’altre italiane, precaria, dipendente dalle Parti della Penisola, della provincia, della città loro. Innocenzo IV, che regnò dal 1243 al 1254 fu, ovvero l’ultimo di quei grandi, o il primo di quei minori.
Uno di questi fu poi Niccolò III, che regnò durante l’adolescenza guelfa di Dante, dal 1277 al 1288. Era di casa Orsini, una delle più potenti in Roma ed all’intorno; e favorì i parenti in tal modo, che potrebbesi dire l’inventor di quel vizio del nepotismo, che durò più secoli, e fu santamente abolito ai dì nostri da tal Papa che egli pure parrà grande ai dì venturi. Del resto, papa Orsini diè cenno nel breve papato di animo alto e virtuoso, restaurando la potenza papale in Romagna per negoziati coll’imperator Ridolfo; e in Roma con tòrre la dignità di senatore a Carlo d’Angiò, che tiranneggiava colà sotto quel titolo, come sotto altri altrove. Ma appunto questo volgersi di Niccolò contra Carlo, era contra agl’interessi guelfi, e così contro alle impressioni giovanili e guelfe di Dante; le quali si ritrovano nella Commedia, quantinque pubblicata da Dante ghibellino. Già notammo tal contraddizione nella storia d’Ugolino: e credo che bene studiando la Commedia, si vedrebbe che, in generale, di tutte le persone ivi nomate, quelle che finirono prima del 1302, epoca dell’esilio e della mutazione di Parte di Dante, vi sono giudicate con animo guelfo; tutte quelle che finirono più tardi, vi sono giudicate con animo ghibellino, eccettuatene pochissime per gratitudine. Ad ogni modo, Niccolò III vi è severissimamente giudicato; e per quel vizio del nepotismo è posto in inferno tra i simoniaci; un genere di peccatori particolarmente odiato e vituperato in que’ secoli, dopo l’immortal guerra lor mossa da Gregorio VII. Pone Dante costoro fitti in terra capovolti, le sole gambe sporgenti ed infuocate; ed interrogandone Virgilio:
Chi è colui, maestro, che si cruccia
Guizzando più che gli altri suoi consorti,
Diss’io, e cui più rossa fiamma succia?
poscia, appressatosi, interroga Niccolò stesso, e ne ha tal risposta che ne restano vituperati insieme Bonifazio e Clemente V, e i papi in generale come capi guelfi. Ma notisi, come fin di qua, alla prima occasione in che Dante morde i papi, ei s’affretti a protestare della sua reverenza alla lor sede:
O qual che se’ ’l di su tien di sotto,
Anima trista come pal commessa
Cominciai io a dir, se puoi, fa motto.
Io stava, come il frate che confessa
Lo perfido assassin, che poi ch’è fitto
Richiama lui perchè la morte cessa.1
Ed ei gridò2: sè tu già costì ritto,
Sè tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto:
Sè tu sì tosto di quello aver sazio
Per lo qual non temesti torre a inganno
La bella donna3, e di poi farne strazio?
Tal mi fec’io quai son color che stanno,
Per non intender ciò ch’è lor risposto,
Quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: dilli tosto,
Non son colui, non son colui che credi;
Ed io risposi, come a me fu imposto.
Perchè lo spirto tutto storse i piedi:
Poi sospirando e con voce di pianto,
Mi disse: dunque, che a me richiedi?
Se di saper ch’io sia ti cal cotanto,
Che tu abbi però la ripa scorsa,
Sappi ch’io fui vestito del gran manto.
E veramente fui figliuol dell’Orsa,
Cupido sì per avanzar gli Orsatti,
Che su l’avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son gli altri tratti,
Che precedetter me simoneggiando,
per la fessura della pietra piatti.
Laggiù cascherò io altresì, quando
Verrà colui ch’io credea che tu fossi
Allor ch’io feci il subito dimando.
Ma più è il tempo già, che i piè mi cossi
E ch’io sono stato così sottosopra,
Ch’ei non starà pianta coi piè rossi4.
Che dopo di lui verrà di più laid’opra
Di ver’ ponente un pastor senza legge,
Tal che convien che lui e me ricopra.
Nuovo Iason sarà, di cui si legge
Nè Maccabei; e come a quel fu molle
Suo re, così fia a lui chi Francia regge.
- ↑ Allusione ad uno de’ barbari supplizi di quella dura età.
- ↑ Niccolò crede, che Dante sia Bonifazio VIII che venga a succedergli nella buca, secondo la legge di quel supplizio accennata ne’ versi 73-78.
- ↑ La Chiesa, come in altre allegorie del poema.
- ↑ Perchè il papato di Bonifazio che fece aspettar Niccolò, fu più lungo di quello di Clemente V che fece aspettar Bonifazio.