< Vita di Dante < Libro II
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Capo Primo - Dante co' fuorusciti e presso Uguccione della Faggiola. Scarpetta degli Ordelaffi. Gli Scaligeri.
Libro I - Capitolo XIII Libro II - Capitolo II


Con l'animo che vince ogni battaglia.
INF. XXIV.


L’Italia è ab antico la terra degli esilii. Così grandi e così frequenti non trovansi in nessun’altra storia, se non forse in quella della Grecia antica; sia che venga tal somiglianza di lor sorti dalla somiglianza di lor libertà e lor parti, ovvero dalla simil bellezza, che fa quelle due patrie tanto più care a chi vi nacque, tanto più gelosamente tenute da chi le possiede, tanto più amaramente desiderate da chi le perde, ondechè il perderle fu sempre dato e sofferto poco meno che come pena mortale. Ma la Grecia prontamente serva ebbe pochi secoli di questo, come d’ogni altro politico sperimento. L’Italia più lungamente libera o lottante, n’ha ventiquattro oramai, dai quali si potrebbe trarre una storia compiuta di ogni sorta d’esilii, una serie intiera d’esempi ed ammaestramenti a sopportarli. Abbiamo antichissimamente i Tarquinii cacciati per libidinosa tirannia e sforzantisi di rientrare collo straniero; poi Coriolano virtuosamente uscito, ed egli pure empiamente tornante, ma rattenuto da privata pietà; poi il sublimo esilio, il sublime ritorno di Camillo, capo dei fuorusciti contro lo straniero, salvator della patria, creatore della grandezza di lei in Italia, e detto così dai Romani secondo fondatore di Roma. Abbiamo quindi fino al fine delle repubblica quasi tanti esilii quanti uomini grandi, invidiati gli uni dalla plebe, gli altri da’ patrizi, e fra gli ultimi Cicerone; e finalmente agli inizi dell’impero gli esilii per brighe ed invidie di palazzo, d’un Ovidio, un Tiberio, un Germanico. Cessata ogni libertà, ogni lotta, cessan gli esilii; parendo a que’ tiranni la morte, se non più crudele, almen più pronto ed irrevocable supplizio. Durante la barbarie, non essendo preferibile niuna terra, non si potrebbe dir esilio il vagar di tutti quà e là. Ma risorgendo la civiltà e la patria fra le parti in Italia, risorse insieme quella loro conseguenza naturale degli esilii; con tanta furia, che potrebbero quasi cercarsi in ogni città quasi primo segno di lor libertà, che quanto fu ognuna più potente ed illustre tanto più grandi uomini fornì alla storia degli esilii; e che a tale storia a tal politica trovasi ridotta quasi tutta la storia la politica italiana per quattro secoli e più, sforzandosi ogni prepotente di esiliare i più deboli, gli esiliati poi di ripatriare per farsi essi esiliatori. Quindi tra tanto moto, tante passioni, e diciam pure tanta perversità, meritano compatimento gli errori frequenti di parecchi esiliati; ma meritano tanta più lode le rare e difficili virtù dell’esilio, la fedeltà alla patria, la costanza, la moderazione, i perdoni. Nè mancano di queste alcuni solenni esempi; essendo immancabile quella legge della divina Provvidenza, che le età afflitte da’ grandi vizi sieno pur consolate dalle grandi virtù. Abbiamo di què tempi un Alessandro III dentro e fuori d’Italia, per esservi messo a capo della nazional resistenza contro le riusurpazioni di Federigo I; un Giovanni da Procida recante oltre ogni monte ed ogni mare a tutte le corti d’Europa la fedeltà a’ suoi principi; i disegni preoccupati poi dalla sollevazione popolare; un Farinata degli Uberti felice imitator di Camillo nel difender l’esistenza della propria città; e più vicino a noi, un Cosimo de’ Medici quasi più magnifico nell’esilio, che non il figliuolo nel principato. I quali tutti e parecchi altri esilii sarebbero degni soggetti di storie generali o speciali.
Fra tanti grandi esiliati Dante fu forse superiore a tutti per l’animo inconcusso, per l’attività non che diminuita ma più che mai esaltata, per l’ingegno trovante nuove vie, per l’interno vigore con che vinse l’esterna fortuna, e s’alzò a tale altezza a che non sarebbe probabilmente giunto senza la sventura. Parvemi Dante in patria, lodevole, irreprensibile cittadino, e così il dissi. Grande ma non irreprensibile esule ora mi pare, e così dirollo. Non furono è vero i peccati di lui volgari e vili, non l’esagerazione in parte vincitrice e persecutrice, non il mutar dalla vinta alla vincitrice, o l’avvilirsi dinanzi a questa di niuna maniera; ma, error contrario e più pericoloso per le forti nature, l’esagerarsi nella resistenza a’ vincitori, nella fratellanza ai vinti; ondechè egli già Guelfo moderatissimo, BIanco moderato in patria, cacciato che fu per sospetto di Ghibellinismo, si fece per superbia ed ira Ghibellino. Il gran peccato di Dante fu l’ira; l’ira, che pur represse come vedremo nelle azioni, ma ch’egli sfogò in parole non che perdonategli, ma ammirate anche troppo dai posteri. "Nei nostri giorni tengono alcuni, che i giudizi di Dante abbiansi a considerare come la giustizia stessa di Dio, e che il poeta gli avesse pronunziati scevro affatto da ogni passione. Con questo prendono ad esaltare l’Alighieri; lode superstiziosa e piena di pericolo, dalla quale non havvi che un solo passo all’irriverenza1". Se Dante si fosse lasciato dormire in pace, in quella misteriosa oscurità in che s’avvolse, o in quella nebbia in cui il ritrassero gli antichi, io non mi sarei forse inoltrato tanto in questa fatica. Ma gli errori dei grandi sono quelli appunto che si vogliono segnalare, quando la turba dei piccoli prende a lodarneli per imitarveli. Non temiamo quindi di esercitar sopra lui, severo giudice di tanti quel severo ufficio della storia, che non incombe a nessuno, ma assunto porta obbligo di piena verità. Chè ad ogni modo, tolta questa utilità dell’esercitare il giudicio sulle azioni compiute a pro delle attuali o future, io non so veramente a chi si scriverebbero o leggerebbero storie. Nelle quali tutte, è questa parte penosa de’ biasimi; ed è gran ventura quando non supera la piacevole delle lodi. Delle vite poi in particolare, per iscriverne senza biasimi, ei si vorrebbe poter iscrivere quelle degli angeli; o almeno di lacuna di quelle creature che vissero quaggiù come angeli, pure, umili, in sè raccolte e per lo più ignote, e brevemente. Tal forse fu la vita di Beatrice; non fu nè poteva essere quella di Dante; e tanto meno dopo lei perduta.
Del resto, un’altra difficoltà incontreranno i leggitori in questa seconda parte, la incertezza de’ viaggi di Dante. Le antiche età non erano vaghe di particolari biografici, come è la nostra. Il Villani e il Boccaccio soli contemporanei dissero poche parole di que’ viaggi; un secolo dopo Leonardo Aretino, e per quanto io sappia il Filelfo non v’aggiunsero guari; e non fu se non alla nostra età che il Pelli ne raccolse le memorie e che l’autor del Veltro le ordinò e le estese. Seguendo i quali o scartandocene secondo i nuovi studi fattine, molto pure rimarrà non dichiarato. Ma anche questo delle dubbiezze, è un inconveniente di tutte le storie scritte con sincerità; e si confortino poi i leggitori al pensiero, che nella vita come nel poema di Dante, le cose più belle sono sempre le meno oscure.
Se Dante partisse di Roma dopo avuta la prima condanna di multa e sbandita del 27 gennaio, o solamente dopo la conferma con aggiunta di morte e fuoco del 10 marzo 1302, non è chiaro2. Ad ogni modo ei venne a Siena e poco dopo ad Arezzo3; chè a Siena ed Arezzo venivano raccogliendosi gli usciti di Firenze4. Ma Siena era Guelfa; i Bianchi, che prima della cacciata chiamavan sè stessi Guelfi, ma fin d’allora erano sospetti di Ghibellinismo, ora poi cacciati di Firenze, erano ivi più che mai detti Ghibellini e trattati per tali; ed essi stessi colle loro relazioni con gli antichi fuorusciti Ghibellini, davano corpo a quell’accusa. Bello è lo sdegno del buon Dino Compagni, Guelfo rimasto in città, contra quest’accusa di Ghibellinismo estesa ad ogni cacciato: "E parlò bene un savio huomo Guelfissimo, vedendo fare Ghibellini per forza, il quale fu il Corazza Ubaldini da Signa, che disse: E’ sono tanti gli uomini che sono Ghibellini, e che vogliono essere, che il farne più per forza non è bene5. Ma continuarono a farsi per forza; e in breve Ghibellini e Bianchi furono tutt’uno nelle persecuzioni altrui, e pur troppo sovente nelle proprie azioni. Dante come gli altri, cacciato oramai dalla sua, dall’altre città Guelfe, ammesso nelle Ghibelline, consigliante, guerreggiante co’ fuorusciti Bianchi e Ghibellini frammisti, Dante tenuto così d’ogni maniera per Ghibellino, s’accostò certo fin d’allora a’ Ghibellini, diventò poi a poco a poco più e più Ghibellino, e mutò parte. Vedremo più giù fino a che segno, con quali intenzioni, con quali scuse: ma, in somma, pur troppo, mutò parte; e mutò da quella de’ maggiori, da quella del popolo e della indipendenza italiana, a quella della signoria italiana e straniera. Non può e non debbe celarsi da chi voglia rettamente giudicar di Dante e de’ suoi giudicii.
In breve, i Bianchi e Ghibellini rifuggiti in Siena guelfa non ardirono rimanervi. Antica era l’opinione della mutabilità di Siena; tanto che ella n’avea il nome di Lupa, e correva di essa uno sconcio proverbio del facil passar la lupa dall’uno all’altro amore6. Dante stesso parla della leggerezza de’ Sanesi in modo, che certo è una reminiscenza d’ira propria:

Ed io dissi al Poeta: of fu giammai
Gente sì vana come la Sanese?
Certo non la Francesca sì d’assai.

INF.

Quindi i fuoriusciti si raccolsero in breve ad Arezzo, e Dante con essi7. Arezzo quasi sede ghibellina nella Toscana occidentale, dava indi la mano ai Ghibellini di Romagna, al Comune di Forlì, ai Conti di Montefeltro, ed a’ signorotti della Faggiola, un castello e regione dei monti Feltrii. Uno di questi, Uguccione era allora podestà di Arezzo; e fu importante nell’esilio di Dante. Figliuolo d’un Ranieri della Faggiola, uomo già di qualche potenza, Uguccione aveva incominciato a farsi nome di buon guerriero fra’ Ghibellini fin dall’anno 1275. "Grandi racconti facevansi della sua forza e del suo coraggio: solo sostener l’impeto di un esercito e ristorar le battaglie; aver bisogno d’inusitate armi per coprire membra vastissime; fiera e paurosa la vista, bastare per volgere in fuga il nemico; insolita copia di cibi appena esser da tanto che sostentassero così gagliarda persona. I quali detti potrebbero per avventura dipingerlo alle nostre menti quale sozzo ed ingordo accoltellatore: nondimeno chi lo conobbe afferma, che fu allegro il volto di lui, e che straordinaria robustezza del corpo si congiungeva in esso all’ingegno ed alle arti del favellare"8. Dieci anni dopo, padre e figlio della Faggiola avevano combattuto contro Arezzo Guelfa, prima di quella rivoluzione che la fece Ghibellina. Dopo questa, avean fatta pace con essa; e poco appresso Uguccione n’era diventato podestà, e contro la legge antica rimaneva tale quattro anni, dal 1292 al 12969. A que’ tempi, tre modi erano ad un uomo di essere potente. Il primo per retaggio di antichi comitati o feudi: ma ogni dì questi antichi feudatarii venivan meno, scemati lor feudi dai Comuni, e costretti essi a prender albergo e cittadinanza nelle città; e di questi appena rimanevano allora intorno a Firenze i conti Guidi. Il secondo modo era de’ cittadini valenti per credito tra’ nobili o popolani nel Comune: tali vedemmo Giano della Bella, Vieri de’ Cerchi e Dante stesso in Firenze; tale v’era ora Corso Donati, e tali vi furono i Medici poi nel secolo seguente; gran vanto degli antichi di questa casa, essere stati quasi i soli in Italia che ambissero, a quel tempo ancora, quella qualità cittadinanza di potenza, e se ne contentassero. Il terzo modo di potenza, più frequente tra il fine del 1200 e il principio del 1300, origine poi di quasi tutte le tirannie del 1400, fu quello dei venturieri politici e militari, nobili e non nobili, che correvano qua e là per fare i podestà e i capitani nei Comuni. Il capitano era inferiore, e sovente condotto dal podestà, sovente era il medesimo. Qualunque era ardito uomo e buon guerriero correva tal carriera, coll’ajuto d’una Parte, e talora mutandone, come vedemmo del conte Ugolino. Così a poco a poco i podestà diventarono signori assoluti e tiranni delle città; i capitani condottieri. Ma al tempo di che trattiamo, serbavano i due primi nomi; ed Uguccione fu uno de’ più famosi. Come Podestà di Arezzo, guerreggiò in compagnia con Scarpetta degli Ordelaffi in Romagna, divise con lui il primato de’ Ghibellini in quella provincia, e fu Capitano di Cesena, Forlì, Faenza ed Imola. Nel 1300, secondo alcuni capitano di Arezzo, secondo altri podestà di Gubbio, fu cacciato da’ Guelfi di questa10. Ma ora nel 1302 podestà d’Arezzo per la sesta volta, ei parea rivolgersi a pensieri di pace; e fermatala coi Guelfi di Romagna era assolto dalle scomuniche da papa Bonifazio, aveva da lui promessa di cardinalato per un figlio suo, e dava anzi una sua figlia a messer Corso Donati od al figlio di lui11. Nè Uguccione diventava Guelfo per ciò; chè come da due anni s’era divisa parte Guelfa in Guelfi puri o Neri, e in moderati o Bianchi, così i Ghibellini incominciarono a dividersi in Ghibelini puri che si dissero Secchi, e Ghibellini pendenti a Guelfismo che si dissero Verdi12. I Bianchi e i Verdi erano i moderati delle due parti, ciò che or si direbbe i due centri; e fra essi era, come suole, tendenza od amicizia più che non tra i moderati e gli estremi di ogni parte. Uguccione era capo de’ Ghibellini Verdi o moderati; e così era a forza d’accostarsi al papa e a messer Corso, era diventato più Guelfo, che non erano i Bianchi oramai. I quali dunque o volontari o sforzati lasciarono Arezzo13.
E lasciolla con essi Dante14. Quindi io non mi so persuadere collo storico d’Uguccione, nè che Dante rompesse allora per anco colla propria parte, per la quale lo vedremo trattare e combattere due anni ancora; nè ch’egli facesse quasi contra essi causa comune con Uguccione, ch’egli anzi lasciò con essi. Ma ch’egli forse più di niun altro Bianco e fin d’allora convenisse in discorsi ed opinioni ed amicizia con Uguccione, io ’l crederei facilmente. Imperciocchè, s’avverta bene, Dante non era soltanto come Bianco, moderatissimo Guelfo, ma anche moderatissimo Bianco fin da principio; ed ora dopo gli sciocchi e vili portamenti de’ compagni in Firenze era diventato più che mai dispregiatore della propria parte. Quindi il vedremo separarsi da essi fra due anni, e intanto operar mollemente per essi; nè in un Dante potea tal mollezza venir da altro che dispregio. Nè al Faggiolano uomo risoluto anch’egli dovea aver piaciuto il vil modo de’ Bianchi in lasciarsi cacciar di Firenze. Quindi sentimenti comuni, che in tempi di parte si volgono in amicizia. Nè questa poi è dubbia, avendo noi a vedere tra sei anni l’esule poeta dedicare le primizie del suo gran lavoro al guerriero. Ma ad ogni modo ora ei seguì i destini di sua parte, e lasciò il nuovo amico e la città governata da lui.
Partendo d’Arezzo, i Bianchi si dispersero a guerreggiare e a parteggiare chi in Mugello, chi a Pistoia, Pisa e Bologna; e forse Dante fu di passo allora a questa15. Ma i più furono a Forlì, dove era principale Scarpetta degli Ordelaffi, il già compagno d’Uguccione nel primato di parte Ghibellina in Romagna. Nè parmi da dubitare, che ivi venisse pure Dante; chè se non avesse stretta ora amicizia coll’Ordelaffi, come testè col Faggiolano, non s’intenderebbe come a un tratto pochi anni dopo ei si trovasse segretario e in fiducia di lui. Ad ogni modo Scarpetta al principio del 1303 mosse contra Firenze a capo degli esuli fiorentini e di una gran lega per essi, Forlì, Imola, Faenza, Bologna, Arezzo con Uguccione a buono o mal grado, Federigo di Montefeltro e Bernardino da Polenta il fratello di Francesca, il compagno d’arme di Dante a Campalfino; mentre Pisa, Pistoia e gli Ubaldini in armi distraevano l’attenzione e le forze fiorentine16.
E fin da Verona Bartolomeo della Scala, gran Ghibellino di Lombardia, mandò loro aiuti17. Quattromila fanti e settecento cavalli furono in tutto18. Ma tutto quello sforzo si ruppe contro il misero castello di Pulicciano presso a Borgo S. Lorenzo. Dove, minacciati più che assaliti i fuorusciti dal successore di messer Cante nella podesteria di Firenze, Folcieri da Calvoli nemico personale di Scarpetta, si dispersero e fuggirono alla spicciolata, presi ed uccisi molti da’ paesani. Tra’ primi messer Donato Alberti "fu menato vilmente su un asino con una gonnelletta d’un villano al podestà. Il quale quando il vide lo domandò:Siete voi messer Donato Alberti? rispose:Io sono Donato; così ci fosse innanzi Andrea da Cerreto e Nicola Acciaiuoli e Baldo D’Aguglione e Iacopo da Certaldo, che hanno distrutta Firenze19. Allora lo pose alla colla e accomandò la corda all’aspo, e così vel lasciò stare, e fe’ aprire le finestre e le porte del palazzo, e fece richiedere molti cittadini sotto altre cagioni, perchè vedessono lo strazio e la derisione facea di lui; e tanto procurò il podestà che gli fu conceduto il tagliargli la testa. E questo fece, perchè la guerra gli era utile, e la pace dannosa; e così fece di tutti. E questa non fu giusta deliberazione, ma fu contro alle leggi comuni, perocchè i cittadini cacciati volendo tornare in casa loro non debbono essere a morte dannati, e contro l’uso della guerra, che tenere gli dovean presi20. E perchè i Guelfi Bianchi presi furono parimente morti co’ Ghibellini, s’assicurarono insieme; chè infino a quel dì sempre dubitavano, che d’intero animo fussono con loro"21. Ecco spiegato dal buon Dino il progresso dell’unione de’ Bianchi e Ghibellini. E Dante molti anni appresso rammentava ancora la crudeltà di Folcieri, quando metteva nel Purgatorio Rinieri zio di costui, e faceva dirgli da un’altr’anima sdegnosa contro tutta la val d’Arno:

Io veggio tuo nipote, che diventa
Cacciator di que’ lupi22in sulla riva
Del fiero fiume, e tutti gli sgomenta;

Vende la carne loro essendo viva,
Poscia gli ancide come antica belva,
Molti di vista e se di pregio viva.

Sanguinoso esce dalla trista selva,23
Lasciala tal che di quì a mill’anni
Nello stato primaio non si rinselva.

PURG. XIV. 58-68.

Ma Dante non fu a questa guerra del Mugello; chè quell’ajuto di Bartolomeo della Scala alla lega Bianca Ghibellina, c’è memoria fosse mandato per opera di Dante ambasciatore a Verona24. Era opera conforme ai carichi, al mestiere diplomatico di Dante prima dell’esilio; onde non è da meravigliare gli fosse or commessa dagli esuli. E quindi si vede l’occasione ch’ebbe Dante d’andare a Verona, la quale altrimenti nè spiega nè si può intendere.
La città di Verona, ove giugneva Dante, era da gran tempo come la capitale del Ghibellinismo in Lombardia. Non ch’ella non si fosse nel secolo precedente congiunta con altre città, traendole anzi seco alla gran Lega Lombarda contra Federigo Barbarossa: ma, dopo la pace di Costanza, avendo all’anno 1200 preso per podestà Ezzelino da Romano, II del nome e soprannomato il Monaco; un guerriero d’antica famiglia tedesca già potente in quelle contrade, e stato uno de’ capi della lega, poi perdonato e diventato imperiale; Verona d’allora in poi, salvi i casi delle parti, era sempre rimasta sotto quella famiglia straniera e ghibellina. Questi Da Romano, uomini e donne, furono gente famosa per li loro delitti, ognuno secondo il sesso suo. Famosissima fu una delle figlie di quell’Ezzelino il Monaco, detta Cunizza; maritata prima a Rizzardo da San Bonifazio, poscia amante vissuta con Sordello il famoso Trovatore, poi con Bonio un cavaliere Trevigiano con cui corse ventura in varie parti d’Europa, poi moglie di un conte di Braganza, e finalmente di un terzo marito in Verona, e venuta a finire i suoi dì in Toscana ond’era la madre sua. E così è, che costei già vecchia e forse pentita, potè essere conosciuta da Dante e da Beatrice in puerizia. E’ congettura molto approvabile dell’autor del Veltro, e che ci può spiegare come Dante ponesse tal donna al terzo cielo del Paradiso:

Ed ecco un altro di quegli splendori
Ver’me, e il suo voler piacermi
Significava nel chiarir di fuori.

Gli occhi di Beatrice ch’eran fermi
Sovra me, come pria di chiaro assenso
Al mio desìo certificato fermi:

Deh metti al mio voler tosto compenso
Beato spirto, dissi, e fammi pruova
Ch’io possa in rifletter quel ch’io penso.

Onde la luce che m’era ancor nuova,
Del suo profondo, ond’ella pria cantava,
Seguette, come a cui di ben far giova:

In quella parte della terra prava
Italica, che siede intra Rialto
E le fontane Brenta e di Piava,

Si leva un colle e non sorge molt’alto,
Là onde scese già una facella,
che fece alle contrade grande assalto.

D’una radice nacqui ed io ed ella;
Cunizza fui chiamata, e quì rifulgo
Perchè mi vinse il lume d’esta stella

Ma lietamente a me medesma indulgo
La cagion di mia sorte, e non mi noia,
Che forse parria forte al vostro vulgo.

PARAD. IX. 15-36.

Certo, i versi 14 e 15 pajono confermare la congettura d’una famigliarità antica e d’una dolce rimembranza di Dante, e il 24 accennare che anche Beatrice nella comune puerizia fosse stata cara alla vecchia Cunizza; e ciò scuserebbe vie meglio Dante, per esserci debitamente cari coloro che amarono i cari nostri. Il colle, il castello poi ivi accennato è Romano, nido di quegli avoltoi settentrionali. E la facella fatale a quelle contrade è il fratello di Cunizza, Ezzelino terzo, il più famoso ed ultimo di quella schiatta; il quale dopo il padre tiranneggiò Verona e parecchie altre città di Lombardia orientale fino al 16 settembre 1259, che incamminato coll’esercito a Milano, fu accerchiato da tutti i Guelfi, anzi da tutti i potenti d’ogni parte di Lombardia sollevato contro la sua potenza e crudeltà, e ferito e preso, morì in breve, imprecato da tutti25. Dante, che quando non era sviato dagli affetti privati, giudicava secondo l’opinione pubblica, mette costui nell’Inferno fra i tiranni, ma il fa senza altrimenti morderlo:

E quella fronte c’ha il pel così nero,
E’ Azzolino.

INF. XII. 109-110.

Ma Verona, avvezza a signoria, avendo subito dopo la morte d’Ezzelino, preso a podestà uno de’ nemici di lui, Mastino della Scala, questi ora in tal carico, ora in quello di capitano del popolo, era pure rimaso signore e ghibellino, finchè fu ucciso nel 1279. Allora accorse Alberto fratello di lui e podestà di Padova; e vinti gli avversarii della famiglia, prese il luogo dell’estinto, fecesi egli capitano del popolo, e fede a modo suo i podestà. Ma confermando all’intorno l’antica potenza ghibellina di Verona, la resse addentro con modi opposti a quelli degli Ezzelini; e morendo l’anno 1301, lasciò grande già, e per quel tempo virtuoso, il nome degli Scaligeri ai tre figliuoli suoi; Bartolomeo che gli succedette nel capitanato, Alboino e Cane che fu poi detto il Grande, ma allora era fanciullo di nove anni. Bartolomeo, poi, visse e signoreggiò fino al 7 marzo 1304.
Se adunque si voglia, come mi pare si debba, tener conto di quella memoria, che ad istigazione di Dante ambasciadore fu dagli Scaligeri mandato ajuto all’Ordelaffi ed alla lega Bianca ghibellina per la guerra di Mugello al principio del 1303, chiaro è che ciò fu durante il capitanato di Bartolomeo; e che questi è il Gran Lombardo nomato nella sublime poesia con che incomincia la predizione dell’esilio fatta a Dante da Cacciaguida:26


Qual si partì Ippolito da Atene
Per la spietata e perfida noverca,
Tal di Fiorenza par ti conviene.

Questo si vuole e questo già si cerca;
E tosto verrà fatto a chi ciò pensa,
Là dove Cristo tutto dì si merca.

La colpa seguirà la parte offensa
In grido, come suol; una la vendetta
Fia testimonio al ver che la dispensa27.

Tu lascerai ogni cosa diletta
Più caramente: e questo è quello strale
Che l’arco dell’esilio pria saetta.

Tu proverai siccome sa di sale
Lo pane altrui, e come è duro calle
Lo scendere e ’l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle
Sarà la compagnia malvagia e scempia
Con la qual tu cadrai in questa valle,

Che tutta ingrata, tutta matta ed empia28
Si farà contra te; ma poco appresso
Ella, non tu, n’avrà rotta la tempia.

Di sua bestialitade il suo processo
Farà la prova, sì ch’a te fia bello
L’averti fatto parte per te stesso.

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
Sarà la cortesia del Gran Lombardo
Che in sulla Scala porta il santo uccello;

Che in te avrà sì benigno riguardo,
Che del fare e del chieder tra voi due
Fia prima quel che tra gli altri è più tardo.

Con lui vedrai colui29 che impresso fue
Nascendo sì di stella forte,
Che notabili fien l’opere sue.

Non se ne sono ancor le genti accorte
Per la novella età, che pur nove anni
Son queste ruote intorno di lui torte.

PARAD. XVII. 46-82.

La gratitudine mostrata quì da Dante a Bartolomeo, e i nomi di rifugio e d'ostello dati alla sua dimora in Verona, mi sembrano poi indubitatamente accennare, che tal dimora ei la vi fece, non solo da ambasciadore, ma ancor da esule, rifugiato ed ospite; e quindi, che dopo la breve campagna e dispersione de’ Bianchi in Mugello, Dante rimase in Verona. Che vi riprendesse i suoi varii lavori, il Convito e ’lVulgare Eloquio, io ’l crederei; ma non avendoli terminati allora certamente quali ci restano, ne parleremo più giù. Ancora, quanto ivi dimorasse, resta incerto; certo, che non guarì più d’un anno, posciachè a giugno 1304 troveremo memoria di lui altrove. La prossimità di tal data a quella della morte di Bartolomeo addì 7 marzo del medesimo anno, può lasciar credere che Alboino fratello di lui, succedutogli nella signoria, non si mostrasse a Dante così cortese ospite; e che perciò Dante allor si partisse di Verona; perciò vituperasse poi Alboino nel Convito; perciò, quando scrisse i versi surriferiti, molti anni dopo, in corte a Can Grande, nominasse questo solo con Bartolomeo, e sdegnosamente tacesse d’Alboino30.
Un’altra reminiscenza del soggiorno di Dante in Verona, e dell’aver quinci peregrinato su per Val d’Adige fino a Trento, trovasi nell’Inferno. Nel quale scendendo Dante e Virgilio dal sesto al settimo cerchio, ei fa di tal dirupata discesa il paragone seguente:

Era lo loco, ove a scender la riva
Venimmo, alpestre, e per quel ch’ivi era anco31
Tal ch’ogni vista ne sarebbe schiva.

Qual’è quella ruina che nel fianco
Di qua da Trento l’Adice percosse
O per tremuoto o per sostegno manco;

Chè da cima del monte onde si mosse
Al piano è sì la roccia discoscesa,
Che alcuna32 via darebbe a chi su fusse;

Cotal di quel burrato era la scesa.

INF. XII. 4-13.

Certo, è questa tal descrizione da far molto probabile che il luogo fosse stato veduto dallo scrittore; nè potè esserlo se non durante questa dimora del 1303 e 1304, la sola ch’ei facesse in quelle regioni prima di pubblicare l’Inferno. S’aggiungono poi altre memorie e tradizioni, che fosse l’esule poeta ospitato tra quelle alpi ne’ castelli di Guglielmo di Castelbarco, e di Lantieri di Paratico, e percorresse peregrinando e poetando la Val Pulicella e la Val Lagarina33. Ma queste gite ei le pote’ fare anche durante il secondo soggiorno molto posteriore in Verona. Che in esse Dante scrivesse parte del poema succedere sì nel secondo soggiorno, non a parer mio in questo primo, quando non credrei che l’avesse ripreso. Belle poi, rispettabili sono siffatte tradizioni, siffatte dispute di tante terre d’Italia pretendenti ad essere culla del poema, o di questa o di quella parte di esso; dispute paragonate già a quelle città greche per essere dette culla del loro Omero. L’amore alla città quando non sia esclusivo non nuoce alla patria comune ed anzi ne fa parte; e lasciam dire chi oziando morde i laboriosi; lodiamo pure questi raccoglitori ed illustratori di storie patrie municipali e provinciali, che tutte insieme fanno progredire la storia generale della patria comune. Ma non può esser ufficio di noi, pressati dal moltiplice assunto.


Note

  1. Veltro Alleg., pag. 188.
  2. L’autor del Veltro dice dopo la prima p. 32, ma non ne trovo documento.
  3. Leon. Aret., p. 37. Pelli, p. 110. Veltro, p. 52.
  4. Dino Comp., p. 303.
  5. Dino, p. 505
  6. Dino, 511
  7. Leon. Ar., p. 57; Pelli, 110; Veltro, 52, si confrontino con Dino, p. 32, che reca altri particolare de’ fuorusciti.
  8. Veltro, p. 22.
  9. Veltro, pp. 27, 35, 37.
  10. Veltro, p. 39.
  11. Veltro, pp. 31, 56.
  12. Veltro, p. 62.
  13. Dino Comp., p. 503.
  14. Leon., p. 57. Pelli, p. 110, Veltro, p. 58.
  15. Villani, p. 508.
  16. Veltro, p. 59.
  17. Girolamo della Corte, Storia di Verona, parla di ques’aiuto mandato da Verona all’Ordelaffi e a’ fuorusciti per la guerra di Mugello. Vero è che lo mette al 1306 e il Pelli, p. 23, lo segue. Ma la guerra di Mugello essendo del 1303 quì si vuol riportare. Vedi Veltro p. 61.
  18. Dino, p. 504.
  19. Due di questi certamente (Dino, p. 500), e gli altri probabilmente erano traditori di parte Bianca passati alla Nera vincitrice; epperciò detestati qui dal prigione. Ed anche Dante Parad. XVI, 56, morde Baldo chiamandolo il Villan D’Uguglione.
  20. Nota questa massima che prova come gli sforzi de’ fuorusciti a rientrare con mano armata erano tenuti allora come guerra consueta e giusta.
  21. Dino, p. 504.
  22. Lupa, in bocca di Dante, è sempre la parte guelfa; lupi i Guelfi, e quì i Fiorentini.
  23. Selva quì, e forse altrove, è Firenze
  24. Pelli, p. 123.
  25. Leo, St. d’Ital., II, 172, 232, 372.
  26. Il gran Lombardo è uno dei punti più controversi dai Commentatori, essendovene che tengono per ognuno dei tre fratelli. Ma s’elimina Cane dall’età di lui, e dal distinguersi ne’ versi 76 e seguenti esso Cane dal gran Lombardo. E s’elimina Alboino dal vituperio di poca nobiltà a lui dato da Dante nel Convito: non che Dante non si ricreda talvolta; ma si soleva ricredersi dal bene al male, per ingiurie ricevute dagli amici, non mai dal male al bene, perchè non era di sua natura mettersi in caso di ricever beneficii da chi l’avesse ingiuriato una volta; ed essendo il Paradiso, e così i versi quì riferiti, scritti all’ultimo della vita di Dante, io pensi si credere che vi piaggiasse così chi egli avea vituerato in un’opera anteriore.
  27. Forse le calamità di Firenze, la morte di Corso Donati negli anni seguenti; forse la morte di Bonifazio VIII.
  28. Le due terzine seguenti non mi paiono potersi assolutamente riferire a questo tempo dell’esilio, nè all’impresa di Mugello durante la quale Dante, non che far parte per sè stesso, era ambasciadore e promotor d’aiuti per la sua parte. Vedremo più giù a che si riferisca tale intercalazione, la quale poi non dee far meraviglia di niuna maniera, la poesia non essendo annali e non dovendosi pretendere nè desiderare da quella la precisione di questi.
  29. Can Grande.
  30. L’autor del Veltro fa andar Dante a Bologna dopo Verona. Certo, può essere; chè Bologna è così di passaggio, che andando e tornando di Toscana a Lombardia, ci si passa naturalmente: ma non ce n’è altro documento, che l’indeterminatissimo luogo citato già del Villani, p. 508.
  31. Il mostro Minotauro che guardava quel VII cerchio.
  32. Alcuna per niuna intendono i migliori.
  33. Opere di Dante Venezia. Zatta 1758, Tom. IV, Part. II. Lettera del Vannetti pag. 158 - Pelli, p. 134. - Veltro, p. 62. E vedi ne’ due primi le citazioni e le discussioni non brevi de’ fonti. Scopo delle mie brevi note in questa II parte è di abilitare gli studiosi a risalir a que’ fonti e corì verificare e correggere le mie opinioni, ma non può essere di discutere più compiutamente queste opinioni. Mi ci sono provato; ma ogni volta diventava una dissertazione, e non breve. Se io avessi speranza di terminare le questioni, ei sarebbe meno con queste discussioni di tutto ciò che fi detto, che non con aver facilitata la comparazione delle diverse parti dell’esilio e della vita di Dante.

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