< Vita di Dante < Libro I
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Capo Decimoterzo - Aneddoti. Le Rime. Gli ultimi amori di Dante in patria.
Libro I - Capitolo XII Libro II - Capitolo I


.......di mia natura
Tramutabile son per tutte guise.
PARAD.V.


Prima di seguir Dante nell’esilio onde più non tornò, gioverà cercare alcune memorie che pure spettano alla vita di lui in patria, senza che si sappia bene a qual anno. E le prime saran quelle che pur si riattaccano alle cause dell’esilio. Fra le novelle antiche, che senza meritar fede in ogni particolare s’hanno pure a tenere come tradizioni della città, sono precipue quelle del Sacchetti. Il quale narra che uno degli Adimari, vicini anch’essi di Dante, trovandosi impacciato per non si sa qual delitto, e preso ad esserne condannato dall’esecutor di giustizia (il podestà o il giudice di lui), raccomandossi a Dante, che il raccomandasse a costui ch’era suo amico. Andovvi Dante com’era mandato; ma considerando l’essere l’Adimari giovane altiero e poco grazioso quando andava per la città, e spezialmente a cavallo, che colle gambe aperte tenea la via se non era molto larga, e chi passava convenìa gli forbisse le punte delle scarpette, perchè a Dante che tutto vedea sempre erano dispiacciuti siffatti portamenti, giunto che fu all’esecutore:Voi avete, disse, dinanzi alla vostra corte il tale cavaliere per lo tale delitto. Io ve’ lo raccomando; comechè egli tiene modi sì fatti che meriterebbe maggior pena. Ed io mi credo che usurpar quello del comune è grandissimo delitto. E domandando l’esecutore, che cosa era quella del comune che costui usurpava? rispose Dante:quando cavalca per la città e’ va sì con le gambe aperte, che chi lo scontra conviene si torni addietro e non puote andar a suo viaggio. Disse l’esecutore:E parti questa una beffa? egli è maggior delitto che l’altro. Disse Dante:or ecco, io sono suo vicino; io ve lo raccomando. E tornato a casa e detto all’Adimari che l’esecutor gli avea risposto bene; dopo alquanti dì fu quegli richiesto e condannato in lire mille per lo primo delitto, ed in altre mille per lo cavalcare largo. "E per questo, essendo la principal cagione, da ivi a poco tempo fu per Bianco cacciato da Firenze"1. Non fu probabilmente la principal cagione; ma che pur fosse una, non parrà difficile a credersi, a tutti coloro che abbiano sperimentato o veduto quanto costi caro talora un motteggio, e massime in tempi di parti che dan agio alle vendette private travisate in pubbliche.
Del resto la tradizione così raccolta dal Sacchetti concorda, non solamente con ciò che dice il Compagni delle condannagioni fatte ai Bianchi per un nonnulla, ma ancora con parecchi luoghi di Dante stesso che sembrano riferirsi agli Adimari. E prima nell’Inferno fra gl’irosi dibattentisi nel fango della palude Stigia trova Dante un Filippo Argenti della famiglia de’ Cavicciuli, che dicesi uno de’ rami degli Adimari2,"cavaliere ricchissimo, tantochè esso alcuna volta fece il cavallo, il quale usava di cavalcare, ferrare d’ariento, e da questo trasse il soprannome. Fu uomo di persona grande, bruno e nerboruto e di meravigliosa forza; e più che alcuno altro, iracondo eziandio per qualunque menoma cagione"3. I quali particolari della ferratura d’argento e della persona grande con tutto il ritratto di costui, tanto concordano con quelli del mal grazioso cavalcatore del Sacchetti, che viene il sospetto fosse la medesima persona. Ad ogni modo il Boccaccio ce lo fa anche meglio conoscere in una novella, la quale veramente sarebbe a legger tutta per li particolari che vi sono de’ costumi fiorentini, anzi de’ personaggi e delle brigate in mezzo a cui passò Dante questa prima parte di sua vita. Vedesi ivi un Ciacco parasito di messere Corso Donati, ed un Biondello di messer Vieri de’ Cerchi; Biondello comprando in piazza lamprede per messer Vieri dà a credere a Ciacco esser queste per un gran convito in casa messer Corso, e ve l’invita. Ciacco vi corre, ma non v’ha se non del cece, della sorra e del pesce d’Arno. Quindi Biondello si fa beffe di lui. Ma Ciacco per vendicarsi manda un barattiere a messer Filippo Argenti, che gli chieda in nome di Biondello d’arrubinargli, cioè empierli un fiasco del suo buon vin vermiglio, per solazzarsi co’ suoi zanzeri o compagni. Infuria l’Argenti; ed alla prima volta che dà in Biondello, lo batte a malconcia sì, che Ciacco gli potè dire: A te sta oramai! qualora tu mi vuogli così ben dare da mangiare come facesti, et io darò a te così ben da bere come avesti4. E così rideva di tutti costoro il Boccaccio. Ma, tanto sono le medesime persone e le medesime cose oggetti diversi di risa o d’ire, secondo la natura de’ riguardanti, che questo stesso Ciacco è il primo fiorentino posto da Dante nell’Inferno, e il primo che acerbamente vi parla e predice di Firenze5; e poco dopo, Filippo Argenti, o fosse l’Adimari già offeso da Dante e vendicatosi poi, ovvero uno qualunque di quella nemica schiatta, e in somma come odiatissimo nemico, vi è non che messo fra gli irosi dannati e nel fango della palude Stigia, ma evidentemente proseguito di special ira del rivendicativo poeta. Ed osservisi prima, trovarsi tutto ciò nel canto VII, il primo come vedremo dei ripresi da Dante dopo l’esilio, forse perchè avea fretta di far vendetta. E leggasi poi tutta quella scena d’ira veramente infernale avvicendata tra le due parti. Dante e Virgilio sono in una navicella sulla palude:

Mentre noi correvam la morta gora,
Dinanzi mi si fece un pien di fango
E disse: chi se’ tu che vieni anzi ora?

Ed io a lui: s’io vegno non rimango:
Ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?
Rispose: vedi che son un che piango.

Ed io a lui: con piangere e con lutto
Spirito maladetto, ti rimani;
Ch’io ti conosco, ancor sie lordo tutto.

Allora stese al legno ambe le mani,
Per che il maestro accorto lo sospinse,
Dicendo: via costà con gli altri cani.

Lo collo poi con le braccia mi cinse,
Baciommi ’l volto e disse: alma sdegnosa
Benedetta colei che in te s’incinse!.

Quei fu al mondo persona orgogliosa;
Bontà non è che sua memoria fregi;
Così è l’ombra sua quì furiosa.

Quanti si tengon or lassù gran Regi
Che quì staranno come porci in brago
Di se lasciando orribili dispregi!.

Ed io: Maestro, molto sarei vago
Di vederlo attuffare in questa broda,
Prima che noi uscissimo del lago.

Ed egli a me: avanti che la proda
Ti si lasci veder, tu sarai sazio;
Di tal desìo converrà che tu goda.

Dopo ciò poco, vidi quello strazio
Far di costui alle fangose genti,
Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

Tutti gridavan: a Filippo Argenti.
Quel fiorentino spirito bizzarro
In sè medesmo si volgea co’ denti.

Quivi ’l lasciammo, che più non ne narro.

INF. VIII.

Dove, chi abbia a mente la pietà per lo più mostrata da Dante agli altri concittadini trovati ne’ martirii, anche a un Ciacco e a tanti compagni di Brunetto Latini, non potrà non veder chiara orma d’offese reciprocamente esercitate, personali, gentilizie, o pubbliche, o tutte insieme.
E non dubbia vendetta contro gli Adimari è la menzione di essi fra le famiglie fiorentine al Canto XVI del Paradiso. Non dubbia almeno, se diam fede a’ commentatori; i quali ci narrano, venuta tal famiglia di Mugello e non grande ancora in Firenze, quando Bellincion Berti gran cittadino antico rammentato più volte in quel Canto avendo data una figliuola a Ubertino Donati, diedene un’altra poi ad uno degli Adimari, di che molto sdegnossi quasi di vil cognazione il Donati. Ancora aggiungono ivi i commentatori che un Boccaccio Adimari fu quegli che, esiliato Dante, occupò i beni di lui6. E Dante maritato con una de’ Donati, e quantunque grande anch’egli, e superbo, e nemico loro, pur insuperbito di tal parentela ancor più grande, soddisfa insieme ed a quell’orgoglio ed al rancore della offesa, così ritraendo e sfregiando quella famiglia:

115L’oltracotata schiatta che s’indraca
     Dietro a chi fugge, ed a chi mostra 'l dente
     Ovver la borsa com’agnel si placa;

118 Già venia sa, ma di picciola gente;
     Sì che non piacque ad Ubertin Donato
     Che ’l suocero il facesse lor parente.

Par. xvi.


Dove non solo una qualunque morta l’offesa, ma questa speciale e vilissima dell’aver perseguitato il fuoruscito, sembra chiaramente accennata.

Ma venendo a meno gravi ire, abbiamo pur dal Sacchetti due esempi di quella che destavasi in Dante quando udiva sciupare i proprii versi cantati; che vuol dire i Sonetti le Canzoni, non, come inteser male taluni, il Poema; il quale nè era allora probabilmente conosciuto, nè in italiano, e ad ogni modo non era fatto per cantarsi. La prima volta fu appunto uscendo Dante di casa dopo desinare, per andare a quella faccenda deirAdimari; chè passando per Porta San Piero, udì un fabbro che battea su l’incudine, e insieme cantava i versi di lui tramutati, smozzicati e appiccati. Non disse nulla Dante, se non che, accostandosi alla bottega dove il fabbro aveva i ferri con che facea l’arte, piglia Dante il martello e gettalo per la via; piglia le tanaglie e getta per la via; piglia le bilance e getta, e così gittò molti ferramenti. Il fabbro, voltosi con un atto bestiale, dice: Che diavol fate voi? Siete voi impazzato?— Dice Dante: E tu che fai?Io l'arte mia, dice il fabbro, e voi guastale le mie masserizie gettandole per la strada. — Dice Dante: Se tu non vuogli, che io guasti le cose tue non guastar le mie. — Disse il fabbro: Oh che vi guasto io? — Disse Dante: Tu canti il libro e non lo dì com'io lo feci: io non ho altr’arte, e tu me la guasti. Il fabbro gonfiato, non sapendo rispondere, raccoglie le cose, e torna al suo lavorio; e se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancilotto, e lasciò stare il Dante7 .

Un'altra volta, andandosi Dante per la città di Firenze, e portando, come allora s’usava, la gorgiera e la bracciajuola, scontrò un asinajo che aveva innanzi certe some di spazzatura, e andava dietro cantando il libro di Dante, e quando avea cantato un pezzo, toccava l’asino e diceva arri. Dante gli diede con la bracciajuola una grande batacchiata sulle spalle, dicendo: cotest’arri non vi mis'io. Colui non sapea nè chi si fosse Dante, nè per quello cbe gli desse; se non che tocca gli asini forte, e pur arri. Quando fu un poco dilungato, si volge a Dante cavandogli la lingua, e facendogli con la mano la fica, dicendo: togli. Dante, veduto costui, dice: Io non ti darei una delle mie per cento delle tue.8 E disse pur bene allora: ma parrà forse ora a taluni, che avrebbe fatto meglio a non usar quelle due soverchierie manesche; le quali, ad ogni modo, confermano ciò che vedemmo, che i grandi d’allora, fra cui Dante, erano come oppressi, così pure sovente oppressori.

Un’altra insolenza di parole trovo in un moderno, il quale non cita onde l’abbia presa. Stava Dante nella chiesa di Santa Maria Novella, meditando appartato ed appoggiato a un altare. Accostaglisi uno di que’ fastidiosi che non intendon nulla a silenzio e solitudine, e nulla tengono bello se non il vano parlare. Sforzasi Dante in parecchie guise a farsene lasciare; ma non venendogli fatto; prima ch’io risponda a te, chiariscimi tu d’una mia domanda, dicevagli. Qual è la maggior bestia del mondo? — E rispondendo colui, che per l’autorità di Plinio, credeva fosse il lionfante. — Or bene, riprese Dante, o lionfante! non mi dar noia; e si partì9.

D’un altro fatto avvenuto a Dante in Firenze, ci è serbata memoria da lui stesso nel Poema. Trovandosi egli un giorno al Batistero di San Giovanni, dov' erano certi buchi, come che sia ed a qualunque uso congegnati, e vedendo entro ad uno di quelli annegare un fanciullo, egli lo ruppe per salvare la creatura; e pare che ne fosse poi accagionato come di dispregio al luogo, ovvero d'intromettersi in faccenda non sua, o chi sa altro. Ad ogni modo, egli rammenta questo fatto evidentemente per iscusarsene, non venendo del resto troppo a seconda, in un luogo dell' Inferno, dove ei paragona a que’ buchi del batistero quelli dove trova capovolti i Simoniaci:

Non mi parien meno ampi nè maggiori
     Che quei che son nel mio bel San Giovanni
     Fatti per luogo de’ battezzatori.

19 L’uno de’ quali ancor non è molt’anni
     Rupp’io per un, che dentro v’annegava;
     E questo sia suggel ch’ogni uomo sganni.

Inf. xix.


Finalmente, abbiamo dai Boccaccio un altro fatto avvenuto in Siena, e così probabilmente o ne' primi viaggi di Dante in questi anni, o subito dopo l'esilio, quando, come vedremo, incominciò le sue peregrinazioni per quella città. Ci è dato quel fatto come prova della preoccupazione di Dante negli studi in generale, e massime quando gli capitava fra le mani un libro che gli andasse a genio. Avranno molti anche a' nostri dì sperimentato il piacere d'aversi un libro lungamente cercato; ma tal piacere doveva essere allora accresciuto dalla rarità e difficoltà. “Niuno altro fu più vigilante di lui, e nelli studi e in qualunque altra sollecitudine il pugnesse; intantochè più volte, e la sua famiglia e la sua donna, se ne dolseno prima che a' suoi costumi usati, ciò non mettessino in non calere 10 ... Dilettossi d’essere solitario, e rimoto dalle genti, acciocchè le sue contemplazioni non gli fussero interrotte; e se pure alcuna che molto piaciuta gli fusse ne gli veniva, essendo esso tra la gente, quantunque di alcuna cosa stato fusse addomandato, giammai insino a tanto che fermata o dannata la sua immaginazione avesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte, essendo egli alla mensa, ed essendo in cammino con compagni, o in altre parti, essendo addimandato, gli avvenne. Ne’ suoi studi fu assiduissimo, quanto a quel tempo che ad essi si disponea; in tanto che niuna novità che s’udisse, da quelli il potea rimuovere. E secondo che alcuni degni di fede raccontano di questo darsi tutto a cosa che gli piacesse; egli essendo una volta, fra l’altre, in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazione di uno speziale, e quivi statogli recato un libretto davanti promessogli, tra’ valentuomini molto famoso, nè da lui giammai stato veduto, non avendo per avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la panca, che davanti allo speziale era, si pose col petto; e messosi il libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a leggere. E comechè poco appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcuna general festa da’ Sanesi cominciatasi, da’ gentili giovani 9 si facesse una grande armeggiata, e con quella grandissimi rumori da’ circostanti (siccome in tali casi con istrumenti vari e con voci applaudenti suol farsi) ed altre cose assai vi avvenissero da dover tirare altrui a vederle, siccome balli di vaghe donne, e giuochi molti di ben disposti e leggiadri giovani, mai non fu alcuno che muovere di quindi il vedesse, nè alcuna volta levare gli occhi dal libro. Anzi, postovisi quasi a ora di nona, prima fu passato vespro, e tutto l’ebbe veduto e quasi sommariamente compreso, ch’egli da esso si levasse; affermando poi ad alcuni, che 'l domandarono, come s'era potuto tenere dal riguardare a così bella festa, come davanti a lui s'era fatta? — Sè niente averne sentito; per lo che alla prima maraviglia non indebitamente la seconda s'aggiunse a' domandanti„11. Nè faccia specie quest'astrazione, e quest'amor di solitudine per istudiare, quasi cose contrarie a quel compagnevole conversar di Dante negli anni suoi più lieti, ricordatoci da Leonardo Aretino: che, oltre al mutarsi ogni uomo con gli anni e le sventure, son naturali, od anzi più apparenti che vere, queste contraddizioni nelle nature appassionate e pronte; e tutta la vita e tutte le opere di Dante ce lo mostrano a vicenda, quanto attivo fra gli uomini e nemico de’ camuffati, tanto amico de’ pensieri e delle ispirazioni della solitudine.

Or rispetto a questi ultimi studii di Dante in patria, quantunque ci sia ricordato in generale ch’ei sempre v’attese, non ne restano frutti che sien certi. Già dicemmo che fece tentativi latini del Poema; e vedremo che furono probabilmente sette canti, ch’ei mutò poscia in miglior modo.

Del Convito, che alcuni danno in parte a quest’anni, vedremo pure, che fu certo terminato, e, a parer mio, fatto tutto quasi tutto nell’esilio. Ondechè, di questi nove in dieci anni dopo la morte di Beatrice, il matrimonio, e la composizione della Vita Nova restano solamente alcune Canzoni e Sonetti, che si possono veder nelle rime di lui raccolte ultimamente e commentate molto meglio che non saglio che non sieno state mai12 . E sono poche in tutto, alcune incerte se di lui, altre incerte di tempo. Di esse fu detto già esser un vespaio di difficoltà ad accertarle ed ordinarle; e ch’io non mi vi metta, e non vi tragga meco i leggitori, credo che questi non mi sapran male. Non darò esempi di esse, per non accrescere senza necessità le citazioni; alcune sono su Beatrice morta; e a chi le cerchi parrà forse come a quell’editore ed a me, che comparate alle rime del Petrarca in morte di Laura elle sieno non meno belle quanto a poesia, e più vere forse quanto ad affetto. Altre ne sono poi che accennano ad altri amori, e sono le più incerte di data e se veramente di lui. Ma certi sono ad ogni modo tali amori, e di questi anni, per sua propria confessione.

A siffatta colpa del nostro Dante torna parecchie volte il Boccaccio, e chiamala apertamente per il suo nome: “tra cotanta virtù, tra cotanta scienza, quanta dimostrato è di sopra essere stata in questo mirifico poeta, trovò amplissimo luogo la lussuria; e non solamente ne’giovanili anni, ma ancora ne’ maturi13„. E dicendo poi di non poter nè scusarlo nè condannarlo egli, reca gli esempi di Giove, di Ercole, di Paride, di Adamo, di David, di Salomone e d' Erode. I quali lasciando, e lasciando anche le osservazioni che si potrebbono fare rispetto alla consorte di Dante da lui così offesa, e tuttavia ingiuriata poi di soprappiù dai biografi, vegniamo a una confessione fattane da lui stesso, che meglio d’ogni altra cosa ci mostra i costumi di lui al tempo di che parliamo. Ma vedrà ognuno, quanto diversa sia tal confessione da parecchie fatte da altri con invecchiato compiacimento. Venuta meno a Dante la salutar presenza del suo primo amore, decadde egli, sì come molti, tra 'l tumulto della gioventù, delle compagnie, degli affari, delle occasioni, degli amori dammeno; ma restituito poi dall’avversa od anzi dalla sua buona fortuna ai pensieri, agli affetti solitarii, seppe, come pochissimi o ninno, tornare alla sua nativa altezza, alla moralità, alla religione, all’amore ed alla poesia; e così è che fece della propria confessione, il più bel canto che sia forse nella Divina Commedia.

Nella quale, disceso già di cerchio in cerchio tutto l'inferno, e risalito di scaglione in scaglione tutto il monte del Purgatorio, quando in cima a questo, nel Paradiso terrestre, egli incontra finalmente Beatrice; Beatrice che, secondo l’epoca finta al Poema dell’aprile 1300, egli da dieci anni piangeva e desiderava; segue una scena di ricognizione e d’amore, la più affettuosa fra quante furono descritte da Dante (non eccettusita quella dell’amore soddisfatto di Francesca); ma in cui la parte principale e più viva è quella appunto de’ rimproveri fattigli da Beatrice per le infedeltà di lui. Invano gl’interpreti si sono affaticati a guastar colle allegorie le celestiali parole, le quali, a chi legga con semplicità, non altro sono che parole di donna amorevole e pura e fatta Angelo sì, ma pur di donna qual doveva un Dante raffigurarsi in cielo la sua Beatrice. Nè qui corre allegoria; anzi, egli esce a poco a poco, al principio del XXX canto, d’ogni e paragona al nascere del sole ombrato tra’ vapori mattutini, la venuta di sua donna dentro una nuvola di fiori gettati dagli Angeli, e vestita di quel medesimo color di fiamma in che ei l’aveva veduta la prima volta, e in che ei la rivide poi sempre nelle sue visioni.

34E lo spirito mio, che già cotanto
     Tempo era stato che alla sua presenza
     Non era di stupor tremando affranto,
37Sanza degli occhi aver più conoscenza14,
     Per occulta virtù che da lei mosse,
     D’antico amor sentì la gran potenza.
40Tosto elle nella vista mi percosse
     L’alta virtù che già m’avea trafitto
     Prima ch’io fuor di puerizia fosse,
43Vuolsimi alla sinistra col rispitto
     Col quaie il fantolin corre alla mamma
     Quando ha paura o quando egli è afflitto,
46Per dicere a Virgilio: men che dramma
     Di sangue m’è rimasa che non tremi;
     Conosco i segni dell’antica fiamma15.
49Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
     Di sè, Virgilio dolcissimo padre,
     Virgilio a cui per mia salute diemi.

Piange Dante di tal dipartita, e subito incominciano quelle così tenere rampogne; che veda ognuno se sieno da persona allegorica, Teologia, Filosofia, Italia o che so io; od anzi non di donna vera, viva, amata, desiderata e in cielo beata.

55Dante, perchè Virgilio se ne vada,
     Non piangere anco, non piangere ancora;
     Chè pianger ti convien per altra spada.

.    .    .    .    .    .    .    .    .    

73Guardami ben; ben son, ben son Beatrice.
     Come degnasti16 d’accedere al monte?
     Non sapei tu che qui è l’uom felice?

Allora incomincia Dante a vergognarsi, ed intercedono (divina immaginazione) gli Angeli per lui. A tanta dimostrazione d’interesse stemprasi egli in lagrime; ed ella si rivolge con parole che pajon veramente scelte in paradiso alle sustanze pie:

103Voi vigilate nell’eterno die
     Sì che notte nè sonno a voi non fura
     Passo che faccia ’l secol per sue vie;
106Onde la mia risposta è con più cura,
     Che ra’ intenda colui che di là piagne.
     Perchè sia colpa e duol d’una misura.
109Non pur per ovra delle ruote magne17 ,
     Che drizzan ciascun seme ad alcun fine.
     Secondo che le stelle son compagne;
112Ma per larghezze di grazie divine,
     Che sì alti vapori hanno a lor piova,
     Che nostre viste là non van vicine,
115Questi fu tal nella sua vita nuova
     Virtualmente, ch’ogni abito destro
     Fatto averebbe in lui mirabii pruova.
118Ma tanto più maligno e più silvestro
     Si fa 'l terren col mal seme, e non colto,
     Quant’egli ha più di buon vigor terrestre.
121Alcun tempo 'l sostenni col mio volto;
     Mostrando gli occhi giovinetti a lui,
     Meco ’l menava in dritta parte vdlto.
124Sì tosto come in su la soglia fui
     Di mia seconda etade, e mutai vita,
     Questi si tolse a me, e diessi altrui.

127Quando di carne a spirto era salita,
     E bellezza e virtù cresciuta m’era,
     Fu’ io a lui men cara e men gradila;
130E volse i passi suoi per via non vera,
     Immagini di ben seguendo false.
     Che nulla promission rendono intera:
133Nè l’impetrare spirazion mi valse18,
     Ck)n le quali ed in sogno ed altrimenti
     Lo rivocai; si poco a lui ne calse.
136Tanto giù cadde, che tutti argomenti
     Alla salute sua eran già corti,
     Fuor che mostrargli le perdute genti.
139Per questo visitai l’uscio de’ morti,
     Ed a colui che t’ha quassù condotto
     Li prieghi miei piangendo furon pòrti.
142L’alto fato dì Dio sarebbe rotto
     Se Lete si passasse,19 e tal vivanda
     Fosse gustata, senza alcuno scolto
145Di pentimento, che lagrime spanda.

Purg. XXX.


Allora, rivolgendo a Dante slesso il parlare per punta,

Che pur per taglio gli era parut’acro,


5 Di’, di’, se questo è vero; a tanta accusa
 Tua confession conviene esser congiunta.

Purg. xxxi.


Egli indugia; e pressato da lei, risponde non più che un appena intelligibile; ed ella riprende:

22 ....... perentro i miei disiri.
     Che ti menavan ad amar lo bene,
     Di là dal qual non è a che s’aspiri,
25Qual fosse attraversate o quai catene
     Trovasti, perchè del passare innanzi
     Dovessiti così spogliar la spene?
28E quali agevolezze o quali avanzi20
     Nella fronte degli altri si mostraro.
     Perchè dovessi lor passeggiare anzi?21
31Dopo la tratta d’un sospiro amaro,
     A pena ebbi la voce che rispose,
     E lo labbra a fatica la formaro.
34Piangendo dissi: le presenti cose
     Col falso lor piacer volser miei passi,
     Tosto che ’l vostro viso si nascose

37Ed ella: se tacessi o se negassi
     Ciò che confessi, non fora men nota
     La colpa tua; da tal giudice sassi.
40Ma quando scoppia dalla propria gota
     L’accusa del peccato, in nostra corte
     Rivolge sé contra ’l taglio la ruota.
43Tuttavia, perchè me’ vergogna porte
     Del tuo errore, e perchè altra volta
     Udendo le sirene sie più forte,
46Pon giù ’l seme del piangere, ed ascolta;
     Sì udirai come in contraria parte
     Muover doveatì mia carne sepolta.
49Mai non t’appresentò natura od arte
     Piacer, quanto le belle membra in ch’io
     Rinchiusa fui, che sono in terra sparte.
52E se ’l sommo piacer sì ti fallio
     Per la mia morte, qual cosa mortale
     Dovea poi trarre te nel suo disio?
55Ben ti dovevi per lo primo strale
     Delle cose fallaci, levar suso
     Diretro a me che non era più tale.
58Non ti dovea gravar le penne in giuso
     Ad aspettar più colpi, o pargoletta22
     altra vanità con sì breve uso.

Nuovo augelletto due o tre aspetta;
Ma dinanzi dagli occhi de’ pennuti
Rete si spiega indarno, o si saetta.
Quale i fanciulli vergognando muti.
Con gii occhi a terra, stannosi ascoltando,
E sè riconoscendo e ripentuti23 .
Tal mi stav’io ec.

Purg. xxxi.


E lascio a stento, e termino chiedendo scusa meno ai leggitori della lunga citazione, che al divino Poeta delle sue membra così sovente per me divelto. Ma è di necessità per me, che ho impreso di far conoscere l’uomo: chi voglia conoscere il poeta, ricorra al Poema; e ’l legga tutto senza eccezione, e da sè senza disturbo.

Ed ora, cercati quanto seppimo i fatti di Dante in patria, seguiamolo con l’amara memoria di quei fatti, con l’ira bollentegliene in petto, con quell’amor rinnovatogli in cuore dalle sventure e dalla solitudine, con quegli errori, con quei combattimenti e col proposito di rinnovellar sua vita, di tornare allo studio ed al negletto voto del Poema, seguiamolo nell’interminato esilio.

  1. Fr. Sacch., Nov. CXIV.
  2. Vedi Com. della Minerva all’Inf. VIII, v. 64.
  3. Com. del Boccacc. al medesmo verso.
  4. Giornata IX, Nov. 8.
  5. Canto VI.
  6. Vedi Com. della Minerva Parad. XVI 115-120.
  7. Fr. Sacch. Nov. CXIV
  8. Fr. Sacch. Nov. CXV
  9. Arrivabene Tom. II, p. 312
  10. Bocc. Vita p. 55
  11. Bocc., Vita, p. 57,58
  12. Dante opere Minori Vol. I, Parte I e II. Firenze per Leop. Allegrini e G. Mazzoni nella Badia fiorentina 1834
  13. Bocc. Vita di D. p. 84
  14. Cioè, senza riconoscerla con gli occhi corporali.
  15. Agnosco veteris vertigia flammae. AEneid. IV, 23
  16. Ti credesti degno— senso che non si trova in altri è vero, ma che essendo il solo che faccia intendere ragionevolmente questo verso, non debbe esitarsi ad accettare secondo i numerosi esempi di tali trasposizioni di senso datici da Dante,e secondo anzi la sua espressa confessione d'aver sovente fatto così.
  17. Ecco, la sua natura primitivamente buona, la buona gioventù, il buono amor priiero! Ma in qual poesia espressi!
  18. L'impetrar essa da Dio di poter apparire a lui.
  19. Che Dante doveva ancor passare prima di essere assorto al paradiso con essa Beatrice.
  20. Avanzi, guadagni, acquisti, interpretano tutti i Commentatori (Vedi Ed. Min.) ma, non sarebb’ella la parola francese Avances, attrattive, premure?
  21. Questo passeggiar anzi di che tanto si disputa, parmi sopra tutto una rimembranza del passeggiar dinanzi alla gentildonna consolatrice della Vita nuona.
  22. Vedi, se ti giova, i sogni de’ Commentatori su questa pargoletta, di che fanno un nome proprio d’una amanza di Dante; mentre nelle rima di esso si trova tal denominazione presa in generale, come qui, per Fanciulla.
  23. Vedi il germe di questa bella terzina nella Vita Nova.

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