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Questo testo fa parte della raccolta Opere di Gabriello Chiabrera e di Fulvio Testi


VITA

DI GABRIELLO CHIABRERA

scritta da lui medesimo



Gabriello Chiabrera nacque in Savona l’anno della nostra Salute 1552 agli 8 di giugno, e nacque quindici giorni dopo la morte del padre. Il padre fu Gabriello Chiabrera, nato di Corrado Chiabrera e di Mariola Fea; la madre fu Gironima Murasana figlia di Piero Agostino Murasana e di Despina Nattona, famiglie in Savona ben conosciute. La madre rimasa vedova in fresca età, passò ad altre nozze, e Gabriello rimase alla cura di Margherita Chiabrera sorella del padre, e di Giovanni Chiabrera fratello pure del padre di lui, ambodue senza figliuoli. Giunto Gabriello all’età di nove anni fu condotto in Roma, ove Giovanni suo zio faceva dimora, ed ivi fu nudrito con maestro in casa, da cui apparò la lingua latina. In quegli anni lo prese una febbre, e dopo due anni un’altra, la qual sette mesi lo tenne senza sanità, e lo inviava a morire, onde Giovanni suo zio, per farlo giocondo, con la compagnia d’altri giovanetti lo mandava al Collegio de’ Padri Gesuiti, ed ivi prese vigore e fecesi robusto, ed udì le lezioni di Filosofia, anzi più per trattenimento che per apprendere; e così visse fino all’età di venti anni. Qui rimase senza Giovanni suo zio, il quale morissi, ed esso Gabriello andò a Savona a vedere e farsi rivedere da’ suoi, e fra pochi mesi ritornossene a Roma. Allora vendendo un giardino al cardinal Cornaro camerlingo, prese l’occasione, ed entrò in sua corte e stettevi alcuni anni. Avvenne poi, che senza sua colpa fu oltraggiato da un gentiluomo romano, ed egli vendicossi, nè potendo meno, gli convenne d’abbandonar Roma, nè per dieci anni valse ad ottenere la pace, ed egli si era come dimenticato di Roma. Assunto dal grande ozio in patria, erasi dato alla dolcezza degli studi, e così menò sua vita senza altro pensare; e pure in patria incontrò, senza sua colpa, brighe, e rimase ferito leggermente: la sua mano fece sue vendette, e molti mesi ebbe a stare in bando; quietossi poi ogni nimistà, ed ei si godette lungo riposo. Prese a moglie sui cinquant’anni della sua vita Lelia Pavese figlia di Giulio Pavese e di Marzia Spinola, ed allora egli ebbe a perdere tutto il suo avere in Roma. Ivi condannato per Pasquini chi maneggiava suoi affari, il fisco gli occupò il tutto, ma con mostrar ragioni, e col favore del cardinale Cintio Aldobrandini il trasse di nuovo a sè, e finalmente con riposo visse in patria secondo il suo grado, e con esso sua moglie oltre ottanta anni, ma senza figliuoli; sano in modo, che oltre quelle febbri primiere raccontate, non mai stette in letto per infermità, salvo due volte per colpa di due febbri terzanelle, nè ciascuna di loro passò sette parosismi: in questo fortunato, ma non già nell’avere, perchè nato ricco anzi che no, disperdendosi la roba per molte disavventure, egli visse, non già bisognoso, ma nè tampoco abbondantissimo. Ebbe un fratello ed una sorella legittimamente nati, i quali morirono innanzi lui, ed il fratello non mai si maritò. Questo è quanto si possa raccontare di Gabriello, come di comunale cittadino, e poco monta il saperlo. Di lui, come di scrittore, forse altri averà vaghezza d’intendere alcuna cosa, ed io lealmente dirò in questa maniera.

Gabriello da principio, che giovinetto vivea in Roma, abitava in una casa giunta a quella di Paolo Manuzio, e per tal vicinanza assai spesso si ritrovava alla presenza di lui, ed udivalo ragionare. Poi crescendo, e trattando nello studio pubblico, udiva leggere Marc’Antonio Mureto, ed ebbe seco famigliarità. Avvenne poi che Sperone Speroni fece stanza in Roma, e seco domesticamente ebbe a trattare molti anni; e da questi uomini chiarissimi raccoglieva ammaestramenti. Partito poi di Roma, e dimorando nell’ozio della patria, diedesi a leggere libri di poesia per sollazzo, e passo passo si condusse a volere intendere ciò ch'ella si fosse, e studiarvi attorno con attenzione. Parve a lui di comprendere, che gli scrittori greci meglio l’avessero trattata; si abbandonò tutto su loro, e di Pindaro si maravigliò, e prese ardimento di comporre alcuna cosa a sua somiglianza, e quei componimenti mandò a Firenze ad amico. Di colà fugli scritto, che alcuni lodavano fortemente quelle scritture; egli ne prese conforto, e non discostandosi da’ Greci scrisse alcune canzoni, per quanto sosteneva la lingua volgare, e per quanto a lui bastava l’ingegno, veramente non grande, alla sembianza di Anacreonte e di Saffo, e di Pindaro e di Simonide. Provossi anche di rappresentare Archiloco, ma non soddisfece a sè medesimo. In sì fatto esercizio parvegli di conoscere, che i poeti volgari erano poco arditi e troppo paventosi di errare, e di qui la poesia loro si faceva vedere come minuta; onde prese risoluzione, quanto ai versi, di adoperare tutti quelli i quali dai poeti nobili o vili furono adoperati. Di più avventurossi alle rime, e ne usò di quelle le quali finiscono in lettera da' grammatici detta consonante, imitando Dante, il quale rimò Feton, Orizzon in vece di dire Fetonte, Orizzonte. Similmente compose canzoni con strofe e con epodo alla usanza de’ Greci, nelle quali egli lasciò alcuni versi senza rima, stimando gravissimo peso il rimare. Si diede ancora a far vedere se i personaggi della tragedia tolti da' poemi volgari e noti, più si acconciassero al popolo, che i tolti dalle scritture antiche; e mise Angelica esposta all'orca in Ebuda, quasi a fronte di Andromeda; ed ancora alcune egloghe, giudicando le composte in volgare italiano troppo alte e troppo gentili di facoltà; e ciò fece non con intendimento di mettere insieme tragedie ed egloghe, ma per dar a giudicare i suoi pensamenti. Similmente ne’ poemi narrativi, vedendo che era questione intorno alla favola ed intorno al verseggiare, egli si travagliò di dare esempio a giudicare. Intorno alla favola, stimavasi non possibile spiegare una azione, e che un sol uomo la conducesse a fine verisimilmente; ed egli si travagliò di mostrare che ciò fare non era impossibile. Quanto al verseggiare, vedendo egli che poeti eccellenti erano stati ed erano in contrasto, e che i maestri di poetica non s’accordavano, egli adoperò l’ottava rima, ed anche versi rimali senz’alcun obbligo. Stese anche versi affatto senza rima; provossi inoltre di far domestiche alcune bellezze dei Greci poco usate in volgare italiano, cioè di due parole farne una come Oricrinita Fenice, o riccaddobbata Aurora; parimente provò a scompigliar le parole, come: Se di bella ch’in Pindo alberga Musa; e ciò fatto, essendo già vecchio, radunò alcune canzoni in due volumi, e componimenti in varie materie in due altri, raunò similmente un volume di poemetti narrativi, e sì fatte poesie egli scelse, come desideroso che si leggessero; il rimanente lasciò in mano di amici.

Con sì fatto, proponimento, e con si falla maniera di poetare, egli passò la vita sino al termine di lunghissima vecchiezza, ed acquistossi l'amicizia di uomini letterali, quali a suo tempo vivevano, ed anco pervenne a notizia di principi grandi, da’quali non fu punto disprezzato; e da ciò puossi far questo conto. Essendo lui in Firenze con amici per sollazzo, Ferdinando I, chiamollo a sè, e fecegli cortese accoglienza, e poi coniandogli fare alcuni versi per servile sulla scena ad alcune macchine, le quali voleva mandare al principe di Spagna per dilettarlo. Avutili, mandò a Gabriello una catena d'oro con medaglia, ove era impressa l’immagine sua e di madama sua moglie, ed insieme una cassetta con molti vasi di cose stillate per delizie e sanità. Poi por le feste della principessa Maria, maritata al re di Francia, cornandogli che avesse cura delle poesie da rappresentare in sulla scena, cd allora avvenne che provandosi alcune musiche nella sala dei Pitti, vennervi ad udirle la serenissima sposa, madama la gran duchessa, la duchessa di Mantova, il Cardinal Monti, ed altro numero di chiari personaggi, e finalmente venne Ferdinando, e vedendo egli Gabriello, il quale con altri suoi pari stava in piedi e colla testa scoperta, cornandogli che si coprisse e che sedesse. Fornite poi le feste, commise ad Enea Vaino suo maggiordomo, che notasse fra’gentiluomini della corte Gabriello con onorevole provvisione, e senza obbligo niuno dimorasse dovunque egli volesse. Nè meno Cosimo suo figliuolo mostrò di prezzarlo, anzi provandosi per le sue, nozze pubblicamente una favola in scena, e vedendo Gabriello, chiamollo e leccio sedere a lato a sè finchè finisse di provarsi quel componimento; e sempre, per lo spazio di trentacinque anni, diedero segno quei serenissimi signori di averlo caro, nè mai lo abbandonarono delle loro grazie. Carlo Emmanuelo duca di Savoia, vedendo che Gabriello scriveva l’Amadeida, invitandolo a farsi vedere, gli fece per bocca di Giovanni Botero intendere, che s’egli voleva rimanere in sua corte gli darebbe qualunque comodità egli desiderasse, ma Gabriello, scusandosi, rifiutò, ed il duca, dettogli quanto desiderava intorno a quel poema, lasciollo partire e donògli una catena; e di sua stalla commise che se gli apparecchiasse una carrozza a quattro cavalli: dimostrazione di onorevolezza la quale soleva farsi ad ambasciatori de'principi. Ancora scrivendogli, gli scriveva direttamente, parlandogli il duca e non il segretario; e sempre che Gabriello fu alla corte gli faceva contare lire 300, ch’egli diceva per il viaggio, il quale non era che lo spazio di cinquanta miglia. Ben è vero che non mai gli fece dare alloggiamento, nè mai, parlandogli, il fece coprire. Vincenzo Gonzaga duca di Mantova pure si valse di lui, e nelle nozze di Francesco suo figliuolo il chinino, e lasciò a lui i pensieri di ordinai macchine e versi per intermedj sulla scena. Da questo signore fu in tal guisa onorato, sempre alloggiato e spesato in suo palazzo, e sempre udillo colla lesta coperta; ed andando a pescare sul lago, ve lo condusse sulla propria carrozza sua, e pescando, fece entrarlo nel suo proprio navicello, e desinando, tennelo seco a tavola; poi, spedite quelle allegrezze, rimandollo a Savona, e volle che senza obbligo di niuna servitù pigliasse un onorevole stipendio sulla tesoreria di Monferrato; e così fu, ed ogni volta che Gabriello fu a quella corte sempre accarezzollo. Corsero anni, e fu creato papa il Cardinal Barberino. Gabriello ebbe con lui amicizia fin dagli anni giovanili, e sempre durò, ma non con molta familiarità per la lontananza delle loro dimore; andò dopo a baciargli i santissimi piedi, fu raccolto con cortesissima maestà, e diede Sua Beatitudine segni di amore sempre che Gabriello capitò in Roma, perchè egli non volle larvi continuamente stanza. La prima volta ch’egli se ne dipartì, mandògli un bacile pieno di agnusdei, e due medaglie, ov'era il suo volto scolpito, ed un quadretto dentrovi l’immagine di Nostro Signore miniata: poi sotto l’Anno Santo egli gli scrisse un Breve, come suole agli uomini grandi, e con esso invitatolo a Roma; ed il Breve fu di questo tenore:



Dilecte Fili, salutem, et apostolicam benedictionem. Pontificii amoris monumentum, et celeberrimae virtutis praemium extare volumas Apostolicum hanc Epistolam tibi inscriptam; quamvis enim ejusmodì honoribus non nisi principes viros dignari solet Maiestas Romani Pontificatus, attamen Gabrielem Chiabreram ex aliorum litteratorum vulgo secernimus, cuius arma sapientiae paraverunt regnum in tam multis Italiae ingeniis. Arcibus, et legionibus potentiam suam muniant dominantes. Tu carminum vi studiosam iuventutem sub ingenii tui devotionem redigis, dum sibi imitatione tuorum poematum aditum patefieri arbitramur ad immortalitatem nominis consequendam. Interest autem Reipublicae quamplurimos reperiri imitatores studiorum tuorum; lyrica enim Poesis, quae, ante vino, iustrisque confecta in triviis, et tenebris sordido Cupidini famulantur, per te nunc graecis divitiis aucta, deducta est modo in Capitolium ad ornandos virtutum triumphos, modo in Ecclesiam ad Sanctorum laudes condnendas. Nec minus feliciter sibi consulent, qui mores tuos non imitabuntur uegligentius, quam carmina; Prudentiam enim cum sapientia coniungens, et severìtatem facilitate leniens, deraeruisti Italicos Principes, et docuisti populos, posse poetica ingenia, sine dementiae mixtura, et vitiorum faece fervere. Quare Nos non obliti veteris amicitiae, et faventes laudibus nominis tui, singulare hoc tibi damus patemae nostrae pignus caritatis, cupientes quam nobis, decedens, fìdem sponsione obligasti eam, adventu tuo quam primum liberari; tibique Apostolicam benedictionem peramanter impertimur. Datum Romae apud Sanctam Mariani Majorem sub annulo piscatoris die 29 novembris 1623, pontificatus nostri anno secundo.


Andò dunque in Roma, e fu con accoglienze più cortesi ricevuto. In quel tempo era il giorno della Candelora, in che dispensandosi le candele benedette ai cardinali in cappella di Sisto, il papa dal seggio, ove egli solennemente sedeva, comandò, che una se ne portasse all’alloggiamento di Gabriello. Ancora incontrandolo per la via di san Giovanni, la quale mena a santa Maria Maggiore, piena di passeggieri per la giornata solenne, egli quasi scherzando mandò a Gabriello un palafreniere, il quale espose queste parole di Nostro Signore: Che, poiché lo vedeva in peregrinaggio, gli mandava quella elemosina; ciò fu di medagliette di argento, entrovi impressa la Porta Santa. S’aggiunse a questi grandi un grandissimo favore. Predicavasi in sala di Costantino, ed aveva Sua Santità fatto divieto ad ognuno che non fosse prelato l'entrarvi ad ascoltare. Gabriello per voglia di udire, fece fare preghiere al papa, il quale erasi posto nella stanza di legno, chiamata Bussola. N. S. rispose: Che a lui pareva male rompere l'ordine fatto; e fece chiamare Gabriello, e tennelo seco in quel signolarissimo luogo con esso lui, quanto fu lunga la predica. E da notarsi ancora, che andato il Chiabrera a Roma a baciare i piedi ad Urbano, dopo la ricevuta del soprascritto Breve, e ringraziato riverentemente il Sommo Pontefice dell'onore ricevuto, con dire: Che si alte lodi erano effetti dell’amicizia che passava tra monsignor Ciampoli segretario de’ Brevi, e lui; risposegli Urbano: Lo abbiamo dettato noi.

Nè la Signoria Serenissima di Genova fu meno cortese in favorirlo, e quante volte egli favellò a’ serenissimi collegj, sempre comandò il serenissimo duce ch'egli coprisse il capo; ed i sudditi sogliono in quel luogo star col cappello in mano. E l’anno 1625 per la stagione della guerra col duca di Savoja, guardandosi Savona con gran quantità di soldati, il serenissimo Senato privilegiò la sua casa ed i suoi poderi, sicché soldato niuno vi prese alloggiamento; e per quella stagione radunandosi monete per molte vie, egli ne fu franco per decreto del principe; e con sì fatte grazie egli si condusse oltr’a’ottanta anni. Fu di comunale statura, di pelo castagno, le membra ebbe ben formate, solamente ebbe difetto d’occhi, e vedea poco da lungo, ma altri non se ne avvedea: nella sembianza pareva pensoso, ma poi usando con gli amici, era giocondo; era pronto alla collera, ma appena ella sorgeva in lui che ella s'ammorzava; pigliava poco cibo, ne dilettavasi molto de’ condimenti artificiosi; ben bevea molto volentieri, ma non già molto, ed amava di spesso cangiar vino, ed anco bicchieri; il sonno perdere non potea senza molestia. Scherzava parlando, ma d’altri non diceva male con rio proponimento: a significare che alcuna cosa era eccellente, diceva, che ella era poesia greca; e volendo accennare ch’egli di alcuna cosa non si prenderebbe noia, diceva: non per tanto non bevevo fresco? Scherzava sul poetar suo in questa forma; diceva, ch'egli seguia Cristoforo Colombo suo cittadino, ch'egli voleva trovar nuovo mondo o affogare. Diceva ancora cianciando, la poesia essere la dolcezza degli uomini, ma che i poeti erano la noia; e ciò diceva riguardando all'eccellenza dell arte ed all’imperfezione degli artefici, i quali infestano altrui col sempre recitare suoi componimenti; e di qui egli non mai parlava nè di versi nè di rime se non era con molto domestici amici e molto intendenti di quello studio. Intorno agli scrittori egli stimava ne' poemi narrativi Omero sopra ciascuno, ed ammiravalo in ogni parte, e chi giudicava altramente egli in suo segreto stimava s'odorasse di sciocchezza; di Virgilio prendeva infinita maraviglia nel verseggiare e nel parlar figurato; a Dante Alighieri dava gran vanto per la forza del rappresentare e particolareggiar le cose, le quali egli scrisse; ed a Lodovico Ariosto similmente. Per dimostrar che il poetare era suo studio, e che di altro egli non si prezzava, teneva dipinta, come sua impresa, una cetra, e queste parole del Petrarca: Non ho se non quest'una. Prese gran diletto nel viaggiare, e tutte le citta d'Italia egli vagheggiò, ma dimora non fece solo, ma dimora non fece solo che in due, Firenze e Genova: in Firenze ebbe perpetuamente alloggiamento da' signori Corsi marchesi di Cajaso; in Genova talora dal marchese Brignole, e talora dal signor Pier Giuseppe Giustiniani, dalli quali con ogni cortesia era famigliarmente raccolto, ed i quali egli amava e riveriva sommamente; e sopra la porta della camera dove alloggiava nel palazzo di Giustiniani in Fossole, fu da questo signore fatto scolpire l'infrascritto distico:

Intus agit Gabriel, sacram ne rumpe quictem,
     Dum strepis, ah periit, nil minus Iliade.

Del rimanente egli fu peccatore, ma non senza cristiana divozione; ebbe sauta Lucia per avvocata; per lo spazio di sessanta anni due volle al giorno si raccomandava alla pietà; nè cessò di pensare al punto della sua vita.

Così senza taccia di mendacio e di prosunzione scrisse, come scrisse il Giustiniani, di sè stesso il Chiabrera il quale giunto felicemente all'età di 86 anni e quattro mesi gloriosamente morì, e fu onoratamente riposto il suo corpo nella Chiesa di s. Giacomo de' Riformati di s. Francesco nella di lui Cappella, e fu eseguita la volontà sua, essendosi fatte scolpire sul suo Sepolcro le seguenti parole:

AMICO


io vivendo cercava il conforto per lo monte parnaso, tu, meglio consigliato, fa di cercarlo nel monte calvario

In questa breve ed umile iscrizione si vede di qual tempra e di qual moderata e cristiana pietà fosse ripieno l'animo di lui, quando potea essere ben persuaso che alla dottrina e virtù sua non sarebbero mancati uomini di gran merito che con singolari elogi avrebbero fatta pubblica al attestazione del valor suo; ed in prova non furon pochi ma io mi contenterò di riportarne qui un solo, di cui non può esserne altro più glorioso per il Chiabrera, per essere stato dettato dal medesimo sommo pontefice Urbano VIII che è di questo tenore:

siste hospes

gabrielem chiabreram vides

thebanos modos fidibvs betevscis

adaptare primvs docvit

cycnum diecaevm

avdacibvs sed non decidvis pennis seqvvtvs

ligvstico mari

nomen aeternvm dedit

metas qvas vetvstas ingenis

circvumscripsebat

magni concivis aemvulvs avuvs transilire

novos orbes poeticos invenit

principibvs charvs

gloria quae sera post cineres venit

vivens fevi potvit

nihil enim aeqve amorem conciliat

qvam svmmae modestia

vrbanvs viii pont. max.

inscripsit

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