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VITA
DI
LUIGI ROSSINI
RAVENNATE
ARCHITETTO E INCISORE
scritta da
FILIPPO MORDANI
FORLÌ
DALLA STAMPERIA BORDANDINI
M. DCCC. LXV.
a
filippo rossini
e ai fratelli di lui
narsete e teofilo
questa vita
di LUIGI loro padre u. c.
offre e dedica
l’autore
LUIGI ROSSINI
In questo racconto della vita di Luigi Rossini sono da notare particolarmente due cose: e la prima si è, che la povertà non ha sempre forza di spegnere negli uomini le inclinazioni ch’ebbero dalla natura; anzi alcuna volta apre loro il cammino per giugnere a meta gloriosa: e la seconda, che a divenire eccellenti in qualsivoglia arte o scienza, bisogno fa adusarsi infino dalla puerizia a patir caldo e freddo, fame e sete, e tutti gl’incomodi e i disagi e gli stenti e le fatiche del mondo. Ma prendiamo la narrazione dal suo principio.
Luigi Rossini nacque in Ravenna a’ 15 di decembre l’anno 1790, di famiglia ch’avea l’origine sua da Lugo nelle Romagne. Il padre di lui si chiamò Giovanni, uomo di popolo e povero, ma onesto; e la madre ebbe nome Cristina, e fu della casa de’ Benedetti. Di otto figliuoli che Giovanni ebbe dalla moglie sua gli era rimasto solo Luigi; il quale, essendo nella età di sedici anni, e mostrandosi molto inclinato al disegno, fu messo dal padre alla scuola di maestri, come dice ei medesimo, alquanto mediocri. Crescendo poi in lui vie più quello amore che lo traeva alle arti belle; e avendo inteso essere in Bologna una insigne accademia ed abilissimi professori, una mattina di buon’ora, senza dir nulla a persona, con in tasca cinque scudi e un piccolo fardelletto sotto il braccio, solo e a piedi verso quella parte s’indirizzò. E dopo il cammino di un giorno e mezzo, stanco vi pervenne; e veduta la nobile città e l’accademia delle belle arti, subitamente ebbesi posto in cuore di non si voler partire di quivi.
Ma non andò guari che gli venne manco quel po’ di denaro ch’avea portato seco; e non avendo più di che potersi sostentare, pensò d’acconciarsi per garzone con qualche valente artista. E sovvenutosi di Francesco Rosaspina incisore, ch’avea non so come conosciuto in Ravenna, se gli presentò, pregandolo di consiglio e di aiuto. Quel valentuomo, piacendogli assai la bella presenza del giovanetto e la sua molta vivacità, ben volentieri l’ebbe raccomandato ad Antonio Basoli pittore d’ornato; il quale dimandollo che cosa sapesse fare; e sentito che non sapeva far nulla, gli profferse cinque baiocchi al giorno. Di che ’l giovanetto si tenne per contentissimo; ed essendo molto ingegnoso, apparò ben presto a fare tutte sorti di cornici a chiaroscuro; per che ’l Basoli, in capo a un mese, gli crebbe la mercede di altri dieci baiocchi. Ora io non credo ch’uom stesse mai a sì grandi disagi, come questo buon giovane; pur era lieto di quella sua vita tanto povera e faticosa. Sappiamo che passava le giornate intere appresso del suo maestro; ma qual fosse il suo alloggio al sopravvenir della notte cel racconterà egli stesso con le sue parole: «Il mio alloggio poi era incognitamente nella ritirata interna di una porta nella sala del palazzo comunale sulle panche, ove si facevano le sedute: ma incominciando a far freddo, mi comprai un pagliaccio nella via Imperiale, e lo pagai otto paoli; e presa a pigione una soffitta nel borgo della Paglia, ivi faceva la mia residenza la notte sempre studiando. Non mancavo in questo tempo di andare indefessamente la sera all’accademia di belle arti, ove furono i miei maestri il Marconi in ornato, l’Antolini in architettura ed il prof. Santini in prospettiva, dai quali fui tanto amato, che mi obbligarono a concorrere nel secondo anno di mia dimora in Bologna; ed ottenni i premi in prima classe in ornato, ed un premio piccolo curlandese in architettura d’invenzione» . Così con tutta ingenuità il nostro Luigi.
Il quale fattosi un po’ di credito, e accendendosi tuttavia in maggior desiderio d’imparare, accade che ’l Basoli infermò; onde si pose alla scuola di Luigi Cini, anch’esso celebre per gli ornati; ma poi accortosi che ’l suo nuovo maestro era più povero di lui, arrecossi a star da sè. E come avea fatto un po’ di denaro per vivere, ed ei cessava dal lavoro: frequentava l’accademia, l’università e la pubblica biblioteca. Poi, conoscendo di avanzare sempre più negli studi dell’architettura, gli crebbe l’animo sì fattamente che dispose di voler tentare il gran concorso di Roma: il quale durava ben undici giorni, stando i concorrenti chiusi tutto quel tempo in separate cellette. E vi si apparecchiò con grande studio ed esercizio, recandosi a memoria tutte le teoriche di Vitruvio, dell’Alberti, del Palladio e del Milizia; e quanto avea appreso di geometria e di algebra alle scuole della università.
Ei dunque veniva con grande animo e fidanza di sè a questa concorrenza; nè gli mettevano timore nessuno i competitori suoi, ch’aveano studiato con lui all’accademia; ma saputo essere giunto improvvisamente da Milano un tale, con assai lettere commendatizie, forte si turbò, e vennegli dubbio non gli fosse tolto ingiustamente il premio che si prometteva certissimo. Riscaldatosi in questo pensiero, senza punto indugiare, vassene al segretario dell'accademia, ch’era Pietro Giordani, e con volto acceso e parola franca: — Dite a’ professori che badino bene di fare le cose giuste; altramente io, benchè povera persona sia, me ne andrò a piedi a dolermi alle maggioranze di Milano. — Il Giordani, guardandolo in viso, e preso un contegno grave: — Temerario (disse), ond’è venuta in te tanta audacia, e che sospezione è questa tua? E chi se’ tu? Credi forse d’essere il figliuolo di re Pepino? Io non ti farò del male, ma non isperare nè anco ch’io ti faccia del bene. — E ’l giovane a lui, ravvivando la espression dello sdegno col rinforzar della voce: — Del vostro bene io punto non ho bisogno. — E partissi. Ma poi, passatagli quella furia romagnuola, cominciò a pensare fra sè medesimo ciò ch’avea fatto; e riprendevasi forte della sua natura tanto subita e sospettosa. E così tutto mesto e rannuvolato entrò al concorso; ma seppe bene uscirne ad onore, avendo sopra tutti gli altri suoi compagni ottenuto il premio in architettura con pienezza di suffragi, come l’ottenne in iscultura l’amico suo Adamo Tadolini. Grandissima fu la contentezza di lui per questo premio, che gli dava di essere ammesso all’accademia italiana in Roma, con pensione per quattro anni.
Ma questa sua allegrezza ben tosto si mutò in pianto; però che le fatiche durate nel concorso, le veglie, l’alterazione dell’animo e qualche scorso giovanile gli ebbero guasta la complessione. Si pose a giacere infermo; e tanto poscia aggravò, che fu creduto la vita gli andasse ad ore, e datogli l’olio santo. Pur, aiutandolo l’età giovane e l’assistenza amorevole del suo egregio concittadino, il dottor Caiani, dopo alcuni mesi riebbe la sanità. E subito partì verso Roma col Tadolini; dove giunti, furono tutti e due ricevuti all’accademia italiana nel palazzo di Venezia. I suoi desiderii erano del tutto soddisfatti; ma ben presto, per la caduta del trono imperiale di Francia, mutate le cose, quella pensione gli mancò: se non che per opera del sommo ed ottimo Canova, fu poscia riconfermata. Non di manco furono quattro anni di disagi grandissimi; per che trovandosi in molta necessità, fu costretto di vendere la casetta paterna ch’avea in Ravenna, nel vicolo di s. Elia, di rimpetto al convento che fu de’ Carmelitani. Ciò avvenne nel 1814. In questo mezzo concorse al premio annuale instituito dal Canova pe’ soli alunni dell’accademia, e lo meritò; giudici Giuseppe Camporese e Rafaello Stern, valenti architetti di Roma.
Cessatagli poi affatto la pensione, egli andò ad abitare di dietro al palazzo della Consulta: ed ivi stava da solo con un suo cane, ch’era il guardiano della casa; lavorando continuamente per procacciarsi le cose necessarie al vivere. Il Canova gli diede a fare i disegni della sua chiesa eretta a Possagno. Dipinse anche pel ministro d’Austria un gabinetto nel palazzo di Venezia; e le pareti della gran sala da ballo nel palazzo Simonetti. Architettò pel conte Marconi e dipinse in Frascati una sala semicircolare con colonne. Fece un tempietto rotondo nella villa del banchiere Silvestri d’Ancona; ed altre cose assai, le quali lungo sarebbe a narrare.
Benchè la profession sua fosse l’architettura, pur visto che a lui, uom sdegnoso di chieder nulla a chicchessia, sarebbe stato difficile avere un impiego d’architetto, si risolvette di darsi in tutto all’arte dell’intaglio. E innamorato delle bellissime stampe di Giovan Battista Piranesi (ch’egli appellava meritamente uno degli onori d’Italia, e s’avea fatto fare il busto di lui, tenendolo in grande venerazione), quelle prese a modello: e si mise affatto, anco pe’ conforti del celebre dipintore cav. Vincenzo Camuccini, che molto gli era amico, all’incidere. Ma sul principio non gli veniva bene secondo il desiderio e bisogno suo; onde se ne diede infinito dolore, e fu quasi per lasciarsi vincere alla disperazione: pur tentando e studiando e non perdonando a fatica per lo spazio di ben tre mesi, ebbe finalmente trovato una sua maniera d’incidere che a bastanza lo soddisfece. E così senza maestro pubblicò nel 1817 cinquanta vedute delle fabbriche migliori di Roma dal secolo ottavo fino al diciottesimo, incise all’acquaforte; le quali furono tenute belle, benchè, al dire di lui, fossero cose di puro studio e da principiante nell’arte. Poi, fatto maggiore animo, spezialmente per le lodi che gliene diede il cav. Giuseppe Tambroni nel giornale arcadico, attese ad un nuovo e più grande lavoro, cioè all’opera delle Antichità romane, in cento e una veduta; la quale fu di più pregio che l’altra, tanto egli vi pose di fatica e di amore. E ne cavò di molto denaro; e, quel ch’è più, bellissima rinomanza. Avvegna ch’egli ebbe la buona ventura di potere, mediante le nuove scavazioni, disegnare i monumenti quali oggidì li veggiamo; il che non poterono fare nè ’l Labacco nel secolo xvi, nè il Desgodets nel xvii, nè lo stesso Piranesi benchè vivuto sino al 1778.
Ma ’l travaglio del corpo e della mente nel misurare e disegnare dal vero i monumenti, e nel condurre le incisioni, fu grande; però che narra egli stesso che faceva tre disegni e incideva tre rami al mese, non si pigliando riposo nè pur le notti. Non farà per ciò maraviglia il dire che cadde infermo. Cominciò a sentirsi freddo, e dopo un poco lo prese la febbre: poi il male si fece sempre più grave, in tanto che parlava in farnetico. Questa infermità lo tenne in letto sei lunghi mesi, assistito dal Lapi, che fu un buon medico di que’ dì, e da due suoi amici con ogni ufficio di carità e di amore. E come cominciò alquanto a riaversi, s’accorse che le due fanti ch’avea preso per lui servire in quella sua infermità (credendo che morisse), gli aveano rubato ogni cosa, dai denari in fuori, ch’egli accortamente avea nascosti sotto un mucchio di cenere. Allora conobbe come sia pericolosa cosa vivere l’uomo da solo, e alla discrezione de’ servi; e se bene fosse stato insino a quel di avverso alle nozze, cominciò a porvi il pensiero. Si tramutò di quella casa, e prese stanza nel palazzo Trulli al Quirinale; ma anche questa abitazione non piacendogli, comperò poi una casa in via Felice (n. 138), come a suo luogo vedremo.
Intanto, tenendo sempre rivolto l’animo a tor donna, addivenne caso che una notte d’estate (era l’anno 1822) gozzovigliando in brigata con alcuni artisti suoi amici, tutto ad un tratto venne loro in capo, essendo un bellissimo lume di luna, di fare una gita a piedi insin a Genzano; delizioso paese, di lungi da Roma diciotto miglia. Detto fatto si partirono; e arrivati là innanzi che fusse giorno chiaro, presero riposo all’osteria: poi, levatosi già ’l sole, se ne andarono a diporto per un luogo tutto ombrato da olmi, detto l’olmata. Ed ecco due femine, molto belle e in età da marito, passare per quel luogo. Il Rossini, giovane di spiriti vivissimi, e tutto faceto e piacevole, innamorato di quelle bellezze, si fece loro incontro con lietissimo viso, come volesse loro chiedere non so che; ma elle tra vergognose e confuse incontanente fuggirono. I compagni di Luigi risero assai di questa cosa: egli tenendo sodo, fu sollecito a investigare e domandare, e trovò che le erano figliuole di Filippo Mazzoni speziale del luogo. Bastògli, nè cercò d’altro: e tutti allegri, come ciascun dee credere, si rimisero poi in via per tornare a Roma.
Non passarono molti di che ’l Rossini, il quale non pensava ad altro, se non di rivedere quantoprima la giovane, che più gli era piaciuta, senza far parola agli amici, e tolto seco un suo lavorante molto fidato, se ne tornò a Genzano; e andò diritto a casa Mazzoni; e presentatosi allo speziale, disse com’egli era così preso della bellezza della sua figliuola Francesca, che di buon grado l’avrebbe tolta per moglie. Quel da ben uomo restò tutto confuso, udendo così impensata cosa: pur disse che avrebbe chiesto di suo essere e di sua condizione: e se ne avrò buone novelle, già che io punto non vi conosco, e la figliuola mia consente di ricevervi per marito, io non sarò restìo di darvela in moglie. — Ma per non andare in troppe parole, chè molto vi sarebbe a dire, le cose procedettero poi così bene, che ’l parentado si fece ai 18 di agosto dell’anno predetto. Abbiamo voluto toccare di questo suo maritaggio alquanto bizzarro (così lo chiamava ei medesimo), per che porse grandissimo piacere e sollazzo a’ suoi amici di Roma, ch’era il fiore de’ dotti e letterati di que’ dì; cioè il Biondi, l’Amati, il Betti e ’l Tambroni, statigli sempre congiunti di particolare benevolenza.
Ora seguitando il proposito nostro diciamo, ch’egli avea già comperata la casa in via Felice, dove gli nacquero dalla donna sua tutti e sei i suoi figliuoli, quattro maschi e due femine, e dove condusse assai opere, che maggiormente gli diedero fama si appresso gl’italiani e si appresso gli stranieri, e comodità alla vita. E furono queste: Le antichità de contorni di Roma — I sette colli di Roma — Le porte e le mura del recinto di Roma — Le antichità di Pompei — I monumenti del x secolo fino al secolo xviii — Gli archi trionfali, onorarii e funebri degli antichi romani sparsi per tutta Italia — Il viaggio pittoresco da Roma a Napoli, che volle intitolato ad un suo illustre e molto caro amico, il cav. Salvatore Betti — Gl’interni delle più belle chiese e basiliche di Roma — La scenografia di Roma moderna. Tutte queste vedute o prospettive furono con grande studio, con diligenza e con amore disegnate e incise dal Rossini in quattrocento settantadue tavole, con istoriche illustrazioni; e per la novità e bellezza loro erano cerche dai ricchi e dai dotti, massime stranieri; e mostrano come sieno veri e giusti gli encomii che gliene diedero uomini molto riputati in fatto di lettere e di arti.
Era il Rossini pervenuto agli anni sessantuno, e non tanto per le ben acquistate ricchezze e la bella rinomanza, quanto per le virtù della donna sua e de’ suoi figliuoli, parevagli essere in grande prosperità temporale. E sopra tutto compiacevasi del suo primonato Alessandro: di ventott’anni: di bello e gioviale aspetto: amato universalmente per la bontà de’ costumi e dell’ingegno: dotto nelle scienze matematiche: stimato de’ più valenti architetti fra’ giovani di Roma: fatto ispettore de’ monumenti antichi; ed affidatogli dalla deputazione delle arti belle il restauro del Colosseo. Ond’è che sperava e quasi si riprometteva lieti e tranquilli gli ultimi anni del viver suo. Ma vedete che cosa è ’l mondo; e come spesso l’uomo s’inganni, formandosi idoli d’imaginata felicità! Ecco, venirgli la più grande delle tribulazioni, donde egli avea la maggiore consolazione.
Però che era il giorno 13 di novembre del 1851, e questo buon giovane, essendo sopra gli scavi della via Appia, tornava la sera al tardi verso Roma; od avea passato di poco il monumento di Cecilia Metella, quando avvenne per isciagura che ’l cavallo che tirava il carrozzino, rotte le redini e sentendosi libero, si mise a correre alla distesa. Allora il giovane, credendo campare da quel pericolo, gittòssi del carrozzino in terra, e per la caduta che fece gli si staccò dal piede ed infranse l’osso anteriore della gamba diritta, tanto che uscì delle carni. Era in sul tardi, come dicemmo, e ’l luogo quasi deserto, sì che passarono più di due ore prima ch’ei potesse essere portato alle sue case. Come la tristissima novella giunse al suo misero padre, e poco stante vide dinanzi a sé ’l suo figliuolo così mal concio, pallido e sanguinoso, tanto dolore entrò nel cuor suo, che subito fu preso da paralissia. Fatto venire il Baroni, ch’avea voce del miglior cirusico che fosse in Roma; questi non sapendo risolversi di fare il taglio della gamba, tanto indugiò che poi non fu a tempo; onde il povero giovane, dopo diciannove giorni, morì di spasimo nelle braccia del padre suo.
Il quale, da quel giorno innanzi, non potè più ricevere nè allegrezza nè conforto: gli si ridestarono più forti i dolori che già avea cominciato a sentire alla spina dorsale: dovè mettersi in letto, e spesso dallo spasimo era tratto fuori de’ sensi. In questo penoso stato durò ben cinque anni. E non ostante che fosse così tormentato dal male (tanto era l’amore che portava alla sua arte) si conturbava e dolevasi grandemente che dovesse rimanere senza il suo compimento l’opera de’ Principali fôri di Roma antica, ch’avea misurati e disegnati, e incise quaranta tavole. Ma già le forze gli mancavano; e conoscendo che ’l suo fine sarebbe presto, domandò, ed ebbe, i conforti della religione; e la mattina del 22 di aprile 1857, nella età di sessantasei anni e quattro mesi, venne al termine della mortale vita. Al luogo del suo sepolcro, ch’è nella chiesa de’ padri Cappuccini, fu posta una breve ed elegante iscrizione latina, dettata dal prof. Betti.
Fu ’l Rossini professore accademico di s. Luca nella classe dell’architettura: inscritto alla reale accademia albertina di Torino: alla provinciale delle belle arti di Ravenna; ed alla pontificia romana di archeologia. E, venendo a’ suoi particolari costumi, ei fu uomo d’interissima fede, di molta religione e sincera, sollecito osservatore delle leggi. Ebbe per usanza di separarsi dai rumori delle genti, e di star in casa por poter attendere più speditamente alla sua arte; desiderando sempre fare maggiori cose che non avea fatte per addietro. Non andò mai (come ei dice) a baciar le mani nè i piedi a nessuno per accattar favori e protezioni. E stimando gli uomini per sola la virtù, non fece mai dono delle sue opere a gran signori e a principi: ne volle pur conoscere prelati e cardinali; ma bene si allegrò in veggendo spesso visitare il suo studio i più illustri personaggi d’Europa. E per non mancare onestamente a se medesimo, dettò le memorie della propria vita2 in uno stile alquanto scorretto, come quegli che non avea fatto studio di lettere. Nelle quali memorie si dolse a ragione, che, se bene in Roma non fosse stato avanzato da niuno in quella sua arte, pur non trovasse mai appresso i governanti incoraggiamento nessuno. La sua effigie corporea è stata ritratta in un busto di gesso, più grande del naturale, dal suo egregio concittadino, e amico nostro carissimo, Luigi Maioli scultore. Il quale n’ha fatto dono all’accademia ravegnana delle belle arti, acciò che non manchi alla patria la imagine di questo suo illustre figliuolo.
- ↑ Propriamente questo vicolo ha ’l titolo di s. Elia: il Rossini lo dice di s. Giovanni, perchè conduce alla Chiesa di s. Giovan Battista.
- ↑ [p. 28 modifica]Ad instanza di un ch. letterato (C. E. Muzzarelli) il Rossini dettò nel 1830 le memorie della propria vita; le quali furono stampate la prima volta in Torino del 1853, nelle Biografie autografe ed inedite d’illustri Italiani di questo secolo, ma con assai errori: e poscia ristampate correttamente del 1857 nell’Album di Roma, subito dopo la morte di esso Rossini. Il quale però, mentre visse, le venne ampliando, essendogli parso vero quel ch’avea detto Benvenuto Cellini; cioè che tutti gli uomini d’ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, o sì veramente che la virtù somigli, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor propia mano descrivere la loro vita.
Di queste memorie del Rossini mi piace di darne qui alcuni saggi, oltre a quello che ho posto per entro la vita di lui; e sono questi.
Qui dice della sua nascita e della sua origine.
«. . . io so di essere nato in Ravenna, città delle più antiche e memorande ed illustri d’Italia. Io nacqui nel 1790 da famiglia oscura, come dissi, ma onestissima, e proveniente da Lugo, ove nacque il padre del celebre maestro Gioacchino Rossini, di cui sono cugino ec. ».
Conta come suo padre impoverì la famiglia.
Ricorda la sua casa di Ravenna.
«La sua madre (cioè la madre di Giovacchino Rossini) veniva sempre in mia casa, la quale era situata nel vicolo di s. Giovanni1, e di rimpetto al convento di detta Chiesa; comprata da mio padre dal Demanio, ma essa era piccola... e la vendetti all’avvocato Vignuzzi nel 1814 per pochi scudi ec.».
Parla del suo matriminio.
«Il mio matrimonio fu nel 1822 alli 18 di agosto.... ed ho trovato una donna, come già ho detto prima, di rari costumi, santissima dì religione, di una bontà senza limiti; e per quanto dicessi, non direi mai abbastanza quanto merita questo Angelo del Paradiso».