< Catone Maggiore
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XI XIII

La vecchiezza distoglie dai piaceri sensuali.

Terzo difetto si appone alla vecchiezza: d’essere abbandonata dal gusto dei sensi.

O età doppiamente privilegiata se mercé di essa siamo tratti in salvo da ciò che è fonte di tanti vizi per la gioventù! E qui, ottimi garzoni, imparate quale fosse l’opinione di Archita di Taranto, filosofo chiarissimo e primo fra i primi di quella città. A me venne fatto di conoscerla quando tuttora giovinetto ebbi stanza in quella città con Quinto Massimo.

Diceva quel savio che natura non avea mai percosso gli uomini con flagello peggiore dei godimenti sensuali. "Da quella sete insaziabile di voluttà sono eccitati senza verecondia e senza freno. Per essa tradirsi la patria, rovesciarsi le repubbliche, aprirsi perfidi colloqui col nemico. Non scelleraggine, non misfatto dove non tragga irresistibilmente la passione delle voluttà; stupri, adulteri ed altre nefandità avere primo, prepotente eccitamento dalla libidine. All’uomo compartisse natura, o per avventura un Dio, dote nobilissima, l’ingegno, e la concupiscenza bastare da sola a corromperlo ed ottenebrarlo. L’uomo nel calore della libidine non sente più il freno, ed ogni virtù abbandona l’animo di coloro che lasciansi dominare da così sozza passione." Soggiungendo poi, onde maggiore fosse l’evidenza di questa verità, doversi immaginare un uomo arso da quell’ardentissima fiamma. "Chi mai crederebbe, sotto la brutale contrazione di tanto incubo, potesse diverso desiderio o pensiero schiudersi la via nella sua mente? Avvisava nulla esservi di più vituperoso ed iniquo della voluttà la quale se per lungo tempo irrita i sensi dell’uomo, irreparabilmente ne spegne ogni lume dell’intelletto."

Tale ragionamento tenne Archita con Caio Ponzio Sannito genitore di quello stesso che sbaragliò l’esercito dei Consoli Publio Postumio, e Tito Vetturio nella battaglia di Caudio. Nearco di Taranto ospite nostro, e tanto innoltrato nelle grazie del popolo romano, affermò averlo udito da persone già attempate, e soggiunse essere stato presente a quelle parole l’ateniese Platone, che siccome ho letto, aveva preso stanza in Taranto sotto il consolato di Lucio Camillo e di Appio Claudio.

Ma a qual fine vengo io a narrarvi tante cose? È mio intento di persuadervi che se non bastasse la sola ragione e la filosofia a rendere odiosi i piaceri sensuali, teniamo almeno dovere di gratitudine alla vecchiezza, la quale non ne lascia più desiderare quello che non ne bisogna.

La passione delle voluttà ci toglie il retto criterio, oscura il pensiero, e non associasi mai con la pratica di qualsiasi virtù.

Io stesso feci cassare dal Senato, otto anni dopo il suo consolato, Lucio Flamminino fratello di quell’ottimo e valoroso Tito Flamminino, e malgrado il facessi di mala voglia, ne vergai il decreto, pensando che contro la di lui sfacciata libidine un esempio fosse necessario. Mentre stava Console in Gallia quell’uomo, fra i vapori d’un banchetto, ammaliato dai vezzeggiamenti d’una cortigiana, percosse a morte un prigioniero già condannato per capitali delitti. Questo misfatto passò inosservato alle investigazioni di suo fratello Tito, assunto a Censore poco tempo prima che io vi fossi chiamato. Ma da me e da Flacco fu considerata imperdonabile così scellerata licenza che aggravava il disonore della pubblica carica con la privata ignominia.

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