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ITALO PIZZI


DANTE E FIRDUSI


PROLUSIONE

ad un corso di lingue e letterature orientali,

letta il 16 novembre 1908 nella r. università di torino


estratto dal fascicolo di febbraio 1909

della

Rivista d'Italia

ROMA

PIAZZA CAVOUR


Roma — Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, via Federico Cesi 45.


I.

Omero, l’ignoto autore del poema di Giobbe, Eschilo, Virgilio, Firdusi, Dante, Shakespeare, Goethe, ecco la nobile schiera dei più grandi poeti che vantino le letterature antiche e le moderne; due greci, un ebreo e un persiano, un latino e un italiano, un inglese, un tedesco. E vanno in una schiera, separata e distinta da ogni altra schiera di poeti, non solo per il magistero dell’arte che sovrasta a quella di tutti gli altri per certa sua rude grandezza e potenza che direbbesi primordiale, se togli la dolce musa virgiliana, più incline al patetico e al tenero che al grande e al robusto, ma anche perchè l’opera poetica di ciascuno fu profondamente efficace nelle età che seguirono, fu maestra alle generazioni, suscitò dovunque echi e richiami potenti, nè la virtù sua si è ancora del tutto attutita e spenta. Inutile il dire qual profonda impronta abbiano segnata nella storia della civiltà e Omero e Dante, e a quali alti concetti morali e filosofici siasi elevato Eschilo quando, in Atene, nel cospetto dei reduci da Maratona, rappresentava la miseria lagrimevole del tiranno di Persia, scampato a stento in Susa, e la redenzione (quasi direi riabilitazione) di Oreste. E Virgilio celebrando l’inizio, voluto dagli Dei, dell’Impero, perpetuava attraverso le età barbariche per giungere fino a Dante che lo fece e suo maestro e suo autore, la memoria e la sapienza della gran città, maestra di civiltà a tutto il mondo. Scendeva lo Shakespeare a scrutare con occhio di lince i segreti del cuore umano, e il Goethe, in un immortale poema drammatico, affrontava ardito il gran problema del perchè e della finalità dell’esistenza tutta. Ultima eco, ultima sì, ma non svigorita, non fioca, della stessa domanda che l’antico poeta d’Idumea, forse duemil’anni avanti l’era nostra, poneva in bocca allo sventurato che, diserto di figli e di averi, nell’acerbezza dell’animo esulcerato osò dubitare della giustizia divina. Dal tempo di Giobbe all’età recente la stessa domanda del perchè delle cose affatica la mente umana, la tormenta e la cruccia, senza che forse mai essa ne abbia da rinvenire la risposta adeguata! Così e l’uno e l’altro di questi grandi, pur con diverso magistero dell’arte, ora speculando altissimi veri, ora discendendo nelle latebre più profonde del cuore umano, ora narrando con rimpianto la gloria di tempi per sempre trascorsi, segnarono ciascuno indelebile orma nella storia del pensiero umano e quasi ne imbrigliarono e governarono, ora frenando, ora spronando, lo slancio audace e generoso.

Anche Firdusi, cioè il Paradisiaco, come suona in nostra lingua questo nome, l’Omero della Persia, entra, e a buon diritto, in questa schiera. E non vale che qualcuno, troppo ancora imbevuto di viete idee classiche, quasi rabbrividisca udendo il nome d’un poeta barbaro; e non vale che un grammatico tedesco, il Wilken, nella prefazione della sua grammatica persiana, inorridisca al solo pensiero che qualcuno osò mettere al fianco d’Omero questo Firdusi aliosque ineptissimos poetas! Firdusi, il figlio del povero giardiniere di Tûs nel Khorassân, il figlio della gran patria iranica, sovrasta, come aquila librata in una serena plaga di cielo, non solo a tutti i poeti della sua nazione, ma anche a ben altri d’altre ancora, e va collocato (oh! non v’ha dubbio in ciò per chi con amore ne ha ricercata e studiata la gran canzone) accanto a quei maggiori che poco fa abbiam ricordati. Se ricercar le memorie d’un passato glorioso e ravvivarle col verso; se indovinar la più alta aspirazione del popolo e farla sua; se farsi interprete delle idee del popolo e a quelle idee dar parvenza e forma col magistero dell’arte; se tutto ciò costituisce vera dignità di poeta, ove anche, perchè ogni perfezione sia raggiunta, tutto ciò sia riconosciuto dal popolo che applaude e ammira, ecco Firdusi, esempio storicamente vero di tante doti e qualità! Egli fu, come gli altri grandi, il poeta del popol suo e del tempo suo. Passato quel tempo, tramontata la generazione in cui visse, nessuno, là in Persia, prese il posto di lui, come nessuno degli altri grandi ebbe mai o potè mai avere tra i suoi in integro un successore.

II.

L’epopea persiana o iranica, come meglio dovrebbe dirsi, alla quale il Paradisiaco, nel x secolo dell’êra nostra, ha dato splendida veste poetica, come tutte le altre epopee nazionali, ha un alto valore e civile e morale. Non fu pascolo di sfaccendati per passar lietamente le ore dell’ozio, ma, fin dalle origini sue, come già la greca e la germanica e l’indiana, interveniva in tutta quanta la vita pubblica e privata di quel popolo belligero, di cui ebbe a dire il gran re, Dario d’Istaspe, nella sua iscrizione sepolcrale: «sappi che l’uom di Persia anche lontano dalla Persia ha combattuto battaglie». Il canto dei bardi persiani facevasi udire all’alba, consertato forse a quello dei Magi, sacerdoti di Zarathustra, accanto agli altari del sacro fuoco, inneggiante ai primevi e mitici re della stirpe, Haoshyanha, Thraêtaona, Huçravanh, Vistaçpa, che l’avevano onorato di culto e di offerte. Facevasi udire ai banchetti reali prolungati per più sere fino a tarda notte, fino al cantar del gallo, rammemorante i gesti degli eroi, sgominatoli dei demoni di Anra Mainyu e delle orde barbariche calate dal Settentrione nelle fertili campagne iraniche; facevasi udire al momento di cinger la spada per la difesa del re e del paese natio; sposavasi, mesto e lugubre, al lamento che accompagnava gli eroi alla tomba.

Perchè, questo si noti e s’intenda bene, l’epopea iranica d’un subito, forse fin quasi dalle origini, fu assunta ad avere un altissimo significato morale. Essa, nella secolar guerra fra Irani e Turani, che ne è il principal soggetto, altro non rappresenta, agli occhi e alla mente della nazione, che la gran lotta cosmica del bene e del male, di Ahura Mazdâo creatore e di Anra Mainyu autor d’ogni male, che, originatasi fin dai primordi del mondo, finirà altresì col finir del mondo, quando il genio del male sarà annientato e distrutto con tutte le sue schiere tenebrose. Significato veramente sublime, che sovrasta di gran lunga al concetto di che vanno animate altre epopee, per quanto perfette nell’arte.

Ma la grande materia epica che si estende ad abbracciare uno spazio di ben duemila anni, ebbe non poche e strane vicende. È antichissima e vien dai primordi della stirpe. Nulla sappiamo della sua forma primitiva, se non questo che dovette esser concepita e tramandata in tanti canti staccati, come si può congetturare da alcuni frammenti epici inseriti nell’Avesta, che è il codice sacro di Zarathustra, e dal consimile svolgersi e comporsi di altre epopee di altre nazioni. Questo però sappiam di certo che nel medio evo iranico, cioè in tutto quel tempo in cui i Sassanidi tennero il trono di Dario, dal 226 al 650 dell’era nostra, essa fu fatta destramente e scaltramente servire a intendimenti e scopi prettamente legittimisti.

I principi di questa casa ebbero, è vero, molti e grandi pregi, fra cui quello principalissimo dell’aver rilevata dalla sua secolar caduta dopo Alessandro la monarchia, ma ebbero anche gravi difetti. A Chosroe il grande, che regnò dal 530 al 578, devono molte cose e la scienza e la civiltà; ma tutto quanto il governo sassanidico, in quattro secoli e più, fu governo estremamente tirannico, estremamente gretto nei modi e negl’intenti, oppressor della plebe misera e lercia per impinguare il clero zoroastriano, intollerante e fanatico, e la nobiltà, gonfia d’orgoglio e alimentata di rapine. In quel tempo infelice, pur con qualche momento di gloria militare, quando la tracotanza degl’imperatori greci fu umiliata dai monarchi persiani, tutto ciò che il paese aveva e di bello e di grande e d’illustre, si volle volgere forzatamente a pro della casa regnante, del clero e della nobiltà, pur di coonestare, quasi indiandola, la visibile dignità e potenza di chi sedeva in trono e si faceva chiamare re dei re, figlio di Ahura Mazdâo, e di stirpe celeste e divina.

E allora la bella e vetusta canzone epica, che narrava di monarchi e di eroi del tempo antico, campioni in terra del Dio del bene, fu tutta volta, da compiacenti ricompositori o diaskevasti, posti a’ servigi del re, a rappresentare quanto grande, quanta sacra fosse e dovesse essere cotesta dignità sovrana, intangibile quaggiù, come cosa creata e voluta dal cielo. Allora, con un tratto abile e destro, tutta quanta la schiera degli eroi fu ordinata, per elucubrazion faticosa di abili genealogisti, in grandi famiglie di monarchi, succedentisi sul trono per diritto dinastico. Allora, raccolte così e riordinate e raffazzonate secondo tali intenti legittimisti, le tradizioni epiche formarono un libro, composto nella lingua iranica di quel tempo, la pehlevica, che fu detto il Khotây-nâmak, cioè il Libro dei Re, e fu riposto nei tesori regali e là custodito con cura gelosa.

Ma quale fosse e come fosse quel Libro dei Re, noi non lo sappiamo. Se, tuttavia, tanto si può congetturare dai pochi frammenti che ne rimangono, e dalle circostanze e dagl’intenti nelle quali e per i quali fu composto, esso dovette essere una ben povera cosa! Nuda, gretta, arida, spoglia di ogni ornamento dell’arte, dovette esserne la forma, cioè una povera e pedestre prosa, poichè è pur carattere peculiare di tutta quanta la restante letteratura pehlevica, copiosa veramente, di rifuggire da ogni ornamento non solo, ma anche da tutto ciò che alla dizione dona splendore e magnificenza, anima e brio vitale. Era pedantesca fattura di diaskevasti genealogisti, di sacerdoti zoroastriani, irretiti nelle loro dispute dogmatiche, e nulla (per quel che se ne può dire indovinando) dovette avere di quell’afflato, di quella ispirazione che rende alata la parola del cantore epico e le dà vita duratura sulle labbra di cento generazioni. Eppure, anche l’epopea iranica, per discender fino a noi viva e perenne, doveva avere, donde che sia, e quest’afflato e questa ispirazione, e veramente l’ebbe, non già però dall’arido libro compilato pei re e serbato pei re, sotto cento chiavi, là nel buio del tesoro regale.

L’ebbe da Firdusi. Ma anche Firdusi e l’opera sua furono il portato dei tempi. Quali tempi, adunque, erano codesti, quali le idee, quali le condizioni?

Quando, nel 650 dell’era nostra, gli Arabi conquistatori ebbero rovesciato il trono dell ultimo dei Sassanidi, dell’infelice re Yezdeghird III, la Persia, anzi tutta quanta la regione iranica, abbandonata l’antica fede, abbracciò la fede di Maometto e del Corano. Se però altri paesi, come la Siria e l’Egitto, assai agevolmente assunsero la fede e la lingua dei conquistatori, la Persia soltanto di nome e di apparenza si fece musulmana. I Persiani, gl’Irani anzi, sono indo-europei, e indo-europei rimasero allora come sempre; e come non mutarono idioma, ritenendo sempre la loro bella e armoniosa lingua che per la dolcezza fu detta la lingua italiana d’Oriente, così serbaron sempre, in onta alla grettezza dello spirito semitico aleggiante dal Corano, quella maggior larghezza di vedute, quella maggior altezza del concepire, del pensare, del fare, che contrassegna tutte quante le nazioni indo-europee. E quando, nell’viii e nel ix secolo, sedendo il Califfo non più a Damasco, ma a Bagdad, la corte di questo principe fu tutta affollata di dotti e di poeti, di filosofi e di teologi, musulmani e giudei, cristiani e zoroastriani, credenti e non credenti, mistici, asceti perduti nella contemplazione della divinità, materialisti e razionalisti, neganti Iddio e il libero arbitrio, allora una forte e gagliarda disputa si destò, aizzata da scambievoli odi di stirpe e di sangue, che si disse la disputa dei nazionalisti.

In quel gran focolare del sapere, donde alcune vivide scintille vennero ad irradiare l’Europa ancora barbara, s’urtarono fortemente tra loro e cozzarono lo spirito alto, assoluto, ma rigido e anche gretto degli Arabi, con lo spirito alto ugualmente, ma più largo e comprensivo e più sanamente tollerante dei Persiani. La singolar lotta, se fu combattuta a suon di mani e di vituperi volgari per le piazze e per i mercati di Bagdad e delle altre città di Siria, di Mesopotamia e di Persia, in corte, invece, del Califfo e nelle università e nelle moschee e nei collegi fu combattuta con la penna, chiamate in aiuto la storia e l’erudizione, la scienza umana e la rivelata. Prevalsero nel campo scientifico e letterario e nel politico i Persiani, tanto che i troppo fedeli musulmani d’Arabia vedevano con dolore snaturarsi in Bagdad la norma politica, civile e religiosa, dettata dal Profeta in Medina. Non vuolsi però qui, chè non è possibile, tratteggiar questo importante periodo della storia orientale, sì bene, per l’assunto nostro, rilevarne un solo particolare.

Quando, nel fervor della disputa, fattasi omai in qualche parte virulenta e stizzosa, da parte dei Persiani si volle contrapporre agli Arabi, che vantavano la conquista e il benefizio della fede novella da loro recata, alcun che di veramente e regalmente patrio e nazionale, essi ricorsero orgogliosi e fidenti alla vecchia, ma sempre veneranda tradizione epica, e cercarono chi, nella rinnovellata lingua di Persia sottentrata alla pehlevica omai spenta nell’uso, le ridonasse vita e splendore.

Erasi giunti al x secolo e già se n’era oltrepassata la metà, quando, tra per la debolezza del Califfato omai declinante, tra per il prevalere in tutto dello spirito e dell’ingegno persiano, i principi indigeni, scosso il giogo del Califfo pur proclamandosene vassalli devoti, secondarono potentemente quel moto ascendente di tutta la Persia d’allora. I Sâmânidi, appunto nel x secolo, cercarono un poeta che, per loro e in nome loro, ricomponesse, sempre col titolo di Libro dei Re, l’antico racconto epico, e trovarono in Deqîqi, giovane e valente poeta, che si proclamava zoroastriano e dedito agli amori e al vino, chi si sobbarcò volenteroso alla nobile e ardua impresa. Ma l’infelice, giunto a compor soltanto un migliaio di distici, fu trucidato, una notte, da un paggio favorito, e l’opera rimase interrotta. Gli sottentrò, poco più di mezzo secolo dopo, Firdusi, che poetando da principio nella solitaria casa paterna di Tûs nel Khorassân e poi alla corte di Mahmud Ghaznevide, condusse a fine l’opera immortale, quello Shâh-nâmêh o Libro dei Re, che copta sessantamila distici e narra, per duemila anni, la storia mitica ed eroica dell’Iran, piena di avventure meravigliose, tutta risonante di strepito d’armi, tutta animata da passioni e da affetti gagliardi e profondi.

Ma il gran poeta che veniva dal popolo e intendeva farsene l’interprete celebrando contro gli eroi di Maometto gli eroi nazionali, non ricorse al vecchio e tarlato codice, stato rinchiuso nelle arche reali, al Libro dei Re ufficiale, si direbbe ora, redatto per comodo del monarca imperante e dei legittimisti suoi. Così Dante, in un momento geniale per lui e per noi, ripudiò l’idioma latino scrivendo la Commedia e assunse il volgare, poichè scriveva per la grand’anima del popolo, non per i grammatici, non per i curiali, non per i teologi. Firdusi, lasciato in disparte quel racconto che non era più genuino, si volse alla viva sorgiva della tradizione popolare, e quella fece sua e quella eternò, vestendola del suo verso che, armonioso e snello, seconda mirabilmente la foga di chi appassionatamente narra di gran cose.

Quattro umili personaggi del Khorassân, di religione zoroastriana, dei cui nomi alquanto strambi, anche perchè incerti, facciam grazia a chi ci ascolta, avevano compilato un modesto libro, forse in persiano, forse in pehlevi, comprendente tutto quanto il racconto epico. Modesto il libro, ma animato da una forte ammirazione e da un rimpianto profondo per un passato glorioso; oscuri e forse inetti i compilatori, ma caldi amanti della patria e delle sue glorie. Il genio di Firdusi, animato dagli stessi affetti, si appropriò tutta questa materia greggia, e da cotesta materia greggia, ravvivata da lui, scaturì il Libro dei Re, come dalle informi e povere leggende intorno alla vita futura, ravvivate d’un tratto dal genio di Dante, scaturì il poema sacro.

Fu quello un momento felice. Perchè, come al tempo di Dante, quasi per provvidenzial volere, s’incontrarono, bellamente disposandosi, i sentimenti più nobili che animavano quel secolo, l’amoroso, il patrio, il religioso, così al tempo di Firdusi cooperarono e militarono congiunti in bell’armonia l’amor di patria, la coscienza che ogni nazione civile ha della propria superiorità sopra ogni altra barbara e incolta, l’insito e innato sentimento d’un’arte che i conquistatori venuti d’Arabia non ebbero mai e non poteron mai vantare, cioè di quella del celebrar col canto epico gli eroi della stirpe. Passato quel momento, quei sentimenti si sviarono per correr ciascuno la sua via, nè s’incontraron mai più. Per cotesto, restò unico e solitario monumento, nella letteratura italiana, il poema di Dante, e per cotesto restò unico e solitario monumento, nella persiana, quello di Firdusi.

III.

Il Libro dei Re potrebbe paragonarsi ad un gran monumento architettonico, stato ideato dai giganti, stato lavorato finamente dai nani. La serie poi degli avvenimenti meravigliosi che vi si raccontano, somiglia nel suo insieme, secondo la bella immagine dello Schack, alla volta del cielo stellato che comprende, ne’ suoi sistemi, l’infinita pluralità dei mondi. Muove il racconto dai primordi del genere umano, quando la scarsa famiglia, con un sol capo che viveva sui monti, cinto di pelli ferine, viveva tutta pacifica e tranquilla e non conosceva alcun nemico in terra, fuor che il genio del male, Ahrimane; e somiglia ad un fiume, dalle onde sempre ugualmente tranquille, che, uscito da remote e inaccesse regioni, s’avanza per vaste pianure, per ampi seminati, per luoghi abitati e colti, non affrettantesi alla foce, ma quasi attardantesi e compiacentesi dell’attardarsi. E il poeta, rapito nella contemplazione estatica delle figure luminose de’ suoi re e de’ suoi eroi, ci viene narrando di questo e di quello, di re Hôsheng inventor del fuoco e dell’agricoltura, di Tahmûras inventor dell’arte dello scrivere, di Gemshîd inventore delle arti del lusso che poi fu empio e ribelle a Dio. Ed ecco avanzarsi d’Arabia un principe truculento e fiero, Dahâk, reo di parricidio, che recava, cosa orrenda! due serpenti attorcigliati al collo, natigli di sulle spalle da due baci impressivi dal Genio del male. Dahâk, insignoritosi dell’Iran, fa morir di fiero supplizio il re Gemshîd, e tutto il bel paese va in iscompiglio; ogni cosa, ogni famiglia è nel lutto, perchè ogni mattina due de’ più bei garzoni vanno dati in pasto ai serpenti del tiranno. L’orribile colpa dimanda vendetta; e Firdusi, dalla descrizione di tanti delitti e di tanti eccidi, trapassa di volo, come per ricrear chi l’ascolta, alla descrizione di lontane foreste sull’Alburz dove, tra i pastori e gli armenti, allattato già nell’infanzia da una giovenca misteriosa, cresce accanto alla madre sua il discendente degli antichi re, il loro legittimo erede, il giovane e prode Frêdûn, a cui Dahâk aveva ucciso il padre. Il fatale eroe, armato di clava di ferro, scende fulmineo da’ suoi monti, atterra nella reggia il tiranno, e lo serra incatenato nelle caverne del Demâvend. Anche ai nostri giorni, il viandante che passa intimorito, di notte, per quelle gole e sente urlare il vento, asserisce esser quella la voce lamentosa di Dahâk che piange tuttora e scuote le sue ferree catene.

Il racconto, a questo punto, di quasi mitico si fa eroico, e il poeta rafforza d’un tratto l’arte sua per descrivere fieri atti di valore, tra il sangue e l’alto strepito delle armi.

Una discordia sciagurata, nata per ambizion di regno fra i tre figli del re Frêdûn, riuscita ad un fratricidio, dividerà, scinderà per sempre l’ancora unita e pacifica e concorde famiglia umana, e d’allora in poi s’inizierà la secolar guerra tra Irani e Turani, che sarà il soggetto principale della gran canzone epica, e in descriver la quale tutta si mostrerà la nobiltà del poeta. Un fratricidio, adunque, le darà principio, e la punizione de’ fratricidi le darà un istante di tregua; ma essa più fiera e terribile si rinnoverà per altro sangue cognato che verrà sparso a tradimento dal cupo e malvagio sire dei Turani, Afrâsyâb, e si perpetuerà implacabile per più generazioni di monarchi, finchè quel sangue non sarà vendicato. Ed ecco mille avventure da narrare, mille fatti da raccontare, e Firdusi, seguitando, rappresenterà da maestro il dolore paterno di Frêdûn quando un messaggero abbrunato, venendo dall’Oriente, gli porgerà, rinchiusa in un cofano dorato, la bionda testa di Erag’, del minore dei figli suoi, stato ucciso dagli empi fratelli. E dalla commovente scena passerà a narrar la vendetta del misfatto, quando il giovane principe Minôcihr, un nipote dell’ucciso, inseguirà i rei per lande lontane e deserte finchè darà loro la meritata morte. Al vecchio re, altro, allora, non rimarrà che di morire malinconico e triste lamentando il fato che gli avrà tolti i figli!

Ma ecco entrare a far parte del gran dramma guerriero il maggiore eroe dell’Iran, l’eroe fatato che il popolo ha armato cavaliere, il campione de’ suoi re, Rustem figlio di Zâl, signore del Segestân, selvaggio e ruvido eroe, ma generoso e magnanimo. La madre sua, la bella e avvenente Rûdâbe, era straniera, e però contrasti e liti e dispute in corte di Minôcihr, perchè non si voleva che il giovane Zâl, il futuro padre dell’eroe, impalmasse una principessa d’altro sangue e d’altra fede. I due giovinetti eransi amati senza vedersi mai l’un l’altro, come avviene che per fama uom s’innamora; e però le loro speranze e le smanie e gli affanni e i timori porgono ampia tela di racconto al poeta, il quale bellamente inserisce così, nel suo racconto principale, tutta una tenerissima storia d’amore. Una pagina simile non si trova nei poemi d’Omero; ma Firdusi ha questa e altre ancora, e non poche, come quando, tra le vicende della gran guerra e le imprese di Rustem, avventuriere e cacciatore e sgominatore di demoni, di mostri e di spiriti maligni,1 verrà a dir la storia di Bîzen e di Menîza. Menîza, la giovinetta figlia di Afrâsyâb, mentre un giorno nelle selve celebrava con uno stuolo di giovani compagne la festa della primavera, imbattutasi nell’avvenente Bîzen, ancor quasi fanciullo, che era uscito alla caccia, dopo averlo addormentato con una bevanda soporifera, lo fa trasportare nelle sue stanze secrete. Il fiero padre, fattone accorto, scacciata la misera, fa rinchiudere in una profonda caverna, chiusa da una sformata pietra incantata dai demoni, l’infelice garzone, a cui la fedele amante procaccia il sostentamento giornaliero limosinando per le circostanti ville. Ma Bîzen, liberato da Rustem dall’orrido carcere, vendicherà ben presto l’onta patita e si riscatterà dall’essere stato e troppo ingenuo e troppo inesperto. Ripigliatasi, dopo un breve intervallo di tregua, la guerra, egli darà degne prove di sè in una delle più accanite e disperate battaglie che l’epopea ricordi.

In essa, che è detta la battaglia di Peshen o di Lâden, cadranno combattendo da valorosi più di settanta di tra i Gûderzidi, cioè di tra i discendenti di Gûderz, principe d’Ispahân. Uno di essi, che reggeva il vessillo nazionale e a cui, nell’orrida mischia, saranno state recise ambe le braccia, pur di non abbandonare ai nemici quel sacro pegno, ferocemente ne stringerà l’asta fra i denti. Accorrerà il giovane Bîzen, anche lui uno dei Gûderzidi, riceverà dal morente fratello il vessillo e lo salverà trionfante resistendo alla ressa impetuosa dei Turani, sforzantisi di rapirlo. Più tardi, quando in una singolar battaglia il vecchio Gûderz, orbo di tanti figli, avrà atterrato il capitano nemico, Pîrân, autore per lui di tanta iattura, gli strapperà dal petto e cuore e fegato e dai lembi ancor palpitanti ne succhierà caldo caldo il sangue.

Così tra racconti, ora pateticamente teneri, ora crudamente feroci, procede, magnifica nella sua compostezza, la narrazione di Firdusi; e quando essa toccherà al termine e descriverà la morte de’ suoi eroi, degli attori del tragico dramma guerriero, anche più si farà e grandiosa e solenne.

Afrâsyâb, il riottoso e crudel signore dei Turani, inseguito a morte del re degl’Irani, Khusrev, a cui a tradimento egli aveva ucciso il padre, quando, abbandonato da tutti e privo di regno, si sarà rifugiato in un’orrida spelonca sulle montagne, pregherà Iddio ad alta voce o di rendergli il regno o di mandargli la morte. Allora, un pio uomo, Hôm, della discendenza di Frêdûn, lo farà prigioniero e lo trarrà incatenato sulle rive del lago Ciaêciasta, ai piedi di Khusrev, adorante in un vicino tempio del fuoco. Ed ora, ecco là, sulla solitaria sponda biancovestito e cinto di diadema il giovane re figlio del tradito, e a’ piedi suoi, in catene e in lagrime, il tiranno, e intorno sospesa dell’animo e taciturna la schiera dei principi irani. Già sta per esser vibrato il colpo vendicatore, quando il prigioniero ricorda al re che s’è fatto suo carnefice, ch’egli è pur sempre il padre della madre di lui, e gli domanda se potrà mai egli squarciare il petto del vecchio e ramingo suo avo. Khusrev, per un istante, rimane perplesso e incerto; ma poi, rammentandosi che giustizia e dovere gli hanno armato il braccio, che il colpo fatale da lui solo deve esser vibrato, trafigge e atterra il vecchio re. La drammaticissima scena, che ne rammenta un’altra, celeberrima, nelle Coefore di Eschilo, è sovranamente descritta dal nostro poeta.

Ma ecco che cupi e tristi pensieri assalgono e turbano la mente di Khusrev, cioè se egli mai fosse ito troppo innanzi nel punir la morte del padre suo, se l’atto suo, anche se conforme a giustizia, fosse stato troppo rigoroso e crudo. Appartatosi dalla corte, vissuto più tempo nel digiuno, riceve finalmente dal cielo la rivelazione della prossima sua fine. Perciò, un giorno, di gran mattino, accomiatatosi dalla corte piangente, accompagnato da alcuni pochi principi ed eroi, risoluti a divider con lui la sua sorte, uscito dalla reggia, si volge verso le regioni lontane del settentrione, finchè, giunto la sera ad una landa squallida, nuda e deserta, fatta la sacra abluzione di rito in una fontana, vanisce dinanzi dalla vista degli eroi meravigliati e dolenti. Questi il vanno cercando tutta la notte per la deserta campagna finchè, allo spuntar del giorno, un sonno improvviso li sorprende, mentre, seduti intorno alla fontana, si stavano a favellar mestamente del perduto re. Sopravviene una tempesta di neve che ricopre d’un candido e intatto ammanto le loro spoglie, le spoglie di loro, che fino alla morte erano rimasti fedeli al loro signore. Così solennemente, tranquillamente, maestosamente, come il tramontar d’un bel sole, discende al suo fine il magnifico racconto della gran guerra, ora che i campioni d’ambe le parti ne sono morti, e il maggiore di essi, in premio di sue virtù, è salito al cielo.

Anche Rustem morrà. La sua vita è pur stata travagliosa, tutta data al servizio del paese e de’ suoi re, ed egli stesso lo dice in questo canto che il poeta gli pone sulle labbra in una delle sue tante avventure:

Rustem flagello è de’ nemici suoi,

Ma parte alcuna di serena gioia
In alcun giorno mai non ebbe. Il loco
Della battaglia è la palestra, a lui
Destinata dal ciel; monti e deserti
Sono il giardin di sue delizie. Eterna
Guerra ai Devi egli fa, contro a rubesti
Draghi combatte, nè si scioglie mai
Da deserti o da Devi. Il dolce vino,
Le colme tazze, le purpuree rose
E lor fragranza, i lochi dilettosi,
La sorte gli negò. Sempre la pugna
Nel mar l’attende co’ suoi mostri, e sempre

L’attendono a giostrar le belve in campo.

Eppure egli, vincitor di tanti nemici e di tanti pericoli, cadrà vittima del tradimento d’un suo minor fratello, Sheghâd, dell’uom lercio e sciancato, invidioso della gloria di lui. Ogni eroe grande è anche d’anima semplice e infantile; e ogni inetto e vile, pur che sappia adoperar l’arte dell’inganno, agevolmente lo trae ad irreparabile rovina. Così Sigfrido cade vittima di Hagen; Otello, di Jago; Rustem, di Sheghâd. Il quale, tratto il fratello, sotto pretesto di caccia, in un luogo selvaggio per dov’egli aveva scavato certe fosse profonde armate di lame taglienti e incurve, attende che in una di esse egli precipiti col suo fedel destriero. Ride il malvagio che sta osservando appiattato dietro ad un albero; ma l’eroe piagato tanto può ancora da trafiggerlo a morte con un ultimo dardo rimastogli, e spira poco stante domandando perdono a Dio. Piangono là intorno i circostanti; e la dolente avventura, in cui Firdusi, descrivendo e narrando, s’è mostrato maestro, ricorda un’altra molto somigliante d’un poema occidentale. Anche nei Nibelunghi, l’ignoto poeta germanico ci descrive con molta commozione nostra la tragica morte di Sigfrido, procurata dal cognato traditore, là nella selva lontana, presso ad una fonte, quand’egli, cedendo ad un ingannevole invito, era uscito con lui alla caccia.

Molte altre parti potremmo ricordare del poema, e non meno belle, e non meno attraenti di queste. Ma troppo forse ci dilungheremmo e potremmo smarrirci se volessimo saper troppo, come avverrebbe a chi, messosi per vastissima foresta, tutte ne volesse esplorar le parti.2

IV.

Abbiamo detto che Firdusi degnamente si sta nella schiera dei maggiori poeti del mondo; e abbiam detto altresì che l’opera sua, come l’opera degli altri, non solo è stata l’espressione più genuina del pensiero dei tempi suoi, il portato più legittimo dell’età sua, ma anche che essa, una volta ancora come quella degli altri, tanto è stata efficace da imbrigliare, per così dire, e governare e reggere parte grandissima del pensiero e del moto intellettuale delle generazioni susseguenti. Ma si può dire anche di più.

Volgiamo per un istante lo sguardo al gran moto intellettuale di tutte le stirpi indo-europee, percorrendolo rapidamente dal principio alle età recenti, e vedrem subito qual posto luminoso tocchi per natura e per dritto al poema di Firdusi. Tre età si possono assegnare al moto intellettuale indo-europeo. E l’una è primordiale, quando le stirpi indo-europee, cioè l’indiana e l’iranica, la italo-ellenica, la celtica, la slava, la germanica, vivevano ancora unite, formando una stirpe sola, in una regione che, secondo ogni maggior probabilità, deve essere stata d’Europa. E la seconda comprende tutto quel tempo storico in cui le singole stirpi già si trovano assai lontane dal paese d’origine, quando l’indiana già si è stanziata in India, e l’iranica nell altipiano dell’Iran, e le altre tutte nelle altre regioni a cui hanno dato il nome o da cui esse stesse ebbero il nome. E la terza è quella che s’inizia intorno al x secolo dell’era nostra e discende fino ai tempi recenti.

La prima non ebbe e non potè avere letteratura scritta. Eppure iniziò una sua propria letteratura di cui l’ultima eco non anche si è spenta. Perchè quella gente primitiva e remota già aveva trovato e cantato i primi inni agli Dei; già aveva immaginato fantasiosi racconti di miti, di cui ritroviamo gli sparsi frammenti nelle mitologie orientali, nelle classiche, nelle nordiche; aveva già inventato, con iscopo morale, la favola degli animali. La seconda va superba della più meravigliosa fioritura letteraria del mondo, ed è a buon dritto salutata l’età classica delle letterature tutte. Perchè, mentre in India nasceva il Rigveda e con esso gli altri Vedi e con essi tutta l’ampia letteratura filosofica che vi si connette, e si componevano i grandi poemi del Râmâyana e del Mahâbhârata, e s’iniziava la letteratura drammatica, nell’Iran un gran movimento religioso e filosofico dava principio e forma all’Avesta, al libro sacro che la tradizione attribuisce a Zarathustra, e un cenno del Re dei re, di Ciro, di Dario, di Serse, faceva coprir d’iscrizioni cuneiformi le roccie d’Alvend, di Behistân, di Naqsh-i-Rustem e le pareti marmoree dei palazzi di Persepoli. In Grecia, intanto, iniziavasi e compivasi quella meravigliosa letteratura che dai tempi omerici va agli alessandrini, e in Italia quella degnamente sorella della greca, che dal canto dei fratelli Arvali si discende fino a Lucrezio e a Virgilio, a Cicerone, a Livio, a Tacito.

Nella terza, che s’inizia intorno al x secolo dell’era nostra, pare che un novello spirito animi d’un tratto, consentaneamente e, si può dire, contemporaneamente, queste stirpi tutte. Queste stirpi tutte si sono profondamente mutate, e da tanto mutamento scaturiscono manifestazioni novelle e inattese nella lingua, nella letteratura, nell’arte. Già son formate e già si adoperano in Francia, per dir d’amore e per narrar di paladini, le lingue volgari d’oc e d’oil; già in Ispagna si celebrano le imprese del Çid nel volgare castigliano; già il volgare, in Germania, fa le sue prove nei canti d’amore dei Minnesinger, e i volgari d’Italia fanno intendere la loro voce qua e là per la penisola, quasi attendendo a chi di loro il destino darà di prevalere sugli altri; e là lontano, nell’Iran, ecco cessar nell’uso letterario l’idioma importato e imposto dagli stranieri, l’arabo,3 e sostituirvisi la nuova lingua persiana, volgare anch’essa, agile, snella, armoniosa, spoglia degli arcaismi ieratici di quella dell’età di mezzo, che era la pehlevica. Rinnovatisi intanto in Oriente e in Occidente la pittura, la scultura, l’architettura; e rinnovasi la poesia. E però, come a capo delle letterature novelle d’Occidente stanno la canzone del Çid e quella di Rolando e quella dei Nibelunghi, e i canti d’amore provenzali, tedeschi, italiani, e in fine la Divina Commedia, così, a capo della rinnovellata letteratura di Persia, sta il Libro dei Re di Firdusi. Ma Firdusi, con Dante, ha anche somiglianze maggiori.

L’uno e l’altro, come ora si diceva, stanno a capo della letteratura in cui infusero tanta parte del loro spirito e dell’ingegno. L’uno e l’altro plasmarono la lingua novella che da loro ricevette flessibilità, lustro, splendore. L’uno e l’altro furono grandemente infelici, perchè Dante, nel duro esiglio, provò come sa di sale il pane altrui, e Firdusi, defraudato dal sultano Mahmud della pattuita mercede, andò ramingo, ottantenne, di corte in corte mendicando un pane. Dante fu condannato al rogo come eretico, e Firdusi, per aver troppo celebrato gli eroi dell’antica fede e dell’antica patria, fu condannato alla pena degli eretici, a quella di morir calpestato da un elefante. L’uno e l’altro, ponendosi per la via dell’esiglio, scamparono. L’uno e l’altro furono anime nobilmente fiere, perchè Firdusi lanciò contro l’avaro principe una invettiva rovente che, giunta fino a noi, ne fa eterna la vergogna. La figlia di lui, quando se ne portava al cimitero la bara, ai messaggeri del principe pentito che, troppo tardi! lo richiamava e gl’inviava magnifici doni, rispondeva così: «La figlia di Firdusi non accetta ciò che fu negato a suo padre!». Nobili e altere parole che il poeta non pronunciò, ma che sono virtualmente sue, soltanto sue, e valgono quelle di Dante, quando, sollecitato a ritornare in patria sotto troppo umili condizioni, rispose: «Non è questa la via per la quale Dante Alighieri ritorni in patria!».

Italo Pizzi.

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  1. Le avventure di Rustem formano veramente un ciclo a parte in origine, stato poi inserito nella grande guerra dei Turani. Vedi la mia Storia della Poesia persiana, cap. V, 2 e 3, e il Libro dei Re.
  2. Questa non breve digressione intorno a molti dei più bei punti del Libro dei Re non va molto d’accordo, è vero, col titolo della presente prolusione. Ma era necessaria per far conoscere alcun che del contenuto del poema. L’autore si permette di ricordar qui la sua traduzione dell’intero poema, in versi italiani, pubblicata a Torino in 8 volumi (Unione Tipografica Editrice, 1886-89). Traduzione intera, in prosa francese, è quella del Mohl; parziali, in versi tedeschi, quelle del Görres, dello Schack, del Rückert.
  3. La lingua araba, s’intenda bene, non fu mai parlata in Persia (se togli in qualche corte). Si usava scrivendo, ed era la lingua dotta.

Note

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