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DI ALCUNI SEPOLCRI


DELLA NECROPOLI FELSINEA


RAGGUAGLIO


DEL CONTE SENATORE


GIOVANNI GOZZADINI


SOCIO CORRISPONDENTE DEL R. INSTITUTO ARCHEOLOGICO

DELLA GRANBRETAGNA ED IRLANDA



BOLOGNA


TIPI FAVA E GARAGNANI

1868


Nel 1857 diedi notizia di antichi sepolcri scoperti allora in Bologna, ora prendo a dirne di nuovo nel dar contezza di due monumenti notevoli rinvenuti di poi, uno dei quali appartiene ad essi sepolcri, l’altro forse li riguarda per contemporaneità. Nè stimo superfluo il riandare per intero que’ primi ritrovamenti, poichè la sopraddetta notizia, pubblicata in un periodico1 di metropoli italiana dalla quale eravamo più separati per tristizia di tempi che nol siamo adesso dalla straniera e isolana Inghilterra, dovett’essere meno conosciuta da chi poteva interessarsene maggiormente, cioè dai Bolognesi. Mancò ad essa eziandio il sussidio delle figure dimostrative, sicché il raffazzonarla, l’aggiungervi disegni, nuovi ritrovamenti ed osservazioni, mi fa sperare possa riuscire accetto a’ miei concittadini e ad ogni studioso dell’alta antichità, la: quale avvolge nelle sue tenebre la gente di questi sepolcri.

II conte Ercole Malvasia, facendo scavare nella propria casa, già Tortorelli in via maggiore (N. 262), per gettar fondamenta di nuovi edificii, s’imbattè in alcuni cocci e me li porse, affinchè giudicassi s’erano più o meno antichi. Nè mi fu difficile il riconoscere la grande loro analogia con le figuline da me rinvenute non guari prima nel sepolcreto arcaico di Villanova. Nè d’uopo ebbi di molte parole per indurre il Malvasia a procedere negli scavi prestabiliti con cautela e oculatezza, e a fame di appositi per seguire le tracce delle anticaglie che si andassero manifestando. Chè anzi, incoraggito dai primi successi, s’indusse ad esplorare tutti quei tratti sotto la casa e sotto un cortile annesso, ove i muri interposti consentivano senza molto rischio di far profondi scavamenti. Affidò a me la cura delle investigazioni, ne poteva far cosa che mi riuscisse più gradita.

Rinvenni prima uno strato con avanzi di figuline romane al limite consueto, o a circa due metri sotto il piano attuale della città, come stannovi i tratti della consolare via Emilia venuti all’aprico in diversi tempi e a brevi distanze dalla casa del Malvasia. Un metro più sotto, o a tre metri di profondità dalla strada attuale, e sino a cinque, trovai reliquie di un’età più remota, ossia otto sepolcri separati da brevi intervalli, alcun dei quali non era maggiore d’un metro. Degli otto tre non erano stati tocchi, gli altri si scorgevano manomessi e probabilmente alcuni lo furono quando gettaronsi le prime fondamenta della casa, altri allorchè vennero romanamente costruite le grandiose cloache che quivi e altrove attestano la provvidenza degli antichi nostri edili.

Il primo sepolcro in cui m’imbattei era intatto ed aveva cumulata maggior copia di cose. La pietra sepolcrale consisteva in una irregolare sfaldatura di macigno, grossa, lunga e stretta, fiancheggiata all’ingiro da grossi ciottoli alluvionali di calcare alberese, i quali formavano un ammasso rettangolare lungo metri 2.28, largo quasi altrettanto. Sottostava alla pietra un vaso ossuario d’argilla nera a superficie levigata e lucida, di quella forma, se non esclusivamente certo particolarmente peculiare alle tombe arcaiche dell’agro nostro, trovata in 175 tombe su del sepolcreto di Villanova2. Ma l’ossuario di Bologna era notevole per un grande meandro, poscia scomparso, ed altri fregii delineati con sostanza bianca (fig. 1.) come più partitamente verrò in seguito narrando. Benché schiacciato conservava i residui d’ossa umane carbonizzate, la lama un po’ curva d’un coltellino di ferro e due belle fibule di bronzo, incise a compartimenti ed a circoli. Si conosceva ch’era stato fitto nelle ceneri e nei carboni avanzati dal rogo dopo l’ossilegio, perchè era circondato da queste materie ridotte allo spessore di quasi un decimetro. Aveva d’intorno anche molti vaselli fittili accessorii, parte dei quali avrà servito ad usi civili e domestici, altra parte sarà stata adoperata nelle cerimonie ferali. V’erano inoltre altri oggetti, o appartenenti al defunto, o a lui donati per rito, talvolta dopo averli spezzati, il cui numero sarà stato relativo o all’affetto o alla pompa di chi aveva fatto il mortorio. Del vasellame parte era nero, parte rosso, quasi tutto fatto al tornio, del quale sono più o meno manifeste le tracce; lucida la superficie, non per vernice, ma per lisciatura come l’arcaico chiusino, probabilmente fatta con la grafite. Solo pochissimi vasi v’erano formati a mano, e si potrebbero confondere con quelli dell’eta del bronzo o della pietra. Molta e leggiadra la varietà delle forme, che lungo e forse inutile sarebbe descrivere a parole, sicchè notando come abbiano riscontro in parecchie figuline del sepolcreto di Villanova3, ne darò intanto, quale saggio, due di forma leggiadra, d’argilla nera finissima, brunita, forse con la grafite, riserbandomi a mostrarne più innanzi tutto un gruppo. La prima (fig. 2.) è una tazzetta duplicata, con ansa elegante, listata di bianco nell’interno del labbro, simile nel complesso e in quest’ultima particolarità ad una delle suddette figuline di Villanova. La seconda è una ciotola (fig. 3.) sottilissima, modellata con molta arte a faccette convesse.

Gli altri oggetti erano o sparsi fra le ceneri esterne, o aggruppati poco discosto. Questi fra le ceneri:

Una piccola ma grossa armilla di bronzo, incisa a ornati geometrici, simile ad altra trovata a Villanova con sigla4.

Cinque di quelle fibule a molla spirale le quali molto prevalevano per quantità sopra tutti gli altri bronzi di Villanova.

Due fibule il cui corpo d’ambra tagliato a sezioni 5. Grossa ambra, tuttavia lucida non essendo alterata come di solito dagli agenti ambienti: aveva servito anch’essa, benchè non suddivisa, a ornare una fibula ed era collocata sull’ossuario.

Una palettina di bronzo con cartoccio pel manico, come a Villanova, elegante e incisa a scacchetti: posava sopra un vaso accessorio.

Un fermaglio di bronzo.

Una di quelle verghe cilindriche, pur di bronzo, (fig. 4.) rastremate verso le estremità, munite di capocchia e cappello; sorta di utensili che non han forse riscontro fuori dell’agro nostro ed il cui uso è ignoto, non essendo ammissibile che fossero fusi da filare come conghietturò di quelli di Villanova talun archeologo.

Sottile coppa di bronzo (fig. 5) con scacchetti incisi sotto il labbro.

È bel frammento d’altro vaso una lamina, pur di bronzo, con ombellico rialzato a sbalzo, dal quale divergono a guisa di raggi cordoncini anch’essi sbalzati.

Filoncino di bronzo lungo 43 cent. con manico elittico, e pomo d’ambra di nove pezzi: si potrebbe dire che ha l’apparenza, benchè non possa avere la realtà, di un grandissimo ago crinale.

Più singolare e più incomprensibile ancora è un ordigno, anch’esso di filoncino di bronzo, il quale per un tratto di cent. 17 è orizzontale, poi si erge ai capi in due asticelle verticali alte 13 cent., una delle quali conserva tuttavia e l’altra si conosce aveva, parimente nella cima, un pomello elittico d’ambra di più pezzi. Sotto gli angoli di questo ordigno sono incavigliate e formano piede due specie di molle a linee serpeggianti, alte 8 cent.

Fra tutti questi bronzi solo un grosso frammento di ferro ossidato.

V’erano 33 piccole vertebre riunite, le quali dal ch. mio amico prof. cav. Capellini e dal ch. prof. Canestrini furono determinate appartenere alla porzione anteriore della colonna dorsale di giovine luccio {Exos Lucius, Linn.) e non di razza (Raja) come prima era stato creduto.

Poco discosto dalle ceneri stavano gli altri oggetti molto diligentemente riuniti ed ammucchiati nel minore spazio possibile: ma disgraziatamente v’era alquanto di ferro, il cui ossido aveva quasi ridotti un sol masso tutti gli oggetti e molto danneggiatili.

Sovrastava a tutti un’elegante secespita di bronzo a lama serpeggiante, forse adoperata o a sgozzare le vittime o a reciderne il ciuffo secondo che si apprende da Omero6. Gli altri oggetti erano:

Metà d’uno strumento lunato di bronzo, sottile e tagliente nella parte convessa, che nei ritrovamenti di Villanova e per le ragioni allora esposte7 congetturai potesse essere la novacula, ossia il curvo rasoio degli antichi.

Una palettina di bronzo di foggia simile, ma più semplice, della precedente, distorta e rotta in due in antico.

Altro di quelli supposti, ma che certo non sono, fusi.

Molti chiodi di bronzo, come spesso n’hanno le tombe antiche, di varie forme e misure: due notevoli per largo cappello e borchia centrale.

Moltissimi piccoli pezzi d’una striscia sottile di bronzo, larga 3 cent., i quali riuniti sono lunghi m. 1. 70.

Alquanti gruppi ognuno dei quali formato da cinque anellette di bronzo infilate in un’altra d’uguale grandezza, come a Villanova8.

Ventidue fibule di bronzo a molla spirale, di forma e di ornamenti simili ad alcune di Villanova9.

Coperchio di bronzo, d’un vasetto frammentato, notevole per avere in cima un’ansa serpeggiante e barocca.

Globetti di vetro o schiettamente azzurri o con circoli gialli, per fibule, come ho prima accennato, ed uno più grande per ago crinale.

Poi, a livello e presso l’ossuario di questa tomba, trovai la parte anteriore dello scheletro d’un cavallo, forse immolato ai Mani del suo signore, secondo il rito testimoniato da Omero10. Non potei però accertarmi se tale ossame appartenesse alla tomba descritta o ad una che sarà stata vicina e manomessa, alla quale dovevano spettare le mandibule incombuste d’un teschio umano là rinvenute. Le quali sono indizio di quella promiscuità in certi tempi, già comprovata, della semplice sepoltura e della incinerazione dei cadaveri: a Villanova, frammezzo a 179 inceneriti, erano 14 scheletri che non avevano avuto l’onore del rogo.

Degli altri due sepolcri non manomessi uno era simile al descritto ma povero di figuline e di bronzi, abbondante invece d’ossame di bue, di maiale, di capra, di pollo e principalmente di cavalli, avanzi riferibili tanto a vittime, quanto al silicerno, ossia convito ferale, alcuni dei quali sembravano aver provata l’azione del fuoco.

V’erano ancora punte tagliate e lisciate di corna cervine e nuclei di corna della capra grande delle mariere, un tantino turbinate, col lato interno piatto, l’esterno convesso e con la carena ottusa11.

L’altro sepolcro era un po’ diverso poichè mancavano i ciottoli, ma però v’era la solita sfaldatura di macigno.

Anzi sopra questa stavano disposti sei tra vasetti e tazze fittili: uno capovolto, le altre ritte, e forse avevano servito alle libazioni. Sottostava immediatamente al macigno un’olla rossa diota con labbro larghissimo (fig. 6) simile a quelle della necropoli di Marzabotto, alta 60, larga 52 centim. Dentro, anzichè attorno, erano radunate le ceneri ed i carboni del rogo, con immersovi obliquamente un piccolo ossuario coperto da patera (fig. 7) o disco concavo-convesso per le aspersioni (entrambi d’argilla fina rossa), con cerchietti, serpentelli, anitre, animali funerei, impressivi a zone. La piccolezza dell’ossuario mi faceva certo che v’erano stati deposti gli avanzi di un fanciullo, ed in fatti quelle arse ossicciuole furono reputate dall’illustre anatomico prof. cav. Calori d’un individuo di circa undici anni.

La obliquità dell’ossuario, anzichè al caso, credo sia da attribuire a qualche superstizione: imperocchè a Villanova la notai in diciassette tombe, siccome la orizzontale in quarantaquattro, e vi si scorgevano ciottoli collocati in guisa da determinare e mantenere tali posizioni anormali.

Insieme all’ossuarietto erano otto vasi fittili di buon lavoro, ch’io schiero qui affinchè il lettore, il quale ha veduto il complesso di questa tomba, ne conosca anche tutti i particolari. Due vasi uguali sono potorii (fig. 8), forse le obbe del silicerno; ed essi e un altro a due anse, anch’egli ornato a stampo (fig. 9), ed una coppa (fig. 10) rosso-bruni. Un cratere (fig. 11), di forma prettamente etrusca, conteneva un piattellino (fig. 12), ambidue rosso-bruni. Un vaso sferoidale (fig. 13) e grigio-rossiccio. Uno, con ornati grafiti (fig. 14), è quasi nero. Non altri bronzi che la lama d’un coltelluccio e alcuni frammenti che mi parvero di armilla.

Di siffatta olla, contenente l’ossuario e vasi accessorii, s’hanno esempii nel sepolcreto di Villanova12 ed in altri di età remote, com’è quello di Albalunga illustrato prima da A. Visconti13 ed ora assai più amplamente e dottamente dal cav. Michele De Rossi14.

Non verrò notando tutti i particolari degli altri sepolcri, avvegnachè, avendone trovato scomposto l’assetto, sola qualche circostanza e qualche oggetto raccoltovi possono interessare. Dirò pertanto che si scorgeva esservi stato anche in questi la sfaldatura di macigno, i ciottoli e l’ossuario, o nero o rosso con ornato a stampo, coperto della solita patera, protetto dalla solita olla diota, e vasetti accessorii, alcuni con fregi o a sgraffio o a rotella granita, altri con figure geometriche ed animali impressi, altri ancora di bella forma con meandri e piramidette dipinte (fig. 15). La quale ultima guisa di adornezza (in talun vaso sovrapposta in sensi diversi agli anteriori disegni, o graffiti o graniti, che rimangono quindi in parte occultati) sembra eseguita mediante stampino e tinta densa condotta col pennello, poichè le linee larghe da tre a cinque millim. sono molto uguali, nitide, rilevate ed anzi con i margini un po’ salienti.

Fatta scrupolosa analisi chimica di questa materia, dal dott. Giacinto Pacinotti, e risultata esclusa la possibilità che vi fossero sali di arsenico, piombo, argento, mercurio, antimonio, cadmo, rame, bismuto, nichel, cobalto, cromo, manganese, zinco, barite, stronziana, sali alcalini o alcalino terrosi. Calcinatane la parte insolubile ha preso fuoco con fiamma, quindi vi è grande quantità di sostanze organiche. Dal residuo della calcinazione si è ottenuto un precipitato di silice gelatinosa, e nella parte solubile si è riscontrata la presenza del ferro e dell’allumina. Pertanto il valente chimico conchiude il suo particolareggiato rapporto col dire che «la tinta, tenuta insieme da una sostanza organica, e composta di ferro e calce allo stato di idrati o carbonati e di argilla a base di allumina e di ferro; della calce però ve n’è piccola quantità.» Sicchè quella materia colorante e un’ocra ed è fissata probabilmente o per mezzo di olio o di cera.

V’era qualche pezzo d’ambra per fibule, altri globetti di vetro azzurro e giallo per aghi crinali e per fibule, sformati dal fuoco, altri frammenti di novacula e d’un coperchio di bronzo simile a quello descritto, una testa e qualche ossa di cavallo. Sicchè di notevole non vi trovai che tredici pezzetti d’osso, da un lato rozzi e mostranti il tessuto cellulare, dall’altro con linee parallele e circoli concentrici incisi (fig. 16), il cui solco è di tale uguaglianza e nitidezza da non poter esser fatto se non con un ordigno sull’andar del trapano a mano. Di fatti nel centro vi è un buco che pare prodotto dalla punta attorno alla quale devono aver girati i due denti che solcarono i circoli concentrici. I quali sono bensì ridotti adesso ad elissoidi, ma è chiaro che ciò derivò dall’azione del fuoco che contrasse le fibre cellulari dell’osso.

Siffatti oggetti sono identici per la forma e per gli ornati a quelli rinvenuti in una sola tomba di Villanova ed è perciò che ho detto esserne notevole il ritrovamento, sembrandomi che tale identità di oggetti non comuni, anzi rari, sia uno degli argomenti per credere che i sepolcri di Villanova e di Bologna appartengono alla medesima civiltà, alla stessa epoca, allo stesso popolo, tanto più che ogni altra particolarità dà indizii e prove di questa medesimezza.

Non porrò sott’occhio la corrispondente mancanza di metalli preziosi, di segni alfabetici, di pittura vasculare nel suo vero significato, nè la scarsezza di ferro comparativamente alla quantità del bronzo; ma bensì la somigliante costruzione di questi e di quegli avelli, la stessa forma, lo stesso collocamento degli ossuarii in uno strato di ceneri o dentro un’olla, sempre accerchiati da vasi accessorii. Noterò che non potrebb’esservi più esatto riscontro nelle fogge e negli ornati degli aghi crinali e delle fibule di bronzo, di vetro, d’ambra, e che di gran peso e la totale conformità di quegli oggetti che stimo al tutto nostrani, male conghietturati da taluno per fusi. Ma ciò che a me pare assai concludente e bastante ad allontanare qualunque dubbio, e in primo luogo quel coloramento lineare o a disegno tutto proprio di siffatte figuline, frequente e ben conservato nel necropolio bolognese, e del quale erano minori avanzi, ma sufficienti e sicuri, nel vasellame di Villanova15 più roso da’ sali ambienti, più esposto alle vicende atmosferiche per essere situato a minore profondità, ne mai protetto da fabbricati. In secondo luogo e soprattutto mi pare assai concludente quella caratteristica e peculiare ornamentazione ceramica di certe figure e specialmente di piramidette, di meandri, di serpentelli, di anitre, non già graffite ma impresse nell’argilla molle con punzoni o sigilli, tanto in molti vasi di Villanova16, quanto in molti di Bologna, ma non in quelli di Marzabotto che sono posteriori17, di guisa che non sarebbe parmi arrischiato il dire che siffatta vaghezza non solo è caratteristica nostrale, ma è in qualche guisa cronologica.

Nè può far obbiezione che tutta sorta di cose dissotterrate a Villanova non siensi rinvenute anche a Bologna, imperciocchè qui tre tombe intatte e i rimasugli d’altre manomesse non potevano per certo somministrare la diversità di oggetti sparsi là in 193 tombe inviolate.

Dalle quali cose, e dai più minuti particolari delle indagini da me fatte nello esplorare i sepolcreti di Villanova e di Bologna, mi si manifesta indubitabile la contemporaneità loro e la identità della gente che v’ebbe l’ultimo vale. E come il sepolcreto di Villanova fu trovato di molto interessante dagli archeologi pel suo arcaicismo, per l’intattezza e copia delle sue tombe, per la diligenza e il metodo con cui fu investigato (di guisa che tutti i fatti e le circostanze narrate nella mia descrizione furono testè raccolti minutamente e ripetuti dal dotto francese Gabriele de Mortillet18, il quale riprodusse alquanti disegni della suddetta mia descrizione coll’intendimento di dimostrare che qui e altrove il segno della croce era un simbolo religioso assai diffuso in età molto anteriore al cristianesimo) così io credo che il necropolio di Bologna sia anch’esso di non lieve importanza, non solo perchè viene a conferma della notizia tramandataci da Plinio, altro non essere Bologna che la prisca Felsina19, ma e perchè ci fa vedere una totale conformità col sepolcreto di Villanova e ci manifesta, direttamente da sè e indirettamente con le sincrone e connazionali tombe di esso sepolcreto, riti, costumi, industrie di quella Felsina, della quale non sapevamo prima se non il nome cangiato poi dai Romani e che fu tosca metropoli. Onde più vero non fu mai il detto dell’illustre Raoul Rochette: «le moindre débris échappé des ruines de l’antiquité nous en apprend plus que tous les livres»20.

Codesto gruppo di tombe, poc’oltre l’antico recinto della città, e parte molto probabilmente della costei necropoli, della quale altre reliquie saran pur quelle venute all’aprico in quest’anno a qualche distanza, poichè sono oggetti uguali e contemporanei21. Vero è che tombe antiche o non vi rimanevano o non furono vedute nelle escavazioni precipitose, e che quegli oggetti parevano stati tramestati. Ma e assai probabile che le prische tombe venissero manomesse, e n’andasse dispersa la suppellettile, allorché fu ridotto a cimitero cristiano il piazzale di S. Domenico, ove quegli oggetti furono rinvenuti nell’abbassarne notevolmente il suolo.

Non v’ha dubbio ch’esso recinto antico esistesse a’ tempi romani, ma nè a questi tempi, nè a tempi posteriori, niuno vorrà assegnare le tombe di cui parlo: quindi nè alla Bononia romana, nè alla susseguente Bologna. Di guisa che, in qualunque attribuzione ragionevole, quelle tombe e quella necropoli spettano a Felsina, la quale soltanto dopo la conquista romana ebbe mutato il nome in quello di Bononia.

Nè certo di lieve importanza è il recente ritrovamento che porta luce sulla questione della età e del popolo cui spettano i due sepolcreti. Imperciocchè, come dissi altrove, alcuni dubitarono da prima che quello di Villanova appartenesse agli Etruschi o alla prima epoca del dominio loro nella circompadana, ma poi per più accurato investigamento e per l’esame della mia collezione convennero nell’attribuzione da me data. Non ne furono all’incontro persuasi i chiarissimi Pigorini22, Mortillet23 e Bernardino Biondelli24, i quali persistettero a credere il sepolcreto di Villanova d’altra età e di quei Celti ai quali i primi due appropriano gli avanzi delle terremare modenesi e parmensi. Ho però certezza che, se concludenti saranno i fatti e gli argomenti ch’io esporrò a dimostrare più verisimile la mia della loro opinione, quegli esimii archeologi non esiteranno a convenirne, perchè preferiscono il vero a qualunque sistema. E in quanto all’egregio e benemerito dottor Pigorini me ne assicura quella rara arrendevolezza con la quale si chiamò convinto dell’etruschismo, gia dubitato, della necropoli di Marzabotto, e la lealtà generosa con la quale ne fece dichiarazione in uno dei più dotti consessi d’archeologia25.

L’importante ritrovamento dianzi accennato avvenne all’occorrenza di munire di più salde fondamenta alcune vecchie muraglie della sopraddetta casa Malvasia. Da che nel fare sott’esse delle fosse (ove non si erano potute praticare anteriormente le esplorazioni) alla profondità di cinque meiri, ch’è la massima delle tombe scoperte, e di mezzo ad esse fu tratta una pietra sculta (di qualità uguale alle molasse delle nostre cave del Sasso) (fig. 17), in cui ravviso una di quelle stele funerarie proprie quindi de’ cimiterii, delle quali Villanova diede alcun saggio in grandi pietre rudi e Marzabotto in altre ornate di fregi architettonici. Me la fa ritenere contemporanea e appartenente alle tombe la sua giacitura a sì grande profondità e in mezzo a loro, non che le forme arcaiche per rigidezza delle linee, per mancanza assoluta di rotondeggiamento nelle parti e insieme a ciò per certa diligenza e finitezza con la quale è condotta questa scoltura a bassissimo rilievo. La cui grande antichità può rilevarsi ancora dall’analogia ch’essa ha con qualcuna affatto primitiva com’è quella pubblicata dal Lubbock26 rappresentante, con poca differenza, un quadrupede le cui zampe anteriori sono atteggiate identicamente ed hanno foggiata la parte estrema nella stessa guisa singolare come nella nostra stela. Nel mezzo della quale vedesi sorgere una specie di grosso caule da cui si diramano due appendici o foglie in basso e la cui cima è trifogliata. Così come o trifogliata o fiorifera spesso s’incontra tra due animali acquatici una pianta in fronte alle urne degl’ipogei etruschi, la quale troppo generalmente vien creduta il loto ed è interpretata qual simbolo di passaggio delle anime dalla povera creta umana alle sedi del cielo27. Ma la pianta del nostro bassorilievo meglio riscontra con monumenti asiatici e particolarmente con un cilindro d’agata dell’imp. gabinetto archeologico di Parigi28, nel qual cilindro allato a due piante così fatte; stan due capre rizzate contro un yezàd, o genio benefico, situato nel mezzo.

Nel nostro monumento sono altresì due quadrupedi ritti sulle zampe posteriori, ma atteggiati in modo affatto simmetrico, ed anzichè appartenenti al genere capra sono da riferirsi al genere bos e da credersi giovenchi o giovenche pel bernoccolo o corno incipiente che si vede sorto nella testa intera, la quale, come l’altra monca, e stranamente rivolta in senso opposto alle zampe. Ma da tali storpiamenti non rifuggirono gli Etruschi nè meno quando erano addentro nelle arti, chè non è raro vedere da loro disegnate figure umane la cui meta superiore e d’un tratto volta al contrario della inferiore29. Si può supplire con certezza la mancanza nell’alto della stela pel rapporto con la meta rimanente, non è così della parte di sotto, ove solo può supporsi continuasse il corpo di essi animali.

Ma non essendo probabile che tutto ciò fosse un’insignificante decorazione, vi sarà ascosa sotto forme simboliche, ed è da indagare, qualche credenza conveniente alla religione dei sepolcri.

Gli Etruschi attinsero credenze panteistiche, cultura ed arti del disegno nelle regioni antichissimamente civili dell’oriente e dell’Egitto, e conformarono al tipo di esse il proprio stile ieratico. Così che grandissima è la copia dei monumenti sepolcrali toschi con ogni maniera di simboli animaleschi egizii ed orientali, con i quali velavansi arcani religiosi e quelli particolarmente relativi alla dottrina fondamentale del dualismo ed allo stato delle anime dopo morte30.

Ora il grande scrutatore delle antichita egiziane osserva, che il toro, il bue, la giovenca, i quali vivono in climi opposti, hanno altresì una parte principale nel sistema cosmogonico e nelle credenze religiose di nazioni che sono d’origini differenti. L’Europa, l’ Africa, l’Asia, egli dice, hanno del pari immedesimati questi animali nei proprii riti, simboli ed allegorie. Nei rituali funebri degli Egizii, contenenti le preghiere rivolte in nome del defunto alla maggiore divinità del paese, quasi sempre si trova fra le pitture che ornano l’ultima grande divisione l’immagine d’una giovenca. E che questa giovenca fosse considerata nella mitologia egiziana non come un semplice animale sacro nudrito in un tempio, ma come una forma simbolica propria ad un essere divino, e sufficientemente indicato dalla leggenda che spesso ne accompagna la immagine nei papiri ieroglifici: Ahe (vacca) la grande generatrice del dio Sole31.

Parmi pertanto probabile che a questo culto, il quale fece prevaricare l’eletto popolo d’Israele, possono riferirsi le immagini della nostra stela, e tanto più quanto venivano attribuite certe funzioni funerarie al dio Api, del quale era il bue emblema speciale32.

Un altro monumento dissotterrato non ha guari anch’esso in città, ma a qualche distanza dalla stela33 e senza alcuna particolarità nota, ma che potrebbe anch’esso aver avuto una destinazione funeraria34, viene qui da me riferito quasi più ad argomento di disamina e di confronti che in avvenire per altri ritrovamenti si potessero fare, di quello che per offerire propriamente un saggio di statuaria contemporanea alla necropoli felsinea.

Questo monumento consiste in una testa virile, un po’ più grande del naturale, molto schiacciata nei lati (fig. 18), rozzamente scolpita in arenaria nostrana (molassa) e che a me pare del più notabile arcaismo, trovandovi traccie di quella grande influenza ch’ebbe l’arte egizia nel primo periodo dell’etrusca, onde Strabone35 notò la somiglianza delle sculture toscaniche con le egizie. Ciò particolarmente mi si pare nel tipo dei lineamenti a contorni rilevati con occhi schiacciati e mento sporgente, non che nel complesso angoloso, le quali particolarità si rinvengono appunto nei più vetusti monumenti dell’Etruria. Propria eziandio degl’Itali antichissimi e la capellatura rovesciata sulla nuca e prolissa36, non che la barba diffusa, come le si vedono in sculture etrusche di tipo egizio37 e come le sono ricordate da Giovenale38, da Tibullo39, da Orazio40, da Ovidio41, sì che al tempo loro barbato, capelluto ed intonso erano sinonimi di antico.

Se adunque in questa testa scolpita non vi sono ne vi potrebbero essere sufficienti elementi per dichiararla assolutamente contemporanea alla necropoli felsinea, vi si riscontra però l’arte altrettanto primitiva ed impotente a riprodurre convenientemente le sembianze umane, quanto nella stela d’essa necropoli a raffigurare le forme di animali. Ma poichè oggidi s’inclina ad attribuire ai Galli ciò che d’arcaico si rinviene al di qua d’Apennino, farò notare che i Galli, e solo essi, si radevano la barba tenendo intonsi i mustacchi, come si vede nella celebre statua che fu un tempo creduta e detta un gladiatore moribondo, non che nel sarcofago d’Ammendola e nell'aes-grave riminese42. Ed all’incontro la testa di cui parlo ha tutta la barba prolissa, mozza però adesso per rottura della pietra.

Ma lasciando da parte questo incerto monumento bolognese, però non volgare, da me conservato, e ritornando alla stela, non credo sia mestieri di parole a dimostrare che tale più arcaica che rozza scoltura non potrà mai essere appropriata a quel popolo semibarbaro delle terremare il quale non conosceva altro modo di abitare che entro capanne costrutte di argilla, legno e paglia43, e che non ha lasciato alcun vestigio di scoltura nelle sue molte reliquie.

Al popolo della necropoli felsinea certamente non erano per contro sconosciute le arti figurative, poichè delineava animali nei punzoni con i quali imprimeva le figuline. Di che maggior copia e maggior varietà d’esempii ci ha somministrato il sepolcreto di Villanova, con di più figure umane, benche rozzissime, anch’elleno a stampo, e un idoletto in bronzo di forme muliebri non al tutto spregevoli. E, benchè pochi, questi sono sufficienti indizii d’uno stadio dell’arte al quale non disconvengono i primordii della scrittura tosca, rinvenuti nelle tombe di Vadena in Val di Non, che sono giudicate contemporanee e connazionali del sepolcreto di Villanova dal dottissimo professore conte Conestabile, il quale confermò l’etruschismo di esso sepolcreto. Nè solo da lui è giudicata tale contemporaneità e tale medesimezza, ma ancora dai ch. Pigorini, Strobel e Mortillet, i quali però, non ostante l’iscrizione tosca delle tombe di Vadena, escludono da quelle di Villanova l’etruschismo. E i due primi le attribuiscono ai Galli Boi (benchè discordi sul prima o dopo la conquista romana) quindi a tempi più recenti; l’altro all’incontro le riporta a tempi più antichi, anteriori all’occupazione etrusca, da lui chiamati prima epoea del ferro44.

Alcuni antropologi eziandio rivolsero ultimamente le loro indagini sulle poche reliquie umane da me raccolte degli antichi popoli di Villanova e di Marzabotto. Già l’insigne nostro anatomico prof. cav. Calori aveva dichiarato che il prognatismo apparente di due cranii malconci, raccolti da prima a Villanova, non era se non l’effetto d’una pressione che aveva spostate particolarmente le ossa mascellari, e che quei cranii appartenevano senza dubbio a razza caucasica45. Quindi l’illustre antropologo cav. dott. Nicolucci, i cui scritti scientifici gli hanno meritata una rinomanza imperitura, mi favorì anch’egli, parimente a mia istanza, delle sue osservazioni, con quella lettera che pubblicai nella descrizione della necropoli di Marzabotto e che poscia fu da lui riprodotta con aggiunta d’un’altra ch’ei volle parimente indirizzare a me46, di che mi pregio e gli sono gratissimo.

In quella prima egli narra i confronti fatti di un cranio di Villanova e di tre di Marzabotto con cinque etruschi, e deduce che i nostri non sono etruschi. Paragonatili poi con cranii celtici, dimostra quanto da questi differiscano i nostri e come non possa essere ammessa l’opinione che siano di stirpe celtica. Ricercando infine con quali delle altre genti italiche abbiano maggiore analogia e somiglianza i nostri cranii, conclude, essere persuaso ch’essi appartengano alla stessa razza che abita al presente il territorio bolognese, cioè alla stirpe italica degli Umbri.

Venuto poscia a Bologna il chiarissimo professore ginevrino Carlo Vogt, autore dell’opera Leçons sur l’Homme e d’altri scritti importantissimi, ed occupandosi a radunare osservazioni etnocraniografiche venne a studiare anch’egli i cranii di Villanova e di Marzabotto, sui quali, e su alcuni altri più o meno antichi da lui esaminati in Italia, scrisse una lettera al ch. geologo prof. Gastaldi47. Io non dirò com’egli svolga il suo ragionamento, nè come lo dimostri con tavole comparative, ma ne riferirò le conclusioni riguardanti il mio assunto: e sono che a suo giudizio il cranio di Villanova appartiene al tipo etrusco, quelli di Marzabotto al tipo ligure, o a quella stirpe che ne’ prischi tempi aveva sede nell’Italia settentrionale, nella Toscana, nell’Umbria e fors’anco in Francia ed in Spagna.

Il chiariss. Nicolucci con la seconda sua lettera sopraccennata prese in esame ed oppugnò i giudizii emessi dallo scienziato ginevrino, riconfermando i proprii pronunciati nella prima lettera.

Della quale fece menzione il ch. dott. cav. Garbiglietti nella relazione alla R. Accademia di medicina di Torino. Sopra alcuni recenti scritti di craniologia etnografica del Dottori G. Nicolucci e G. B. Davis48. Ma benchè il dotto relatore avesse potuto discutere profondamente sull’argomento della lettera, come quegli che primo richiamò l’attenzione degli antropologisti sul tipo particolare della stirpe etrusca, egli si tenne ad esporne i risultati, perchè di questa lettera aveva toccato solo incidentalmente.

Fu invece fatto uno speciale rapporto delle due lettere alla stessa accademia dall’altro ch. scienziato prof. cav. Alberto Gamba. Il quale dato un sunto delle dimostrazioni del Nicolucci, riconosciuta tutta l’autorità di lui intorno a tale argomento e l’acutezza con cui ha studiata la quistione «dichiara però di non potere abbracciare in modo assoluto l’opinione del Nicolucci, e ciò perchè la differenza di forma, di proporzioni e di misure fra i cranii etruschi e quelli di Marzabotto e Villanova non sono abbastanza pronunziate per dichiarare questi ultimi di stirpe più moderna».

E dopo, nel dare le ragioni scientifiche di questo suo esitamento, egli dice: «Se noi osserviamo lo specchietto dall’illustre dott. Nicolucci presentato, noi vediamo che i cranii di Marzabotto e Villanova appartengono ad una stirpe differente perfettamente dalla celtica, e la differenza sta principalmente nella forma, o tipo generale del cranio. Ma se osserviamo le differenze dal Nicolucci notate fra i due cranii di Villanova e Marzabotto e quelli etruschi, io vi confesso ingenuamente di non poterne sottoscrivere la sentenza di separazione nè di epoca storica, nè di stirpe» poi aggiunge: «finalmente un’ultima ragione di dubbio e di esitanza nell’adottare le opinioni del Nicolucci io la deduco dal piccolissimo numero dei cranii presi ad esame per ottenere i numeri medii di confronto».

Esaminando appresso la lettera dello scienziato svizzero loda e segue gli appunti fattivi dal Nicolucci. Indi recati alcuni frammenti per mostrare che le opinioni del celebre antropologista americano Francis Pulscky circa l’origine degli Etruschi collimando con quelle del dott. Nicolucci le confermano, il relatore Gamba conchiude: «La determinazione dei caratteri distintivi precisi del cranio etrusco è abbastanza difficile. Popolo immigrato da tre regioni del globo ed in varie epoche non bene determinate dalla storia e fuso con quattro popoli aborigeni, gli umbri pelasgici, i liguri, gli osci ed i volsci iapigei, e probabilmente anche coi celto-galli cisalpini, non può avere acquistato il suo carattere nazionale di forma craniana che dopo molte generazioni e secolare sviluppo di pacifiche istituzioni. Ond’è che il vostro relatore opina che si abbiano a considerare quali tipi di forma etrusca solamente quei cranii i quali appartengono all’epoca fiorente delle dodici citta etrusche, quarto o quinto secolo avanti l’era cristiana.

Nella più volte lodata memoria del Nicolucci, di cui io sto facendovi rapporto, egli annunzia come si riserbi di trattare di proposito questo argomento in un lavoro speciale che verserà esclusivamente sull’antropologia dell’Etruria.

Nessuno può essere più capace e competente del Nicolucci per rischiarare questa questione del tipo craniale etrusco, ed io faccio voti perchè al più presto ci sia dato di far tesoro delle profondissime cognizioni del nostro illustre antropologista italiano.»

Anche l’autore dei Crania britannica, il celebre antropologista inglese dottore J. B. Davis, diede ragguaglio nell’Anthropological Review49 fra gli altri lodati lavori del Nicolucci di quelli risguardanti Villanova e Marzabotto, toccando ancora, severamente, della lettera del Vogt.

Da si bella pleiade di scienziati nostrani e stranieri, la cui relazione e benevolenza ho in gran pregio, non poteva non diffondersi luce nelle indagini etnologiche sui cranii dei sepolcreti bolognesi, e se tutta la tenebra non ne venne rimossa si fu per le cagioni avvertite dal ch. Gamba. Sperando adunque e curando che ulteriori ritrovamenti possano somministrare più copiosi e sicuri elementi a studii antropologici, prendo atto dell’essere stato unanimamente ed assolutamente esclusa la stirpe gallica dai cranii di Villanova e di Marzabotto, risultandone appunto una di quelle prove antropologiche od etnologiche desiderate dai ch. Strobel e Pigorini50, la quale spero varra a dissuadere que’ due egregii scrittori non che gli altri ai quali parve, per alcune induzioni, che il sepolcreto di Villanova dovess’essere gallico. Lasciando pertanto al ch. prof. Vogt l’assunto di sostenere l’etruschismo del cranio di Villanova ed ammettendo intanto che questo sia di stirpe umbra, riassumerò qui ciò che dissi a questo proposito nella relazione della necropoli di Marzabotto51. Non poter recare ne maraviglia ne difficoltà che gli studii craniologici rivelino tipi umbri in un sepolcreto etrusco, poichè nella pristina confederazione dell’Etruria media formarono un popolo solo e un solo imperio, non una gente sola, ma l’etrusca, l’umbra ed altre ancora. II quale popolo raccogliticcio fondò poi l’Etruria circompadana sovrapponendosi e uniflcandosi ai Pelasghi, agli Umbri, ai Liguri e via dicendo, onde, come accennò anche il ch. prof. Gamba nel citato rapporto, storicamente si può render ragione della presenza di tipi umbri in sepolcreti etruschi, specialmente nella circompadana.

  1. Di alcuni antichi sepolcri felsinei nel vol. IV. pag. 74 e segg. del giornale napoletano Giambattista Vico.
  2. Cf. Gozzadini Gio. Di un Sepolcreto etrusco scoperto presso Bologna tav. 2. n. 1. 9. e 11.
  3. Cf. tav. IV. del Sepolcreto anzidetto n. 1. 6. 7. 8. 13. 14. 18. 20. 22. 23. 27. 33.
  4. Sepolcreto sud. tav. VI. n. 2.
  5. Sepolcreto sud tav. VIII. n 19
  6. Iliade lib. 3. v. 368. traduz. del Monti.
  7. Sepolcreto pag. 25 e tav. VI. n. 10. 16.
  8. Sepolcreto tav. VI. n. 13.
  9. Sepolcreto tav. VIII. n. 5. 6. 12. 13.
  10. Iliade lib. 23. v. 230. traduz. del Monti.
  11. Cf. Strobel e Pigorini. Le terremare ecc. pag. 58 e segg. Strobel Avanzi preromani pag. 17.
  12. Intorno ad altre settantuna tombe ecc. pag. 4.
  13. Visconti A. Sopra vasi sepolcrali rinvenuti nelle vicinanze dell’antica Albalunga.
  14. De Rossi cav. Mich. Sugli studii e sulle scoperte paleoetnolog. nel bacino della campagna romana tav. 37 n. 22.
  15. Cf. Sepolcreto pag. 17.
  16. Tav. II. n. 6. 8., tav. III. n. 1. 2. 3. 9. 11. U. 17. 18., tav. IV. n. 7. 8. 17. 26. 30. 42.
  17. Notai che fra molte centinaia di cocci tratti dalla necropoli di Marzabotto (pag. 20) uno solo ha qualche ornamento impresso.
  18. Cf. Le signe de la Croix avant le Christianisme Chapitre II Cimetière de Villanova, dalla pag. 50 alla 97.
  19. H. N. lib. 3. c. 13.
  20. Cours d’archéol. pag. 35.
  21. Tra molte cose trovatevi, che andarono in diverse mani, queste ho vedute io raccolte da un solo ed ora possedute dal signor Pompeo Aria.
    Tre vasetti quasi a foggia di pentolini, color d’argilla con quattro o cinque fori romboidali nel ventre.
    Due cilindri a capocchie di terra nerastra, uno dei quali con croce (Cf. Mortillet Le signe de la Croix avant le Christianisme pag. 80. fig. 38.). D’un altro fu recata a me la metà ornata di croce a spicchi, come uno di Villanova (Cf. Sepolcreto ecc. tav. VII. n. 3.).
    Due fusaiuole di terra nera; una della solita forma conica con la croce di Malta (Cf. Sepolcreto di Villanova tav. VI. n. 5.), l’altra piatta.
    Pezzi di fibule piccole di bronzo come quelle di Villanova; una con l’incastonatura a rombo (Cf. Sepolcreto sopraddetto tav. VIII. n. 9.).
    Molte anelle di bronzo di mediocre grandezza, come quelle che soglionsi rinvenire nell’agro nostro insieme a freni da cavallo.
    Metà d’una di quelle bulle di bronzo, di mediocre grandezza, ch’erano portate al collo dagli adolescenti, ed una piccola pur di bronzo.
    Due pallottoline di vetro azzurro con circoli bianchi simili a quelle di fibule di Villanova (Cf. Sepolcreto tav. VIII. n. 22.).
    Molti globetti di lamina di bronzo con appiccagnolo, come a Marzabotto (Cf. Necropoli di Marzabotto tav. XVII. n. 6.).
    Tre punte alate di freccie di bronzo come a Marzabotto (Cf. Necropoli tav. XIX. n. 10. 11. 14.).
    Anello munito di punte come a Marzabotto (Cf. Necropoli tav. XIX. n. 18.).
    A me fu portata la meta superiore d’una palettina di bronzo con appiccagnolo, uguale ad alcune di Villanova.
  22. Bullett. dell’inst. di corr. arch. ann. 1866. pag. 101.
  23. Le Signe de la Croix avant le Christianisme pag. 89. e segg.
  24. Di una tomba gallo italica scoperta a Sesto Calende sul Ticino, illustrazione di Bernardino Biondelli. Milano tip. Bernardoni 1867. Il ch. illustratore, con parole sommamente cortesi e benevoli scostandosi dalla mia opinione, reputa gallico il sepolcreto di Villanova al pari di quello di Sesto Calende a cui lo raffronta, benché dichiari quest’ultimo posteriore di qualche secolo. Rispettando le conclusioni del dotto archeologo, mi trovo però costretto a fare un’osservazione sull’argomento precipuo che lo induce in tale giudizio. Cioè sembrarmi che dal confronto delle figure pubblicate risulti come l’ossuario della tomba di Sesto Calende, anzichè identico.... ad altri dissotterrati nel Sepolcreto di Villanova, ne sia notabilmente diverso, tanto pel complesso della costoro forma tutta particolare e caratteristica, quanto per essere questi ma non l’altro ansati. La quale ultima particolarità, assai notevole, e di gran peso in altri vasi pel ch. illustratore. Ma, da due vasi potorii in fuori, qual somiglianza tra gli oggetti della tomba di Sesto Calende e quelli del sepolcreto di Villanova? Quanta invece la differenza!
    Che se, come accenna il prof. Biondelli, varietà di oggetti, di civiltà e di arte vi è nelle necropoli di Villanova e di Marzabotto, a me pare spiegata dalle eta diverse e dall’influenza ellenica spiccante a Marzabotto, la quale ingentili i prischi e rudi Etrusci che credo stanziassero a Villanova come in questa Felsina. Della quale mi duole che il ch. prefessore supponga barbarica la successiva denominazione di Bononia, che dal Savioli (Annali di Bol. vol. 1. pag. 7.) nel secolo scorso fu dimostrato essere stata data non già dai Boi ma dai Romani, così come a Boulogne detta dai Galli Gessoriaco. E in fatti l’esattissimo Tito Livio (Lib. 33. cap. 37.) dopo aver parlato nell’anno 556 della nostra città col nome di Felsina, tolta ai Boi, comincia a dirla Bononia nell’anno 573, ossia dopo che fu colonizzata dai Romani (lib. 33 cap. 37.).
    Nè già col fine di muover dubbi sul gallicismo della tomba di Sesto Calende, ma per rendermene più persuaso, avrei bramato che il ch. illustratore avesse prodotto qualche argomento che dimostrasse bastare le spoglie opime del re Viridaro recate al tempio di Giove Feretrio dal console Marcello, o qualche altro esempio di Galli elmati e loricati, per non essere indotti in perplessità dal morione e specialmente dalle ocree della tomba di Sesto Calende poste a confronto coll’asserzione di Dione (lib. 35. cap. 50): Galli... nudo pugnant capite: con l’altra di Dionigi (presso il Mai Collect. Vatic, t. 2. pag. 490) nuda pectora et latera, nuda femora et crura usque ad pedes, nullum praeter scutum, tegumentum: coll’aes-grave riminese (Cf. nella egregia Stor. di Rimini del cav. Tonini la tav. A e la lettera del Borghesi a pag. 27. e segg.) e coi bassi rilievi del sarcofago della vigna Ammendola (Ann. dell’Inst. di corr. arch. tav. XXX e XXXI dei Monum.) che ci fan vedere anch’essi i Galli combattenti a capo scoperto, nè d’altro schermo provveduti che dello scudo. Così Polibio, narrando la battaglia presso Telamone (lib. 2. cap. 28.), dice che gl’Insubri ed i Boi schieraronsi in brache e con leggeri saj in dosso e che i Gesati gettarono via tali vestiti e ignudi si posero colle armi nelle prime file. Soggiunge che tutti i Galli i quali erano nelle prime insegne andavano ornati di collane e di smaniglie, ma non parla d’altre armi difensive che dello scudo. E così pure Claudio Quadrigario nella descrizione del duello con Tito Manlio poi detto Torquato, conservataci da A. Gellio (lib. 9. cap. 13.), racconta che Gallus quidam nudus, praeter scutum et gladios duos, torque armillis decoratus processit. Avrei dico bramato qualche valevole argomento, anche perchè manca nella tomba l’usato torque con anomalia tanto più grave quanto che il sepolto non è un gregario ma un condottiero, e perchè non mi rassecura pienamente ciò che il ch. autore stabilisce sulla possibile conservazione dei metalli esposti all’umidità sotterranea. Vale a dire che oggetti di bronzo e di ferro, in parte esili, possano resistere in tali condizioni per venti secoli e mezzo, attribuiti da lui alla tomba anzidetta, ma non già per venticinque, ch’egli calcola sarebbero corsi se si trattasse d’una tomba etrusca. Parendomi di più che si potesse anche obbiettare non esservi necessità di stabilire quest’intervallo di quattro secoli e mezzo, da che i Galli, o cacciassero o soggiogassero gli Etruschi, ad ogni modo si trovarono a contatto con loro. Ne la costruzione della tomba di soli ciottoli può aversi per caratteristica dei Galli, bastando accennare che non di rado la si rinviene nella necropoli di Marzabotto «le cui costruzioni e i cui oggetti (come dichiara il ch. Biondelli) se non sono etruschi, non lo sono neppure tutte le miriadi scavate nelle tante necropoli della stessa Etruria»
  25. Cf. Bullett. di corr. arch. ann. 1866. pag. 101.
  26. L’Homme avant l’histoire, étudié d’après les monuments dans les costumes retrouvés dans les differents pays de l’Europe. Traduit de l’anglais par Barbier. Paris 1867. pag. 256, fig. 34.
  27. Cf. Inghirami Monum. etruschi Vol. 1. tav. 11. e 47.
  28. Micali Monum. tav. I. n. 1.
  29. Mi basti citare la figura di mezzo d’una pittura murale d’un sepolcro tarquiniese pubblicata dal Micali. Stor. dei pop. ant. ital. Vol. 4. tav. 68. n. 2.
  30. Des Vergers, L’Etrurie Vol. 1. pag. 255 e segg. Micali. Stor. degli antichi pop. ital. Vol. 2. pag. 97 e segg. e Vol. 3. pag. 137 e segg.
  31. Champollion Pantheon egypt. tav. 23.
  32. Champollion op. cit. tav. 37. Il conte Ercole Malvasia ha donato questo importante monumento al museo archeologico municipale, che per mala sorte è stato fino ad ora e forse sarà per lungo tempo invisibile.
  33. In strada san Petronio vecchio ch’è accanto alla Maggiore.
  34. Micali (Monum. ined. tav. XXVI. n. 2. e pag. 150) riporta una testa capelluta, in pietra tufacea, trovata entro una tomba chiusina e rappresentante l’immagine del sepolto.
  35. Lib. 8. c. 1. §§. 28.
  36. Micali Cf. Stor. d. ant. pop. ital. tav. 51. n. 1. e Monum. ined. tav. XXVI. n. 2.
  37. Micali tav. LI. 1.
  38. Sat. 5. v. 30.
  39. Lib. 2. eleg. 1. v. 34.
  40. Lib. 2. od. 15. v. 11.
  41. Fast. lib. 2. v. 30.
  42. Cf. la sopraccitata lettera del Borghesi.
  43. Strobel e Pigorini, Le terremare e le palafitte del parmense pag. 22.116.
  44. Le signe de la Croix etc. pag. 89. 90. 98. 122. 126. 141. 142.
  45. Lettera nel Sepolc. di Villanova pag. 38.
  46. Sui cranii rinvenuti nelle Necropoli di Marzabotto e di Villanova nel Bolognese, lettere del cav. dott. Giustiniano Nicolucci all’Ill.mo Sig. conte Giovanni Gozzadini senatore del Regno ecc. (senza luogo di stampa).
  47. Sur quelques crânes antiques trouvés en Italie — (nel) Bulletins de la Société d’anthropologie de Paris t. I. seria 2.ª fasc. 1. Poscia fu riprodotta con questo titolo «Su alcuni antichi cranii umani rinvenuti in Italia, lettera del prof. G. Vogt al sig. B. Gastaldi, comunicata alla R. Accademia delle scienze di Torino nella seduta del 4 Febb. 1866.» (Torino) Stamp. R.
  48. Torino Tip. Favale 1866 pag. 39.
  49. Nel 1867 col titolo Italian anthropology.
  50. Le terremare ecc. pag. 130.
  51. Pag. 83.

Note

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