Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
D I S S E R T A Z I O N E
S U L L E R O V I N E D I R O M A.
La ristrettezza di un’annotazione non avendomi permesso di trattare con qualche ampiezza del proposto argomento nel Capo ultimo della Storia delle Arti del Disegno1, ove ne era opportuna l'occasione, ho stimato meglio di farne qui a parte un più esteso ragionamento. L’oggetto principale è quello di vedere se i Barbari, che tante volte si sono renduti padroni di questa regina del mondo; se i Romani stessi, e se il Pontefice s. Gregorio il Grande in ispecie, abbiano devastata la loro patria, distrutti gli edifizj, i tempi, le statue, ed altri monumenti dell’arte, che al tempo degl’imperatori la rendeano il più bello spettacolo dell’universo. Non solo il volgo degl’ignoranti si sente alla giornata farneli rei; ma il volgo dei dotti ugualmente lo ripete senza riflessione, e il nostro Winkelmann anch’egli al citato luogo vi propende; tranne s. Gregorio, di cui se non ne parla a questo luogo, ha però esposti ben chiari i suoi sentimenti in qualche lettera. Vi è stato per altro qualcheduno fra i tanti moderni scrittori, che ha voluto in qualche modo richiamare ad esame la troppo franca condanna di quella gente, ma eccedendo per la parte opposta.
Comincieremo a parlar dei Barbari; degli altri ne discorreremo in seguito. Pietro da Barga ha preso a difenderli in una lettera2, ove pretende far vedere, che costoro poco, o nulla di danno apportarono alle fabbriche di Roma o pubbliche, o private; e sulla di lui autorità ripete la stessa cosa monsignore, poi cardinal, Furietti3. Il ch. Tiraboschi4, più umano ancora, par che voglia assolverli affatto dall’avervi apportata alcuna rovina, e distruzione; credendo, che quelli, i quali ne pensano in contrario, non possano addurre il testimonio d’alcun autorevole antico scrittore. Più a lungo vaglia la questione il ch. Bandini5, in parte difendendo i Barbari con ragione; e in parte accusandoli a torto. Così avviene per lo più nelle controversie, che poco premendo forse la nuda verità, si dia negli eccedi o per una parte, o per l’altra. Non può negarsi che i Barbari abbiano recato danno anche alle fabbriche di quella città. Lo portava di conseguenza il male della guerra, come bene osservava il grande Agostino6: Quidquid vastationis, trucidationis, deprædationis, concremationis, afflictionis in ista recentissima romana, clade commissum est, fecit hoc consuetudo bellorum. E quando mai si poteva sperare, che gente barbara, senza educazione, senza legge di civiltà, scatenatasi come un turbine precipitoso, e come uno sciame d’api tumultuoso dall’orrido delle sue grotte, e capanne del settentrione per depredare il giardino dell’Europa, avesse poi a rispettare le fabbriche, e le statue, contentatasi di ammirarle; e non tentare in ogni modo la presa della città e col ferro, e col fuoco, se non si arrendevano gli abitanti? Quello dico non può negarsi, che sia stato praticato dai Barbari in Roma. Può ben provarsi, che non v’abbiano portata quella devastazione, che crede il volgo.
Il primo, che si rendesse ostilmente padrone di Roma dopo trasferita l’imperial sede a Costantinopoli, fu Alarico re de’ Goti nell’anno 409. dell’era volgare, o 410. più probabilmente secondo altri storici, che reca il Muratori7. Non si dubita, che vi facesse un grandissimo bottino d’oro, e d’argento; e crederei anche delle statue di quelle materie, se ve n’erano rimaste, secondo che diremo qui appresso. In quanto alle fabbriche, Giornande8 dice, che non v’appiccò fuoco: Romam ingressi, Alarico jubente, spoliant tantum; non autem, ut solent gentes, ignem supponunt, nec locis sanctorum in aliquo penitus injuriam irrogavi patiuntur: ma se non vogliamo credere che sbagli, lo intenderemo, che i Goti non bruciassero tutta la città, o non v’attaccassero il fuoco quando già v’erano dentro; perocchè tutti gli altri scritori contemporanei, non veduti, o trascurati dal Bargeo, scrivono l’opposto. S. Agostino9, e Filostorgio10 parlano d’incendio. Paolo Orosio11 scrive, che furono abbruciate delle case, ma non tante quante nell’anno 700. dalla sua fondazione: Tertia die Barbari, quam ingressi fuerant urbem, sponte discedunt, facto quidem aliquantarum ædium incendio; sed ne tanto quidem, quantum septingentesimo conditionis ejus anno casus effecerat: paragone, che fa pure s. Agostino. Procopio12 non dice, che Alarico bruciasse tutta Roma, come gli fa dire il Tiraboschi, confutandolo; ma che incendiò le case vicine alla Porta Salaria, per cui entrò, e fra quelle la celebre casa di Sallustio13, la di cui maggior parte così deformata sussisteva ancora a’ suoi tempi. Marcellino Conte nella sua Cronica, all’anno 410.14 vuol, che ne andasse a fuoco una parte; e Cassiodoro15 moltissime delle più belle fabbriche: Romam venerunt, quam vastantes plurima quidem miraculorum ejus igne concremaverunt, pecunias autem abripuerunt, multosque senatorii ordinis diversis subdidere suppliciis. Comunque però variino gli storici in tal racconto, il danno apportato ai monumenti sì pubblici, che privati, dovette esser piccolo relativamente alla quantità immensa, che ve n’era: il che possiamo argomentare da quei, che numereremo appresso, e da Olimpiodoro, che scrisse poco dopo16, ove non solamente loda le terme d’Antonino, e di Diocleziano per la loro ampiezza, e comodo del pubblico; ma osserva, che le case grandi contenevano quanto poteva avere di più magnifico una piccola città, ippodromo, fori, tempj, fontane, e bagni: E magnis romanæ urbis domibus omnia intra se unaquæque habuit, quæcumque mediocris etiam urbs habere potuit, hippodromum, fora, delubra, fontes, varia balnea: hinc & scriptor sic exclamat:
Est urbs una domus: mille oppida continet una urbs.
Sed & lavacra publicæ ingenti prorsus fuere magnitudine, e quibus, quæ Antonianæ nominantur thermæ, ad commodiorem lavantium usum, mille sexcenta habuerunt sedilia e marmore polito fabricata: Diocletiana duplo fere plures. Così scrive Fozio, che dà l’estratto della di lui opera17.
Genserico re de’ Vandali, che entrò in Roma l’anno 455., alle preghiere principalmente di s. Leone si trattenne dall’incendiar la città; nè abbiamo, per quanto io sappia, che desse guasto alle fabbriche, o alle statue. Ci narra soltanto Procopio18, che spogliò il palazzo imperiale di quanto v’era di buono, e persino degli utensili di rame; tolse al tempio di Giove Capitolino la metà delle lamine di bronzo indorato, che lo coprivano19; caricò una nave di statue, forse di bronzo, per mandarle a Cartagine, che poi perì nel mare; e portò via fra le altre cose preziose i vasi d’oro tolti da Tito al tempio di Gerusalemme, come riferisce Cedreno20. Altronde sappiamo dagli autori, che scrissero dopo quel disastro, che le più belle cose di Roma erano ancora nel loro splendore, e moltissime statue al loro primo luogo. Sidonio Apollinare nel Carmen 23. ad Consentinum scritto l’anno 466., come ivi nota il P. Sirmondo21, ce lo attesta delle terme d’Agrippa, di Nerone, e di Diocleziano:
Hinc ad balnea non Neroniana,
Nec quæ Agrippa dedit, vel ille cujus
Bustum Dalmatica vident Salonæ:
Ad thermas tamen ire sed libebat
Privato bene præbitas pudori.
Della Mole Adriana ne fa fede Procopio22. E che non dice Cassiodoro, il quale scrivea nel principio del secolo seguente? Narra23, che Roma sola conteneva le più grandi maraviglie del mondo, e superava l’immaginazione, principalmente per li grandi edifizj ornati di stupende colonne, e di preziosi metalli; e per la copiosissima quantità di statue in bronzo di uomini, di cavalli, e di altri animali, collocate nelle strade, nelle piazze, e in ogni luogo: Romana fabricæ decus convenit perituri habere custodem; ut illa mirabilis sylva moenium diligentia subveniente servetur, & moderna, facies operis affabris dispositionibus construatur. Hoc enim studio largitas nostra, concedit, ut & facta veterum exclusis defectibus innovemus, & nova vetustatis gloria, vestiamus. Proinde illum illustris magnitudo tua romanis artibus ab illa indictione datum architectum esse cognoscat. Et quia justis commodis studia constat artium nutrienda, ad timi volumus pertinere qui e quid decessores ejus constat rationabiliter consecutos. Videbit profecto meliora, quam legit: pulchriora, quam cogitare potuit; statuas illas auctorum suorum, scilicet, adhuc signa retinentes; ut quamdiu laudabilium personarum opinio superesset, tamdiu & similitudinem vivæ substantia imago corporis custodiret: conspiciet expressis in ære venas: nisu quosdam musculos tumentes: nervos quasi gradu tensos; & sic hominem fusum in diversas similitudines, ut credas potius esse generatum. Has primum Thusci24 in Italia invenisse referuntur, quas amplexa posteritas pene parem populum urbi dedit, quam natura procreavit. Mirabitur formis equinis signa etiam inesse fervoris. Crispatis enim naribus, ac rotundis, constrictis membris, auribus remulsis, credet forsitan cursus appetere cum se metalla noverit non movere Quid dicamus columnarum junceam proceritatem?25 Moles illas sublimissimas fabricarum, quasi quibusdam erectis hastilibus contineri, & substantiæ qualitate concavis canalibus excavatas, ut magis ipsas æstimes fuisse transfusas: ceris judices factum, quod metallis durissimis videas expolitum: marmorum juncturas, venas dicas esse genitales: ubi dum falluntur oculi, laus probatur crevisse miraculis. Ferunt prisci sæculi narratores, fabricarum septem tantum terris attributa miracula. Ephesi Diana templum. Regis Mausoli pulcherrimum monumentum, a quo & Mausolea dicta sunt Rhodi Solis æneum signum, quod Colossus vocatur. Jovis Olympici simulachrum, quod Phidias primus artificum summa elegantia ebore, auroque formavit. Cyri Medorum regis domus, quam Memnon arte prodiga illigatis auro lapidibus fabricavit. Babyloniæ muri, quos Semiramis regina latere cocto, sulphure, ferroque construxit, Pyramides in Ægypto, quarum in suo flatu se umbra consumens, ultra constructionis spatia nulla parte respicitur. Sed quis illa, ulterius præcipua putabit, cum in una urbe tot stupenda conspexerit? Habuerunt honorem, quia præcesserunt tempore; & in rude sæculo quicquid emersisset novum, per ora hominum jure ferebatur eximium. Nunc autem potest esse veridicum, si universa Roma dicatur esse miraculum. Quapropter talia virum peritissimum suscipere decet: ne inter illa nimis ingeniosa priscorum ipse videatur esse metallicus; & intelligere non possit, quæ in illis artifex antiquitas, ut sentirentur, effecit. Et ideo det operam libris antiquorum, instructionibus vacet: ne quid ab illis sciat minus, in quorum iocum cognoscitur subrogatus26. Altrove27 descrive il Circo Massimo con tutti gli obelischi, ed altri suoi ornamenti; e dice, che vi si facevano ancora i giuochi, siccome si facevano nell’Anfiteatro Flavio28. Ci dà29 il Foro di Trajano30 per un prodigio; il Campidoglio per una cosa superiore alle forze dell’umano ingegno: Trajani Forum vel sub assiduitate videre miraculum est. Capitolia celsa contendere, hoc est ingenia superata vidisse; e intieri rappresenta gli acquedotti, le terme, e le tante pubbliche fontane. Del Teatro di Pompeo31, chiamato allora il Teatro Romano, che per la sua gran mole andava a rilassarsi, ci riporta32, che il re Teodorico ordinò venisse restaurato, come generalmente tutte volle si restaurassero le altre fabbriche, se ve n’erano, che in qualunque modo avessero sofferto danno33; e che il re Teodato fece restaurare i grandi elefanti di bronzo posti nella Via Sacra, i quali per la loro antichità minacciavano rovina34. Il palazzo del Senator Pincio, da cui scrive35 che furono tolte con licenza di Teodorico alcune colonne, che più non servivano, non farà stato guasto a segno di essere inabitabile; poichè Belisario, al dir d’Anastasio nella vita di Papa Silverio36, vi fece la sua dimora quando venne in quella città.
L’altro re de’ Goti Ricimere, che se n’impadronì nell’anno 472., si contentò di darle il sacco; e Vitige, che la strinse d’attedio inutilmente l’anno 537., tagliò soltanto gli acquedotti per obbligare così gli attediati ad arrendersi per la mancanza delle acque, secondo che riferisce Procopio37. L’ultimo re di quelli Barbari, che portò qualche danno alla città, fu Totila, il quale v’entrò per tradimento la prima volta nell’anno 546.38. Egli ne mandò a fuoco una non piccola parte, come racconta lo stesso Procopio39, e principalmente di là dal tevere, ove poche erano le fabbriche grandiose, e forse anche le statue; e rovinò la terza parte delle mura40: per il quale incendio rimproverato dal re di Francia, e odiato dai Romani, quando se ne rendè padrone la seconda volta nell’anno 549. procurò di far tutto restaurare quanto prima, volendovi anche fissare la sua residenza41. Meditava per verità, e si accingeva allora, come aggiugne Procopio (non già che avesse cominciato, come lo spiega Bandini42), a incendiare, e distruggere le fabbriche più magnifiche, e forse la città tutta: Statuit Romam solo æquare Totilas, ibique relicta majori parte exercitus, cum altera Joannem, & Lucanos petere. Ergo muros diversis in locis diruit; itaut ruinæ tertiam fere totius ambitus partem efficerent; ædificia quoque pulcherrima, ac magnificentissima delere flammis parabat, & mutare Romani in gregum pascua; ma se ne astenne, dissuaso da una lettera di Belisario43, che merita di esser qui riferita: Ut inventum virorum est cordatorum, ac vita civilis intelligentium, ornamenta urbibus nova addere; sic ea, quæ extant, abolere, nota est propria stultorum, quos non pudeat ejusmodi monumentum natura sua posteritati relinquere. Romam autem cunctis urbibus, qua sub sole sunt, magnitudine, & dignitate præstare in consesso est. Haud enim unius viri opibus extructa fuit, nec brevis temporis beneficio tam ampla, splendidaque evasit: sed multi imperatores, & præstantissimorum virorum catervæ plurimæ, & longa dies, & immensa divitia, huc ex universo terrarum orbe cum alia qualibet, tum architectos, atque opifices coegerunt; itaque urbe, qualem vides, paullatim ædificata, virtutis omnium monumenta posteris reliquerunt. Quare si quam acceperint hac injuriam, ea graviter in ætates omnes redundare videbitur, nec immerito. Nam & majoribus virtutis memoriam, & posteris voluptatem ea spectandi opera adimet. Quæ cum ita sint; probe teneas velim, necesse esse horum alterum fiat: vel hujus belli victoriam tibi præripiat imperator, vel eam forte adipiscaris. Si viceris; Roma excisa, non alienam urbem perdideris, præclare vir, sed tuam: eadem servata, augeberis procul dubio possessione omnium præstantissima. Sin deterior, fortuna tibi inciderit; manente Roma, non parva tibi gratia apud victorem manebit: ea deleta, nullus erit reliquus clementia locus. Præterea nihil emolumenti coeperis ex tali facio. Huic demum consentanea de te erit apud mortales omnes opinio, qua jam tibi impendet in utramque parata partem. Etenim qualia sunt acta principumn, tale ipsi nomen ex iis ferant necesse est. A questo generale riuscì finalmente di scacciarnelo con tutti i suoi Goti, che mai più non v’entrarono; e rivenne così Roma in poter degl’imperatori. Procopio testimonio oculare parla44 delle tante statue in marmo, e in bronzo, che vi restarono, dicendo che ne era pieno il Foro, ove si vedeano opere di Fidia, di Lisippo, e la famosa vacca di Mirone45: Pro foro illo ( Pacis sic a Romanis dicto, quod in eo sit Pacis templum, olim de coelo taclum) vetus quidam est fons, cui bos æneus insistit, Phidiæ, credo, atheniensis, vel Lysippi opus. Nam facta utriusque manu statua visuntur multa eo loci: ubi & alterum Phidiæ opus extat, testante authorem inscriptione statuæ: ibidem est Myronis bucula. Nimirum prisci Romani id diligenter curarunt, ut excellentissima quaque ornamenta Græcia Roma possideret; e che intiero v’era il tempio di Giano tutto di bronzo, chiuso per altro, con entro una statua di quel nume, pure in bronzo, alta cinque cubiti46. Che intiere vi restassero delle fabbriche, e fino a quelli ultimi secoli, lo capiamo anche al presente dal Panteon, dal Sepolcro di Cecilia Metella, dalla Piramide di Cajo Cestio, dall’Anfiteatro Flavio, dal così detto Tempio di Giano Quadrifronte vicino a s. Giorgio in Velabro, dalle Colonne di Trajano, e di Marc’Aurelio, dall’Arco di Settimio Severo, e di Costantino, dall’Obelisco del Vaticano, dai Cavalli di Marc’Aurelio, e del Quirinale, ed altri monumenti, de’ quali parleremo appresso, come vedremo anche delle terme: e per ultimo si può ricordare la profezia di s. Benedetto in occasione di Totila, verificata come attesta il lodato s. Gregorio il Grande47, il quale scriveva intorno al fine del secolo VI.; cioè, che Roma non sarebbe stata rovinata dai Barbari, ma da altre cause, che diremo.
Se i Barbari non hanno bruciate, atterrate, rovinate le fabbriche, molto meno potremo dire, che abbiano fatti i buchi, che al presente si veggono negli avanzi del detto Anfiteatro Flavio, del creduto Tempio di Giano, e in altri monumenti, come si crede da tanti, e come mostra di credere anche monsignor Suaresio nella Dissertazione fatta appunto su quei buchi48. E' una ben frivola ragione il pretendere, che gli abbiano fatti per torne via le spranghe, o perni di metallo, con cui sono fermati, e stretti insieme i gran massi di pietre, come fu usato presso altri antichi popoli riferiti dal citato Suaresio; avendo noi fatto vedere, che aveano tante statue, ed infiniti lavori di bronzo nelle strade medesime, e nelle piazze, che pur non toccarono. Nè pare verosimile, che gli abbiano fatti per dispetto, e per rabbia, o per lasciarvi così eterni i segni del loro furore; mentre hanno risparmiati nel resto quelli, e tanti altri monumenti dell’arte, contro de’ quali avrebbero più facilmente potuto infierire: e per semplice dispetto non avrebbero fatti i buchi quasi sempre nel luogo stesso appunto delle commessure, ove corrispondono le spranghe. E poi si dovrebbe in primo luogo trovare il tempo, in cui abbiano potuto fare tanti buchi, in tali altezze, e luoghi così incomodi, che vi facea d’uopo o di altissime scale, o di ponti. Alarico li trattenne in Roma tre giorni, o sei al più, secondo Marcellino Conte al luogo citato, Genserico quattordici: e non che pensare a quella razza di dispetti, appena forse ebbero campo i loro soldati di raccoglier l’oro, e l’argento, di cui erano unicamente solleciti, e insaziabili; e di tormentare, e costringere per ogni modo or quello, or quell’altro cittadino a manifestare quei tesori, che da loro supponevano ascosi. Totila, il quale appiccò il fuoco ad una parte della città nel primo impeto di furore, entratovi dentro perdonò subito spontaneamente agli abitanti, cercò di cattivarsene l’affetto, trattandoli amorevolmente quasi altrettanti suoi figli, come scrive Anastasio nella vita di Papa Vigilio49, copiato dall’autore della Historia Miscella50, confondendo, per quanto mi pare, la seconda colla prima presa della città; e in appresso procurò anzi di riparare i danni, che avea recati alle fabbriche coll’incendio, come dicemmo.
Veniamo ai Romani. Chi saranno quelli, che possano rimproverarsi di aver fracassate statue, e distrutti edifizj? Il Senato forse, il popolo, i Cristiani, i Gentili? Nessuno di questi, presi generalmente. Lo stato della città, e i sin qui descritti monumenti dovrebbero bastare a persuadercene; ma la testimonianza di Procopio ne farà una prova manifesta. Egli racconta51 di non aver conosciuto popolo alcuno tanto impegnato a conservare le fabbriche, le statue, e i monumenti anche meno preziosi; e che a’ suoi tempi era puranche gelosamente custodita in una naumachia la nave fatta tutta d’un tronco d’albero, in cui si credeva approdato Enea in Italia, e ne dà la descrizione: Supra omnes, quos equidem novimus, urbis studiosi suæ Romani res omnes patrias retinere, & conservare satagunt, ne quid antiqui decoris Roma depereat. Et quamvis diu dominationem barbaricam passi sint, urbis tamen ædificia servarunt, & quamplurima, quoad ejus fieri potuit, ornamenta, quibus eam firmitatem industria artificum dedit, ut nec tanta avi longinquitate, nec cura intermissione, detrita fuerint. Imo vero stant adhuc relicta posteris monumenta, quibus gentis origo proditur. In his navis Æneæ, conditoris urbis, etiamnum existit &c. Eam habet navale media in urbe ad Tyberis ripam constructum &c. I Cristiani sono quelli, che s’incolpano più volentieri, e più facilmente. Io non negherò, che taluno di quelli abbia potuto in que’ primi fervori, e rivoluzione ai tempi de’ Costantini, atterrare, e guastare in sua casa qualche statua; ma non già quelle, che stavano in pubblico, o ne’ magnifici palazzi, che erano degl’imperatori, o de’ magnati, buona parte de’ quali fu l’ultima ad abbracciare il cristianesimo. Gl’idoli saranno stati tolti dai tempj, e da altri luoghi, ove si veneravano; o vi faranno stati chiusi dentro per comando degli stessi imperatori cristiani; come si può intender s. Agostino52 là dove scrive, che nel 405. tutti vi erano rovesciati i simulacri degli dei: Eversis in urbe Roma omnibus simulacris; seppure non vuol dire, che più non si adoravano pubblicamente, come pare dal contesto. Per li simulacri, o statue poste in altri luoghi, i Cristiani non vi si opposero; e noi già osservammo53, che l’imperator Costantino, e gli altri le voleano conservate, come Prudenzio54 induce quell’imperatore a parlare in Senato con questi versi, che qui giova ripetere:
Marmora tabenti respergine tincta lavate,
O Proceres; liceat statuas consistere puras,
Artificum magnorum opera. Hæ pulcherrima nostra
Ornamenta cluant patriæ, nec decolor usus
In vitium versæ, monumenta coinquinet artis.
In fatti nell’anno 383. quando Roma era già quasi tutta cristiana, e que’ pochi idolatri, che v’erano rimasti, si contentavano di avere almeno per loro in pubblico l’ara della Vittoria, le terme, i portici, le piazze erano piene di simulacri, come si ha da s. Ambrogio, che in quell’anno scrisse la seconda lettera contro Simmaco, il quale avea supplicato per quella causa l’imperatore Valentiniano: Non illi satis sunt lavacra, non porticus, non plateæ occupatæ simulacris?55 E cristiano molto più era il popolo ai tempi di Procopio56, che pur ce lo descrive tanto impegnato a conservare i monumenti dell’arte anche in un tempo di total decadenza. Di questo impegno un altro argomento ne abbiamo nel gravissimo suo cordoglio, descrittoci con qualche esagerazione da Zosimo scrittor gentile57, quando fu costretto a fondere eziandio tante statue deg’idoli d’oro, e d’argento, che erano restati chiusi ne’ tempj gentileschi, e gli ornamenti preziosi degli altri simulacri, per saziare l’ingordigia del suddetto Alarico, il quale portatoli ad attediar la città per la prima volta l’anno 408., le minacciava l’ultimo esterminio se tutto non gli veniva consegnato l’oro, e l’argento, che vi si trovava. I soldati greci, che la difendevano sotto gli ordini di Belisario, non già i Romani stessi, furono quelli, che precipitarono dalla Mole Adriana rimarla intiera alcune statue rotte in pezzi addosso alle truppe di Vitige58; e non altro che una stoica apatia, o insensatezza propriamente da statua, poteva in un secolo di tanta vantata umanità come quello, far pronunziare freddamente al sig. Saint Marc59, che gli amatori delle belle arti avrebbero amato meglio di veder preso il castello, che di soffrir la perdita di sì bei monumenti: quali che la conservazione d’un Fauno, che ubbriaco sembra russare, di qualche cavallo, o altre poche statue comunque eccellenti, avesse dovuto preferirsi alla salvezza di tante migliaja di cittadini, delle ricchezze, e de’ più preziosi monumenti dell’arte in oro, e argento, e forse degli altri ancora, ai quali que’ Barbari minacciavano guaito, e inevitabile rovina. Le fabbriche non le avranno certamente rovinare nè i Cristiani, nè i Gentili; poichè oltre il loro genio di conservarle, come dicemmo, quasi tutti gl’imocritori, cominciando da Vespasiano sino a Giustiziano, vale a dire dal secondo sino al sesto secolo, con replicate leggi o accennate, o riportate nel Codice Teodosiano60, e nel Giustinianeo61, non solo proibirono rigorosamente a chiunque di appropriarsi qualunque pubblico edilizio, e di distruggere i pubblici, o anche i proprj, per qualsivoglia causa, se fosse venuta a deformarsi così la città; ma proibivano eziandio ai magistrati di Roma in ispecie di alzarne dei nuovi a spese dell’imperiale erario, se prima non erano restaurati i vecchi; o se taluno avesse voluto elevarne a sue spese, non potesse a tal effetto adoprare i materiali presi da altri edifizj quantunque rovinosi. Di tante leggi noi riporteremo qui la 19. del detto titolo del Codice Teodosiano diretta nell’anno 376. al Senato dagl’imperatori Valente, Graziano, e Valentiniano: Nemo Præfectorum Urbis, aliorumque Judicum, quos potestas in excelso locat, opus aliquod novurn in Urbe Roma, inclyta moliatur, sed excolendis veteribus intendat animum. Novum quoque opus qui volet in Urbe moliri sua pecunia, suis operibus absolvat, non contractis veteribus emolumentis, non effossis nobilium operum substructionibus, non redivivis de publico saxis, non marmorum frustis, spoliatarum ædium deformatione convulsis.
Una incerta tradizione fondata piuttosto su d’un sognato zelo, che fu giusti fondamenti, fa autore s. Gregorio il Grande della distruzione del resto di tante fabbriche, e di tante statue. Amalrico Augerio scrittore del secolo XIV. in una Cronica de’ Papi data da Eccardo62, e dal Muratori63, e fra Leone d’Orvieto Domenicano scrittor anch’egli del secolo XIV., in altra Cronica pubblicata dal Lami64, esaltano questo s. Pontefice per la guerra mossa agl’idoli: Statuit, scrive il primo, & ordinavit, ut omnes imagines demonum, & capita, & membra ipsorum, quæ tam in urbe romana, quam extra inveniri possent, amputari, & dilaniari penitus deberent, ut propter hoc extirpata hareticæ pravitatis radice ecclesiasticæ, virtutis palma exaltaretur: e nel secolo XV., per testimonianza del Volaterrano65, seguito buonamente da Paolo Alessandro Maffei66, si diceva, che gli avesse gettati nel tevere con tutto ciò, che era io Roma di più maraviglioso. Altri, che riprova il Platina nella di lui vita, e in quella del successore Sabiniano, pretendevano, ch’egli avesse per molti modi rovinati gli antichi edifizj, affinchè i forastieri, che venivano per divozione in Roma, non lasciassero i luoghi sacri per andar vedendo gli archi trionfali, e le tante altre profane bellezze dell’arte.
Non mi fa maraviglia, che un complesso di tanti assurdi possa essere stato spacciato con buona fede ne’ riferiti secoli d’ignoranza; ma è cosa alquanto vergognosa il sentirlo ripetere colla maggior franchezza ancora a’ nostri giorni, in un tempo di tanta erudizione, e di tanta critica: non ostante che il P. Gradenigo67, il Tiraboschi68, Bandini al luogo citato, ed altri abbiano pur data qualche ragione in contrario; il Bayle69, e il Bruckero medesimo70, benchè arditissimo censore della di lui dottrina, dubitato ne abbiano fortemente. Dopo che io ho preso altrove le difese di un tanto Pontefice contro alcuni giureconsulti71, potrò agevolmente anche difenderlo per quella parte. E in primo luogo è da riflettersi, come provammo a quella occasione, ch’egli era di casa illustre romana, figlio di senatore, fratello del prefetto, o governatore della città, versato quant’altri mai del suo tempo nella giurisprudenza, stato senatore anch’egli, e quindi pretore urbano72: uomo per conseguenza, che ben educato partecipar dovea di quel genio de’ suoi concittadini per la magnificenza, e splendore della patria, e sapere le leggi, che volevano conservati i monumenti dell’arte. Fatto Papa, essendo Roma ancora soggetta agl’imperatori d’Oriente, non è probabile, ch’egli abbia potuto contro tante loro leggi farli a un tratto quasi padrone dispotico, e disruttore non di uno, ma di tanti monumenti, i quali non solo avrebbero deformata la città; ma ingombrata l’avrebbero di rovine, e resa impraticabile, senza una spesa enormissima per isgombrarla; tanti erano i grandissimi edifizj in ogni contorno73. Egli, uomo saviissimo, ed esercitato in que’ maggiori impieghi, non poteva ignorare con quanta prudenza, e cautela avessero da condursi i Sommi Pontefici cogl’Imperatori, i quali per ogni piccolo motivo, o querela, che ne avessero, li chiamavano a Costantinopoli, o gli angustiavano amaramente, come provò egli stesso in varie cose, per le quali, non ostante che si fosse condotto colla maggior prudenza, e impegno per il bene di Roma, e dell’Italia, ebbe a dolerli coll’imperator Maurizio di essere stato da lui rimproverato aspramente, e chiamato uomo semplice, vale a dire stolto74: e non è credibile, che i suoi Romani, i quali sino al tempo di Procopio, cioè pochi anni prima, anche in tempo di guerra, e in mezzo al furore di barbare nazioni, si erano mostrati cotanto gelosi, e impegnati per gli ornamenti della loro patria, avessero in un tratto a mutar genio, e soffrirne in pace il devastamento, e quasi totale rovina; e nell’uno di essi avesse a correre, anzi volare a Costantinopoli per farne altissime doglianze ad uno dei più iracondi imperatori, quale era Maurizio; o almeno al di lui esarco Romano, il quale in tante altre cose si era inoltrato a s. Gregorio apertamente contrario75. Che le accennate leggi fossero in vigore a quel tempo, e che i Papi ne avessero tutto il riguardo, ce lo comprovano i fatti degl’immediati successori di s. Gregorio, Bonifazio IV., Onorio I., e Gregorio III. Il primo consecrò alli 13. di maggio dell’anno 610. in tempio cristiano il Panteon, che era restato chiuso, dopo averlo chiesto in grazia all’imperator Foca, successore di Maurizio, come attestano Paolo Diacono76, ed Anastasio nella di lui vita77. Il secondo, assunto al pontificato nell’anno 626., al dire dello stesso Anastasio nella di lui vita78, ebbe espressa permissione dall’imperator Eraclio di levare dal tempio di Roma, o secondo altri codici, di Romolo, le lamine di bronzo, che lo coprivano, per adoprarle al tetto della chiesa di san Pietro in Vaticano79; e Gregorio III., che cominciò il suo governo nell’anno 731., per la stessa chiesa di s. Pietro ottenne dall’esarco Eutichio sei colonne80, come dice anche Anastasio nella di lui vita81. Or se quelli Pontefici furono sì cauti per una cosa sola di non molta importanza; e gli imperatori, e l’esarco esercitando il proprio diritto82, credettero, che da loro avesse a prendersi espressa licenza; chi potrà mai pensare, che un Gregorio il Grande avesse a dar negli eccessi di violata giurisdizione, e impero; e l’imperatore, coll’esarco, a non mostrarsene intesi? Se vogliamo credere, che questo, e quello secondando le supposte viste di zelo cristiano, abbiano accordata a s. Gregorio qualunque necessaria permissione di oprare a suo talento, e far man bassa; come renderemo ragione, che di un fatto così strepitoso, il quale giusta quella opinione avrebbe fatto tanto onore a quel Pontefice, fra i molti scrittori antichi, ed anche contemporanei, che di lui hanno trattato a lungo, esaltandone la pietà, saviezza, e dottrina, come s. Gregorio vescovo di Tours83, sant’Isidoro vescovo di Siviglia84, Beda85, il diacono Luitprando86, il Metafraste87, nessuno ne abbia dato il minimo cenno; e lo abbiano passato sotto silenzio anche Paolo, e Giovanni Diaconi, e l’anonimo88, scrittori di una lunga di lui vita, e Anastasio parimenti89, il quale fu tanto diligente col detto Paolo Diacono nel registrare i fatti di quegli altri Pontefici?90
Il Bargeo, il Maffei, e gli altri, i quali dicono, che s. Gregorio distrusse gl’idoli per toglier dalla mente de’ fedeli ogni oggetto, e residuo di superstizione, e d’idolatria, non riflettono, che allora Roma era tutta cristiana da gran tempo91; che le statue potevano allora molto più riguardarsi come semplici monumenti dell’arte, e puri ornamenti della città, se per tali erano state tenute sin da tre secoli avanti, ne’ quali vi avea trionfato il cristianesimo; e che nè i cristiani generalmente, nè alcuno di tanti grandi, e santi Pontefici antecessori di san Gregorio, per quanto io sappia, si era fatto mai quello scrupolo; siccome non se lo erano fatto in Costantinopoli nè i cristiani, nè gli arcivescovi santissimi Gregorio Nazianzeno, Giovanni Grisostomo, e tanti altri, al vedervi adunate, e poste sì in privato, che in pubblico le tante statue di profane deità trasportatevi da Roma, dalla Grecia, e da altre parti del romano impero, per ordine di Costantino, e de’ suoi successori. Chi poi oltracciò arriva a dire, che san Gregorio le facesse gettare nel tevere con tutte le altre cose preziose, mostra di non sapere la gelosa cura, che si aveva in Roma da tanti secoli, le rigorose leggi emanate, e il magistrato creato apporta affinchè avesse ispezione sull’alveo di questo fiume, e badasse, che non vi si gettasser materie da empirlo, e alzarne il letto, onde avesserò a venirne delle inondazioni, com’altre volte era accaduto da più antichi tempi92: quali cautele, e providenze non dovea ignorare san Gregorio, e molto meno trascurarle dopo aver veduto nel mese di novembre dell’anno avanti al suo Pontificato, che fu il 589., una di quelle inondazioni così esorbitante, che al dir dei citati Paolo93, e Giovanni94 Diaconi, di s. Gregorio vescovo di Tours95, e dello stesso s. Gregorio il Grande96, sorpassò le mura della città, l’allagò qua si tutta, diroccò molte vecchie case, e produrle in appresso la spaventosa peste inguinaria, di cui furono vittime un numero ben grande di persone, e che durò quasi per tutto il primo anno del suo governo: flagello, che afflisse per lungo tempo questo misero popolo, e unito a tante altre calamità, al continuo spavento, e alle devastazioni portate all’Italia tutta dai Longobardi, e a Roma stessa, che cinsero d’assedio nell’anno 593.97, e la minacciarono nei seguenti, dando il guasto alla campagna, e tagliando a pezzi molta gente98, ben altri pensieri eccitar doveano in mente, e ben altri affetti nel cuore d’un sì buon padre per soccorrere i poveri, far venire da lontane parti il grano99, attendere, e invigilare alla difesa delle mura100, mantenervi a sue spese i soldati, spedir messi a Maurizio, e poi a Foca per averne aiuto, e far maneggi continui con altri principi per allontanare da Roma, e dall’Italia tante sciagure101; anziché colmar di rovine questa desolata città, renderla un deserto, ed uno scheletro informe, per cui si accrescesse vieppiù agli occhi suoi, e del popolo l’immagine dell’orrore, e della desolazione.
Vagliono ancora a difendere s. Gregorio da quelle accuse gli scavi, che si sono fatti per ogni parte in Roma, e nelle vicinanze dagli ultimi secoli scorsi sino a’ tempi nostri; medianti i quali una infinità di statue di ogni forte di deità, e di soggetti anche osceni, come Veneri nude, Priapi, Fauni, Eroi, e cento altre mila, sono state disotterrate dalle rovine delle stesse case, palazzi, terme, tempj, ville, ed altri luoghi, ove anticamente si trovavano; e in tal numero se ne sono cavate da arricchirne non solamente i musei, e tutte quali le case di Roma, e dell’Italia; ma quasi tutte anche le principali città dell’Europa. Vero è, che molte di esse furono trovate, e si trovano ogni giorno senza testa, o senza qualche altro membro: altre molte però sono state trovate intiere; e di tante trovate senza testa, braccia, e gambe, può dirsi, che siano state così maltrattate nel cader per terra, o nel precipitar loro addosso le fabbriche, o per altre ragioni, che diremo; perocché le membra per lo più li trovano accanto alle altre parti, o poco distanti. Basta leggere l’Aldroandi nella sua descrizione delle statue di Roma, Flaminio Vacca nelle sue Memorie, il Nardini, Ficoroni, Venuti, e gli altri, che hanno descritta Roma antica, e moderna, e il P. Volpi nella descrizione del Lazio. Se i Papi fossero stati quelli, che le avessero rovinate, e sfigurate per togliere all’occhio de’ fedeli ogni oggetto d’oscenità, e di superstizione, perchè le avrebbero dovute lasciare, come tanti idoli di Dagon102, stese per terra ai loro luoghi? Erano forse deserti quei palazzi, quelle terme, quelle ville, quei tempj? E allora perchè andarvi a fracassare le statue, che altri non potevano scandalizzare fuorché le mura? O erano abitati, e frequentati; e i Papi avranno voluto, e potuto desolarli, ingombrarli con tanti frantumi, cacciarne via i padroni, il popolo, e renderli inabitabili? Io dubito, che il citato Bandini quando scrisse103, che i Papi aveano almeno fatto quel guasto di statue oscene, e di deità per il zelo, che portava il loro ministero, si figurasse che le statue siensi trovate, e si trovino tuttavia sotterrate a bella posta dagli antichi medesimi, e fuor dell’abitato. Tralascio altre ragioni, che potrebbero addursi in difesa di s. Gregorio; come per esempio, potrei chiedere a’ miei avversarj, perchè se ha rovinate tante fabbriche, ne abbia poi lasciate tante altre intierissime; e se tolse con tanto impegno tutti gli oggetti di superstizione dagli occhi del popolo, l’obelisco da Nerone cretto nel suo Circo egli lo lasciasse in piedi104 accanto alla stessa basilica del Principe degli Apostoli nel Vaticano. Egli si difenderà da sé medesimo in maniera più evidente, come vedremo.
Ma intanto, dirà taluno, Roma, la città eterna, quella Roma, che era il complesso di tutte le maraviglie del mondo105, le cui fabbriche pareano contrattar col tempo distruttore, e vantarsi di una solidità perpetua; quella Roma è stata quasi annientata, ed ora si può dire ugualmente di essa, che dell’antica sua rivale Cartagine:
- Copre i fasti, e le pompe arena, ed erba106.
Chi dunque avrà dato mano a tanto eccidio? Chi avrà spianati quei sette colli orgogliosi, le cui grandiose fabbriche sembravano toccar il cielo? Chi avrà alzate le valli, chi inabissati edifizj fatti a modo di provincie107, chi fatto dileguar come un fumo tante migliaja di sterminate colonne, ed altre immense moli di marmi? Chi, in somma, come, e in che tempo ha potuto render questa città quasi una pianura deserta, per modo, che durisi fatica a trovarvi in tanti luoghi qualche avanzo di rovinosi muri, e in tanti altri si resti incerti dei monumenti, che gli occupavano? Quanto farebbe interessante il dare a questa domanda un’adeguata risposta; altrettanto mi pare malagevole il potervi riuscire, sì per mancanza di una storia seguita, e ragionata delle cose di Roma ne’ tempi di mezzo; e sì ancora perchè da ciò, che può raccogliersi nella lettura di tanti barbari scrittori di que’ tempi, lo scopo de’ quali era di parlare di tutt’altro, che di Roma, e del suo materiale, pur si trova essere state moltissime le cause seconde, che sono concorse nel giro di que’ secoli a danno di quella città; per radunar le quali, combinarle, e farvi qualche necessaria riflessione, coll’esame anche oculare di varj luoghi rovinati, e di altri, de’ quali appena si ha notizia, sarebbe mestieri di un tempo conveniente, e di un grosso volume. Ciò non ostante volendo dirne qualche cosa, mi ristringerò ad esporre le cause generali; e a parlare poi in ispecie di qualche monumento dei più interessanti.
Anche nel tempo, che Roma era nel suo maggior lustro, e che facevano a gara gl’imperatori, e i ricchi cittadini di alzarvi nobili, e magnifici edifizj d’ogni genere, e di arricchirli di pitture, e di statue, colle spoglie di tutte le nazioni, ben molte sono siate le vicende, che ha sofferte o dalla mala volontà degli uomini, o dalla forza irreparabile di naturali fenomeni, per cui innumerabili statue sono perite, e non pochi de’ più forti e sontuosi edifizj hanno sofferti danni straordinarj. Quante statue non sono perite rovesciate da turbini precipitosi, colpite da fulmini, o consumate negl’incendj? Parlammo altrove108 della Lupa di bronzo con Romolo e Remo alle poppe conservata già nel Campidoglio, e rovinata da un fulmine ai tempi di Cicerone. Dionisio d’Alicarnasso narra, che perisse in un incendio la statua di bronzo della famosa Clelia109, come vi perì anche il famoso Cupido di Prassitele110; e di tante altre statue così perite per fulmini, e turbini, ed altri accidenti, ne parla Giulio Ossequente nella sua opera de’ Prodigj, e Corrado Licostene ne’ supplementi ad ella. Egual sorte hanno avuto molti edifizj. Augusto medesimo fece restaurare de’ tempj o rovinati per l’antichità, o consunti dal fuoco; e fu corretto a deputare uno special magistrato, il quale colle sue guardie invigilasse di notte per la città ad oggetto d’impedire, e riparare gl’incendi, che erano quali continui111, e ne’ quali fu involto anche il suo palazzo112. Pel barbaro piacere, che ebbe Nerone, di far sorgere Roma più bella col mezzo di un incendio generale, perirono quasi tutti gli antichi monumenta, e le cose preziose, e la maggior parte delle fabbriche: Præter immensum numerum insularum, dice Suetonio113, domus priscorum ducum arserunt, hostilibus adhuc spoliis adornata, deorumque ædes ab regibus, ac deinde Punicis, & Gallicis bellis vota, dedicatæque: & quicquid visendum, atque memorabile ex antiquitate duraverat. Rifabbricata Roma dopo quello tempo, gl’incendj seguitarono ad essere frequentissimi. Il tempio di Giove Capitolino fu incendiato dai Vitelliani114. Sotto l’impero di Tito arse gran parte della città per tre giorni, e tre notti continue115. Nell’anno decimoterzo dell’impero di Trajano arse la Casa Aurea116, e per un fulmine il Panteon117; e lo stesso potrebbe dirsi di tanti altri de’ maggiori edifizj, e delle case private, se qui si potettero annoverare. Si cercava di restaurarle o dagl’imperatori, o dai privati, come Vespasiano restaurò il Tempio di Giove118, Adriano119, e Antonino Pio120 il Panteon; ma questi restauri non venivano quasi mai fatti sul gusto delle fabbriche vecchie; e comunque fossero fatti non potevano impedire, che tutta la macchina, la quale avea patito generalmente, non venisse ad abbandonarsi con più facilità: e quindi io ripeterei la ragione, per cui non poche fabbriche aveano bisogno di continui rifacimenti, o almeno dopo breve tempo; come a cagion d’esempio il Panteon, restaurato da Adriano, in meno di cent’anni per esser guasto dall’antichità fu di nuovo restaurato dagl’imperatori Settimio Severo, ed Antonino Caracalla, come costa dall’iscrizione, che vi si legge ancora nell’architrave, benché guasta in qualche parola121:
imp. caes. l. septimivs. severvs. pivs. pertinax
arabicvs. adiabenicvs. parthicvs. maximvs. pontif. max.
trib. potest. x. imp. xi. cos. iii. p. p. procos. et imp. caes. m. avrelivs
antoninvs. pivs. felix. avg. trib. potest. v. cos. procos.
panthevm. vetvstate. corrvptvm. cvm. omni. cvltv. restitvervnt
A queste cagioni di devastamento si aggiungano i capricci degl’imperatori, i quali o per eseguire delle nuove fabbriche da loro ideate, o anche per odio, schiantavano le fabbriche de’ loro predecessori benché magnifiche122; e d’alcuni, che colla loro vita sceleratissima si erano attirata l’universale abominazione, per ordine del Senato ne furono rotte, e guastate le statue, ed altre memorie, come fu osservato riguardo a quelle di Domiziano, e di Comodo123. Sul principio del IV. secolo dell’era cristiana parea, che la grandezza di Roma, e quella dell’impero, si avvicinassero al punto di una total decadenza. Il buon gusto nelle arti si era perduto da gran tempo124. I nemici esterni di essa aveano cominciato ad insultarla da ogni parte, e frequenti erano più che mai le civili discordie, e le tirannie. Le sue fabbriche, soggette a quelle stesse cause fisiche, per le quali ogni cosa o naturale, o artefatta va a disciogliersi, e finire, già si risentivano dell’antichità, screpolandosi, e minacciando rovina. Salito al trono Costantino il Grande furono sedati gl’interni tumulti, frenate le barbare nazioni; ma le fabbriche, e gli altri monumenti della metropoli non ne riportarono gran vantaggio. Esse aveano bisogno d’essere restaurate, e per quello effetto ci voleano somme immense. Costantino avendo in mira la sua nuova capitale, per fondarla, e ornarla da potere star a fronte della vecchia, vi avrà destinata la maggior parte de’ suoi tesori, come vi avea destinati infiniti de’ più bei monumenti dell’arte, che si trovavano sparsi in tutto l’impero, statue, colonne, ed altri marmi, nel tempo stesso ch’egli voleva osservata la sua legge, non si sa di qual anno125, in cui proibiva, come già si era fatto da altri principi suoi antecessori colle leggi, che accennammo, di poterli togliere da una città i monumenti, che l’ornavano, per trasportarli in un’altra: Nemo propriis ornamentis esse privandas existimet civitates: Fas siquidem non est acceptum a veteribus decus perdere civitatem, veluti ad urbis alterius moenia transferendum. Da un’altra di lui legge, riportata nel Codice Teodosiano dopo la precedente126, ricaviamo, che per restaurare le fabbriche pubbliche in tutte le provincie dell’impero vi fossero delle entrate adeguate, e i magistrati dei luoghi rispettivi ne avessero l’incombenza. Questi assegnamenti saranno stati fatti anche in Roma, ove erano più necessarj, che altrove; ma io dubito, che al tempo di questo imperatore, e prima ancora, qualche edifizio, e de’ più grandiosi, siasi lasciato andare in rovina, seppur non era precipitato per altre cause. Così m’induco a pensare per le tante chiese innalzate da Costantino in quella città, nominate da Anastasio nella vita di s. Silvestro, nelle quali si veggono accozzati pezzi di varie maniere. Io non crederò mai, ch’egli abbia rovinate appostatamente le fabbriche intiere, per levarne colonne, o altri materiali; ma bensì, che gli abbia raccolti da altri edifizj rovinati, e inservibili. Anastasio non ne fa parola. Soltanto racconta, che s. Sisto III.127, il quale governò la chiesa dall’anno 432. al 440., eresse nel battistero vicino alla basilica Costantiniana le colonne di porfido, coi loro architravi di marmo, raccolte già per quell’effetto da Costantino; e nella vita di san Silvestro128 scrive, che alcune colonne129 questo imperatore le fece venire dalla Grecia, ornandone la basilica del Principe degli Apostoli: del che avrebbe potuto fare a meno, se avesse voluto metter mano su tante fabbriche, ove ne erano d’ogni qualità. E’ indubitato, che all’Arco di lui fatto dal Senato sieno stati adoprati i bassirilievi forse di un altr’Arco di Trajano, ma io non ho potuto trovare, che questo fosse guastato ad arte per adoprare i materiali in quello; e per le colonne della basilica di s. Paolo abbiamo già osservato, e meglio lo diremo presso, che Costantino non le abbia tolte dalla Mole Adriana, come credesi senza fondamento. Non è improbabile, ch’egli abbia usate anche delle colonne, ed altri marmi dispersi per la città, che a nulla aveano mai servito per lo avanti; essendosi trovate molte di tali colonne, che mostrano di non esser mai state messe in opera, negli scavi fattivi in questi ultimi secoli130, e innumerabili pezzi di marmi d’ogni sorta sparsi in varj luoghi, e in ispecie alla marmorata, ove facevasi anticamente lo scarico delle barche131.
Il danno maggiore può dirli avvenuto alle fabbriche, e agli altri monumenti dell’arte in Roma dopo che Costantino, e i successori fissarono il loro soggiorno in Costantinopoli. Colà essi trasportarono molte statue132, e Costantino per popolarla con prestezza vi chiamò diverse delle prime famiglie, fabbricando loro con reale munificenza palazzi simili a quelli, che aveano in questa città; e allettandole colle più dolci maniere perchè volentieri vi si stabilissero133. Anche senza di quello là dovea concorrere tutto l’orbe romano ove risedeva la corte, ove poteano sperarsi onori, e impieghi, e dove si faceano giuochi, e feste più sontuose, che in altri luoghi. Roma frattanto restava a poco a poco spopolata, abbandonata alla cura di gente, la quale al solito ad altro non pensava che ad arricchirsi. La plebaglia, che nell’anno 312., secondo il Muratori134, avea dato fuoco al Tempio della Fortuna135, fattasi più insolente, e ardita nella lontananza del sovrano, per ogni benché menoma causa tumultuando facea vendetta a suo modo cogl’incendj, attaccando fuoco alle fabbriche, e fra le altre al palazzo del prefetto della città, che ogn’anno si mutava. Così fece al palazzo grandioso di Simmaco in Trastevere, per avere inteso affermare da un sol uomo dei più vili, che quello prefetto avea detto di voler piuttosto impiegare il suo vino a smorzar calce, che darlo al prezzo, che desiderava il popolo. Lo stesso trattamento fu fatto al palazzo del prefetto Lampadio successore di Simmaco136: ond’è che s. Ambrogio scrive137, che era cosa frequente il veder preda delle fiamme la loro abitazione.
Al mantenimento delle fabbriche gl’imperatori aveano lasciato un fondo determinato, e spesso comandavano ai prefetti di restaurarle: ma o quelli non se ne curassero molto, o le entrate a quell’effetto desinate fossero scarse, ed insufficienti, com’è probabile, per ciò che vedremo, qualche fabbrica andava da sé medesima rovinando. Ne danno prova indubitata gl’imperatori Valentiniano, e Valente in una legge del citato titolo del Codice Teodosiano diretta nell’anno 364. a Simmaco ora menzionato; e sovente dagli storici di que’ tempi, e dalle iscrizioni si ha memoria di fabbriche rovinate, o cadenti, o restaurate. Non bastando i pubblici proventi per tutte, credo che il Senato, e il Popolo Romano si addossassero il peso di contribuire per qualcuna di esse, come al Tempio della Concordia, che restaurarono, come avevano fatto altre volte ai tempi di Vespasiano, e di Settimio Severo138, quando già Costantino stava nella nuova metropoli, siccome può arguirsi dalla iscrizione, che vi fu trovata, secondo la lezione del Grutero139, in cui vi è registrato il nome di Anicio Paolino giuniore, che fu console nell’anno 334.:
D. N. CONSTANTINO. MAXIMO. PIO. FELICI. AC
TRIVMPHATORI. SEMPER. AVGVSTO. OB. AMPLIFI
CATAM. TOTO. ORBE. REM. PVBLICAM FACTIS. CON
SILIISQ. S. P. Q. R.
DEDICANTE. ANICIO. PAVLINO. IVNIORE. C. V. COS
ORD. PRAEF. VRBI
S. P. Q. R.
AEDEM. CONCORDIAE. VETVSTATE. COL
LAPSAM. IN. MELIOREM. FACIEM. OPERE
ET. CVLTV. SPLENDIDIORE. RESTITVERVNT
e all’altro tempio, di cui si vedono gli avanzi sotto il Campidoglio, creduto lo stesso della Concordia, e che io in altra occasione140 ho detto restaurato in questi tempi, colla iscrizione sull’architrave:
SENATVS POPVLVSQVE ROMANVS
INCENDIO CONSVMPTVM RESTITVIT
Probabilmente il Senato restaurò anche il Tempio di Roma, come io intendo Aurelio Vittore nella vita di Costantino, ove scrive: Adhuc cuncta, quæ magnifice construxerat (Constantinus), Urbis Fanum, atque Basilicam Flavii meritis Patres sacravere. Nel secolo seguente, che è il quinto dell’era cristiana, principalmente dopo che i Goti, e i Vandali ebbero spogliata la città delle ricchezze, quelle entrate per restaurare le fabbriche, e quelle del Senato doveano essersi ridotte a poca cosa: imperciocchè abbiamo da un’altra iscrizione, la quale forse appartiene all’anno 443., secondo l’osservazione del P. Corsini141, che il prefetto col tenue soccorso, che potè avere dal Senato in tante pubbliche angustie, durò fatica a restaurare le Terme fatte da Costantino sul Quirinale, state da lungo tempo danneggiate in un popolare tumulto:
PETRONIVS PERPENNA MAGNVS QVADRATIANVS
V. C. ET INL. PRAEF. VRB.
CONSTANTINIANAS THERMAS LONGA INCVRIA
ET ABOLENDAE CIVILIS VEL
*al. fatalis POTIVS * FERALIS CLADIS VASTATIONE
VEHEMENTER ADFLICTAS ITA VT
AGNITIONE SVI EX OMNI PARTE PERDITA
DESPERATIONEM CVNCTIS REPARATIONIS
ADFERRENT DEPVTATO AB AMPLISSIMO
ORDINE PARVO SVMPTV QVANTVM
PVBLICAE PATIEBANTVR ANGVSTIAE
AB EXTREMO VINDICAVIT OCCASV ET
PROVISIONE LARGISSIMA IN PRISTINAM
FACIEM SPLENDOREMQVE RESTITVIT142
Io credo per tumulto popolare, anzichè per occasione de’ Goti, che vennero in Roma sotto il comando d’Alarico nell’anno 409., come pretende il P. Corsini; non parendomi, che possa riferirsi ad un fatto di nemici barbari l’espressione, che si legge nella lapida, abolendo civilis, vel potius feralis cladis vastatione, che ben conviene ad un tumulto popolare, o guerra civile, come indubitatamente s’intendono consimili parole in quello senso in altra lapida data già dal Muratori143, e ripetuta dallo stesso Corsini ad altro proposito144:
SIMVLACRVM MINERBAE
ABOLENDO INCENDIO
TVMVLTVS CIVILIS IGNI
TECTO CADENTE CONFRACTVM
ANICIVS ACILIVS AGINATIVS
FAVSTVS V. C. ET INL. PRAE. VRBI
V1C. SAC. IVD. in melius
integro proviso pro
beatitudine temporis restituit
Quale possa essere stata quella guerra civile io nol saprei dire. Potrebbe sospettarsi, che le Terme soffrissero danno quando dalla plebe fu messo fuoco al palazzo del prefetto Lampadio, di cui parlammo, che stava accanto ad esse: Hic præfectus, scrive Ammiano Marcellino, exagitatus est motibus crebris: uno omnium maximo cum collecto plebs infima, domani ejus prope Constantinianum lavacrum injectis facibus incenderat, & malleolis, ni vicinorum, & familiarum veloci concursu a summis tectorum culminibus petita, faxis, & tegulis abscessisset. Ma apparendo da queste parole, che l’incendio fosse spento a tempo, forse non sarà arrivato a danneggiare le Terme. Potrebbe anche pensarsi, che nello stesso tumulto, in cui andarono a male queste Terme, fosse pure rovinato il Tempio del Sole edificato dall’imperatore Aureliano, come si ha da Vopisco145, e da Eusebio146, il quale se non sarà quello, di cui vedonsi gli avanzi nel giardino Colonna sotto il Quirinale, fu almeno in quei contorni, secondo che scrive il Nardini147, in vicinanza delle Terme di Costantino. Questo tempio adunque era già disfatto dopo il principio del secolo VI., poichè otto colonne di esso in porfido le ereditò una vedova, che le donò all’imperator Giustiniano per la nuova chiesa di s. Sofia in Costantinopoli148.
Teodorico sul fine dello stesso secolo V. entrato al possesso di questa città, trovò che le fabbriche quasi tutte minacciavano ruina non tanto per le varie calamitose vicende sofferte avanti dal furore delle barbare nazioni, che riportammo, quanto per la loro antichità, e perchè ridotto il popolo ad uno scarso numero di persone in confronto di quello, che era stato innanzi, non v’era chi ne potesse prender cura, e restaurarle, com’egli stesso ce ne assicura per bocca di Cassiodoro: Facilis est ædificiorum ruina incolarum subtracta custodia; & cito vetustatis decoctione resolvitur, quod hominum præsentia non tuetur. Egli, benchè nato barbaro, e affatto privo di lettere, nondimeno essendo uomo di buona penetrazione, che avea coltivata alla imperial corte di Costantinopoli, divenuto padrone dell’Italia cercò e nel vestire, e nel resto di adattarsi ai costumi della nazione per cattivarsene l’affetto, lasciando anche nel suo essere i magistrati, e le dignità del romano impero. Portatissimo, ch’egli era per la conservazione degli antichi monumenti dell’arte, che ornavano le città149, e molto più forse per secondare il genio, che durava in Roma per le antiche magnificenze, impiegò somme grandi a restaurare le mura, ed ogni cosa150 per quanto era possibile, come fu detto, e quelle fabbriche tra le altre, quantunque dispendiosissime, che servivano per piacere, e comodo del popolo; come il Teatro di Pompeo, che aveva arso ne’ tempi di Filippo151, e per l’antichità si disfaceva152; e gli acquedotti153. Il lodato Cassiodoro, che ci dà queste notizie, in due altre lettere parla154 di un fondo, o entrata dalla generalità di Teodorico assegnata per que’ restauri, e d’un pubblico architetto, che dovette aver cura delle fabbriche, e delle statue155. Col genio di questo re uniformandosi il celebre Q. Aurelio Simmaco, abbellì a sue spese la città, e la campagna intorno con qualche superbo edifizio; per cui tanta lode ne riportò, che l’incombenza di restaurare il Teatro a lui venne appoggiata da Teodorico, dal quale altri molti ottennero dei tempj, e luoghi pubblici d’ogni sorta per restaurarli a proprie spese, benché taluni poi nol facessero, e anzi finissero di rovinarli156. Ereditarono qualche poco di quel trasporto per le belle arti, e per le fabbriche di Roma la regina Amalasunta, e il re Teodato, facendo anche venire a tal effetto dei marmi dalla Grecia157. Contuttociò vi dovettero rimanere non poche fabbriche rovinate, e guaite, per quanto si raccoglie dal medesimo Cassiodoro158, ove scrive, che Teodorico diede a tutti ampia facoltà di adoprare per la refezione delle mura, e degli altri edifizj, i materiali delle fabbriche rovinate, e irreparabili; e già osservammo innanzi, che la famosa casa di Sallustio abbruciata dai soldati di Alarico, tale si trovava ai tempi di Procopio.
Qualunque però fosse il lustro, che potè acquistar la città per opera di Teodorico, e de’ suoi successori, al sopragiugnere della guerra portatavi da Belisario nell’anno 536.159, fu di nuovo bersagliata, e guasta in molte parti. La Mole Adriana, le mura, la regione di Trastevere, e gli acquedotti furono già ricordati tra quelle, che ne provarono il maggior danno. Cacciatine finalmente i Goti per opera di quel valoroso capitano, come dicemmo, e di Narsete, buon per Roma se l’animo generoso e magnifico di Giustiniano avesse voluto, o potuto per l’età sua estendervi quelle benefiche providenze, che avea dimostrate per Costantinopoli, e per tutto l’impero alzandovi moltissimi edifizj grandiosi160. Appena ebbe tempo quello imperatore di promulgarvi il suo Codice161, nel quale avea ripetute, ed approvate quelle leggi, che provedeano alla conservazione delle fabbriche, e al loro risarcimento, assegnando di nuovo per esse la terza parte dei pubblici proventi162; e dando a chiunque la facoltà di restaurarle a sue spese, come dicemmo aver già rescritto gl’imperatori Valentiniano, e Valente nell’anno 364. al prefetto Simmaco163: Intra, Urbem Romam (veterem, & novam) nullus Judicum novum opus informet, quoties serenitatis nostræ arbitrio, cessabunt (nisi ex suis pecuniis hujusmodi opus construere voluerit). Ea tamen instaurandi, quæ jam deformibus ruinis intercidisse dicuntur, universis licentiam damus.
Quella legge poco potè servire a far risorgere la città; perchè verso il fine del secolo si trovò più che mai profondata ne’ disastri sì per la grande inondazione del tevere, e per l’orribile peste indi seguitane, e sì per le devastazioni recate dai Longobardi alla sua campagna, e al resto degli abitanti, come sopra ho esposto. Fu ridotta allora a così misera condizione, che spogliata di cittadini pareva un deserto. Più non si parlava di pubblici spettacoli; e da che Vitige ruppe gli acquedotti, non furono più frequentati i bagni, e le pubbliche Terme, come narra Procopio164. Quindi avvenne che le fabbriche abbandonate rovinavano da ogni parte; e il Senato medesimo, che avrebbe potuto prenderne cura, era ridotto quasi a niente165. S. Gregorio il Grande, che si vuole accusare di averle distrutte capricciosamente, ce ne fa una descrizione patetica a segno, che ci dà la più chiara prova dell’amor suo verso la patria, e dell’estremo rammarico, ond’era penetrato il suo cuore nel vederla così afflitta, desolata, e rovinosa. Merita d’esser portato intiero un pezzo dell’Omilia decimaottava sopra Ezechiele166, che il s. Pontefice recitò colle lagrime agli occhi al suo popolo nell’anno 592., come osservano i Padri Maurini editori delle di lui opere167, e il Muratori168: Quid est jam, rogo, quod in hoc mundo libeat? Ubique luctus aspicimus, ubique gemina audimus. Destructa urbis, eversa sunt castra, depopulati agri, in solitudinem terra, redacta est. Nullus in agris incola, pene nullus in urbibus habitator remansit: & tamen ipse parva generis humani reliquia adhuc quotidie, & sine cessatione feriuntur, & finem non habent flagella cœlestis justitiæ, quia nec inter flagella correctae sunt actionis culpæ. Alios in captivitatem duci, alios detruncari, alios interfici videmus. Quid est ergo quod in hac vita libeat, fratres mei? Si & talem adhuc mundum diligimus, non jam gaudia, sed vulnera amamus. Ipsa autem, qua acquando mundi domina esse videbatur, qualis remanserit Roma, conspicimus, immensis doloribus multipliciter attrita, desolatione civium, impressione hostium, frequentia ruinarum: itaut in ea completum esse videamus, quod contra, urbem Samariam per Ezechielem prophetam prædictum est169: Pone ossam, pone inquam, & mitte in ea aquam, & congere frusta ejus in eam. Et paulo post: Efferbuit coctio ejus, & discocta sunt ossa illius in medio ejus. Atque iterum: Congere ossa, quæ igne succendam, consumentur carnes, & coquetur universa compositio, & ossa tabescent. Pone quoque eam super prunas vacuam, ut incalescat, & liquefiat æs ejus. Tunc enim nobis ossa posita est, cum hæc est civitas constituta. Tunc in eam aqua missa est, & frusta ejus congesta sunt, quando ad eam undique populi confluebant, qui velut aqua calens, actionibus mundi fervescerent, & quasi frusta carnium in ipso suo fervore liquarentur. De qua bene dicitur: Efferbuit coctio ejus, & discocta sunt ossa in medio illius: quia prius quidem in ea vehementer incaluit actio gloria secularis: sed postmodum ipsa gloria cum suis sequacibus defecit. Per ossa etenim potentes seculi, per carnes vero populi designantur: quia sicut carnes portantur ossibus, ita per potentes seculi infirmitas regitur populorum. Sed ecce jam de illa omnes hujus seculi potentes ablati sunt; ossa ergo excocta sunt. Ecce populi defecerunt: carnes ejus liquefactæ, sunt. Dicatur itaque: Congere ossa, quæ igne succendam: consumentur carnes, &c coquetur universa compositio ejus, & ossa tabescent. Ubi enim senatus? Ubi jam populus? Contabuerunt ossa, consumpuntæ sunt carnes: omnis in ea secularium dignitatum fastus extinctus est. Excocta est universa compositio ejus: & tamen ipsos nos paucos, qui remansimus,, adhuc quotidie gladii, adhuc quotidie innumera tribulationes premunt. Dicatur ergo: Pone quoque eam super prunas vacuam. Quia enim senatus deest, populus interiit; & tamen in paucis, qui sunt, dolores, & gemitus quotidie multiplicantur: jam vacua ardet Roma. Quid autem ista de hominibus dicimus, cum ruinis crebrescentibus ipsi quoque destrui ædificia videmus? Unde apte de civitate jam vacua subditur: Incalescat, & liquefiat æs ejus. Jam enim & ipsa olla consumitur, in qua prius & carnes, & ossa consumebantur: quia postquam defecerunt homines, etiam parietes cadunt. Ubi autem sunt qui in ejus aliquando gloria lætabantur? Ubi eorum pompa? Ubi superbia? Ubi frequens, & immoderatum gaudium? Impletum est in ea quod contra destructam Ninivem per prophetam dicitur170: Ubi est habitaculum leonum, & pascua catulorum leonum? An ejus duces, ac principes leones non erant, qui per diversas mundi provincias discurrentes prædam serviendo, & interficiendo rapiebant? Hic leonum catuli inveniebant pascua; quia pueri, adolescentes, juvenes seculares, & secularium filii huc undique concurrebant, cum proficere in hoc mundo voluissent. Sed jam ecce desolata, ecce contrita, ecce gemitibus oppressa est. Jam nemo ad eam currit, ut in hoc mundo proficiat. Jam nullus potens, & violentus remansit, qui opprimendo pradam diripiat. Dicamus ergo: Ubi est habitaculum leonum, & pascua catulorum leonum? Contingit ei quod de Judæa novimus per prophetam dictum171: Dilata calvitium tuum sicut aquilæ. Calvitium quippe hominis in solo capite fieri solet: calvitium vero aquila in toto sit corpore: quia cum valde senuerit, plumæ ejus, ac penna ex omnibus membris illius cadunt. Calvitium ergo suum sicut aquila dilatat, quia plumas perdidit, quæ populum amisit. Alarum quoque penna ceciderunt, cum quibus volare ad prædam consueverat: quia homines ejus potentes extincti sunt, per quos aliena rapiebat. Anche nel libro secondo de’ suoi Dialoghi, scritti nell’anno 593, o 594., al capo decimoquinto, ci dice in compendio le cagioni delle rovine di Roma, non tanto dalle Barbare nazioni, quanto da tempeste, turbini, terremoti, e dal lungo corso degli anni, che sopra ogn’altra cosa influiva sui materiale delle fabbriche. Cosi scriveva, parlando della profezia di s. Benedetto riguardo al re Totila, che accennammo: Præterea antistes Canusinæ Ecclesiæ ad Benedictum Domini famulum venire consueverat, quem vir Dei pro vitæ suæ merito valde diligebat. Is itaque dum cum ilio de ingressu Regis Totilæ, & Romanæ Urbis perditione colloquium haberet, dixit: Per hunc Regem civitas ista destruetur, ut jam amplius non inhabitetur. Cui vir Dei respondit: Roma a gentibus non exterminabitur, sed tempestatibus, coruscis, turbinibus, ac terræ motu fatigata marcescet in semetipsa. Cujus prophetia mysteria nobis jam facta sunt luce clariora, qui in hac urbe dissoluta moenia, eversas domos, destructas Ecclesias turbine cernimus; ejusque ædificia longo senio lassata, quia ruinis crebrescentibus prosternantur videmus.
Dopo questo tempo, vale a dire dal secolo settimo, è inutile di ricercare se le fabbriche si conservassero, o vi fosse chi le restaurasse. Al più si faranno lasciate in piedi quelle, che per la loro più forte costruzione ancor si reggevano. Quell’impegno, che innanzi avea dimostrato il popolo per gli ornamenti della patria, e per le belle arti, doveva essere stato divertito ad altri bisogni più urgenti dalle tante passate calamità, e dalle nuove, che andavano crescendo. Verosimilmente per le fabbriche rovinate nel fiume, e la negligenza nell’averne cura, le strabocchevoli inondazioni si rendevano più frequenti. L’Alveri172, che ha fatta la storia di esse dal principio di Roma sino al secolo scorso, in cui viveva, senza dire da chi le abbia tratte, ne numera due seguite ne’ secoli, de’ quali parliamo, cioè nell’anno 685. e 725.; alle quali si possono aggiugnere quella dell’anno 717. al tempo del Papa S.Gregorio II. ricordata da Anastasio, da Ermanno Contratto nella sua Cronica173, e dall’Indice de’ Duchi di Spoleto, e degli Abati di Farfa presso il Padre Mabillon174, e il Muratori175; l’altra dell’anno 791. nel mese di decembre sotto il Pontificato di s. Adriano I., di cui parla Anastasio; e la terza dell’anno 797. mentovata da Anastasio, e dal suddetto Indice, le di cui acque per la Via Lata giunsero all’altezza di due uomini; e sì le une, che le altre avranno securamente recato danno alle fabbriche, e alle campagne; come della prima, che ho aggiunta, la quale per la Via Lata arrivò quali all’altezza di due uomini, e vi durò sette giorni, o otto secondo l’Indice, ce ne assicura Anastasio176, Ermanno, e Frodoardo177; e della seconda ci dice di più Anastasio178, che salita ad una maggior altezza urtò sì forte nella porta Flaminia, che sveltala dai fondamenti seco la trasse sino all’Arco detto delle tre Faccicelle, rovinò case, mura, ed in ispecie un portico detto Palatino di là della basilica di s. Marco, e vi si mantenne per più giorni: In vigesimo præfati Pontificis (Hadriani) anno, mense decembri, 15. indictione fluvius Tiberis a suo egressus alveo intumescens sese per campestria dedit, qui etiam præ nimia inundatione portam, quæ dicitur Flaminia, ingressus, ipsam a fundamentis evellens portam usane ad arcum, qui vocatur tres Faccicellas, eam deduxit, interea & muros in aliquibus transcendit locis, atque ultra basilicam sancti Marci evertens porticum, quæ vocatur Palatina, & per plateas se extendens usque ad pontem Antonini, ipsumque evertens murum179, egressus in suo se iterum univit alveo, itaut in Via Lata, amplius quam duas staturas ejusdem fluminis aqua excrevisset, atque ad portavi beati Petri usque ad pontem Milvium aquæ descenderant juxta remissam vim ipsius fluminis reddidit180. Domos itaque evertit, agros desertavit, & evellens, & eradicans arbusta & segetes. Nam nec serere pars maxima Romanorum valuit ipso tempore, & per hoc imminebat tribulatio magna &c. Non minor afflizione avranno portata la grande carestia al tempo del Papa Sabiniano l’anno 604.181, ed altra sotto il Pontefice Costantino l’anno 708., durata per tre anni182; un terremoto straordinario al tempo di s. Deodato, che governò la Chiesa dall’anno 614. al 617., e in seguito di esso la pestilenza, che tolse dal mondo buon numero di gente183, e più fiera di gran lunga tornò a desolar la città sotto il Pontificato di s. Agatone, che cominciò nell’anno 678.184.
Degl’imperatori d’Oriente parea che non fosse più da farne conto, operando da tiranni per lo più, anzichè da sovrani, e da padri. L’empio, e scelerato Costante II., che si vedeva generalmente abominato in Costantinopoli per la morte data al proprio fratello Teodosio, e per le crudeltà usate contro i Cattolici, contro il Pontefice s. Martino, che rilegò in Cherson dopo molti strapazzi, e contro dell’abate Massimo, cui fece tagliar la lingua, ed una mano, perchè aderir non volle ai Monoteliti; avendo risoluto di mutar soggiorno, pensò alla prima di riportare in Roma la sede imperiale, come affermano i greci scrittori185. Partì di là, portando seco il meglio de’ suoi arredi, e tesori, nell’anno 662., con animo di non più ritornarvi; e passato il verno in Atene, al comparir della primavera andò a Taranto, e quindi in Siracusa, ove si stabilì, avendo forse poi riflettuto, che in Roma non farebbe stato più gradito che in Costantinopoli. Per acquetare alcun poco i rimorsi della coscienza, che lo travagliavano, e per poter fare nella nuova metropoli, e in Occidente quella figura, che portava l’esser suo, determinossi di ricuperare dalle mani de’ Longobardi la città di Benevento, che infatti strinse d’attedio. Ma non essendo riuscito in quella impresa, pensò di trovare un compenso; e fu, come narra Paolo Diacono186, di sfogare il suo mal talento contro degli stessi suoi sudditi romani. Venne dunque a Roma li 5. luglio dell’anno 663., ove dissimulandosi per prudenza la passata sua condotta fu accolto, e trattato nei dodici giorni, che vi si trattenne, dal Sommo Pontefice Vitaliano, dal Clero, e dal popolo con segni, e dimostrazioni di particolare stima, e rispetto. Frattanto che da ipocrita facea delle visite ossequiose alle principali chiese, o basiliche, offerendovi anche qualche dono187, osservando le antiche maraviglie dell’arte, che v’erano rimaste, fece togliere quanto potè degli ornamenti, e lavori di bronzo, e persino le tegole indorate, che coprivano il Panteon, già dedicato, come dicemmo, in tempio cristiano. Anastasio, e il detto Paolo Diacono, scrivono, che tutti finisse di portar via i lavori di bronzo, che v’erano rimasti188; e aggiugne il secondo, che volea mandarli a Costantinopoli: Omnia, quæ fuerant antiquitus instituta ex tre in ornamentum civitatis, deposuit, in tantum ut etiam basilicam B. Mariæ, quæ aliquando Pantheon vocabatur, & conditum fuerat in honorem omnium Deorum, & jam ibi per concessionem superiorum principum locus erat omnium Martyrum, discooperiret, tegulasque æreas exinde auferret, easque simul cum aliis omnibus ornamentis Constantinopolim transmitteret; ma, come riflette bene il Zanetti189, se Costante avea fatto fermo proposito di non far più ritorno in quella regia città, ove sapeva di essere tanto mal veduto per le sue sceleraggini, ed anche poco sicura la sua vita, è piuttosto credibile che facesse quello spoglio per isfogo di sua innata fierezza, o per avarizia; potendosene trarre anche argomento dall’aver egli, ritornato in Siracusa, al dire di quelli stessi scrittori, aggravati gli abitanti, e i possessori delle provincie della Calabria, Sicilia, Sardegna, e dell’Africa con gabelle, capitazioni, e viaggi di nave per mare, ad un segno non mai praticato per l’avanti; e dall’avere spogliate anche le chiese de’ vasi sacri, degli utensili preziosi, e di quanto aveano di più buono, lenza neppur lasciarvi il bisognevole al divin culto. Riguardo al numero de’ lavori di metallo, può crederli, che ve ne rimanesser non pochi in varj luoghi della città, e fra gli altri nel palazzo imperiale fui Palatino, ove ne sono stati trovati molti frammenti in quello secolo190, nel Foro, ed altri, che si diranno appresso, e nello stesso Panteon; comunque fosse grande la quantità, che ne portò via Costante, la quale poscia dai Saraceni venuti a saccheggiar Siracusa dopo esser egli stato ucciso in una congiura degli abitanti, che più non potevano soffrirlo per le descritte, ed altre indegnissime azioni, fu portata in Alessandria.
I successori di Costante parte distratti in guerre colle Barbare nazioni, che invadevano le provincie orientali dell’impero, e parte imbrogliati in dispute di religione proteggendo gli eretici, e facendo strage delle sacre immagini, non pensavano a Roma per altro, che per riscuoterne i tributi191, e sovente per attirare i Sommi Pontefici nel loro partito, e a procedere contro di essi colle maniere le più inumane192; e qualora da quelli venivano richiesti di ajuto contro i Longobardi, con tutto lo stento s’inducevano a mandare qualche legato, il quale amichevolmente, o con minacce, che più in là non andavano delle parole, tentasse di far desistere quella nazione dalle sue intraprese193. Egual noncuranza mostravano gli esarchi, che per lo più stavano a Ravenna, sinché Eutichio non ne fu cacciato dal re Astolfo. Talvolta che si trovavano in Roma, profittavano volentieri di qualche tumulto per derubare senza riguardo veruno le stesse chiese; e costringere il popolo, e i Sommi Pontefici a pagar de’ tributi, e multe insopportabili194. I magistrati o non vi si creavano più, o non volevano attendere, e provvedere a’ pubblici bisogni de’ viveri, e della difesa della città. Secondo quelle cose può sostenersi con probabilità, che a que’ tempi vada riferito un epigramma estratto dall’archivio capitolare di Modena, e pubblicato dal Muratori nelle sue italiche Antichità195, il quale facendone l’analisi, appunto al settimo, o all’ottavo secolo pensò di riferirlo:
Nobilibus fueras quondam constructa patronis,
Subdita, mine servis. Heu male Roma ruis!
Deseruere mi tanto te tempore reges:
Cessjt & ad Græacos nomen honosque tuum.
In te nobilium Rectorum verno remansit;
Ingenuique tui rura Pelasga colunt.
Vulgus ab extremis distractum partibus orbis,
Servorum servi nunc tibi sunt domini.
Constantinopolis florens nova Roma vocatur.
Moenibus & muris Roma vetusta cadis.
Hoc cantans prisco prædixit carmine Vates:
Roma, tibi subito motibus ibit amor.
Non, si te Petri meritum Paulique foveret,
Tempore jam longo Roma misella fores.
Manciribus subjecta jacens macularis iniquis
Inclyta quæ fueras nobilitate nitens, &c.
In sì misere circostanze dovettero i Sommi Pontefici incaricarsi di governare quella città come loro residenza, e accorrere ai privati, e pubblici bisogni in quella guisa, che prima aveva operato s. Gregorio il Grande. A leggere Anastasio nelle vite di quelli, che vissero nel secolo settimo, e nell’ottavo, vediamo, ch’essi elevarono molte nuove chiese, e molte delle vecchie cadute, o rovinose le restaurarono, e le accrebbero nella forma, che oggidì ancora in parte conservano; e fra gli altri Onorio I. fabbricò la chiesa de’ Ss. Quattro Coronati, e quella di s. Pancrazio196, san Leone II. nell’anno 6S3. quella di s. Giorgio in Velabro197, Gregorio III. sondò il monistero di s. Grisogono in Trastevere198. Una delle principali loro premure fu di restaurare, e rifare in gran parte le mura della città per difenderla da qualunque improviso assalto de’ Longobardi. Sisinnio, che fu Papa nell’anno 708., ordinò a tal effetto delle fornaci di calce199. Lo stesso fece s. Gregorio II., che tenne la sede di Pietro dall’anno 714. all’anno 731. cominciando a restaurare le mura dalla porta di s. Lorenzo200; e il di lui successore Gregorio III. ne restaurò gran parte, somministrando le spese per gli operaj, e per la compra della calce201. E’ naturale di credere, che per tante fabbriche pubbliche, ed anche per le private fossero presi materiali dalle antiche fabbriche andate a terra, e specialmente le colonne, e capitelli, che vediamo nelle riferite chiese, le quali è manifesto aver servito ad altri edifizj, toltene poi per quell’altr’uso quali si trovavano, senza badare se erano di qualità, e forma differente, purché potettero servire in qualche modo a regger peso. Dico dagli edifizj rovinati, perchè non mi pare credibile, che i Papi ne guastassero a posta degl’intieri, attese le licenze, ch’essi chiedevano agl’imperatori, o agli esarchi per qualche fabbrica, che forse era meno danneggiata, come osservammo; e per la cura, che ebbero gli altri in appresso della loro conservazione. Solo può far maraviglia, che il lodato Gregorio III. domandasse all’esarco Eutichio le sei colonne nominate avanti per la chiesa di s. Pietro; mentre egli non incontrava ostacolo per rifar le mura, e le altre chiese, tante delle quali aveano rifatte anche i suoi antecessori senza chiedere licenza da veruno per aver le colonne, ed altri materiali, che v’impiegarono, come può dedurli dal non parlarne Anastasio: e molto più cresce quella maraviglia se riflettiamo, che Gregorio III. fu il primo, che per volontaria dedizione del popolo esercitò in Roma, e nel suo Ducato giurisdizione sovrana, indipendentemente dagl’imperatori, come osservarono i moderni critici202. Ma per quella ragione appunto io dico, che i Sommi Pontefici avessero tolti i materiali da fabbriche cadute, le quali altro non facevano che ingombrare il paese nella pubblica impossibilità di rifarle; e che non parendomi verisimile, che Gregorio volerle far venire quelle sei colonne da Ravenna, ove comandava l’esarco, averle potuto levarle in Roma da qualche fabbrica non tanto rovinosa, dove il toglierle non potesse portar pregiudizio, per ogni cautela chiedendone all’esarco medesimo la licenza; seppure non erano in potere di questo per qualche ragione a noi sconosciuta. E siccome l’indipendenza, che acquistò Gregorio dagl’imperatori, e il dominio su quella città, e Ducato con loro dispiacere grandissimo, dovea portar un’eguale contrarietà coll’esarco loro primo ministro in Italia, il quale mai non avrebbe accordate le sei colonne al Papa ancorchè fossero state in Ravenna, o in altra parte ancora soggetta agl’imperatori; potremo dire, che il Sommo Pontefice le chiedesse all’esarco nel principio del suo Pontificato, sull’esempio de’ Tuoi predecessori, come dicemmo, quando Roma ancor non avea reclamata la sua libertà: e forse in quel tempo Eutichio si trovava ancora in Roma; avendosi da Anastasio, che vi stava sull’ultimo del Pontificato di s. Gregorio II.203 antecessore di Gregorio III.
A far la calce in Roma, e nelle vicinanze, per economia di spesa, e per sollecitudine, saranno stati adoprati pezzi di marmi, e di travertini presi anche dalle fabbriche rovinate; e porto opinione, che vi siano stati cotti infiniti inutili rottami di tante statue, che vi doveano essere in ogni contorno, e qualcuna rotta anche a posta. L’avidità del guadagno, e la comodità dei luoghi aveva introdotta, per quanto costa chiaramente, sin dal secolo IV. la barbarie di far calce coi monumenti dell’arte, e coi sepolcrali in ispecie, sebbene intieri, per il comodo, che si aveva nelle proprie vigne, e nei campi di rovinarli senza essere scoperti: contro della quale usanza temeraria fulminarono pene grandi gl’imperatori, arrivando sino alla pena di morte, che l’imperator Costante commutò in pena pecuniaria nella legge seconda diretta a Limenio prefetto del Pretorio, e della città l’anno 349., registrata nel Codice Teodosiano204, tanto contro coloro, che vendessero le pietre, quanto per li padroni delle calcare, che le comprassero, e i magistrati medesimi se avessero avuto ardire di farne uso in quegli edifizj, che per obbligo del loro impiego avessero dovuto alzar di nuovo, o restaurarli: Factum solitum sanguine vindicari, multa inflictione corrigimus: atque ita supplicium statuimus in futurum, ut nec ille absit a pœna, qui ante commisit. Universi itaque, qui de monumentis columnas, vel marmora abstulerunt, vel coquendæ calcis gratia lapides dejecerunt, ex consulatu scilicet Dalmatii, & Zenophili, singulas libras auri per singula sepulchra fisci rationìbus inferant, investigati per Prudentiæ Tuæ judicium. Eadem etiam pœna, qui dissiparunt, vel ornatum minuerunt, teneantur: & qui posita in agris suis monumenta calcis coctoribus vendiderunt, una cum bis, qui ausi sunt comparare. Quidquid enim attingi nefas est, non fine piaculo comparatur; sed ita, ut ab utroque una libra postuletur. Sed si & præcepto Judicum monumenta dejecta sunt, ne sub specie publica fabricationis pœna vitetur, eosdem Judices jubemus hanc multam agnoscere: nam ex vectigalibus, vel aliis titulis ædificare debuerunt. Quod si aliquis multam metuens, sepulchri ruinas terra congestione celaverit, & non intra statatum ab Excellentia Tua tempus confessus sit, ab alio proditus duas auri libras cogatur inferre. Qui vero libellis datis a Pontificibus impetrarunt, ut reparationis gratia labentia sepulchra deponerent, si vera docuerunt, ab inlatione multe separentur. At si in usum alium depositis abusi sunt, teneantur poena præscribta. Hoc in posterum observando, ut in provinciis locorum Judices, in urbe Roma cum Pontificibus Tua Celsitudo inspiciat, si per farturas succurrendum sit alicui monumento: ut ita demum data licentia, tempus etiam consummando operi statuatur &c. Oltre questa legge abbiamo sicura prova d’essere stata fatta calce coi rottami di statue, e di fabbriche, dalle calcare trovate in varie parti negli anni scorsi piene di quei frammenti; e da quelle molte disotterrate in una vigna intorno alla mentovata chiesa de’ Ss. Quattro Coronati, delle quali dà relazione Flaminio Vacca nelle sue Memorie205; quantunque non possa determinarsi il tempo, in cui siano state fatte, essendo durato l’uso di esse lungamente, come vedremo.
Così ancora può essersi praticato in que’ tempi, e ne’ posteriori, come forse anche ai tempi di Teodorico per l’ampia facoltà, che accennammo, di metter in opera nelle fabbriche, e sopra tutto in quelle de’ privati, que’ materiali, che tornavano più a comodo, o fossero bassi-rilievi, o pezzi di statue, o di colonne; e lasciandoli sepolti ne’ fondamenti se vi s’incontravano. Per ciò tanti se ne scoprono alla giornata di simili frammenti in ogni genere di antichi edifizj, e muraglie sì nella città, che nelle campagne; e di molti può vedersene fatta menzione presso il citato Vacca206. E’ per altro scusabile un tal uso in que’ tempi di calamità, e di barbarie, ne’ quali verun pregio non poteano avere nè questi, nè altri monumenti dell’arte; quando sappiamo che nella Grecia eziandio ne’ secoli del buon gusto in qualche occasione non praticavasi altrimente. Abbiamo da Tucidide207, che nel rifarsi le mura d’Atene al tempo di Temistocle, fu gettato ne’ fondamenti di esse tutto ciò, che veniva alla mano, pietre rustiche, lavorate, e colonne tolte dai monumenti: Fundamenta substrata sunt ex omni lapidum genere constructa, qui nonnullis etiam in partibus non sunt politi, sed ut quisque forte eos afferebat: multa etiam columnæ ex monumentis detractæ, & saxi polita sunt congesta; e ci dice Plutarco208, che lo stesso facevasi generalmente a suo tempo da coloro, che alzavano muri in campagna per circondar le vigne, e forse anche i sepolcri: Maceriam aliquam, aut sepem conficientibus nihil refert obvium quodque lignum, aut lapidem humi jacentem adhibere, aut columnam a monumento aliquo delapsam subjicere.
Non fu inutile il risarcimento delle mura della città, nè vano il timore, che aveano i Sommi Pontefici di essere all’improviso assaltati dai Longobardi: imperocchè ci venne sotto il mentovato re Adolfo nel mese di gennajo dell’anno 755., come bene scrive il P. Pagi, e Zanetti209, non già nel mese di giugno, come pensa il Baronio210, e dubita il Muratori211, con quante truppe gli venne fatto di raccogliere dal proprio suo regno, e dal Ducato di Benevento. Non potendosene rendere padrone colla facilità, che si lusingava, diede il guaito ai sobborghi, rovinando a ferro, e a fuoco la campagna, e quanto v’era anche di fabbriche, e di chiese, in maniera, che ben poche poterono scamparne. Il Pontefice Stefano II., o giusta altri, III., non avendo a sperare alcun sovvenimento dalla corte di Costantinopoli, ricorse alla protezione di Pippino re di Francia, che allora era in grand’auge d’autorità, e di possanza, scrivendo una lettera212 al medesimo, e insieme a Carlo, e Carlomanno di lui figli, nella quale per maggiormente commoverli a pietà delle sue angustie, loro fa la descrizione compassionevole di quell’orribile devastamento: Jam in ipsis jannuarum kalendis, scrive il Pontefice, cunctus Longobardorum exeercitus e Tusciæ partibus, in hanc civitatem Romanam conjunxerunt, & resederunt juxta portam Beati Petri, atque Beati Pancratii, & Portuensem; ipse vero Haistulfus cum aliis exercitibus conjunxit ex alia parte, & sua fixit tentoria juxta portam Salariam, & cæteras portas: & sæpius nobis direxit; aperite mihi portam Salariam, & ingrediar civitatem, & tradite mihi Pontificem vestrum; & patientiam ago in vobis; si minus, ne muros evertens, uno vos gladio interficiam, & videam quis vos eruere possit de manibus meis. Sed & Beneventani omnes generaliter in hanc Romanam Urbem conjungentes, resederunt juxta portam Beati Joannis, & Beati Pauli Apostoli, & cœteras istius Romanæ Urbis portas, & omnia extra Urbem prædia longe, lateque ferro, & igne consumpserunt, domos omnes comburentes pœne ad fundamenta destruxerunt, Ecclesias Dei incenderunt, & sacratissimas sanctorum imagines in ignem proicientes, suis gladiis consumpserunt, & munera sancta, idest, corpus Domini nostri Jesu Christi in suis contaminatis vasibus, quos fosses vocant, miserunt, & cibo carnium copioso saturati, comedebant eadem munera; velamina altarium Ecclesiarum Dei, vel omnia ornamenta, quod nimis crudele etiam dici est, auferentes in propriis utilitatibus usi sunt, servos Dei Monachos, qui pro officio divino in Monasteriis morabantur, plagis maximis tundentes, plures laniaverunt, & sanctimoniales foeminas, atque Reclusas, qua ab infantia, & pubertatis tempore pro Dei amore se se clausura tradiderunt, abstrahentes cum magna crudelitate polluerunt; qui etiam & ipsa contaminatione alias interficere visi sunt, & omnes domos cultas Beati Petri ione combusserunt, vel omnium Romanorum, ut dictum est, domos comburentes extra Urbem funditus destruxerunt, & omnia peculia, abstulerunt, & vineas fere ad radices absciderunt, & messes conterentes, omnino devoraverunt; & neque domui sanctæ nostræ Ecclesiæ, neque cuiquam in hac Romana Urbe commoranti spes remansit vivendi: quia, ut dictum est, omnia ferro, & igne consumpserunt, & multos homines interfecerunt. Sed & copiosam familiam Beati Petri, & omnium Romanorum, tam viros, quam mulieres jugulaverunt, & alios plures captivos duxerunt. Nam & innocentes infantulos a mammillis matrum suarum separantes, ipsasque vi polluentes interemerunt ipsi impii Longobardi; & tanta mala in hac Romana provincia fecerunt, quanta certe nec paganæ gentes alienando perpetrata sunt. Quia etiam (si dici potest) & ipsi lapides nostras desolationes videntes, ululant nobiscum. Quinquaginta quinque dies hanc afflictam Romanam civitatem obsidentes, & ex omni parte circumdantes prælia fortissima die, noctuque cum pessimo furore incessanter cum diversis machinis, & adinventionibus plurimis contra nos ad muros istius Romanæ Urbis commiserunt, ut suæ potestati, quod avertat Divinitas, subjiciens, omnes uno gladio idem inimicus Haistulfus interimeret. Fanno menzione di tante rovine anche Anastasio213, Ermanno Contratto214, e più chiaramente l’anonimo Salernitano215: Aystulphus cum universo Langobardorum populo Romanam advenit Urbem, quam & per trium mensium spatia obsidens, atque ex omni circumdans parte, quotidie fortiter oppugnabat, & omnia extra Urbem ferro, & igne devastans, atque funditus demoliens consumsit, ut Romanam capere potuisset Urbem. Venuto Pippino col suo esercito verso l’Italia216, obbligò Astolfo a ritirarsi da Roma dopo tre mesi217 per accorrere agli stati suoi, e fortificarsi in Pavia, ove strettolo di pressante attedio, l’obbligò a chiedergli perdono, e a dar compimento alla convenzione riabilita nell’anno precedente di fare una intiera cessione delle città dell’Esarcato, dell’Emilia, della Pentapoli, di Comacchio, e di altre, che riferisce Anastasio218, e in termini anche più ampli, e perciò soggetti a qualche critica, l’Ostiense219; di cui egli poi fece solenne donazione a s. Pietro, ossia alla Chiesa Romana. Con tale donazione confermata in seguito ne’ termini, che leggonsi presso lo stesso Anastasio220, dal re Carlo Magno figlio di Pippino al Papa Adriano I. nell’anno 774. dopo alcuni torbidi nuovamente suscitati da Desiderio ultimo re de’ Longobardi, restò assicurato alla Sede di Pietro un assoluto perpetuo dominio temporale di quegli stati, e di Roma, e suo Ducato per conseguenza, su cui col consenso de’ popoli tanto diritto aveano acquistato i Sommi Pontefici nella lunga, caritatevole, e gravosissima amministrazione di tanti anni221); rimanendo agl’impotenti greci imperatori, che colla loro pessima condotta se ne erano resi indegni, e quasi volontariamente spogliati col non curarsene222, il mero titolo fastoso d’imperatori romani, come disse Luitprando all’imperator Foca nel secolo decimo223.
Fu grande il vantaggio, che da principio in seguito di quella rivoluzione, e mutazione di governo ridondò alla città, e alle sue fabbriche. Il lodato Pontefice Adriano I., uomo di mente, e di gran coraggio, che regnò quasi per anni ventiquattro, non così tosto si vide in pace, e sicuro dalle ostilità, ed oppressioni de’ Longobardi, che si applicò con ogni sforzo primieramente a restaurare, o rifare da fondamenti quasi tutte le moltissime chiese dentro, e fuori delle mura, che per la vecchiaja o erano rovinate, o abbisognavano di pronto riparo, ampliandole di molto, e ornandole di sacri arredi preziosi, e di tanti lavori d’oro, d’argento, e di metallo. Ce le numera in gran parte Anastasio nella di lui vita; e ben capiamo, che alcune sono le stesse, che durano pur oggidì, quantunque poi di nuovo restaurate. Fatta buona parte di questi lavori mise mano il s. Pontefice a far restaurare le mura della città, e le torri dì effe tutto intorno, rifacendone anche talune dai fondamenti; e v’impiegò, al dir d’Anastasio, la ragguardevole somma di cento libre d’oro224. La terza cosa, alla quale provvidde il gran Pontefice, non meno importante per il bene del popolo, furono le acque. Dalla vita del Pontefice Onorio I. presso il citato scrittore225, par che si raccolga, che già in quel tempo forse ricondotta in Roma l’acqua Trajana, e che poi da vent’anni prima di s. Adriano fosse mancata un’altra volta per la rovina degli acquedotti226; siccome anche l’acqua, detta allora Jobia, o Jovia mancata parimente da vent’anni; l’acqua Claudia, e la Vergine, che in poca quantità venivano ancora227. Sostiene Alberto Cassio228, che l’acqua Trajana fosse fatta rivenire da Belisario, verisimilmente nell’anno 548., per una iscrizione mancante trovata sopra un arco del condotto in vicinanza di Vicarello oltre al lago Sabbatino, dove il collegio Germanico possiede un’ampia tenuta:
BELISARIVS. ADQVISIVIT
ANNO. D.....
e perciò crede, che quell’acqua d’allora in poi non sia più mancata in Roma totalmente, fuorchè poco prima di s. Adriano. Quelli pertanto fece ricondurre primieramente la Sabbatina, che secondo il Fabretti229, e il citato Cassio230 è la stessa, che la Trajana, proveniente dalle vicinanze del detto lago Sabbatino, ora di Bracciano, facendo rifare dai fondamenti le cento alte arcate, sulle quali camminava l’acqua per un gran tratto, e molti condotti di piombo, per li quali si diramava sino alla chiesa del Principe degli Apostoli, e in altre parti. Rifece quindi in gran parte l’acquedotto dell’acqua Jobia, la quale per le osservazioni del Cassio231 dovrebbe essere la stessa, che l’acqua Marcia; quello dell’acqua Claudia, che portava al Laterano, e nei dintorni; e quello dell’acqua Vergine da tanti anni demolito, e pieno di rovine, per cui scrive Anastasio, che ritornò tanta copia d’acqua da provvederne quali tutto il paese: d’onde possiamo congetturare, che la parte più bassa di Roma, ove essa scorre, come il Campo Marzo, fosse già molto abitata. Non dice Anastasio, che fosse di nuovo fatto uso di quelle acque per le Terme, ed altri antichi bagni pubblici, e privati: nè io posso crederlo, perchè le fabbriche doveano allora dopo più di due secoli, da che erano siate abbandonate per la mancanza delle acque, essere ridotte in pessimo stato, ed inservibili anche per la mancanza dei tubi di piombo, come appresso diremo. Neppur fa menzione Anastasio di edifizj profani, se non che parlando della chiesa di s. Maria in Cosmedin, scrive232 che per poterla dilatare, come è nello stato presente233, fosse atterrato nel giro di un anno un monumento grandissimo fatto di travertini. Abbiamo bensì da un Itinerario, o succinta detenzione delle regioni di Roma, e fuor delle mura, che dal P. Mabillon, da cui è stato la prima volta pubblicato234, e da monsig. Bianchini, che l’ha ristampato con nuove illustrazioni nella sua edizione d’Anastasio235, li vuole fatto nell’ottavo, o nel nono secolo, e dal lodato Cassio, circa l’anno 875. determinatamente236; abbiamo dico da questo Itinerario nominati non pochi edifizj, e monumenti pubblici, che o tutti ancor esistevano intieri, o erano in uno stato da potersi considerar tali per indicare i luoghi a preferenza di tanti altri, che faranno stati più rovinosi: e sono il Teatro di Pompeo, e quello di Marcello; il Tempio di Giove, che il Bianchini crede sia il Capitolino237; il Settizonio, il Circo Massimo, la Mica Aurea, di cui tanto parlano gli antiquari senza conchiuder nulla; il Circo Agonale, l’Elefante Erbario, nominato anche nella Notizia dell’impero occidentale presso il Pancirolo, e creduto dal Bianchini lo stesso, che l’Elefante eretto da Augusto intorno al Foro Piscario nella regione ottava, di cui parla P. Vittore, ed altri; le Terme Alessandrine, la vicina chiesa della Rotonda, le Terme di Comodo, il Minervio, o Tempio di Minerva, il Foro di Trajano, e la Colonna, una statua del Tevere, l’Arco di Tito, e Vespasiano, le Terme, e palazzo di Trajano, l’Anfiteatro, le Terme di Costantino, e i due Cavalli di marmo, l’Arco di Settimio Severo, e il vicino Cavallo di Costantino, di cui meglio parleremo appresso, l’Anfiteatro Castrense, il palazzo accanto a s. Croce in Gerusalemme, forse quello di Licinio, come sospetta il Bianchini; il palazzo di Nerone, il palazzo detto di Pilato, la Colonna d’Antonino, l’Obelisco vicino a s. Lorenzo in Lucina, un bagno vicino a s. Silvestro in Capite, l’Arco di Graziano, Valente, e Teodosio, che era vicino alla Mole Adriana, l’Arco del ricordo (arcus recordationis), che il Bianchini crede possa essere l’Arco di Druso; le Terme di Diocleziano, e quelle di Sallustio coll’Obelisco. Del Foro di Trajano ne parla eziandio Paolo Diacono238, vivuto, come già notammo, sul fine del secolo VIII., riferendo la storiella della liberazione dell’anima di Trajano dall’inferno per intercessione di s. Gregorio il Grande, il quale credevasi che se ne movesse a pietà passando una volta per il suo Foro, quod opere mirifico constat esse extructum, che con artifizio maraviglioso costa esser fabbricato, dice Paolo: maniera di parlare, che dee riferirli allo stato, in cui si trovava al suo tempo, almeno di qualche conservazione, che durò non molto appresso, come vedremo.
Continuarono, al dir d’Anastasio, i successori di sant’Adriano a far fussistere almeno le arti col far risarcire altre chiese, ampliarle, e ornarle con colonne prese al solito dalle fabbriche rovinate, e con lavori di marmi, di metalli, e di musaici. Tra quelli s. Leone IV., che fu Papa dall’anno 847. all’anno 855., oltre molti di que’ lavori, amareggiato estremamente, che i Saraceni nel Pontificato del suo antecessore si fossero avanzati pel fiume fino a Roma, e avessero depredata la basilica di s. Pietro in Vaticano, dopo quella di s. Paolo, restaurò di nuovo tutte le mura della città, ove era necessario: fece alzar delle torri vicino alla porta Portuense sopra il fiume, facendovi tirare attraverso delle catene di ferro per impedire il passo ai navigli de’ nemici, se fossero ritornati; e finì d’attorniare di mura tutto il Vaticano, chiamando Città Leonina dal suo nome lo spazio, che vi restò inchiuso239.
Arrivato il secolo decimo, secolo, che al dir del Baronio240, per l’asprezza sua, e sterilità del bene, di ferro; per la deformità del male traboccante, di piombo; e per la penuria degli scrittori chiamar si suole di ferro, nel popolo, e nei più ricchi, e potenti signori di Roma andava ripullulando quello spirito inquieto, e sedizioso, che cominciò a scoppiare anche in tante altre città dell’Italia dopo la distruzione del regno de’ Longobardi, ove tutto era pieno di fazioni, e di guerre civili. Frequenti erano sopra tutto le sedizioni, e i tumulti nella elezione del nuovo Sommo Pontefice, in cui prendendo parte le prime famiglie, per farne scegliere uno a loro piacimento, o per difendere l’eletto, spesso si viddero in Roma delle guerre civili sanguinose, sostenute da quella, o da quell’altra parte del popolo, che poi crebbero maggiormente quando alcuni tentarono di renderli anche padroni della città. Lasciando per brevità le prepotenze degli Alberici conti Tuscolani, e di Marozia, e di altri signori nella elezione dei Sommi Pontefici241, nominaremo, come quello, che più da vicino appartiene all’argomento, il famoso Crescenzio. Ebbe quello il temerario ardire di aspirare alla signoria di Roma verso il fine del secolo; nel qual tempo, o poco prima vuole il Sigonio242, che insorti maggiori torbidi per tutta l’Italia, fossero istituiti per le città i consolati, e fabbricate dai potenti le torri per fortezze. Costrinse colle sue violenze i Papi Giovanni XV., e Gregorio V. a fuggirsene altrove; e con quel Giovanni calabrese, vescovo, o arcivescovo di Piacenza, si accordò di dividersi il comando della città; cioè che Giovanni fosse creato Papa col governo spirituale della chiesa, ed egli avesse il governo temporale sotto la protezione, e sovranità dei greci imperatori243. Questo, ed altri attentati finirono d’irritare l’imperatore di Germania Ottone III., il quale come vicario di Roma, e pregato dal Pontefice Gregorio, venne a farne vendetta nell’anno 99§. Si lusingava Crescenzio di scampare dalle di lui mani col rinserrarsi nella Mole Adriana, che prima aveva fortificata, coi suoi partigiani: ma fu in vano; perchè dopo la domenica in albis stretta d’assedio dalle truppe dell’imperatore la fortezza, e battuta con quante macchine erano allora in uso, riuscì finalmente di superarla con danno di essa, come diremo. A Crescenzio preso, e a dodici de’ suoi fu tagliata la testa, e i loro cadaveri appesi ai merli del castello244. L’antipapa Giovanni, che avea tentato fuggirsene da Roma, scoperto, e preso dai Romani, dopo essergli stati cavati gli occhi, tagliate le orecchie, e il naso, guidato sopra, un asino sedendo a rovescio, e colla coda di esso in mano, per le piazze, e contrade della città245, venne al fine precipitato dalla rupe Tarpea246.
Un castigo sì terribile, e sonoro per poco tempo mantenne la pace e tranquillità in quella metropoli, e il dovuto rispetto ai Sommi Pontefici. Crebbero nuovamente i disturbi, e gli sconvolgimenti per colpa dei conti Tusculani, e di altri principali signori nel secolo undecimo247, nel quale io tengo per fermo, che le potenti famiglie romane cominciassero a rinnovare alla meglio le antiche fabbriche, e ad abitarle come luoghi forti da potervisi difendere dai partiti contrarj. Osservò già il Panvinio nella Storia della famiglia Frangipane, scritta in latino, e conservata manoscritta nell’archivio di quella nobilissima casa248, senza però determinare il tempo, che gli Orsini occuparono la Mole Adriana, e il Teatro di Pompeo; i Colonnesi il Mausoleo d’Augusto, e le Terme di Costantino; i Conti il Quirinale, i Savelli il Teatro di Marcello249, i Frangipane l’Anfiteatro Flavio, e il Settizonio di Severo. In appresso queste famiglie medesime andarono occupando anche altri luoghi, e per esempio gli Orsini il Monte Giordano, ove stavano anche nel 1493.250; i Savelli al tempo dell’imperator Enrico VII. sul principio del secolo XIV. ebbero il Sepolcro di Cecilia Metella, detto allora Capo di Bove251 per li teschi di bove in marmo, che vi sono nel fregio tutto attorno; e poi lo acquistarono i Caetani, come si vede anche al presente dalle armi della casa, che vi sono affisse nei muri aggiuntivi per fortificarvisi. Alcune di quelle fabbriche erano intiere quando furono occupate, come il Colosseo, il Sepolcro di Cecilia Metella, ed altre, delle quali diremo appresso; ma il Teatro di Marcello, e quello di Pompeo, se possiamo giudicare di que’ tempi gli avanzi delle case, che ancora vi si veggono, doveano essere rovinati la maggior parte.
Qui farebbe a ricercarsi, se quelle famiglie entrassero in possesso degli edifizj pubblici di propria autorità, o per concessione dei Sommi Pontefici. Essendo quelli succeduti, come padroni di Roma, in tutti i diritti degl’imperatori, doveano aver acquistate eziandio le fabbriche, e gli altri pubblici monumenti, che gl’imperatori si erano riserbati, come dicemmo; e aveano così ogni ragione di affidare quello, e quell’altro edifizio a qualche ricca, e potente famiglia, o ad altri, che ne avesser cura. E per verità trovasi memoria di fabbriche da essi concedute; come della Colonna di Marc’Aurelio Antonino si ha, che ne fosse confermato il possesso, acquistato in origine non saprei dire se per concessione d’altro Pontefice, ai monaci greci allora di san Silvestro in Capite dal Papa Agapito II., che cominciò a regnare nell’anno 946., con una bolla in data del nono anno del suo Pontificato, indizione 13., conservata nell’archivio di quel monistero, e riportata in parte dal Giacchetti nella Storia di esso, e dell’annessavi chiefa di s. Silvestro252: Item confirmamus columnam major sm unam in integrum, qua dicitur Antonini, cum cella fub se, & terram vacantem in circuitn [no, sicut undlquc a via publica circumfcripta effe vìdetur, sita intra hanc civitatem253. In altra bolla di Lucio II., che governò la chiesa nell’anno 1144., e nel seguente, del qual anno, e dei 31. del mese di gennajo è la bolla, estratta dal Panvinio254 da un codice vaticano, e ripetuta dal ch. P. Nerini255, si concede a titolo di custodia a Oddone, e Cencio Frangipane, l’investitura d’un Circo, senza dir quale, come cosa spettante alla Santa Romana Chiesa, da renderli liberamente qualunque volta piacerà ad esso Pontefice, e successori suoi: Lucius Episcopus Servus Servorum Dei. Dilectis filiis, nobilibus viris Oddoni, & Cincio Frajapanibus salutem, & Apostolicam Benedictionem. Quia de omnibus, quæ ad jus Sanctæ Romanæ Ecclesiæ pertinent, curam gerere, nec, ut expedit, per nos custodire possumus, fidelibus nostris, de quibus nullatenus dubitamus, secure custodienda committimus; ea propter dilecti in Domino filii, devotionem, & fidelitatem vestram erga Beatum Petrum, & nos ipsos attendentes, custodiam Circi vobis committimus, tali tenore, videlicet ut quandocumque nobis, vel alicui successorum nostrorum placuerit, libere, & absque ulla contradictione recipiamus. Datum Romæ II. kal. februarii (in vece di pridie kal., se pur non deve essere XI. kal.). Vi sone due altre bolle d’Innocenzo IV., delle quali meglio si parlerà in appresso, ove il Colosseo dicesi di proprietà della Sede Apostolica, e come tale viene conceduto alla stessa casa Frangipane; e finalmente il Papa Innocenzo III. in una lettera dei cinque luglio dell’anno 1199., e terzo del suo Pontificato, diretta all’arciprete, e chierici della chiesa de’ Ss. Sergio e Bacco256, antico titolo cardinalizio, ora distrutta257, conferma a quella chiesa il possesso, e dominio, avuto forse per eredità da qualche potente signore romano, della metà del vicino Arco di Settimio Severo, già da tempo innanzi ridotto ad uso di fortezza, co’ suoi annessi, e connessi; dicendo insieme, che l’altra metà dell’Arco la possedevano gli eredi di un certo Cimino: Medietatem arcus triumphalis, qui totus in tribus arcubus constat, de quo unus de minoribus arcubus propinquior est vestra Ecclesia, supra quem una ex turrihus ædificata esse videtur, & medietatem de arcu majori, qui est in medio, cum caminatis juxta minorem arcum, cum introitibus, & aliis omnibus suis pertinentiis, quæ sub his finibus concluduntur. A primo latere est altera medietas ejusdem arcus triumphalis, juris hæredum Cimini, a secundo latere est aliud claustrum suprascripti Cimini, & curtis, & via publica; a tertio latere est curtis Ecclesiæ vestræ; & a quarto latere est via publica, qua pergit ante suprascriptam Ecclesiam, sicut in instrumento locationis facta a bonæ memoriæ Gregorio ejusdem Ecclesia diacono cardinali plenius continetur: dalle quali ultime parole si rileva, che la chiesa poi fosse solita di affittare questa sua parte di Arco nella maniera che i monaci di s. Gregorio affittavano la torre dell’Arco, e il Settizonio alla famiglia Frangipane, ed altri gli altri monumenti, che possedevano, come vedremo fra poco.
La famiglia Frangipane avendo per lo più mostrato ossequio, e predata fedeltà ai Sommi Pontefici, come apparisce dal recato diploma, e come si vedrà meglio in seguito, avrà da essi ottenute quelle fabbriche, e palazzi, che desiderava, e dal Pontefice Lucio più facilmente ancora, perchè forse lo avrà sostenuto nell’impegno, che aveva di sopprimere il Senato nuovamente rimesso dal popolo, e dai magnati258; come aveva assistito il di lui antecessore Innocenzo II. per lo stesso impegno, e contro l’antipapa Anacleto favorito dal popolo259; nella quale occasione essendo stata privata delle sue fortezze, ossiano torri, e case, come vedremo appresso, forse Lucio, e i monaci la rimisero in possesso di quegli edifizj, ch’essa aveva goduto per l’avanti. Ma per tante altre famiglie, che ricevessero l’investitura delle fabbriche, da effe godute, per concessione de’ Sommi Pontefici, di monisteri, o di chiese, è cola non facile a provarsi. Di Crescenzio è certo, che di propria autorità s’impadronisse della Mole Adriana. Chi sa che lo stesso non abbiano fatto parimente gli altri potenti, e ricchi signori del paese nella gara generale, che v’era fra loro di dominare la città, e di superarsi, occupando i luoghi più a portata da fortificarvisi, dandoci argomento di crederlo gli storici arrecati, ed altri non pochi, i quali parlano sempre di occupazione, e spesso di occupazione violenta? I Sommi Pontefici sapendo le loro mire non avrebbero dovuto dar loro quel comodo, di cui poteano abusare a danno della città, e con pregiudizio dell’autorità Pontificia, come in tanti secoli avvenne pur troppo; ma si rifletta, che venendo essi tratti da famiglie diverse, e fra di loro per lo più nemiche, o favorivano i loro parenti, o doveano a seconda delle circostanze cattivarli l’amicizia ora di quella, ora di quell’altra, come potrebbe dimostrarsi cogli esempj.
Indipendentemente dai Sommi Pontefici molti potevano a quelli tempi essere padroni di fabbriche per altro giusto titolo, come per eredità, o per contratto con quelli, che le avessero avute in origine dagl’imperatori, da Teodorico, o in altro modo legittimo, secondo ciò che fu detto innanzi. Molte chiese, e monisteri ne avranno avuta qualcuna per liberalità de’ Pontefici; altre le avranno occupate come vicine a loro, e derelitte; ed altre le avranno acquistate per dono di coloro, che prima le possedevano. Di queste ne abbiamo un esempio, degno di essere notato, nella donazione, che nell’anno 975. Stefano figlio d’Ildebrando console, e duca da aggiugnersi alla storia del Senato Romano fatta dal Corti, e dal Vendettini, fece ai detti monaci di s. Gregorio al Monte Celio di un tempio, detto il Settizonio minore, o piccolo, che aveva ereditato da suo padre, a fine che servisse loro per meglio guardare, o difendere il Settizonio di Severo, che già posiedeano, colla facoltà di poterlo a tale effetto distruggere, o abbassare a lor piacimento: facoltà, che non so come il donante potesse arrogarsela per sè, e cederla ad altri: Templum meum, quod septem solia minor dicitur, ut ab hac die vestre sit potestati, et voluntati pro ruitione turris vestre, que septem solia major dicitur, ad destruendum, et suptus deprimendum quantum vobis placuerit. Così si legge nella carta, che si conserva nell’archivio di quel monistero riportata dal P. Mittarelli negli Annali Camaldolesi260; facendovisi anche menzione di un Arco trionfale posseduto dallo stesso monistero non molto lontano per la pubblica strada, che forse era l’Arco di Costantino. I privati secondo i varj usi lasciavano le possedute fabbriche ai loro congiunti, o le alienavano. I luoghi pii, che non potevano spogliarsi della proprietà senza uno speciale placito apostolico le davano in affitto per trarne qualche vantaggio, come vedremo fra poco essersi dai suddetti monaci di s. Silvestro in Capite data in affitto la Colonna di Marc’Aurelio Antonino; e da uno strumento conservato nello stesso archivio del monistero di san Gregorio, riferito dal lodato Panvinio261, e ripetuto dal Zazzera262, costa che quei monaci ai 18. del mese di marzo nel primo anno del Pontificato di Eugenio III., indizione 8. diedero in locazione a Cencio Frangipane, e suoi eredi, il mentovato Settizonio di Severo, e una torre co’ suoi annessi, e connessi, posta in capo del Circo Massimo, che dovrebbe essere diverso dal Circo dato un mese prima tutto intiero in custodia al medesimo Cencio dal Papa Lucio; siccome la torre era forse quella stessa, che già dal tempo di Cassiodoro263, e prima, era in proprietà, o ad uso di privati non ostante che ancora si facessero, come fu detto, i giuochi nel Circo: In nomine Domini. Anno I. Pontif. D. Eugenii Papa III. ind. 8. m. martii die 18. Ego quidem D. Petrus Dei gratia humilis abbas Ven. Monast. Ss. Andrea Apostoli, & Gregorii Apostolici, quod vocatur Clivus Scauri, per consensum, & voluntatem Monachorum prædicti Monasterii, s. Andrea presby., Desiderii presby., & prioris, Andrea diaconi, Placidi subdiaconi; & per consensum & voluntatem aliorum Monachorum prædicti Monast. hac die propria, spontaneaque nostra voluntate locamus, & concedimus tibi D. Cincio Fregepani, tuis heredibus, & successoribus in perpetuum, idest unam turrim, quæ vocatur de arcu, cum suis scalis, & sininio, & sicut modo tu eam tenes, & cum omnibus suis pertinentiis Romæ in caput Circi Maximi, sicut a suis finibus circumdatur; & locamus trullum unum in idem, quod vocatur Septisolia.
Poco importa per altro all’argomento quella ricerca: interessa molto più di sapere, che dall’essere state possedute le fabbriche dalle famiglie potenti, dalle tante guerre civili fra di loro, e dai tumulti dell’incollante popolo, debbansi ripetere le principali cagioni, per cui la città sia rimasta a poco a poco deserta nel giro di quattro in cinque secoli. Nella prima, e più lagrimevole devastazione, che mai vi sia stata fatta, il popolo, e alcuni dei magnati vi ebbero non piccola parte. Fu questa nell’anno 1082., e nei due seguenti, ovvero un anno prima, come altri pretendono, quando l’imperatore Enrico IV. venne ad assediar la città col suo esercito numeroso per vendicarsi del Pontefice s. Gregorio VII., da cui era stato per tante fu e iniquità scomunicato. Due volte provò Enrico inutilmente di entrarci colla forza. Alla prima nell’anno 1082. bruciò in qualche parte la città Leonina, rovinando fra le altre fabbriche il lungo portico fatto dai Sommi Pontefici dalla Mole Adriana sino alla basilica di s. Pietro; e l’altro dalla porta Ostiense sino alla basilica di s. Paolo. Alla terza nell’anno 1084. dopo avere rovinati gli altri edifizj della città Leonina, seppe corrompere con danari molti del popolo, e de’ magnati, i quali già fianchi per tre anni di molestie, e di afflizioni, gli aprirono le porte senza contrario264. Entratovi dentro, andò a metter quartiere colle sue milizie presso il Campidoglio, in gran parte sin allora conservato, al quale attaccò fuoco per cacciarne la potente famiglia dei Corsi, che aderiva al Papa; indi passò ad assediare il mentovato Settizonio, ancora intiero, ove, per la sua fortezza non minore di quella della Mole Adriana, si era ritirato Rustico nipote di s. Gregorio per parte di fratello. Tanto fu battuto l’edilizio con macchine di varia specie, che rotte, e fracassate alcune colonne delle più deboli, Rustico fu necessitato ad arrendersi.
Maggior guasto avrebbe fatto Enrico alla città, se in quel frattempo il duca di Puglia Roberto Guiscardo venuto in soccorso del Pontefice, non lo avesse obbligato a fuggirsene per paura; mettendo però, come scrivono alcuni, nuovamente fuoco al Campidoglio. Ma Roberto fu più crudele, e barbaro di lui. Mentre si avvicinava alla città gli furono chiuse in faccia le porte da que’ magnati, e dal popolo, che ancora favorivano Enrico, promettendogli bensì molte cose; alle quali non prestando né orecchio, né fede il Guiscardo, gli venne fatto d’introdursi per la porta Flaminia, che gli fu aperta da qualche amico. Vi accorse tosto il popolo armato per rispingerlo, impegnandosi in una zuffa orribile, e fatale per il paese. Il fuoco, che nell’anno 991. secondo l’abate Ugone Flaviniacense nella sua Cronica presso il P. Labbè265, o nell’anno 993., come porta Rodolfo Glabro266, consumò la massima parte della città, e non poca ne avea diitrutta per opera d’Enrico, parve a Roberto, e a’ suoi soldati il miglior espediente da farsi strada, e togliersi d’avanti ogni ostacolo. Perciò lo fece mettere alle case incominciando dalla porta, ond’era entrato, per tutto il Campo Marzo sino alle chiese de’ Ss. Agostino, e Trifone; avanzandosi egli in tal maniera liberamente per le Esquilie al Laterano. Quivi attese alcuni giorni a vedere se il popolo s’induceva a liberare il Pontefice dalla Mole Adriana, in cui da tanto tempo lo avea bloccato: ma vedendo, che aspettava indarno, e che anzi di tanto in tanto veniva assalito nel suo quartiere dai cittadini armati, risolvette, per consiglio di Cencio console romano, come scrive Pietro Diacono continuatore della Cronica di Monte Casino267, di vendicarsi pienamente col bruciare, e distruggere tutte le case, che stavano dal Laterano sino al Colosseo, nelle vicinanze del Monte Celio, e per la Via Lavicana dalla parte de’ santi Pietro e Marcellino. Ognuno comprende quanto debba essere stato il danno per le moltissime fabbriche di queste regioni. Certamente per grandissimo ci viene rappresentato da Pandolfo Pisano, e dal card. d’Aragona nella vita di s. Gregorio VII.268, da Ermanno Cornero269, dall’anonimo Vaticano270, da Gaufredo Malaterra271, dal citato Pietro Diacono, da Romualdo Salernitano, che lo estende dal Laterano sino alla Mole Adriana272, da Landolfo Seniore, che dice distrutte due terze parti della città273, da Bonizone vescovo di Sutri, scrittore contemporaneo, il quale dice rovinate quali tutte le regioni della città274, e più esattamente da Flavio Biondo, il quale a tanto esterminio attribuisce la maggior parte delle rovine, che a suo tempo ancor si vedevano in quelle regioni, e descrive insieme il Settizonio275: Affirmat Pandulphus Lateranensis Ecclesiæ bibliothecarius, & ipse Pontifex Gregorius septimus in sui registri epistolis scriptum reliquit, Henricum porticus binas diruisse, quam hinc ab Adriani mole Castello sancti Angeli ad sancti Petri, inde a Trigemina Ostiensi porta ad sancti Pauli vias contexisse & aliquando docuimus, & identidem affirmamus.... Alio qui secutus est anno Henricus ad exercitum reversus, civitatem Leoninam per vim iterum ingressus, & apud Beati Petri basilicam desidens, omnia ejus urbis ædificia demolitus est.... Familia Corsorum tunc Romæ potentis, quæ Gregorio favebat, ædium partem Capitolio subjectarum evertit. Expugnandaque Septisolii arce maximos adhibuit conatus. Id vero Lucii Septimii imperatoris opus, reliquia cujus contra monasterium sancti Gregorii cernuntur, trinos habuit sibi invicem suprapositos columnarum ordines, quarum inferiores solo inhærentes, nullis pro sua sublimitate scalis superari, nec pro crassitudine ferro, igneve corrumpi poterant, fueruntque multa paucis, quæ nunc astant assimiles: contextum vero super eas in contignationem ex marmoreis trabibus, solarium totidem paulo minores sustentabant, inter quas cubicula, cœnacula, & porticus spatiosas fuisse vestigia nequaquam minima nunc oftendunt. Ea quum Robertus Guiscardus a Gregorii Pontificis nuncio intellexit, exercitu, quem copiosissimum paraverat, coacto, viam Latinam, ut urbem peteret est ingressus. Interea quum Rusticuns ea de munitione marmorea se multis defendisset diebus, applicuit Henricus omnifariam genera machinarum, & aliquot per vetustatem debiliores evertit columnas, ut Rusticus deditionem facere sit compulsus. Quum esset apud Ceperaneum Robertus, ad Henricum misit, qui bellum sibi, & capitis periculum, nisi urbe, & agro excederet, denunciarent. Timuit vero Henricus, & urbe Romanis civibus Roberti adventum ignorantibus commendata, ad sancti Petri basilicam cum Guilberto antipapa se contulit. Milites autem sui Capitolio, ad quod eos consedisse ostendimus, moturi sive casu, sive de industria illud reliquerant incensum. Henricusque acceptis copiis illico via Cassia tam rapide est profectus, ut eadem die, ac hora Senas ipse hetruscam urbem, Robertus Guiscardus urbis portas attigerit. Ausique sunt Pontificis hostes urbis portas occludere, Robertum conati verbis, pollicitationibusque avertere. Is vero parem perditis verborum fraudem reddens, per exhibitam ab amicis occasionem porta Flaminia est ingressus. Irruerunt tamen armati cives, vique illum ut expellerent intentarunt: qua factum est causa, ut proxima in Campi Martii regione Guiscardi copia subjecto igni, eam, quæ nunc quoque cernitur fecerint vastitatem. Nam quicquid ex porta Flumentanea, tunc Flaminia, & nunc Papali dicta, hinc ad sancti Sylvestri, & sancti Laurentii in Lucina, inde in sanctorum Triphonis, & Angustini ædes pertinet, id absumpsit incendium. Quia vero apud Capitolium rebelles, & adversantes Pontisici cives coactos esse audiret Robertus, a Campo Martio per Exquilias vadens petit Lateranum, ubi aliquot desedit dies, expectans si forte quod a se quæri omnes noverant, Pontificis liberandi cives facerent mentionem: sed præliis potius apud Amphiteatrum, nunc Colosseum commissis, cogebantur per singulos dies sui milites decertare. Quod quum diutius ferre non posset Guiscardus, ædes civium, domosque tunc frequentes quotquot bine a Colosseo per Lavicanam viam ad martyrum Petri & Marcellini, inde ad sanctorum Joannis & Pauli per Cœlium montem ad Lateranum pertinent, & incensas diruit: quam pulcherrimæ regionis vastitatem ad nostra tempora continuasse videmus. Ea nos & alia Henrici quarti temporibus gesta considerantes, conjicimus urbem Romam, quæ Pontificum Romanorum beneficio imminutas longe supra vires non parum instauraverat, tunc primum ad hanc quæ nostris inest temporibus rerum exiguitatem esse perductam.
Fra i monumenti più insigni, che perirono in quello disastro, io credo con Pietro da Barga nell’opera mentovata, che per il fuoco delle vicine case rovinante, e restasse in parte abbruciato l’Obelisco d’Augusto in Campo Marzo; all’opposto del citato Bandini, il quale pretende276, che ciò non possa dirsi, perchè non arriva a capire come mai un Obelisco, il quale se ne stava piantato con tanta solidità, rovinasse per un incendio, se non vi si forse aggiunto l’artifizio dei vetti, e delle funi nel rovesciarlo: onde tiene per certo, che sia stato rovinato insieme cogli altri Obelischi dai barbari Goti sotto il feroce Totila, quando entrarono per la seconda volta in Roma, come avea congetturato il Mercati277. A siffatto discorso io rispondo in primo luogo, che l’Obelisco danneggiato come è, dovea cadere necessariamente senza bisogno di vetti, o di funi; essendo impossibile, che continuasse a restare in piedi, come ora è impossibile di raddrizzarlo. Ripeto in secondo luogo non potersi provare, che Totila facesse tanto guasto in Roma, come credono questi scrittori, e molto meno dalla parte del Campo Marzo; avendosi da Procopio, che il maggior danno, che vi fece la prima volta, che v’entrò, fu nella regione di Trastevere, come già osservammo: delle quali rovine essendo stato rimproverato dal re di Francia, procurò di restaurarle quando vi entrò la seconda volta; non già le nuove, che si pretende vi facesse in quella occasione, le quali essendo state molto maggiori al dire dei nostri avversarj, non sarebbero siate omesse da Procopio; e nel restaurare tutto il rimanente, Totila avrebbe fatto rialzare anche gli Obelischi, o qualcuno di essi almeno, se prima gli avesse rovinati.
La ragione, per cui si afferma, che Totila facesse un tal guasto, si è l’invidia, che ne aveano que’ barbari, i quali costumavano nella loro patria d’innalzare delle grandi pietre di venti, e trenta piedi in forma di piramide: al che io torno a ripetere, che supposta eziandio ne’ tempi antichi l’usanza di quelle piramidi presso i Goti del settentrione; Totila, e i sudditi suoi non potevano più considerarsi come barbari di quell’antica origine; poichè erano cristiani, e da tanti anni, che dimoravano in pace sotto il dolce clima dell’Italia, governati da re umani, e pacifici, aveano dovuto cangiar non poco di quelle rozze maniere selvatiche, e del pensare oltramontano: e dato, che lo abbiano ritenuto, io chiederò, perchè nessuno de’ sovrani antecessori di Totila ebbe mai quella invidia? perchè non l’ebbe Totila stesso quando entrò in Roma la prima volta allorchè fece veramente qualche danno alla città, come dicemmo? e finalmente perchè i Goti dovessero avere una simile invidia per monumenti esistenti in una città loro da tanto tempo soggetta, i quali doveano anzi loro esser cari, come quelli, che ricordavano le memorie dell’antica abbandonata lor patria?
Quanto mi pare frivolo il motivo d’infierire contro que’ monumenti, altrettanto io credo insussistente il mezzo, che vuolsi adoprato dai Goti a tal effetto. Pretendesi, che vi adoprassero funi, e vetti; e che facessero fuoco al piede degli Obelischi per far prima liquefare gli astragali di metallo, su cui posavano, e poi consumare a poco a poco il piede stesso, affinchè rovinasse da sè l’Obelisco, e non fosse più possibile di rialzarlo. Ma che bisogno v’era del fuoco le si adopravano i vetti, e le funi? Usando quell’elemento, perchè far consumare con esso tutti i quattro angoli del sasso per farlo cadere, dopo aver fatti liquefare gli astragali, la mancanza de’ quali, o di uno, o due al più bastava per farlo precipitare? Oltracciò convien supporre, che i Goti avessero la pazienza di fare una catasta di legna intorno ad ogni Obelisco: nel qual caso io non comprendo, come potesse avvenire, che il fuoco attaccatovi non guastasse altro, che tre in quattro palmi al piede di tutti quanti gli Obelischi egualmente, riducendolo quasi rotondo. In ispecie per quello del Sole, di cui parliamo, vorrei sapere, in qual modo avvenisse, che sia per tutta la sua lunghezza da una parte sola, o poco più abbruciato; e la base non abbia sofferto punto. Forse i Goti avranno fatto un terrapieno all’altezza di tutta la base, per mettere il fuoco solamente al piede dell’Obelisco, e lasciar la base intatta? O vogliamo dire, che al tempo de’ Goti la base tutta già fosse interrata? Non è probabile questo; perchè non essendovi stato ancora fabbricato accanto, non doveano esservi neppure rovine: ed è improbabilissimo, che i Goti abbiano voluto far tanta fatica per attaccare il fuoco a quell’altezza senza veruna ragione. Può bensì spiegarsi più facilmente quello fatto, supponendo atterrato l’Obelisco al tempo del Guiscardo, allor quando per il lasso di tanti secoli, essendovi stata fabbricata poco distante la chiesa di s. Lorenzo in Lucina, ed altre case278, poteva essere stato alzato il terreno intorno all’Obelisco sino a coprire le base, come avvenne anche all’Obelisco Vaticano, che era interrato ad un segno più alto fino a coprire Iscrizione quando ne fu fatto il trasporto al tempo di Sisto V., e molto prima279. In questo stato, cadendogli addosso qualche casa incendiata delle vicine, che dicono gli storici aver arso, non ci voleva molto a farlo rovinare; e così rovinato poi abbruciarlo dalla parte superiore, ove poteva continuare a consumarsi il materiale combustibile della casa incendiata. Qualora fosse stato a terra sin dal tempo, in cui vuolsi rovinato dai Goti, vale a dire dall’anno 549., nel secolo ottavo, o nel nono, in cui lo vide l’autore del summentovato Itinerario, avrebbe dovuto essere già sepolto in qualche rovina; o quel viaggiatore non lo avrebbe nominato come la Colonna di M. Aurelio Antonino, e tanti altri monumenti, che si scorgono da lui notati in quelle strade, per le quali passava, perchè ancora vi sussistevano nell’antico loro stato.
Andò esente dall’incendio del Guiscardo la nominata Colonna di M. Aurelio Antonino, a mio giudizio non per altra ragione, se non perchè era tutta isolata in mezzo di una piazza, ove passava la pubblica strada, come si rileva chiaramente dalle addotte parole del Papa Lucio II. Molti altri monumenti vi restarono in queste, ed altre parti; e possiamo dire che molte statue di divinità, d’imperatori, ed altre, da nominarsi appresso, in bronzo, e in marmo ancora ci esistessero a que’ tempi sparse per la città, delle quali Ildeberto arcivescovo di Tours, che fu in Roma anno 1106., o nel seguente, al tempo dì Paschale II., come osserva il P. Beaugendre editore delle di lui opere280, scriveva pieno di stupore in due elegie281, compiangendo le rovine di tante antiche magnificenze, e ammirandone gli avanzi:
Par tibi, Roma, nihil, cum sis prope tota, ruina,
Quam magna fueris integra, fracta doces.
Longa tuos fastus ætas destruxit, & arces
Cæsaris, & superum templa, palude jacent.
Ille labor, labor ille ruit, quo divus Araxes,
Et stantem tremuit, & dicuisse dolet.
Quem gladii regum, quem provida jura fenatus,
Quem superi rerum constituere caput;
Quem magis optavit cum scelere solus habere
Cæsar, quam socius, & pius esse socer.
Qui crescens studiis tribus, hostes, crimen, amicos,
Vi domuit, secuit legibus, emit ope.
In quem dum fieret vigilavit cura priorum,
Juvit opus pietas, hospitis unda locum.
Expendere duces thesauros, fata favorem,
Artifices studium, totus & orbis opes.
Proh dolor! urbs cecidit, cujus dum specto ruinas,
Penso statum, solitus dicere: Roma fuit.
Non tamen annorum feries, non flamma, nec ensis
Ad plenum potuit hoc abolere decus.
Tantum restat adhuc, tantum ruit, ut neque pars stans
Æquari possit, diruta nec refici.
Confer opes, ebur, & marmor, superumque favorem,
Artificum vigilent in nova, fasta manus.
Non tamen aut fieri pars filanti fabrica muro,
Aut restaurari sola ruina, potest.
Cura hominum potuit tantam componere Romani,
Quantam non potuit solvere cura deum.
Hic superum formas superi mirantur & ipsi,
Et cupiunt fictis vultibus esse pares.
Non potuit natura deos hoc ore creare
Quo miranda deum signa creavit homo.
Vultus adest his numinibus, potiusque coluntur
Artificum studio, quam deitate sua.
Urbs felix, si vel domini: urbs illa careret,
Vel dominis esset turpe carere fide.
Dum simulacra mihi, dum numina vana placerent,
Militia, populo, mœnibus alta fui:
At simul effigies, arasque superstitiosas
Dejiciens, uni sum famulata deo,
Cesserunt arces, cecidere palatia divum,
Servivit populus, degeneravit eques.
Vix scio, qua fuerim, vix Romæ Roma recordor;
Vix finit occasus vel meminisse mei.
Gratior hæc jactura mihi successibus illis.
Major sum pauper divite, stante jacens.
Plus aquilis vexilla crucis, plus Cæsare Petrus,
Plus cinctis ducibus vulgus inerme dedit.
Stans domui terras, infernum diruta pulfo,
Corpora stans, animas fracta jacensque rego.
Tunc misere plebi, modo principibus tenebrarum
Impero; tunc urbes, nunc mea regna polus.
Quod ne Cæsaribus videar debere, vel armis
Et species rerum meque, meosque trahat,
Armorum vis illa, perit, ruit alta, senatus
Gloria, procumbunt tempia, theatra jacent.
Rostra vacant, edicta silent, sua præmia desunt
Emeritis, populo jura, colonus agris.
Durus eques, judex rigidus, plebs libera, quondam
Quærit, amat, patitur, otia, lucra, jugum.
Ista jacent, ne forte meus spem ponat in illis
Civis, & evacuet spemque, bonumque crucis.
Crux ædes alias, alios promisit honores,
Militibus tribuens regna superna suis.
Alcuni monumenti in particolare si trovano mentovati dagli scittori, e da altre memorie del secolo duodecimo. In una iscrizione affissa nel portico della chiesa di s Silvestro in Capite colla data dell’anno 1119. si legge, che da lungo tempo avanti que’ monaci aveano data in affitto la. detta Colonna di M. Aurelio Antonino, insieme ad una piccola chiesa di s. Andrea, che le stava accanto, colle limosine, che vi offerivano i pellegrini; e che in quell’anno vollero rivocare ogni contratto antecedentemente fatto per esse, temendo di averne poi a perdere anche il dominio. L’iscrizione è del tenore seguente, data anche dal Giacchetti282, dal Piazza283, e nella sua vera ortografia dal Crescimbeni284: Quoniam Columna Antonini, juris monasterii s. Sylvestri, & Ecclesia s. Andreæ, qua circa eam sita est, cum oblationibus, quæ in superiori altari, & inferiori a peregrinis tribuuntur, longo jam tempore locatione annorum fuit alienata monasterio. Ne idem contingat, auctoritate Petri Apostolorum Principis, & Stephani, & Dionysii, & confessoris Sylvestri, maledicimus, & vinculo ligamus anathematis Abbatem, & monachos quoscumque Columnam, & Ecclesiam locare, vel beneficio dare præsumpserit. Si quis ex hominibus Columnam per violentiam a nostro monastieri subtraxerit perpetuæ maledictioni sicuti sacrilegus, & raptor, & sacrarum rerum invasor subjaceat, & anathematis vinculo perpetuo teneatur. Fiat. Hoc actum est auctoritate episcoporum, & cardinalium, & multorum clericorum, atque laicorum, qui interfuerunt. Petrus Dei gratia humilis Abbas hujus sancti Coenobii cum fratribus suis, fecit, & confirmavit anno Domini MCXIIII. indictione XII. Si affittava probabilmente quella Colonna per il profitto, che poteasi ricavare da que’ pellegrini, o da altri, che avessero avuta la curiosità di salire per essa sino in cima, come si usa anche al presente: per la qual ragione, più che per amore della conservazione, e custodia dell’insigne monumento, è da crederli, che fin dal tempo degli imperatori Lucio Settimio Severo, e Decimo Clodio Albino sotto il consolato di Falcone, e di Claro, che fu l’anno 193., pochi anni dopo l’erezione della Colonna, Adrasto liberto di quegl’imperatori avesse la premura di farvisi coll’autorità sovrana a proprie spese una casetta in poca distanza, col pretesto di custodirla. Abbiamo memoria di questo fatto in due iscrizioni in marmo, che per sua sicurezza avea fatte incidere lo stesso Adrasto, e collocare in quella sua abitazione, nelle di cui ruine furono trovate scavandovisi l’anno 1777., ed ora si conservano nel Museo Pio-Clementino al Vaticano. Non farà tanto fuor di proposito il riportarle qui amendue per la loro importanza di confermarci, che la Colonna s’appartenga veramente a Marco Aurelio, che vi è nominato, non ad Antonino Pio; e di darci notizia di un nome, con cui allora si chiamava, non ricordato da verun altro scrittore, vale a dire, di Colonna Centenaria:
EXEMPLARIA. LITTE |
AELIVS. ACHILLES. C. L. PERPETV |
Più monumenti grandiosi vengono accennati da Benedetto nel suo Ordine Romano dato dal P. Mabillon286, il quale lo crede fatto prima dell’anno 1143., nella occasione di descrivere il viaggio, o processione del Papa a varie chiese, e principalmente dalla Vaticana alla Lateranense. Ad alcuni edifizj questo scrittore dà que’ nomi, i quali ci sono altronde noti da’ più antichi tempi, come l’Arco di Graziano, Teodosio, e Valentiniano, che stava presso al ponte di Adriano, il Mausoleo di questo imperatore, che chiama Tempio di lui, dopo di averlo chiamato prima Templum, & Castellum Adriani; l’Obelisco di Nerone, la Memoria di Romolo, di cui parimente si parlerà qui appresso; il Circo d’Alessandro, ove ora è la piazza Navona; il Teatro di Pompeo, il Carcere Mamertino, l’Arco di Settimio Severo, il vicino Tempio della Concordia, l’Arco di Nerva, che è l’Arco detto ora de’ Pantani, sotto cui si passa anche oggidì; il vicino Tempio di quello imperatore, e quello di Giano; il Foro di Trajano, e quello di Cesare; l’Arco di Tito e Vespasiano, l’Arco di Costantino, e il Colosseo. Altri edifizj li nomina come si chiamavano a suo tempo, e non ci è noto abbastanza a quali nomi antichi corrispondano: perciò noi daremo le di lui parole, sulle quali potrà ognuno fare le sue riflessioni. Al numero 16.287 scrive: Mane (Papa) dicit Missam ad sanctam Anastasiam: qua finita, descendit cum processione per viam juxta Porticum Gallatorum ante Templum Sibyllæ, & Inter Templum Ciceronis, & Porticum Cimonis (alit. Cirnorum); & progrediens Inter Basilicam Jovis, & Arcum Flamineum, deinde vadit juxta Porticum Severinum, & transiens ante Templum Craticulæ, & ante Insulam Milicenam, & draconariorum, & sic sinistra manu descendit ad majorem viam Arenulam, transiens per Theatrum Antonini, per Palatium Cromatii, ubi fuit Holomitreum, & sub Arcu Gratiani, Theodosii, & Valentiniani imperatorum; & transiens per Pontem Hadriani ante Templum ejus, & juxta Obeliscum Neronis, & ante Memoriam Romuli, & per Porticum ascendens in Vaticanum ad Basilicam s. Petri, ubi est statio. Al numero 29.288: Procedens discalceatus ante Arcum Nervæ, intrat per Forum Trajani: & exiens Arcum Aureæ, in porticu absidata ascendit per directum (al. domum) juxta Eudoxiam. Al numero 51.289: Coronatus cum processione revertitur ad palatium, per hanc viam sacram, per porticum, & per prælibatum Pontem, intrans sub Arcu triumphali Theodosii, Valentiniani, & Gratiani imperatorum, & vadit juxta palatium Cromatii, ubi Judæi faciunt laudem. Profiliens per Parionem inter Circum Alexandri, & Theatrum Pompeji, descendit per Porticum Agrippinam (alius codex, dice il Mabillon, addit explicandi causa, Sanctæ Mariæ Rotundæ, Pantheon), ascendit per Pineam juxta Palatinam, profiliens ante s. Marcum ascendit sub Arcu Manus carneæ290 per Clivum Argentarium, inter insulam ejusdem nominis, & Capitolium, descendit ante privatum Mamertini; intrat sub Arcu triumphali Inter Templum Fatale, & Templum Concordiæ291, progrediens inter Forum Trajani, & Forum Cæsaris, subintrat Arcum Nerviæ, inter Templum ejusdem deæ292, & Templum Jani, ascendit ante Asylum per Silicem, ubi cecidit Simon Magus, juxta Templum Romuli; pergit sub Arcu triumphali Titi, & Vespasiani, qui vocatur Septem Lucernarum; descendit ad Metam sudantem ante triumphalem Arcum Constantini, reclinans manu leva ante Amphitheatrum, & per sanctam viam juxta Colosseum revertitur ad Lateranum. Un numero anche maggiore di fabbriche, e di altri pubblici monumenti ci viene ricordato dall’autore dell’operetta De mirabilibus Romæ data dal Padre Montfaucon, che dice aver vivuto circa il secolo XIII.; e molte notizie vi farebbero interessanti, se potessimo credergli letteralmente. Ma, come avverte lo stesso editore, tanti sono gli errori, le false denominazioni, e le favolette, che vi si spacciano; e tanto mi pare confusa la di lui maniera di parlare, che non bene s’intende se i monumenti ancora esistessero al di lui tempo, o fossero rovinati. Di molti è chiaro, che ne parla come se avessero ancora esistito realmente, benchè fossero distrutti da lungo tempo.
Qual fosse lo stato, e la conservazione di quegli edifizj, che ho nominati, e di altri molti, che certamente ancora esistevano a que’ tempi, e in parte ancora sussistono oggidì, io nol saprei dire. Trovo bensì da poter affermare, che il Foro di Traiano, quell’emporio di tante maraviglie 293, ove erano state raccolte dall’imperatore Alessandro Severo tutte quasi le statue degli uomini illustri294, ed anche ne’ secoli appresso vi si collocavano quelle, che ad altri illustri soggetti si ergevano per merito295, fosse già quasi tutto rovinato prima del secolo XII. Il lodato monsig. Galletti296 ha pubblicata una carta dell’archivio di santa Maria in Via Lata appartenente all’anno 1162., che è molto interessante al nostro proposto. Se ne ricava primieramente, che accanto alla Colonna vi forse da prima fabbricata una chiesa detta di s. Niccolò alla Colonna Trajana, con case, ed orti annessi; e in secondo luogo abbiamo dalla medesima carta, che il Senato Romano, da diciott’anni rimesso in qualche splendore, avesse una speciale premura, che questa Colonna, forse perchè è tutta intorno storiata, si conservasse illesa per tutti i secoli avvenire a onore di quella chiesa, e del Popolo Romano: condannando a pena di morte, e confiscazione de’ beni chiunque avesse avuto ardimento di recarle il minimo pregiudizio: Nos senatores pro justitia cuique tribuenda a reverendo atque magnifico populo Romano in Capitolio constituti audita, controversa cine inter presbyterum Angelum yconomum ecclesie S. Nicolai columne Trajane & domnam Mariam religiosam atque honestam abbatissam mon. S. Cyriaci erat. De ecclesia scilicet S. Nicolai ad pedes ejusdem columapne posita & de ipsa columpna & domibus ortis & omnibus ei pertinentibus. visis etiam instrumentis & allegationibus ab eadem abbatissa in curiam senatus missis & allatis, &c. supra dictam ecclesiam cum columpna domibus ortis & omnibus ei pertinentibus eidem abbatisse investimento & auctoritate senatus ei & per eam mon. S. Cyriaci in perpetuum restituimus salvo jure parrochiali ecclesie SS. apostolorum Philipp & Jacobi & salvo honore publico urbis eidem columne ne unquam per aliquam personam obtentu investimenti hujus restitutioni: diruatur aut minuatur sed ut est ad honorem ipsius ecclesie & totius populi Romani integri & incorrupta permanete dum mumdus durat sic ejus stante figura. Qui vero eam minuere temptaverit persona ejus ultimum patiatur supplicium & bona ejus omnia fisco applicentur, &c.
Del Circo Flaminio, chiamato ne’ bassi tempi Castellum aureum, possiamo anche dire, che in questo secolo XII. forse ridotto in pessimo stato. Dentro di esso erano fabbricate tre chiese con delle case, e un orto vicino, salve però le alte mura, che tutto intorno ancora lo circondavano in qualche buono stato di conservazione. Ciò si ricava da una bolla297 del Papa Celestino III., diretta nell’anno 1192. al Clero, e a Giovanni Primicerio della s. Sede298, e rettore di due di quelle chiese, detta una di s. Maria domina Rosa, in luogo della quale ora è la chiesa di s. Catterina de’ Funari; l’altra di s. Lorenzo; e la terza chiesa era dedicata a s. Lucia, ov’è la moderna di s. Lucia alle botteghe oscure: nella qual bolla il Pontefice loro conferma il possesso del Circo, e di tutti gli annetti, e connessi al medesimo: Castellum aureum cum utilitatibus suis, videlicet parietibus altis, & antiquis in circuitu positis, cum domibus, & caminatis eisdem parietibus deforis undique copulatis; hortum, qui est juxta idem Castellum cum utilitatibus suis, & superioribus cryptarum &c. Potrà farsi lo stesso discorso di tante altre fabbriche ridotte a chiese per il comodo dei muri, che vi si potevano adattare; come delle Terme Alessandrine summentovate, dentro le quali sin dal secolo X. vi erano tre chiese, una di s. Maria, che si colloca dal Martinelli299 ove ora è la chiesa di s. Luigi de’ Francesi; l’altra di s. Benedetto; e la terza detta Oratorio del Salvatore, che ancora vi sussiste al fianco della detta chiesa di s. Luigi, con orti, terre coltivate, e incolte, sebbene ancor vi restassero colonne, ed altri pezzi di fabbriche non convertiti ad alcun uso: del che tutto si parla in una carta dell’Abbazia di Farfa, data dallo stesso monsignor Galletti, appartenente all’anno 998.300: Duas Ecclesias sancte Marie & sancii Benedicti que sunt edificate in thermis Alexandrinis cum casis criptis hortis terris cultis & incultis arcis columnis, & Oratorio Salvatoris infra se, &c.
E per ultimo ricercando le memorie di quelli tempi medesimi, apprendiamo quasi tutto annientato anche il Campidoglio. Oltre la chiesa d’Araceli, detta allora di s. Maria d’Araceli e di s. Giovanni Battista, e il contiguo monistero de’ PP. Benedettini, che ne aveano la cura, v’erano parimente degli orti, delle casette, ed altre fabbricuccie fatte per comodo del mercato, che vi si teneva nella piazza di mezzo, e vi si tenne sino all’anno 1477, alli 13. di settembre, in cui il cardinale Guglielmo d’Estouteville camerlingo lo trasportò alla piazza Navona, restandovi fisso per ogni mercoledì301; e il resto del monte Capitolino, di quella rocca stata il terrore dell’universo, era forse già un mucchio di sassi, e di colonne rovesciate, o rimarle miseri scheletri di quelle fabbriche grandiose, che sostenevano; se ne eccettuiamo il Tempio della Concordia, di cui appresso diremo, e la famosa scala de’ cento gradini, che vi sussistevano. In uno stato sì miserabile fu tutto il monte conceduto a que’ monaci dall’antipapa Anacleto II. in una bolla, senza l’anno, ma che deve essere stata emanata tra l’anno 1130., in cui Anacleto invase la cattedra di Pietro, e l’anno 1134., in cui fuggì da Roma, portata dal P. Waddingo302, e illustrata con una dissertazione dall’abate Francesco Valesio303: Anacletus &c. Dilecto in Christo Filio Joanni Abbati sanctæ Dei Genitricis, & Virginis Maria, sanctique Joannis Baptistæ in Capitolio, suisque successoribus regulariter promovendis in perpetuum. Quod in Apostolica Sedis administratione, licet indigni, constituti judicemur, religiosorum virorum piis petitionibus, justo benignitatis intuitu assensum nos præbere convenit, quatenus quæ religionis prospectu postulata cernuntur, nostra concessionis vigore clarescant, ac firma in posterum perpetuitate serventur. Tuis igitur, dilecte in Christo Fili Joannes Abbas, & Fratrum tuorum precibus annuentes, commisso tibi eiusdem Dei Genitricis Monasterio, concedimus, & confirmamus totum montem Capitolii in integrum cum casis, cryptis, cellis, cortibus, hortis, arboribus fructiferis, & infructiferis, cum porticu Cancellariæ, cum terra ante Monasterium, qui locus nundinarum vocatur, cum parietibus, petris, & columnis, & omnibus ad eum generaliter pertinentibus; qui istis finibus terminatur: a primo latere via publica, qua ducit per clivum argentarii, qui nunc descensus Leonis Prothi appellatur: ab alio latere via publica, qua ducit sub Capitolium, & exinde descendit per limitem, & appendicem super hortos, quos olim Ildebrandus, & Joannes Diaconus, & hæredes Joannis de Guinico tenuerunt, usque in Templum majus, quod respicit super Alefantum: a tertio latere ripæ, quæ fuit super fontem de Macello, & exinde revolventes se per appendices suas super Canapara, usque in Carnarium sancti Theodori; a quarto vero latere ab eodem Carnario ascendit per caveam, in qua est petra verificata, exinde descendit per hortum sancti Sergii, usque in hortum, qui est sub Cancellaria, veniens per gradus centum usque ad primum affinem. Circa vero eundem montem concedimus, & confirmamus tibi, tuisque successoribus domos, casalinas, cryptas, ergasteria in mercato, totum montem prædictum Capitolii in integrum, & cetera omnia, qua in monte, vel circa montem sunt, juxta tenorem præfati privilegii supradictum.
Tanti degli altri edifizj di qualche conservazione, non convertiti in chiese, continuavano ad essere in potere delle famiglie romane, che di tanto in tanto se ne cacciavano fra di loro vicendevolmente, o ne venivano cacciate dal popolo nelle quasi perpetue guerre civili di que’ tempi. In un tumulto popolare succeduto nell’anno 1116., che ci viene raccontato da Falcone Beneventano nella sua Cronica a quell’anno304, furono distrutte dai fondamenti molte belle case, ed alcune torri di quelli, che erano uniti con Pier di Leone, il quale d’accordo col Papa volea creare prefetto di Roma il suo figliuolo. Ottone di Frisinga305 porta una lettera del Senato, e Popolo Romano a Corrado re di Germania, e d’Italia, riprodotta dal Baronio all’anno 1144.306, e dal P. Martene fra le lettere di Wibaldo abate Stabulense307, ove la riferisce all’anno 1150., come prova anche monsig. Mansi al luogo citato del Baronio, nella quale dicono gli scriventi di aver prese le torri, e le case degli uomini potenti di Roma, i quali si accingevano, confederati col Papa, e col re di Sicilia, a resistere al suo impero; ed alcune di esse tenerle per lui, ed altre averle gettate a terra, e diroccate. Nell’anno 1167. i Colonnesi furono cacciati per forza del popolo dal Mausoleo d’Augusto, che fu anche rovinato; perchè, al riferire di Giovanni Villani308, furono accusati di aver traditi i Romani andati ad assediare il Tuscolo, ove ebbero una grande sconfitta nel luogo detto allora Monte Porco. E quanti non potrebbero numerarsene di questi discacciamenti, e rovine, se potessimo farlo con comodo! Però non tralasceremo il più grande di tutti i guasti fatto agli edifizj per cacciarne i signori, ed abbattere per sempre la loro alterigia, e prepotenza, dal bolognese Brancaleone. Questi essendo stato confermato senatore di Roma, per esser troppo rigido esecutore della giustizia, e vendicatore inesorabile delle colpe, fu arrestato dal popolo, e porto in carcere nel Settizonio309, d’onde poi liberato dal popolo stesso, e rimesso nel suo impiego l’anno 1257., crudelmente punì li malfattori, e vendicossi di quelli, i quali aveano procurata la sua prigionia; e due degli Annibaldesi li presentò a’ patiboli: nè perdonò agli amici del Papa, o a’ suoi stretti parenti, inflessibile alle preghiere, a’ regali, e alle minacce. Diroccò da’ fondamenti, al dir di Matteo Paris310, intorno a cento quaranta torri, o fortezze de’ nobili; e secondo Albertino Mussato311 rovinò tutti gli antichi palazzi rimasti in piedi, le terme, i tempj, e tante delle colonne312. Vi restò qualche avanzo di terme, e di teatri, e l’Anfiteatro Flavio specialmente, di cui meglio diremo appresso, ed altri luoghi muniti, ne’ quali in occasione della coronazione dell’imperator Enrico VII. l’anno 1312. si fecero mettere delle guardie, affinchè non avessero a succedere tumulti, al dire del Platina nella vita di Clemente V.
Ciò che potè aver la forte di evitare la rabbia di Brancaleone, e del mentovato Enrico, il quale venuto in Roma nel suddetto anno spianò dai fondamenti il palazzo degli Annibaldi, quello di Giovanni Savelli, e la torre di san Marco313, andò a pericolo di soggiacere all’inumanità di un altro barbaro Giacomo di Giovanni di Arlotto degli Stefaneschi, che nell’anno 1313. ebbe la carica di quasi dittatore col titolo di capitano della plebe, la quale credeva di provvedere in tal modo al pubblico bene. Costui per adempire al posto ottenuto, segue a scrivere il citato Albertino Mussato314, credendo doversi rendere formidabile a’ magnati, ed opprimerli, siccome di allettare a sè i plebei, asceso nel tribunale comandò, che avanti a sè comparissero i principali, i quali venuti, furono subito arrestati, e legati. De’ figliuoli di Orso Gentile Poncelo di Orso, Ponceleto di Matteo del Monte, Francesco quel, che poco innanzi era stato eletto senatore, costretto a rinunziare, Stefano della Colonna, Sciarra di lui fratello, Giordano di Agapito, Giovanni, e Pietro de’ Savelli, Annibale degli Annibali, e moltissimi altri delle più illustri schiatte, i quali, e a ciò appena si lasciò piegare, sciolti dalla prigione, con molte cautele rilegò ad alcune terre, sotto pena capitale se ne partissero. Nè qui si fermò la ferocia, e la barbarie dell’uomo; poichè egli per superare Brancaleone si accinse a demolire le più eminenti fabbriche e vecchie, e nuove, e precisamente Monzone, cioè la torre vicino al ponte santa Maria colle porte, che chiudevano dall’altro lato, perchè potesse la plebe più facilmente trascorrere di là dal tevere. Si aveva inoltre a gettare a terra tutto ciò, che avea lasciato il suddetto Brancaleone, vale a dire Castel sant’Angelo, l’isola, le fortezze, e tutti i più belli edificj, de’ quali già il popolo si era impadronito, cacciandone i possessori, per deformare in tal guisa la città in disprezzo de’ magnati, contro de’ quali si doveva anco procedere per qualunque preteso, purchè la sola tribunizia potestà, esterminati i Padri, cresciuta forse sotto quel magistrato. Finalmente trovossi, che disposte le cose secondo il volere di questo nuovo capitano, e della plebe, principalmente tolti i più potenti, preparavasi tutto ciò per favorire Enrico cesare. Erasi già stabilito di chiamar questo in Roma, e condurlo al Campidoglio; con che dalla sola plebe avesse a riconoscere il principato. Ma non a seconda di quanto aveva ella premeditato le cose furon guidate dalla fortuna. Imperocchè i Padri, e i principali de’ nobili, de’ quali ben appariva, che ultimavasi la rovina, se la dimora avesse alla plebe data comodità, avendo esplorato per mezzo de’ segretarj quanto erasi da quella determinato di eseguire, tennero segreto consiglio a fine di risolvere quel che doveasi fare per resisterle. Si affrettò dunque l’affare, e per tempo vennero con truppe di soldati in città, ed ascesero nel Campidoglio. II capitano affatto inconsapevole di ciò fu colto all’improviso, e sforzossi indarno col suono della campana di congregar la plebe dispersa, e non informata dell’accaduto. Fu pertanto esso capitano preoccupato, ed arrestato, e per comandamento de’ Padri posto in prigione. La plebe già vacillante per sì considerabile mutazione non si adunò, che anzi nascosesi per le case. Fin qui il Mussato.
Alcuni anni prima di questo tumulto già i Papi aveano trasportata in Avignone la sede Apostolica, che vi stette quali per anni settanta, vale a dire dall’anno 1306., in cui ve la fissò Clemente V., sino al 1376. Allora sì che tutte finirono di accumularli le disgrazie sulla povera Roma abbandonata più che mai alle guerre civili315, alle tirannie de’ magnati, ed alle violenze del popolo, il quale più volte rinnovò la scena di togliere la signoria a tutti i nobili, e grandi della città, obbligandoli a cedere tutte le loro fortezze; come scrive Giovanni Villani316, e il Pontefice Giovanni XXII. in una lettera presso il Rainaldo317, che fece nell’anno 1327. per favorire Lodovico il Bavaro; e così fece nell’anno 1347. Cola di Rienzo, ossia Niccola di Lorenzo, come narra lo stesso Villani318, che si era fatto dichiarare tribuno dal Popolo Romano per rimetterlo nell’antica indipendenza. A tal eccesso erano giunti i tiranni, i quali aveansi usurpato in varj tempi il dominio della città, che non contenti del guasto stato fatto in tante guerre civili da essi, e dai loro predecessori, agli antichi palazzi, archi trionfali, ed altri monumenti, cercarono di far danaro cogli avanzi; cioè coi marmi, colle colonne, ed altri pezzi di qualche importanza; non risparmiando neppure i sepolcri delle famiglie romane, e i liminari delle chiese per venderli ai Napoletani, e ad altri. Non potè trattenerli il Petrarca al vedere sì barbara strage di quegli ornamenti grandiosi, che tanta rinomanza aveano acquistata a questa città; e ne fece alte doglianze in quella orazione319, che diresse al mentovato Cola di Rienzo per animarlo a sottrarre una volta la misera Roma dal giogo di que’ barbari oppressori: Pro quibus sanguinem vestrum totiens fudistis, quos vestris patrimoniis aluistis, quos publica, inopia ad privatas copias extulistis, ii neque vos libertate dignos judicarunt, & laceratas Reipub. reliquias, carptim in speluncis, & infandis latrocinii sui penetralibus congesserunt: nec pudor apud gentes vulgandi facinoris, aut infœlicis patriæ miseratio, pietasque continuit, quo minus impie spoliata Dei templa, occupatas arces, opes publicas, regiones urbis, atque honores magistratuum inter se divisos, quam una in re turbulenti, ac seditiosi homines, & totius reliquæ vitæ consiliis, ac ratione discordes, inhumani foederis stupenda societate convenerant in pontes, & mœnia, atque immeritos lapides desævirent. Denique post, vi, vel collapsa palatia, quæ quondam ingentes tenuerunt viri, post diruptos arcus triumphales, unde majores horum forsitan corruerunt, de ipsius vetustatis, ac propriæ impietatis fragminibus vilem quæstum, turpi mercimonio captare non puduit. Itaque nunc, heu dolor, heu scelus, indignum te vestris marmoreis columnis, de liminibus templorum, ad quæ nuper ex tota orbe concursus devotissimus siebat, de imaginibus sepulchrorum, sub quibus patrum vestrorum venerabilis cinis erat, ut reliquas sileam, desidiosa Neapolis adornatur. Sic paulatim ruinæ ipsæ deficiunt, ingens testimonium magnitudinis antiquorum, & vos tot millia virorum fortium, coram paucis latrunculis non aliter, quam in capta urbe crassantibus, ceu totidem non tam fervi, quam pecora, cum publice matris membra discerperent, siluistis. Nimirum enim super vos fortes fecerant, quis huic, quis illi credere in prædam, & quid imbelli civitati Athenarum miramur, & indignamur obtigisse, cum legimus eam ornamentis suis omnibus, & liminibus orbatam, ad triginta tyrannorum arbitrium pervenisse, hoc in urbe Roma, domitrice, urbium ac terrarum domina, sublimis adhuc imperii, & summi Pontificis titulis illustrata potuisse contingere. Ut non multo plurium forte etiam paucorum tyrannorum libidinibus subjaceret, nemo quidem usque ad hoc tempus, qui fatis indignaretur, inventus est.
Gli straordinarj terremoti, che dai 10. di settembre dell’anno 1349. per più giorni si fecero sentire per l’Italia, e in altre parti, dice Matteo Villani320, che in Roma fecero cadere il campanile della basilica di s. Paolo, con parte delle logge di quella chiesa, e una parte della Torre de’ Conti fabbricata l’anno 1203. dal Pontefice Innocenzo III.321, lasciando in molti altri luoghi della città memoria delle sue rovine. Parla di molte rovine anche Teodorico a Niem322, che dice avvenuto il terremoto alli 7. di quel mese; Giovanni di Bazano nella sua Cronica di Modena presso il Muratori323; e in due lettere il Petrarca. In una324 scrive quest’uomo celebre, che la città tremò con mina di torri, e di chiese; e nell’altra al suo Socrate, riportata dall’abate de Sade nella di lui vita325, e in parte dal Bzovio non so per qual motivo all’anno 1348.326 contro l’autorità dei citati scrittori, e della Cronica d’Orvieto327, che riferiscono il terremoto all’anno seguente, lo dipinge come il più grande, che mai siasi provato in Roma dalla sua fondazione. Scrive, che fece precipitare molti antichi stupendi edifizj, tanto ammirati dai forestieri, e trascurati dagli abitanti; la Torre de’ Conti unica nel mondo per la sua singolarità, di cui ora vi rimane il basamento; e molte chiese, fra le quali buona parte della mentovata basilica di s. Paolo, il tetto della Lateranense, e qualche porzione della Vaticana328: Ecce Roma ipsa insolito tremore concussa est: tam graviter, ut ab eadem Urbe condita supra duo annorum millia tale nihil acciderit. Cecidit ædificiorum veterum neglecta civibus, stupenda peregrinis moles. Turris illa toto orbe unica, quæ Comitum dicebatur, ingentibus rimis laxata dissiluit, & nunc velut trunca caput superbi verticis hororem solo effusum despicit. Denique ut ira cœlestis argumenta non desint, multorum species templorum, atque in primis Paulo Apostolo dicatæ ædis bona pars humi collapsa, & Lateranensis ecclesiæ dejectus apex, Juabilæi ardorem gelido horrore contristant. Cum Petro mitius est actum. La basilica Vaticana fu poi molto più danneggiata l’anno 1352. agli 11. di decembre da un fulmine, il quale abbattè la cupola, percosse il campanile, e tutte le grandi, e nobili campane, che erano in quello, fece cadere; e trovaronsi tutte fondute in quei punto, come fossero colate nella fornace329.
Parte per le turbolenze continue, e parte per le miserie grandi del popolo ridotto a scarso numero, nessuno prendeasi pensiere nè degli edifizj profani, seppur v’era alcuno, che avesse per essi qualche amore, nè di queste chiese rovinate, benchè fossero le principali di Roma, e del mondo. I cardinali scordatisi delle chiese loro titolari, e tanti altri beneficiati, si godevano in pace le rendite di esse alla corte del Papa in Avignone, ove colavano anche le altre rendite, e ricchezze del principato. Molte preghiere, e calde istanze replicate furon fatte dal Senato, e dal Popolo Romano ai Sommi Pontefici a fine d’indurii a ricondursi alla loro sposa, promettendo loro tutta la soggezione, e il rispetto, che meritavano; e tutta v’impiegò la sua eloquenza il lodato Petrarca per muovere a pietà di Roma prima il Pontefice Benedetto XII., scrivendogli due lettere in versi330, e poscia Clemente VI., fatto Papa nell’anno 1342., in altra lettera in versi, nella quale introduce Roma a parlare al Pontefice331:
... Absentem prospice saltem,
Et memor esto mei, nutant ingentia longo
Templa situ, lassisque tremant jam mœnibus arces;
Prætenduntque gravem nullo reparante ruinam.
Rara mihi veteris superant insignia formæ,
Effigiesque antiqua perit, vix illa putatur
Si prope conspiciar: sic me fregere labores
Assidui, longusque dolor, viduumque cubile,
Conjugibusque orbata domus: tot tristibus una
Majestas invicta viget, sintque omnia postquam
Obruta, supremis inerit per secula saxis
. . . . . . . . . . .
. . . Quot sunt mihi templa, quot arces
Vulnera sunt totidem: crebris confusa ruinis
Mœnia relliquias, immensa, & flebilis Urbis
Ostentant, lachrymasque movent.
e finalmente Urbano V., che cominciò a regnare l’anno 1352,. esponendogli le miserie della città in due lettere espresse con que’ termini, che gli dettava la tenerezza del suo cuore, e l’affetto, che nudriva per la città capo dell’Italia, e del mondo: Si quid forte notitiæ defuerit, scrive nella prima332, scito quoniam te absente abest requies, pax exulat, bella assuunt & civilia, & externa, jacent domus, labant mœnia, templa ruunt, sacra pereunt, calcantur leges, justitia vim patitur, luget, atque ullulat plebs infelix, tuumque nomen altis vocibus invocat neque tu illam audis, neque malorum piget, miseretque tantorum, neque venerabilis sponsæ pias lachrymas vides, teque illi debitum restituis... Sed quo animo, da quæso misericors Pater temerariæ devotioni mee veniam, quo inquam, animo tu ad ripam Rhodani sub aurata tectorum laquearibus somnum capis, & Lateranum humi jacet, & Ecclesiarum mater omnium tecto carens, & ventis patet, ac pluviis, & Petri, ac Pauli sanctissimæ domus tremunt, & Apostolorum quæ nunc ædes fuerat, jam ruina est, informisque lapidum acervus, lapideis quoque pectoribus suspiria extorquens. E nell’altra333: Reliquis, si qui sunt, qui ignorantia labi possent., hoc modo responsum sit, Italiæ caput, Romam, nec Italiæ tantum, sed totius orbis, multis bellis, ac cladibus, interque alias longa suorum Pontificum, ac principum absentia extenuatam, & attritam, ac pene consumptam, dolens fateor, cujus vastitas, quantum non soli Italiæ, sed membris omnibus, hoc est mundo noceat, & in primis Christiano generi, vident omnes, nisi quorum livor, tumorque oculos premit; hac tamen ipsa Urbs tot vastantium e manibus tibi cœlitus reservata ni respuis, & divinæ gratiæ, tuæque virtutis adminiculo restauranda felicitatem tibi in cœlis æternam, atque in terris immortalem gloriam allatura est.
Non si creda però con tutto quello, che a que’ tempi anche le antiche statue avessero patito un eguale naufragio. Ci assicura il Petrarca medesimo334, esservene rimaste ancora innumerabili, e degli eroi, e degli uomini illusori principalmente, le quali si ammiravano da coloro, che aveano qualche piacere a contemplare le belle opere dell’antichità: G. Delectant statuæ. R. Accedunt hæ quidem ad naturam propius quam picturæ, illæ enim videntur tantum, hæ autem & tanguntur, integrumque, ac solidum, coque perennius corpus habent; quam ob causam pictura veterum nullæ usquam, cum adhuc innumerabiles supersint statuæ.... Fuere aliquando statuæ insignia virtutum, nunc sunt illecebræ oculorum: nelle quali parole non mi pare, che possa intendersi di frantumi di statue, ma d’intiere; ed esservi siate conservate gemme, carnei, ed altre pietre preziose, e delle medaglie, si capisce facilmente dalla citata di lui opera, e da altre, nelle quali se l’autore si mostra oratore eccellente, insigne poeta, e saggio storico, non lo troviamo meno intelligente, e di buon gusto nella scienza antiquaria, di cui egli forse fu il primo a rendersi benemerito col farsi una raccolta di medaglie in oro, e argento, che poi donò all’imperator Carlo IV. l’anno 1354., com’egli stesso scrive in una lettera335, ripetuta dall’abate de Sade nella di lui vita336.
Venne finalmente il punto destinato dalla sovrana Previdenza di avere in quella città ristabilito il vicario di Cristo nella persona di Gregorio XI., che partì di Avignone li 13. di Settembre dell’anno 1376., mosso dalle preghiere del Popolo Romano337, dalle persuasioni di s. Brigida338, e in modo speciale di s. Catterina da Siena339; e fu in Roma alli 17. di gennaro del seguente anno340. Dopo la di lui morte ad oggetto di obbligare i cardinali a far in maniera, che il successore più non si partisse da Roma, fu fatta loro dai banderesi, che erano come i caporioni della città, una rappresentanza341, a nome del Senato, e del Popolo Romano, esponendovi fra le altre cose lo stato compassionevole della maggior parte delle chiese della città, le quali, mancandovi persino il tetto, e le porte, erano esposte alle ingiurie del tempo, e vi pascolavano gli armenti: Sed super omnia quod facies tantæ Urbis, quæ alias in summo, erat orbi universo veneratone:, adeo deformatam se videat, ut pro civitate sancta, & capite religionis dignosci non possit. Quod templa celeberrima, & sanctissima in Christianitate, augusta illa monumenta pietatis Constantini Magni, ubi Stimmi Pontifices, cum insignibus supremæ suæ dignitatis capiunt possessionem Sedis Apostolicæ, penitus neglecta maneant, sine honore, sine ornamentis, sine instauratione, & omni ex parte ruinas minentur. Quod tituli Cardinalium, illa sacra loca, quæ sacrarum reconditoria sunt reliquiarum, tot Martyrum, derelicta maneant ab illis, qui ab eorum titulis, & nominibus recipiunt honorem, & earum curam habere tenentur, tectis, portis, & muris destituantur, pecoribus exposita, herbas ad ipsa usque altaria depascentibus. In nuovo Pontefice restò prescelto di comun sentimento Urbano VI., della cui elezione pentitisi poco appresso i cardinali del partito francese, che si erano lusingati di averlo in Avignone, fu suscitato l’abominando scisma, detto per antonomasia il grande scisma d’occidente, per il quale nè Roma, nè i veri successori di Pietro ebbero pace, e tranquillità perfetta sino a Martino V. innalzato alla suprema dignità nel concilio di Costanza l’anno 1417. Essendo riuscito a questo Pontefice coll’appoggio della sua potente famiglia Colonna, e degli aderenti, di sedare sin che visse le guerre civili, e di debellare, e toglier dal mondo il bravo capitano Braccio di Montone, che per esser padrone della città, l’avea messa in tumulto per qualche anno342; cominciarono gli abitanti a fabbricare molte case, e a rifare le vecchie rovinate; il Papa a restaurare le chiese principali, che o non si erano potute restaurare colle limosine raccolte da Bonifazio IX. l’anno del giubileo 1390.343, o aveano bisogno di nuovi restauri, come la Lateranense, in cui fece anche il pavimento, che oggidì vi si vede, formato a musaico di pezzetti di porfido, di serpentino, e d’altri marmi; la chiesa della Rotonda, e quella de’ Ss. Apostoli col vicino suo palazzo, e tutte le chiese parrochiali, contribuendovi i cardinali, che ne aveano il titolo344. Varj di lui successori posti in migliori circostanze, e forniti di un maggior coraggio, eseguir poterono a beneficio della città più grandi imprese. Il Pontefice Niccolò V., d’eterna memoria, eletto l’anno 1447., colla infinita quantità d’oro, e d’argento, che raccolse nell’anno del giubileo 1450., tanto per mezzo delle gabelle, quanto per le spontanee oblazioni de’ fedeli, ebbe il comodo di dar pascolo al genio magnanimo, che avea per le scienze, e per le grandiosità, premiando letterati, e raccogliendo codici da tutto il mondo345: fabbricando di nuovo la basilica Vaticana, ed altri grandiosi edifizj ergendo in varj luoghi della città, che sono descritti dal Manetti nella di lui vita346; e fra le altre cose restaurando l’acquedotto dell’acqua Vergine, che la sola di quattordici acque, delle quali Roma una volta era ricca, avea continuato a venire per tanti secoli; ma da molto tempo era anch’essa mancata a cagione d’interramento, o frattura dell’acquedotto347.
Di gran lunga più di lui operò all’ornamento di Roma il Pontefice Sisto IV. asceso in trono l’anno 1471. Ne’ tempi avanti si erano fabbricate le case tumultuariamente sulle rovine degli antichi edifizj senza veruna regola, o misura, e senza direzione alcuna di strade, o di piazze. Pensò dunque Sisto non solo a far delle belle fabbriche, e delle nuove chiese, e a vietare sotto pene gravissime con una bolla dell’anno 1474., inserita nel vecchio Statuto di Roma stampato nell’anno 1519348, l’abuso, detestato, come osservammo, dal Petrarca, di toglier i porfidi, ed altri lavori di marmi dalle chiese antiche; siccome pensò a risarcire di nuovo l’acquedotto dell’acqua Vergine349; ma risolvette di dar qualche forma regolare alla città, facendo slargare le strade, raddrizzarle, e ammattonarle; e deputandovi un magistrato, che ne avesse la sopraintendenza350. L’Infessura nel suo Diario351 vuol dare il merito di quella riforma a Ferdinando re di Napoli, venuto a Roma li 6. di gennaro dell’anno 1475., scrivendo, che questo sovrano dopo di avere osservate le fabbriche della città, la Rotonda, la Colonna Antoniana, ed altri avanzi di antiche magnificenze, parlando col Papa Sisto, gli disse, che non era signore di quella terra, e che non la poteva signoreggiare a motivo delli porticali, delle vie strette, e per li mignani, che vi erano: che bisognando mettere in Roma gente d’armi, le donne colli mortari dalli detti mignani le avrebbero fatte fuggire; e che difficilmente si poteva sbarrare: e perciò essere necessario far gettare a terra li mignani, e li porticali, ed allargare le vie: al quale consiglio il Papa si appigliò, e lo mise in esecuzione quanto fu possibile. Noi però abbiamo la bolla, che fece Sisto per quello suo stabilimento, inserita nel detto Statuto352, in data dell’ultimo di giugno 1480., nella quale dice di essersi mosso a far ciò di sua spontanea volontà, non ad altrui richiesta; addicendone per motivo l’angustia tale delle strade anche principali, e più frequentate, che due uomini a cavallo non poteano passarvi; donde un incomodo grande ne proveniva per li cittadini, e per la gente, che portava merci, e molto più nelle immense fosse di popolo negli anni santi.
Era necessaria veramente quella generale riforma, ed era buono questo trasporto a fabbricare: ma poi qual vantaggio potea mai provenirne agli edifizj antichi o conservati, o rovinosi; e agli avanzi delle antiche statue? A ben intender la cosa, qui anzi abbiamo a prender l’epoca del loro finale devastamento. Quantunque il Pontefice Pio II. in una bolla data fuori nell’anno 1462., e riportata anche nello Statuto di Roma, inerendo alle costituzioni d’altri suoi predecessori, ad istanza de’ conservatori, de’ caporioni, e dei cittadini rinnovasse con pene grandi la proibizione ad ogni persona di rovinare in qualunque luogo, e per qualunque pretesto gli antichi monumenti, o per vendere i materiali, o per adoprarli a nuove fabbriche, o per farne calce; al che lo Statuto stesso provedeva in un capo col titolo De Antiquis ædificiis non diruendis353; pur necessariamente doveansi atterrare quanti avanzi di fabbriche antiche s’imbattevano per quella linea di strada, che volea drizzarli, o slargarli; frequentissimi trovandosene gli esempi registrati dagli scrittori delle Antichità di Roma. Qualcheduna restava inchiusa nei cortili, o nei muri delle case private, dei monisteri, e loro giardini, ove spesso facevasene mal governo. La calce si faceva ugualmente coi pezzi di travertino, che si trovavano dispersi, e levandoli anche dagli edifizj tuttochè fossero intieri; come ci attesta Poggio Fiorentino354 essere stato praticato sul principio del secolo XV. al sepolcro di Cecilia Metella, e al Tempio della Concordia fatto di marmo, che egli avea veduti ancora intiero il primo, e quasi intiero il secondo quando venne in Roma la prima volta: il che non può essere stato fatto altrimenti che con pubblica autorità, o connivenza355. Si cuocevano anche più volentieri li rottami delle statue, che erano sopra terra, o che si trovavano nel cavare fondamenti di case, e chi sa quante delle intiere si fecero a pezzi; o si cavava a quello fine nella città, e nelle vigne intorno per cavare statue sepolte fra le rovine, e trarre i marmi dai sepolcri: essendosi provato colla esperienza, che la calce fatta col marmo bianco, e coll’orientale in ispecie, era maravigliosa356.
Pare incredibile tanta barbarie singolarmente nel principio del secolo XVI. sotto il Pontificato di Leone X., allor quando le belle arti, ed il buon gusto aveano già cominciato a rifiorire per opera di quel Pontefice, colla maestría di Michelangelo Buonarroti, e di tanti altri valenti scultori, pittori, ed architetti, i quali facevano studio sugli avanzi delle antichità, e sopra le statue, che pure restauravano: e v’erano degli amanti di anticaglie, che avidamente ne facevano acquisto; qual fu tra gli altri Lorenzino de' Medici, il quale al tempo di Clemente VII. giunse persino all’eccesso di portar via in una notte tutte le teste delle statue dei prigionieri all’Arco di Costantino357. Eppure sono quelli fatti incontrastabili. Sarebbesi anche perduta l’idea giusta di molte fabbriche, se Raffaello d’Urbino, il Palladio, ed altri architetti di quel secolo non ne avessero tramandati li disegni alla posterità. Ma come piacque a Dio, scrive il De Marchi358, pervenne quel guasto all’orecchio del buono, e giudizioso Paolo III., il quale fece una provisione grandissima sopra le anticaglie, massime sopra delle statue, eziandio delli torsi, e pezzi di marmo, che si trovassero sotto, e sopra terra, di non potersene porre in fornace sotto pena della vita, e senza remissione. Quanto fosse l’amore di questo Pontefice, e la premura,
che aveva per ogni forte d’antichi monumenti, non possiamo
altronde meglio intenderlo, che dal breve, pubblicato
dal ch. sig. abate Gaetano Marini359, con cui l’anno 1534.,
primo del suo regno, diede la carica di commissario delle
antichità a Latino Mannetti cittadino romano, nel quale e
per l’amore, che portava a Roma come sua patria, e
come città sì illustre, gli raccomandava d’invigilare, che non si facesse calce colle statue; che non si portassero fuori di Roma nè statue, nè altri marmi senza una espressa licenza pontificia; che non si rovinassero gli edifizj, e non si deformassero, e togliessero alla pubblica vista coll’appoggiarvi delle nuove fabbriche; dandogli facoltà di procedere contro chi facesse all’opposto colle pene corporali, o pecuniarie, oltre la scomunica; e coll’averne cura, mantenendole nette da’ bronchi, e piante, che colle loro radici le facevano screpolare: Dilecto Filio Latino Juvenali Mannecto, Civi Romano, Familiari, & Secretario nostro Paulus PP. III. Dil. Fili Salutem &c. Inter ceteras Romani Pontificis curas, illam quoque memorandam arbitramur, ut almæ Urbi nostræ Romæ, cui sedem primo universalis Imperii, deinde sanctæ Christianæ Religionis Deus concessit, cum religionis cultu etiam memoria veterum Monimentorum conservetur. Pertinet enim ad Fidei nostræ dignitatem, & gloriam, quod illius Caput in loco & capite tanti Imperii erectum est, digne quidem cum nullum in Terris Regnum, nulla dominatio majoribus refulserit virtutibus, quas Deus sua clementia remunerans, mutato per rerum humanarum instabilitatcm Imperio, substituit religionem cælestem, ut hac fulgentius, quam terrena potestate corruscaret. Quo magis postquam omnis Idolatriæ cultus ab ipsa Urbe sublatus est, & templa Idolis dicata in Dei nostri, & Sanctorum cultum abierunt, debuissent antiqua Urbis Monimenta conservari, ut in ipsis Templis, ad æternitatem, & splendorem ædificatis, divina magnificentius, & diuturnius celebrarentur, & ab invisentibus Urbis ruinas Deo laudes redderentur, qui tantas opes, & potentiam hominibus concessisset. Verum, quod non sine summo dolore referimus, factum est, imo sit quotidie, ut præter Gothorum, Vandalorum, atque aliorum Barbarorum, & Græcorum, ipsius quoque temporis injurias, nostra incuria, atque culpa, imo etiam dolo, atque avaritia veterum decora alta Quiritum lacerentur, conterantur, obruantur, asportentur. Illa est culpa, atque segnitia sinere caprificos, & hederas, aliasque arbores, & vepreta innasci, quibus marmora, & moles findantur, mox evertantur; domunculas etiam, & tabernas vetustis molibus applicari, quæ sui ignobilitate veterum ædificiorum splendorem deforment, &, quod multo damnabilius est, etiam statuas, signa, tabulas marmoreas, atque æneas, porphyreticos, & numidicos, aliorumque generum lapides extra Urbem in alienas Terras, ac Civitates asportari. Illa autem est avaritia, ac dolus, seu crimen potius, confringi passim, & comminui hæc omnia, & in calcem coqui ad domas novas ædificandas, ut, nisi provideatur, non longissimo tempore Romam veterem Romæ requiri necesse sit. Quid? quod etiam in hujusmodi confractione, & comminutione Antiquitatis etiam interdum ossa Sanctorum Martyrum, in ruinis hujusmodi sepultorum, comminui, & violari contigit, fierique ut cum Romanæ majestatis læsione etiam sacrilegium misceatur: ad qua arcenda præter officii nostri partes, etiam privatus in Patriam amor Nos urget, ut illius, ex qua sumus orti, decus, & majestatem conservare pro viribus cupiamus. Proinde ad te, qui eadem Patriæ caritate incensus, in qua ex nobili, ac vetusta Familia natus es, & studio Antiquitatum noscendarum, & perscrutandarum, sicut audivimus, & ipsi perspeximus, semper flagrasti, multumque in eo studio profecisti, quique Nobis tua virtute, fide, ingeniique præstantia admodum carus es, nostra mentis oculos direximus, tibique hanc curam, quæ Nobis summe cordi est, ut debet, demandandam statuimus, firma spe freti te in gratiam nostram, in Patriæ decus, in tuum studium ei rei omni solertia, & vigilantia incubiturum esse. Itaque te Commissarium super hoc nostrum generalem deputantes, plenissimam tibi facultatem auctoritate Apostolica tenore præsentium concedimus intendendi, incumbendi, & curandi, ut omnia dicta Urbis, & Districtus ejus Monimenta, Arcus, Templa, Trophæa, Theatra, Amphitheatra, Circi, Naumachiæ, Porticus, Columnæ, Sepulchra, Epitaphia, Eulogia, (sic), Moles, Aquæductus, Statæ, Signa, Tabulæ, Lapides, Marmora, & denique quicquid nomine Antiquitatum, vel Monimentorum comprehendi potest, quantum fieri poterit, conserventur, atque a vepribus, virgultis, arboribus, præcipue hederis, & caprificis, omnino liberentur: neve bis nova domus, aut parietes applicentur, neu ipsa diruantur, comminuantur, confringantur, in calcem coquantur, aut extra Urbem asportentur. Contrafacientes autem pænis pecuniariis, ultra generalem excommunicationis sententiam, quam in eos post monitionem a te eis factam, in his scriptis fecimus, tuo arbitrio imponendis, & ad opus tua curationis hujusmodi applicandis, mulctandi, & puniendi, quæcumque ad hoc pertinentia, & tibi visa quibusvis nostro nomine sub pœnis tibi visis præcipiendi, unum, seu plures loco tui, ubi opus fuerit, cum simili, vel limitata facultate subdeputandi, omniaque alia curandi, perficiendi, & exequendi, quæ ad nostram hanc commissionem effectualiter adimplendam spectare cognoveris &c. Datum Romæ apud Sanctum Petrum &c. die 28. novembris 1534. anno primo. Dal canto suo molto operò quel Pontefice a vantaggio di varj monumenti. Fece disotterrare tutta la base della Colonna Trajana360, come la vediamo; e ducento case fece toglier di mezzo, con tre, o quattro chiesuole 361, in occasione del solenne ingresso in questa città di Carlo V. alli 5. di aprile 1536., per far passare liberamente questo imperatore, e quasi trionfante, entrando dalla porta s. Sebastiano, sotto gli Archi di Costantino, di Tito, di Settimio Severo, e per altre vie fino a s. Pietro in Vaticano362. Le statue cominciarono a crescere in quantità, e montare in pregio dopo i suoi ordini, e dopo ch’egli stesso raccolse nel palazzo Farnese tutte quelle, che furono trovate sotto il suo Pontificato fra le rovine delle Terme di Antonino Caracalla, il Toro, l’Ercole, la creduta Flora, la Venere Callipiga, e tante altre363. Ogni ricco cittadino ne aveva in sua casa tante o di statue, o di busti, o di bassi rilievi da farne un piccolo museo; e mano mano andaronsi formando i musei dalle case principesche, dalla Mattei, dalla Borghese, dalla Barberini, e da altre molte sino a’ nostri tempi, ne’ quali l’emo Alessandro Albani superò tutte colla sua famosa villa, e un gusto sublime eccitò per le belle arti in Roma, e in tutta l’Europa, nelle cui città principali hanno fatto a gara ne’ due secoli passati, e nel presente i sovrani, e gli uomini facoltosi di arricchire i loro palazzi, e le loro ville con qualche monumento dell’arte senza risparmio di spesa. Molte statue si raccolsero al Vaticano, passate quindi per concessione di s. Pio V. in quel numero, che descrive il Bicci364, a formare il Museo Capitolino, ove altre moltissime ne sono state aggiunte in questo secolo dai Sommi Pontefici Clemente XII., e Benedetto XIV.: e finalmente miglior ventura hanno sortito altre in numero assai maggiore, e di un pregio più Angolare o estratte dalle rovine, o raccolte da palazzi, ed altri luoghi per opera dell’immortale regnante Sommo Pontefice Pio VI. nel suo Museo Pio-Clementino, ove col merito, e colla quantità degl’insigni monumenti gareggia il decoro, e la maestà dell’edifizio, che li contiene. Diversa è stata la forte dei monumenti d’architettura, perchè diversa è la loro condizione di dover essere esposti alle ingiurie del tempo; e rovinati che sono una volta di non potersi facilmente rimettere nel primo stato. Per la qual cosa innumerabili colonne, basi, capitelli, cornicioni, ed altri pezzi di marmi sono andati a male per opera de’ padroni, che gli hanno trovati dispersi negli scavi fatti, o gli hanno acquistati in altro modo per adattarli ad altre fabbriche moderne, o per segarli, e farne altr’uso in lavori minuti365; senza che mai su di ciò vi sia stato fatto un pubblico regolamento. Gli avanzi di muri rovinati hanno dovuto cedere il campo a fabbriche moderne grandiose, come il resto delle Terme di Costantino al palazzo già Mazzarini, ora Rospigliosi, cominciato nel secolo scorso dal cardinale Scipione Borghese366; e così di altri moltissimi. Il Pontefice Sisto V. demolì, al dire del Vipera nella di lui vita, il resto del Settizonio di Severo, di cui parlammo innanzi, al quale si erano conservati tre ordini di colonne367, che Sisto impiegò alla basilica Vaticana; e il Papa Alessandro VII. ad oggetto di rendere più libera, e larga, la via del Corso, atterrò nell’anno 1661. l’Arco vicino a s. Lorenzo in Lucina, detto da Anastasio delle tre Faccicelle, come osservammo, poi con nomi diversi chiamato delli Retrosoli, e di Portogallo368, quasi intiero, illustrato in quella occasione con un lungo discorso da monsig. Marcello Severoli369.
Que’ monumenti, che non erano tanto maltrattati, e non imbarazzavano i luoghi, furono restaurati in varj tempi. Il medesimo. Sisto V. fece restaurare in piccole cose la Colonna Trajana, collocandovi sopra la statua di metallo rappresentante il Principe degli Apostoli; e vi fece fare intorno la piazza, atterrando le casupole, che le stavano troppo vicine, per comprar le quali fpefe dieci mila scudi. Maggior restauro fu fatto alla Colonna di M. Aurelio, ornata anch’essa colla statua dell’Apostolo delle Genti s. Paolo, spendendovi fra tutto altri scudi dieci mila370. I due Cavalli del Quirinale, che prima stavano avanti alle Terme di Costantino, Sisto li fece restaurare, e collocare ove si trovano al presente un poco più in quà da quelle verso il palazzo pontificio. Egli ebbe cura, anche dell’Anfiteatro, come diremo; e fece condurre a proprie spese di 300000. scudi l’acqua detta Felice dal suo nome quando era cardinale, accanto alle Terme di Diocleziano per inaffiare i colli Viminale, Esquilino, e Quirinale371. Alessandro VII. fece rivenire di marmi la Piramide di Cestio in parte scrostata372; e Clemente XII. fece rendere isolato l’Arco di Costantino, e risarcirlo. Il Panteon restaurato tante volte sin dal tempo degl’imperatori, come li è detto, e forse prima di tutti dall’imperator Domiziano373, dopo che furongli tolte le lamine di metallo dorato, che lo coprivano, dall’imperator Costante II., fu ricoperto di lamine di piombo dal Pontefice s. Gregorio III.374, risarcite poi dal Papa Martino V.375, e nuovamente da Clemente VIII.376. Fin dal secolo XVI. io trovo, che gli mancavano tre colonne dalla parte orientale del portico, due delle quali guade dal fuoco, e la terza portata via, non si fa da chi377: ma forse tutte erano perite in qualche aflalto dato all’edifizio nei descritti tempi delle guerre civili, ne’ quali serviva di fortezza378. Una ve la fece rimettere Urbano VIII. all’angolo, col capitello, in cui fu scolpita l’ape, come suo stemma, colle ali stese sopra la rosetta; e in luogo delle altre due vi furono poste due colonne trovate vicino a s. Luigi de’ Francesi, appartenenti forse alle Terme Alessandrine, d’ordine del mentovato Alessandro VII., il quale oltracciò fece sbarazzare l’edifizio dalle case addossategli ne’ bassi tempi379, fece abbassare il piano intorno, e avanti, alzatoli molto per le rovine, e abbassato poi molto più nella parte della piazza da Clemente XI., che l’ornò colla fontana, e coll’Obelisco per render così l’aspetto della facciata magnifico, e sorprendente.
Sono stati più fortunati gli Obelischi, i quali non essendo tanto maltrattati, furono in diverti tempi quasi tutti, almeno i più grandi, rialzati in varj luoghi ad ornar la città. Il lodato Sisto V., di tutti i successori di Pietro il più politico, e il più coraggioso, fece estrarre dalle rovine del Circo Massimo i due più alti, uno erettovi da Augusto, l’altro da Costanzo380, col secondo de’ quali abbellì la piazza Lateranense, e col primo quella del Popolo. Fece trasportare il Vaticano in mezzo alla piazza in quello stupendo punto di vista, che incanta lo spettatore; e uno di quelli del Mausoleo d’Augusto lo fece collocare dietro la chiesa di s. Maria Maggiore381. Quello del Circo di Caracalla è venuto per opera d’Innocenzo X. a formare altro grazioso spettacolo nella piazza Navona sotto la direzione del Bernini: altri più piccoli ne sono stati eretti in altri luoghi e pubblici, e privati della città; e l’ultimo, che ancor rimaneva sotterra al Mausoleo d’Augusto382, ora lo vediamo per comando del lodato Pio VI. elevarsi in mezzo ai gran cavalli del Quirinale383.
Scorse fin qui rapidamente le vicende di Roma dagl’imperatori a’ tempi nostri, e accennate le cagioni principali, per cui sieno periti i monumenti innumerabili, che l’ornavano; parleremo ora con qualche maggior dettaglio di due dei più celebri monumenti in parte conservati, de’ quali si è potuta trovare una serie di notizie più distinte; e sono il Mausoleo d’Adriano, e l’Anfiteatro Flavio. E’ cosa sorprendente, che di una fabbrica tanto singolare, e magnifica, quale era il Mausoleo di quell’imperatore, non si sia fatta, o non ci sia restata medaglia, che possa darci un’idea giusta della sua forma. Gli scrittori della Storia Augusta appena l’accennano di passaggio alcune volte. Procopio è il primo a dirne qualche cosa di più, trattando della guerra gotica; e come testimonio oculare con poche altre parole avrebbe potuto levarci ogni difficoltà. Quel che egli ne dice, si è, che era fatto, o vogliam dire incrostato, di gran pezzi di marmo pario, insieme commessi senza cosa veruna, che gli stringesse, intendendo forse di perni, e di calce, come fu praticato al sepolcro di Cecilia Metella384. Dalla parte inferiore era quadrato, largo, e lungo da un angolo all’altro un tiro di sasso. Nella parte superiore vi si vedevano maravigliose statue d’uomini, e di cavalli fatte dello stesso marmo. Perchè era posto incontro alla città, fin da tempo avanti era stato unito ad essa per mezzo di due muri; cosicchè avea l’apparenza di un’alta torre, che difendesse la vicina porta. Extra portam Aureliam, jactu lapidis procul a mœnibus, est Adriani Augusti tumulus, opus spectandum, ac memorabile. Nam constat ex marmore pario, aptissimeque hærent inter se lapides, quamvis nihil sit intus quo vinciantur. Æqualia sunt quatuor ejus latera: cujusque latitudo jactum lapidis æquat; altitudo muros urbis excedit. In culmine admirabiles visuntur virorum, equorumque statuæ ex eodem marmore. Et quoniam objecta urbi munitio tumulus hic esse videbatur, eum veteres mœnibus conjunxerunt duobus extructis brachiis, quæ a muro ad ipsum pertinent. Itaque speciem turris habet excelsa, & portam protegentis vicinam385. In altro luogo scrive Procopio, che Totila quando entrò in Roma la prima volta lo cinse da una parte con un piccolo muro, riducendolo più proprio per uso di fortezza386; e forse in questo recinto si ritirò Paolo capitan di cavalleria de’ Greci quando Totila riprese la città, con quattrocento cavalli, come narra il medesimo scrittore387, il quale avea già parlato388, come osservammo innanzi, di alcune delle più grandi statue fatte in pezzi, e precipitate dai soldati greci addosso alle truppe di Vitige. Con tutte quelle notizie restiamo incerti di due cose: primieramente chi fosse, che unì la Mole alla città, riducendola ad uso di fortezza; e in secondo luogo, se al tempo di Procopio vi fossero ancora intorno que’ due ordini di colonne, che si dice averla circondata; uno più grande alla parte di sotto, l’altro più piccolo nella parte di sopra. Sapendosi che Onorio389 risarcì le mura della città, congettura il Nardini390, che questo, o qualche altro imperatore abbia compreso in quelle il Mausoleo. Io piuttosto ne farei autore il re Teodorico, che le mura parimente restaurò391, come già notammo; servendo a provarlo il nome di Carcere di Teodorico, con cui fu chiamato il Mausoleo sin al secolo X., perchè vi teneva presidio questo re, secondo che scrive Teodorico a Niem392 ove parla dell’imperatore Ottone I. Esservi stato intorno un ordine di colonne dalla parte inferiore, non può metterà in dubbio sì per la tradizione antica di ciò; si perchè oggidì ancora vi sono gl’indizj della imposta della volta, che partendoli dal maschio andava a terminare sulle colonne formando il portico. Volgarmente si dice, che il primo ordine tolto ne fosse da Costantino per ornare la basilica di s. Paolo; e che le colonne dell’altro ordine più piccolo siano quelle di verde antico, che oggidì veggonsi nella basilica Lateranense a regger le nicchie nella navata di mezzo393. Questo si asserisce; ma ho già detto innanzi, che nessuno ha mai saputo darne la minima prova. Tolto questo primo ordine di colonne, che erano le principali, sembra che dovesse cadere anche il superiore: e cadendo questo, o levato anche il solo primo, in qual maniera vi sarebbero restate sulla sommità tante statue d’uomini, e di cavalli, delle quali parla Procopio394, che essendo delle maggiori non doveano stare nell’ordine superiore assai più piccolo; ma nell’altro più grande, ove erano anche più a portata di esser gettate addosso ai nemici? E di questo guasto di un monumento sì bello, e magnifico, che del resto tanto loda, e ammira, perchè Procopio non avrebbe dovuto darne qualche cenno, come parla delle statue, e dell’esser tutto di marmo pario? Sarebbe mai probabile il dire, che le colonne più grandi abbiano servito al mentovato gran portico, che dalla Mole giugneva sino alla basilica Vaticana, restaurato, e ampliato di molto dal Pontefice s. Adriano I.395; o che siano state impiegate nella stessa basilica Vaticana?
Quegli, che in seguito rese quali inespugnabile il Mausoleo con nuove fortificazioni, fu Crescenzio, di cui pocanzi narrammo la storia396; e da lui prese il nome di Torre, e di Castello di Crescenzio, che ritenne per tanti secoli promiscuamente a quello di Carcere, e Casa di Teodorico, che trovo datogli anche nel principio del secolo XV.397. L’imperatore Ottone III. allorché volle cacciarne Crescenzio, lo circondò tutto intorno con macchine altissime di abeti, e tanto lo battè, che rotta la porta vi entrò dentro, come scrive Rodolfo Glabro398; in maniera, che può credersi avervi fatto non poco danno. Aggiugne questo autore, che per l’altezza sua chiamavasi Torre fra i cieli, Turris inter cœlos; s. Pietro Damiano399, Monte di s. Angelo, Mons sancti Angeli; e Luitprando, che scrisse poco prima di Ottone, lo dice400 di un lavoro, e di un artifizio maraviglioso; e che nella sommità v’era una chiesa dedicata all’arcangelo s. Michele, detta Chiesa di s. Angelo sino al cielo: In ingressu Romanæ Urbis quædam est miri operis, miræque fortitudinis constituta munitio, ante cujus januam pons est pretiosissimus super Tiberim fabricatus, qui primus Romani ingredientibus, atque egredientibus est; nec est alia nisi per eum transeundi via. Hoc tamen nisi consensu munitionem custodientium fieri non potest. Munitio autem ipsa, ut cetera desinam, tanta, altitudinis est, ut Ecclesia, qua in ejus vertice videtur, in honore summi, & cælestis militiæ Principis Archangeli Michaelis fabricata, dicatur Ecclesia sancti Angeli usque ad cælos. Nel Martirologio di Adone alli 29. di settembre si parla di una chiesa dedicata in Roma sulla cima del Circo da un Papa Bonifazio al principe della milizia celeste poco dopo la sua apparizione sul Monte Gargano: Sed non multo post Romæ venerabilis etiam Bonifacius Pontifex Ecclesiam s. Michaelis nomine constructam dedicavit in summitate Circi cryptatim miro ordine arctissime porrectam; unde etiam idem locus in summitate sua continens Ecclesiam Inter Nubes situs vocatur. Sono ottime le ragioni del card. Baronio, seguito da monsig. Giorgi, nelle note a questo luogo di Adone, dal Nardini401, e da monsig. De Vita402, per provare, che questa chiesa sia la stessa che quella eretta sul Mausoleo, di cui parlano quegli altri scrittori: e che il Papa Bonifazio sia il III. o il IV. o il V. di tal nome, i quali succedettero nella sede di Pietro tutti e tre quasi immediatamente a s. Gregorio il Grande, al tempo del quale per segno, che dovea cessare la pestilenza, dicesi veduta altra apparizione dell’arcangelo sul Mausoleo403.
Più curiosa è la descrizione, che dà del Mausoleo PietroManlio404, che scrisse ai tempi d’Alessandro III., verso l’anno 1160., parte sulla fede di un’omilia di s. Leone, che io non trovo neppur accennata fra le opere stampate di questo s. Pontefice; e parte non saprei con qual fondamento. Prima lo paragona con altra fabbrica poco distante, che chiama il Terebinto di Nerone, dicendo che amendue aveano due gironi, vale a dire due torri, che gironi si dicevano ne’ bassi tempi405; e volea dire della parte superiore, e della inferiore, ove erano i portici, che essendo rotonde le paragona a due torri: poi siegue a dire, che tutta la Mole, cui dà il nome di Tempio, e Memoria d’Adriano, era di mirabile grandezza, coperta tutta di marmi, e ornata di varie istorie; intorno circondata di cancelli di bronzo con pavoni dorati, e toro di bronzo, de’ quali pavoni due erano nel cantaro, o vaso del Paradiso, ossia l’atrio di s. Pietro406, ora nel giardino di Belvedere. Nei quattro angoli di sotto erano quattro cavalli di bronzo dorato, e da ciascuna delle quattro parti una porta di bronzo: nel mezzo del giro, ossia nella torre superiore, era il sepolcro di Adriano di porfido, trasferito poi al Laterano per sepolcro d’Innocenzo II., e il coperchio era nel suddetto Paradiso sopra il sepolcro del Prefetto: In Naumachìa juxta ecclesiam s. Maria in Transpadina est sepulcrum Romuli, quod vocatur Meta, quæ fuit miro lapide tabulata, ex quibus opus graduum s. Petri peractum fuit. (Hæc) habuit circa se plateam tiburtinam viginti pedum, cum cloaca, & floribus suis. Habuit quoque circa se Terebynthum Neronis, tantæ altitudinis quantum est Castellum Adriani imperatoris, miro lapide tabulatum: quod ædificium rotundum fuit (cumi) duobus geronibus sicut Castellum; quorum labia erant cooperta tabulis lapideis pro stillicidiis, & juxta hoc ædificium crucifixus fuit B. Petrus Apostolus. Est & Castellum, quod fuit Memoria Adriani imperatoris, sicut legitur in sermone s. Leonis Papa de festivitate s. Petri, ubi dicit: Memoria Adriani imperatoris, miræ magnitudinis Templum constructum, quod totum lapidibus coopertum, & diversis historiis est perornatum: in circuitu vero cancellis æneis circum septum, cum pavonibus aureis, & tauro æneo: ex quibus (pavonibus) duo fuerunt de illis, qui sunt in canthtero Paradisi. In quatuor partes Templi fuerunt quatuor caballi ænei deaurati, in unaquaque fronte porta, ænea: in medio giro fuit sepulcrnm porphyreticum, quod nunc est Lateranis, in quo sepultus est Innocentius Papa II., cujus coopertorium est in Paradiso B. Retri super sepulcrum Præfecti. Io non so quanta fede meriti tutto quello racconto, almeno per gli ornati del Mausoleo; sebbene l’abbia meritata presso gli scrittori, che sono venuti dopo di lui, i quali parola per parola lo hanno trascritto, come fece l’autore mentovato De mirabilibus Romæ presso il P. Montfaucon407, che neppur fo se debba dirsi lo stesso coll’anonimo scrittore del secolo decimoterzo, di cui porta le parole il Venuti408. Una cosa sola vi aggiugne quello scrittore, cioè, che le porte di bronzo ancora vi fossero al tempo suo: Inferius portæ æreæ, sicut nunc apparent, habet monumenta.
Dai tempi di Crescenzio in poi la Mole, come fortezza, fu molte volte assediata, battuta, e presa, verosimilmente con danno di essa; e alla fine fu rovinata barbaramente dai Romani nel tumulto suscitato dopo l’elezione del Papa UrbanoVI. l’anno 1378. Vi era allora un capitano, o castellano francese, che la custodiva per favorire l’antipapa Clemente, e i cardinali oltramontani del di lui partito. Per vendicarsi del Popolo Romano loro contrario, questo capitano inquietava la città, e la tormentava con dardi, e cannonate, che danneggiavano le vicine case; alcune delle quali andarono anche a fuoco. I Romani all’incontro per difendersi, e cacciar via i loro nemici dalla fortezza, la cinsero d’assedio, che vi tennero quali per un anno intiero; battendola con macchine, e con cannonate sinché il castellano per mancanza di viveri fu corretto a darli vinto, e capitolare la resa. Tanta fu la loro rabbia in quel punto, che risolvettero di atterrare affatto la Mole, perchè mai più nessuno potesse ritirarvisi, e recar danno alla città409. Ne tolsero tutti i marmi, che v’erano rimasti nel quadrato inferiore, e nelle parti di sopra, egli sparsero per lastricarne le piazze; lasciandovi appena quel nudo scheletro di peperini, chiamato il maschio, che non poterono intieramente distruggere. Ce ne dà il ragguaglio Teodorico a Niem, che stava in Roma, e osservò che v’erano dei sotterranei a guisa di gran condotti, fatti di mattoni, per li quali poteano camminare due uomini a cavallo: Alemanni, scrive Teodorico410, tunc temporis aliqualiter mitius per eosdem Romanos, quam cœteri tractabantur; & interim etiam capitaneus dicti Castri sancti Angeli in Urbi, qui erat Gallicus, & pro ipsis Clemente, & suis cardinalibus ultramontanis dictum Castrum custodivit, Romanis, & curialibus ipsis de dicto Castro guerram movit cum sagittis, & bombardis ad ipsam Urbem vehementissime sagittando, multas cum eisdem bombardis, seu pixidibus æneis411 domos concussit, & prope dictum Castrum consistentia ædificia plurima ignis incendio concremavit, & sic passim multiplicata fuerunt pro tunc mala in Urbe prædicta . . . . Tandem vero412 post longam ejusdem Castri sancti Angeli obsidionem, scilicet quasi per annum integrum, dicti Romani prædictum Castrum ab eodem capitaneo, seu illius custode per picta receperunt, qui multum viriliter illud quousque sibi deficerent victualia defensavit; parvipendens impugnantium machinarum, & bombardarum crebros ictus. Istud Castrum habuit plures meatus subterraneos opere valde pulchros, & adeo latos, quod duo equitare in eis, aut quinque pedibus simul ire poterant, & longe protendebantur ab eodem Castro, & erant facti de lateribus satis subtilibus, & pulchris, quorum quidem meatuum aliqui durante prædicta obsidione reperti, & detecti fuerunt, ut egomet vidi, & de hoc omnes videntes mirabantur. Quo quidem Castro habito Romani muros ejus ex quadratis lapidibus marmoreis albissimis valde magnis compositos, & etiam muros archi, seu carceris dicti Castri ex similibus lapidibus factos diruerunt, ac plateas in ipsa Urbe in diversis locis ex illis reformarunt; tamen dictum Castrum non potuerunt omnino destruere. Poggio Fiorentino, che visse alcuni anni dopo, parlando della stessa rovina, scrive413, che vi restava ancora salva l’iscrizione antica sopra la porta, che ottima cosa avrebbe fatto a riportarla: Quod Castrum sancti Angeli vulgo dicunt, magna ex parte Romanorum injuria, licet adhuc titulus supra portam exstet integer, disturbavit; quod certe funditus evertissent (id enim publice decreverant), si eorum manibus pervia absumptis grandibus saxis reliqua moles exstitisset.
Ma poiché era necessarissima quella fortezza per l’opportunità del luogo a tenere in dovere i Romani, ne’ quali mai non cessava quello spirito sedizioso, e tumultuario contro dei magnati, e degli stessi Pontefici; Bonifazio IX., che cominciò a governare la chiesa alli 18. di ottobre dell’anno 1389. con delle molestie per parte del popolo, fu consigliato a risarcirla quanto era possibile con opera laterizia sopra gli antichi avanzi, come seguono a dire Teodorico, e l’Infessura414. Niccolò V. vi accrebbe di poi le fortificazioni, e alcune camere, e sale nella sommità415; come dalle armi, e da iscrizioni si prova, che la restaurasse anche Alessandro VI. l’anno 1495.416. In qualcheduna di queste, o altre camere, si teneva la polvere per provisione dei cannoni, che difendevano la Mole; e siccome è avvenuto a tante altre fortezze, alli 29. di ottobre dell’anno 1497. verso le ore 14. in giorno di domenica, vi cadde sopra un fulmine, che attaccando fuoco alla medesima, fece saltare per aria quasi tutta la parte superiore della fabbrica, con un grandissimo angelo di marmo, che v’era stato posto sulla cima, gettandone i pezzi ad una gran distanza nella parte del borgo di san Pietro, e di qua dal ponte alla chiesa di san Celso; e recandovi feriti circa settanta degli uomini, che guardavano la fortezza. Cosi scrive Giovanni Burcardo maestro di ceremonie pontificio417: Dominica vigesima nona octobris circa horam decimam quartam fulgur unico ictu combussit turrim superiorem, & principalem Castri sancti Angeli pulveribus in en existentibus pro munitione, & totam superiorem partem ipsius turris cum magnitudine mœnium, & Angelo grossissimo marmoreo hinc ad magnam distantiam perduxit, partem ad burgum s. Petri, partem prope ecclesiam s. Celsi. Vulnerati sunt circa septuaginta personæ, ex custodibus dicti Castri, nullus tamen mortuus. A quello danno rimediò Paolo III., facendovi magnifici ornamenti, e comodi; e Urbano VIII. finalmente la ridusse allo stato, che conserva a’ tempi nostri, circondandola di nuovi bastioni, di baluardi, e fossi, e provedendola di molti cannoni; colla spesa rispettabile di 300000. scudi. Nello scavare per li fossi vi furono trovate delle statue, e fra le altre il celebre Fauno, che il Papa diede alla sua famiglia Barberini418; come ve ne erano state trovate delle altre al tempo d’Alessandro VI. In luogo dell’angelo sbalzato per aria, un altro ve ne fece in marmo Raffaello da Monte Lupo al tempo di Paolo III.419; gettato poscia di metallo al tempo del Papa Benedetto XIV. da Francesco Giardoni sul modello di Pietro Wanschefeld fiammingo.
Intorno all’Anfiteatro Flavio, cominciato da Vespasiano420, e compito da Tito suo figlio421, detto poi volgarmente Colosseo fin dall’ottavo secolo, come si ha da Beda422, che fiorì sul fine del settimo, e sul principio dell’ottavo, e da Anastasio nella vita di Stefano IV. fatto Papa l’anno 768.423, o per la statua colossale di Nerone, che vi fece trasportare avanti Vespasiano; o perchè l’edifizio potesse dirsi colossale per la grande altezza sua, come crede il Mazochi424, e il Maffei425; intorno ad esso dico ha scritta un’operetta il Marangoni, in cui ha radunate moltissime notizie riguardanti il suo materiale, e la sua storia profana, e sacra dalla sua edificazione sino al principio di questo secolo, che potranno vedere a loro comodo quelli, che ne avessero il piacere. Noi ci tratterremo qui soltanto a dir qualche cosa delle sue rovine, e a farvi sopra qualche osservazione. Pretto Capitolino s’incontra la prima volta fatta menzione di restauro fattovi dall’imperatore Antonino Pio426. Ai tempi di Macrino, che fu creato imperatore l’anno 219. dell’era volgare, e regnò un anno, un mese, e ventotto giorni, celebrandosi nell’Anfiteatro le feste Vulcanali in onore di Vulcano, per alcuni fulmini, che caddero nella parte superiore, vi si attaccò il fuoco, probabilmente al legname, che vi farà stato, come pensa il Maffei427, che lo danneggiò moltissimo, di modo che per qualche anno non fu possibile rappresentarvi alcun giuoco428. Cominciò a riparare questo danno Antonino Eliogabalo, figliuolo e successore di Macrino429, e lo terminò Alessandro Severo430. Di un altro fulmine cadutovi se ne parla in una legge dell’imperator Costantino nel Codice Teodosiano431. Si ha fondamento di credere, che al tempo del re Teodorico fosse ancora intiero, come dicemmo; essendovisi allora rappresentati i giuochi; e non parlandosi di sue rovine da Cassiodoro, che parla di quelle di altre fabbriche, e del Teatro di Pompeo. Laonde presero equivoco Flavio Biondo432, Lucio Fauno433, e il Martinelli434, che lo differo già in parte rovinato a quel tempo; non avendo osservato, che la lettera di Teodorico stesa da Cassiodoro435, su cui essi fondano la loro opinione, parla delle rovine di un Anfiteatro di Catania.
Quelle stesse cagioni, che hanno contribuito a rovinare le tante altre fabbriche finora descritte, vale a dire l’abbandono del popolo, e le ingiurie del tempo, avranno contribuito a poco a poco a deformarlo almeno in quelle parti più minute, e meno resistenti. Il grosso della fabbrica ha resistito per molti secoli appresso. Beda al luogo citato lo fa supporre ancora intiero con quella sua celebre fentenza: Quamdiu stat Colysæus, stat & Roma: quando cadet Colysæus, cadet & Roma: quando cadet Roma, cadet & Mundus. La prima rovina nei portici australi crede il Marangoni436, che possa esservi stata fatta al tempo del mentovato Guiscardo; ma io non trovo ragioni da confermarla. Forse prima di questo tempo già ne era in possesso la famiglia Frangipane, che lo tenne per molto tempo appresso, secondo le memorie raccolte dal Panvinio nella citata Storia di quella famiglia, e ripetute dal Marangoni437. Innocenzo II., di cui parlammo innanzi, favorito dai Frangipane, vi si rifugiò nel 1130.438; sul fine del cui Pontificato ne furono cacciati i Frangipane, siccome anche dalle altre loro torri, e case nel tumulto suscitato dal popolo per rimettere il Senato439; e poi vi rientrarono poco dopo. Si ritirò nel Colosseo anche Alessandro III. nel 1165.440. All’anno 1244., scrive il Marangoni dopo il Panvinio, abbiamo le seguenti notizie. Federico II. imperatore, che perseguitò tutti i Pontefici, e la chiesa, e più volte pose in iscompiglio la città di Roma, trovandosi in Acquapendente, fatti chiamare a sé Enrico Frangipane, e Giacomo di lui figliuolo, li costrinse a cedere ad Annibaldo suo favorevole, per titolo di permuta, la metà del Colosseo, col loro contiguo palazzo, e tutte le pertinenze all’uno, e all’altro spettanti; estorcendone anche il giuramento, di non contravenire a tal cessione, o permuta. Ma essendo poscia stato eletto Pontefice Innocenzo IV., gli stessi Frangipane lo supplicarono dell’assoluzione dalla scomunica, e dal giuramento, come dell’annullazione di simil contratto, fatto solamente per timore di Federico. Quindi il Papa con due brevi apostolici, l’uno dato a’ 16., e l’altro a’ 18. dello stesso mese di aprile, e del medesimo anno 1244. (quali si riportano stesamente dal Panvinio, copiati dal registro Vaticano, ed anche in parte dal Rainaldo al detto anno, numero 19.) diretti a’ sopranominati Enrico, e Giacomo, assolvendoli dalla scomunica, dichiarò nulla la concezione suddetta, esprimendo di più la ragione; poichè il Colosseo, e il palazzo annessovi erano di proprietà della Sede Apostolica, e che dalla medesima i loro progenitori ottenuti gli avevano: Nos provide attendentes, quod prædicta juris Ecclesiæ, Romanæ, ac proprietatis existerent, & illa vos, ac progenitores vestri ab eadem Ecclesia tenuistis, &c.; onde i Frangipane ne ritornarono al primiero possesso. E quanto alle abitazioni, Segue a dire il Marangoni, fatte dai Frangipane dentro al Colosseo, si riconoscono fino al presente le muraglie, che occupano, e dividono fra gli archi citeriori, e gl’interiori sopra le antiche scalinate, al numero di tredici verso il Laterano; onde il circuito, era molto considerabile: ed è da crederli, che fossero anche similmente chiusi quelli dell’ordine inferiore corrispondenti. In fatti nel pavimento de’ superiori si scorgono aperture fatte per poter discendere con scale alle parti inferiori, ed anche si veggono nella stessa parte superiore chiusi i pilastri delli due portici nel mezzo, che formano due ambulacri sino ove si vede tagliato tutto l’ordine dell’elevazione esteriore.
In appresso i Frangipane cessarono di possedere il Colosseo, che tornò in dominio degli Annibaldi, i quali lo tenevano l’anno 1312., quando dall’imperatore Enrico VII. furono obbligati a cederlo a lui co’ palazzi delle milizie, le munizioni, e la torre di san Marco441. In ultimo fu posseduto dal Senato, e dal Popolo Romano. Crede il Marangoni442, che ciò avvenisse al principio che i Papi stavano in Avignone. Fin dall’anno 1332. pare che più non l’avesse alcuna famiglia; e che la fabbrica fosse in qualche stato di conservazione: imperocchè il Senato, e il Popolo Romano vi fece fare un giuoco, o caccia di tori descritta da Lodovico Monaldeschi443; in cui molti de’ nobili, che giuocavano, vi restaron morti. Una terza parte ne concedettero i nuovi padroni all’Ospedale di Sancta Sanctorum l’anno 1381., come prova con autentici documenti dell’archivio di quest’Ospedale lo stesso scrittore; dal qual tempo circa si veggono dipinte sull’arco verso s. Giovanni in Laterano le armi del Senato, e di quella Compagnia, che è l’immagine del Salvatore sopra un altare in mezzo a due candelieri; ed altre tanto in pittura, quanto scolpite sulla pietra si veggono nel prospetto della parte di esso verso l’Arco di Costantino. Inclina il Marangoni a credere, che questa Compagnia facesse in qualche tempo l’Ospedale negli archi superiori chiusi, come dicemmo, dalla famiglia Frangipane; e aggiugne la notizia comunicatagli, benchè non abbia potuto trovarne documento, dal più volte citato Valesio, cioè che negli stessi archi vi fu stato anticamente un monistero di monache. Si ha bensì di certo dal cavalier Domenico Fontana444, che il Pontefice Sisto V. destinasse di rendere il Colosseo abitabile per istabilirvi l’arte della lana; e che perciò intorno l’arena di esso nel piano si ergessero logge coperte, con botteghe, e sopra di elle delle stanze per abitazione de’ lavoranti; e per uso degli abitanti, e delle fontane necessarie al lavoro dell’arte, farvi condur l’acqua in molta abbondanza, ed anche per un fonte nel mezzo. Il Fontana ne fece il disegno, e già Sisto avea dati scudi i 15000. ai mercanti perchè incominciassero ad introdurre l’arte; e avea principiato a far levare tutta la terra, che stava intorno alla fabbrica con molto impegno; di maniera che se il Pontefice viveva un altr’anno, l’opera farebbe stata eseguita. Ma torniamo alle sue rovine.
Sembra chiaro dalle mentovate armi, che vi sono scolpite, e dipinte, che prima dell’anno 1381. già fosse rovinato in massima parte il lato, che guarda l’Arco di Costantino, e s. Gregorio; essendo state fatte quelle armi, come insegna di dominio sopra gli archi interni del primo corridore: il che fa vedere, che quelli archi fossero considerati come esteriori, in mancanza del primo ordine, e come i primi esposti allo sguardo di chi si accosta all’edifizio. Chi sa che l’orribile terremoto, di cui parlammo innanzi, che nell’anno 1349. rovinò tante altre antiche fabbriche grandiose al dire del Petrarca, non abbia fatta precipitare in parte anche questa? Mi viene assicurato, che esista nella biblioteca Vaticana una lettera del vescovo d’Orvieto legato in Roma per il Papa Urbano V. dopo l’anno 1362., a quello medesimo Pontefice, in cui si dica dallo scrivente, di avere esposte in vendita le pietre del Colosseo; e di non essersi trovato altro compratore, che la famiglia Frangipane, la quale avrebbele comprate per il suo palazzo445. Ho fatto qualche diligenza in quella biblioteca per trovare questo documento; ma senza un particolare indirizzo non mi è stato possibile. Anche il celebre signor abate Barthelemy446 ci attesta di essergli stata comunicata quando fu in Roma nell’anno 1755. altra lettera manoscritta della stessa biblioteca, appartenente al secolo XIV., ma senza neppur darci verun indizio da ritrovarla, nella quale si parli di un progetto fatto tra i capi delle fazioni della città; e tra i diversi articoli si pattuisse, che il Colosseo sarebbe stato comune ai diversi partiti, e sarebbe stato lecito a tutti di torne delle pietre: Et præterea, si omnes concordarent de faciendo Tiburtinam, quod esset commune id quod foderetnr: e forse vogliono dire per fare calce con quei travertini; come può confermarcelo il lodato Poggio Fiorentino, il quale scrisse, come dicemmo, al principio del secolo XV., lagnandosi appunto della stoltezza dei Romani, che la maggior parte di quella fabbrica aveano consumata in farne calce: Ob stultitiam Romanorum majori ex parte ad calcem redactum447. Tutti poi convengono gli antiquari, che in seguito molti travertini tolti da esso, siano stati adoprati dal Pontefice Paolo II. al palazzo di s. Marco; dal card. Riario al palazzo della Cancellaria; dal card. Farnese, che fu Paolo III., al suo in Campo di Fiore448; non già rovinando a posta gli archi; ma più probabilmente servendosi dei caduti, come bene ragiona il Marangoni contro il Martinelli449. Ultimamente essendo caduto un arco del medesimo nel second’ordine verso s. Gregorio per cagione del terremoto straordinario succeduto nell’anno 1703., moltissimi furono i travertini, che colla permissione del Papa Clemente XI. furono impiegati in più fabbriche, e specialmente nel porto di Ripetta, e sua scalinata.
L’altro guasto, che vediamo fatto al Colosseo, è quello dei tanti buchi, i quali se non lo hanno rovinato, lo hanno indebolito, e deformato assaissimo. Sei diverse opinioni sono siate messe fuori per trovarne la ragione, e il tempo in cui siano stati fatti, e chi debba dirsene autore. Monsig. Suaresio, che le riferisce nella citata sua opera scritta su questi buchi, non sa a quale attenersi, e crede meglio di tutte farne una, egualmente colle altre messa in dubbio dal Marangoni450. Io non voglio perder tempo ad esaminarle tutte partitamente dopo che ho confutata quella, che egli attribuisce ai Barbari; bastandomi di aver bene considerata la fabbrica, e i buchi stessi per dirne qualche cosa con fondamento. Di due sorti dunque sono essi. La prima dalla sua forma, dal luogo, e dalla disposizione, e simmetria con cui sono fatti i buchi, si scorge ad evidenza stata fatta per appoggiarvi dei legni da sbarrare le arcate, o per difendervisi, come era costume in tempo delle guerre civili di mettere le sbarre alle case, e alle strade per combattervi451; o per farvi delle divisioni di camere, o per uso di qualche arte, e alcuni forse per uso antico degli stessi giuochi, o in occasione di essi; come può congetturarsi da altri simili nell’Anfiteatro di Pola, che non può dirsi mai stato abitato ne’ bassi tempi come il Colosseo. La seconda sorta di buchi in numero assai maggiore, comune più, e meno a tutte le altre fabbriche di marmo, e di pietra, ov’erano spranghe, dentro Roma, e fuori, come all’Arco di Susa in Piemonte452, all’Anfiteatro di Verona453, a quello di Pola, e a quello di Nimes, è fatta senza dubbio per estrarre dalle pietre i perni, o spranghe postevi per tenerle strette. Chiunque ha occhi vede, e può toccar con mano la corrispondenza di questi buchi al luogo del perno; e se qualcuno se ne trova in fallo, non deve farci dubitare degli altri, come ha preteso il Marangoni. I perni erano o di ferro, o di bronzo. Dei primi tolti dalle pietre del Colosseo in occasione di rovine, o a posta, ne ha veduti alcuni il P. Eschinardi454, e il lodato Barthelemy455; come ne ha veduti di questi, e di quelli di metallo il Ficoroni456. Secondo il cavo, che si vede in fondo ai buchi, il perno era quadrato: grosso circa tre once nella parte, che entrava nella pietra di sotto verso l’angolo; e circa due once, o poco meno alla parte di sopra: l’altezza era due in tre once per ogni parte. Erano posti dentro al sasso circa un palmo dalla parte di fuori, coll’avvertenza di lasciare nella pietra di sotto, prima di mettervi sopra l’altra, un piccolo canaletto corrispondente al di fuori, per potervi infondere il piombo da saldare il perno, e difenderlo dalla ruggine principalmente se era di ferro; benché lo stesso piombo si veda in qualche luogo corroso, e quasi calcinato. Ve se ne osservano molti di quelli canaletti, e in alcuni vi si vede ancora del piombo. Il buchetto lasciato al di fuori nella commessura poteva anche servire per piantarvi una leva da sollevare la pietra di sopra, bisognando.
La cosa veramente difficile è di ritrovare il tempo preciso, in cui sia stata fatta una quantità sì grande di buchi, molti de’ quali sono in luoghi alti molto, ed incomodi. Osservando bene la fabbrica del Colosseo, ho notato, che alcuni devono essere stati fatti in tempi molto remoti, voglio dire prima che i Frangipane ne avessero il possesso; primieramente perchè non è verisimile, che gli stessi tanto ricchi, e potenti padroni gli abbiano fatti fare per quel vile guadagno; e molto meno che gli abbiano lasciati fare da que’ miserabili guastatori di monumenti, che facevano professione di cercare piombo, ferro, e metallo, per trarne utile colla vendita; e secondariamente perchè ho veduto, che i buchi si trovano pure in que’ luoghi, su de’ quali sono fabbricati, o appoggiati i muri fattivi da quella famiglia per abitarvi; cosicchè devono essere stati fatti prima del nuovo muro. Altri vi sono stati fatti dopo che quella famiglia più non ne era in possesso, al tempo che i Papi stavano in Avignone, e dopo essere caduta gran parte del portico esteriore; perocchè si vedono nei luoghi delle rovine, ove non potevano mai farvisi stando nel suo essere l’edifizio; come infatti non si vedono in quegli stessi luoghi dall’altra parte, ove è conservato, vale a dire nelle piante dei pilastri, che corrispondono alle volte rovinate.
Per quanto abbiamo dagli antichi scrittori, si può dire con sicurezza, che siccome sin dal tempo degl’imperatori, e prima, trovatisi esempi di gente iniqua, che per capriccio, o per far dispetto a qualcheduno guastava i monumenti sepolcrali, e rompeva le statue poste in pubblico, o le sporcava457; così vi fossero degli oziosi, e mal viventi, i quali andassero a rubare i metalli dagli edifizj, che esteriormente ne erano adornati; fracassassero anche statue di metallo già dedicate, o poste in pubblico458; e mandassero in rovina i sepolcri459 di coloro, che aveano avuta la vanità, o la pazzia di farsi tumulare con gioje, oro, argento, e vesti preziose460 contro le leggi, che lo vietavano461. Quando gl’imperatori si furono stabiliti in Costantinopoli, in Roma crebbero le miserie, e gli oziosi; e mancò il commercio colle estere nazioni, dalle quali si aveano i metalli. Si occuparono allora molti a cercare tutto ciò, che poteva raccoglierli di piombo, ferro, e bronzo dalle fabbriche rovinose, con pubblica permissione, o tolleranza almeno delle leggi, e dei magistrati; come possiamo argomentarlo da ciò, che riferisce Ammiano Marcellino462 del mentovato Lampadio prefetto di Roma nell’anno 367., il quale dovendo per l’ufficio suo restaurare delle vecchie fabbriche, e alzarne delle nuove, mandava apparitori a trovare quelli, che raccoglievano que’ metalli, sotto pretesto di comprarli; e loro li faceva togliere senza pagamento, correndo per ciò rischio più volte di essere ucciso: Ædificia erigere exoriens nova., vel vetusta quidam instaurans, non ex titulis solitis parari jubebat impensas: sed si ferrum quærebatur, aut plumbum, aut æs, aut quidquam simile; apparitores immittebantur, qui velut ementes diversa, raperent species nulla pretia persolvendo: unde accensorum iracundia pauperum damna destentium crebra ægre potuit celeri vitare digressu. E convien dire, che non solo i privati, ma i prefetti medesimi, ed altri magistrati o per avarizia, o per risparmio levassero gli ornamenti di metallo dagli antichi monumenti sebbene conservati; poiché si ha nel Codice Teodosiano463 una legge emanata nell’anno 398., in cui imperatori Arcadio, e Onorio loro proibiscono un tale abuso: Nemo Judicum in id temeritatis erumpat, ut inconsulta Pietate nostra, novi aliquid operis existimet inchoandum, vel ex diversis operibus æramen, aut marmora, vel quamlibet speciem, quæ fuisse in usu, vel ornatu probabitur civitatis, eripere, vel alio transferre sine jussu tuæ Sublimitatis audeat. In seguito che i Barbari spogliarono Roma d’oro, e d’argento, e di qualche lavoro di metallo, tormentando persino la gente per obbligarla a manifestare i supposti tesori464, crebbe molto più il bisogno del bronzo principalmente, e la mania di levarlo dai pubblici monumenti. Teodorico permise ad ognuno, o piuttosto confermò l’uso di appropriarsi qualunque pezzo di metallo, che fosse caduto dagli edifizj, o altro, che più non servisse, vietando nello stesso tempo di toglierlo dai monumenti, ove era ancora al suo luogo per ornamento465. Nulladimeno facendosi sempre più strage e del bronzo, e del piombo dovunque si trovava466, togliendolo dagli Archi trionfali, e da ogni sorta di edifizio, rompendo di notte anche le statue, che a quel tempo duravano esposte in gran numero pubblicamente; quel sovrano, che osservammo tanto impegnato pel decoro della città, deputò un magistrato detto Comitiva Romana467, al quale diede speciale incombenza d’invigilare contro di quegli scellerati, che profittavano delle tenebre notturne per fare più sicuramente quel guasto. Cassiodoro ci ha conservata468 la formola d’investitura, che fu spedita per tal uopo a quel magistrato; da cui rileviamo quanto fosse ancora grande in quel tempo il numero delle statue, ed altri lavori di metallo, che ornavano la città: Si clausis domibus, ac munitis insidiari solet nequissimum votum; quanto magis in Romana civitate videtur illici, qui in plateis pretiosum reperit, quod possit auferri? Nam quidam populus copiosissimus statuarum greges etiam abundantissimi equorum, tali sunt cautela servandi, quali & cura videntur affixi: uti, si esset humanis rebus ulta consideratio, Romanam pulchritudinem non vigilia, sed sola deberet reverenda custodire. Quid dicamus marmora metallis, & arte pretiosa; quæ si vacet eripere, rara manus est, quæ possit a talibus abstinere? Ibi sunt exposita, qua facere potuerunt divitia generales, & labor mundi. Quem inter ista deceat esse negligentem? Quis in causa tali patitur esse venalis, quando gravissumum damnum potest fieri in pulchritudine singulari? Quare per indictionem illam Comitivæ Romanæ cum privilegiis, & justis commodis suis, tibi concedimus dignitatem, ut fideli studio, magnoque nixu quæras improbas manus: & insidiantes aut privatorum fortunis, aut moenibus ad tuum facias venire judicium; & rei ventate discussa congruam subeant de legibus ultionem. Quia juste tales persequitur publicus dolor, qui decorem veterum fœdant detruncatione membrorum, faciuntque illa in monumentis publicis, quæ debent pati. Officium tuum, & milites consuetos noctibus potius invigilare compelle: in die autem civitas seipsa custodit. Vigilans enim studio non indiget alieno. Furta quidem persuadent: sed tunc præsumptus facile capitur, cum custos minime supervenire sentitur. Statuæ nec in toto muta sunt: quando a furibus percussa, custodes videntur tinnitibus admonere. Proinde diligentiam tuam devotione laudabili sentiamus; ut cui nunc laboriosos fasces injungimus, securos honores postea conferamus. Dovrà però sorprendere, che Teodorico con tutto il genio, che inoltrava per le antichità, ordinale che venisse tolto dai sepolcri l’oro, e le altre cose preziose, come quelle che non giovavano ai morti, e poteano servire ai viventi469: imperocchè sebbene comandarle, che ciò si facesse con tutta la diligenza per non rovinare i monumenti; pure quanti di essi non doveano andar a male?
Nelle calamità, che sopravennero a Roma sul fine del secolo VI., e nella quasi totale indipendenza, di cui cominciarono a godere i cittadini, dai magistrati, dagl’imperatori, e dai Sommi Pontefici, la noncuranza dei monumenti in bronzo farà stata uguale a quella per il materiale degli edifizj, che quasi tutti a poco a poco andavano in rovina; e così fomentavano l’avidità di far guadagno col farne calce, o col metallo, che potea ricavarsene. Quello che delle statue, ed altri lavori avanzò alla rapacità dell’imperator Costante II., perì quasi tutto prima del secolo X., in quei secoli di miseria universale, e di barbarie in ogni genere di arti, di lettere, e di costume, in cui la città ad altro non pensava, che a consumare, e divorar sè stessa. Gli Archi trionfali, e le altre fabbriche generalmente, che vennero in potere de’ privati, dai quali furono ridotte ad uso di case, e di fortezze, più non aveano sopra le statue d’uomini, di cavalli, ed altri ornamenti di metallo, contro delle quali già si era cominciato a infierire al tempo di Teodorico, non orlanti i di lui rigori, e providenze. Che difficoltà’ avremo a credere, che sterminati i monumenti grandi, gli oziosi, e i poveri si applicassero con pazienza a portar via le lettere delle iscrizioni, a scarpellare i muri per levarne i perni, e a disotterrare i condotti di piombo, come fu fatto allo stesso gran condotto, che portava un ramo del’acqua Sabbatina alla basilica del Principe degli Apostoli nel Vaticano prima del Pontificato di s. Adriano I., che dicemmo averlo poi restaurato?470. E’ più verosimile, che si facesse un tal lavoro in que’ tempi, anziché nei secoli appresso, nei quali coloro, che erano padroni delle fabbriche, ne aveano cura: quale era per esempio la Colonna di Marco Aurelio Antonino, e quella dì Trajano, che dentro hanno amendue que’ buchi, e furono la prima in proprietà del monistero di s. Silvestro in Capite; e l’altra della chiesa di s. Niccolò postavi accanto, della quale aveva eziandio premura speciale il Senato Romano, come osservammo, nel secolo duodecimo, allorché proibì sotto pena della vita, e della confiscazione de’ beni di farvisi alcun danno. Il bisogno del metallo era anche maggiore nel VII. secolo, e ne’ due, o tre seguenti, perchè allora si moltiplicarono in Roma le chiese, e i monisteri a un numero grandissimo; e s’introdusse l’uso generale delle grandi campane per le chiese medesime471.
Molti lavori di metallo sono stati salvati sino a questi ultimi secoli quasi per miracolo. Alla chiesa de’ Ss. Cosma e Damiano in Campo Vaccino, e alla Rotonda si è conservata sino a quell’oggi la gran porta472, forse per la ragione che erano chiese sin dai bassi tempi. Nel portico di quest’ultima si eran mantenuti li gran travi fasdiati di bronzo, de’ quali già parlammo altrove473, sinché Urbano VIII. ne li fece levare in occasione di rifare l’anno 1626. il tetto, che da molto tempo minacciava rovina, mancandovi anche le colonne all’angolo, come dicemmo; e per farne miglior uso, costruendone coll’opera del Bernini la Confessione di s. Pietro in Vaticano, e molti cannoni nel Castel sant’Angelo474. Si trova nelle memorie della fabbrica di s. Pietro, al dire del Venuti475, che tutti i chiodi pesavano 9374. libbre, e i metalli in tutto arrivavano 45000250. libbre. Non so se vi sia compresa la porzione impiegata per il Castello; quale dai conti camerali si ha essere ascesa al pefo di 448286. libbre, che si valutarono circa 67260. scudi; e ne furono fatti 110. pezzi d’artiglieria fra colobrine, cannoni, falconi, falconetti, petardi, ed altri strumenti sino al peso di 410777. libbre, per arrivare al quale vi fu aggiunto altro metallo, che compensasse il calo di quello del Panteon in libbre 44828. alla ragione di un dieci per cento476. Il Pontefice, oltre il tetto del portico, che fece rifare, ed altri miglioramenti, vi fece anche aggiugnere i due campanili; e ad eterna memoria di tutto ciò, e di quell’impiego del metallo, fece affiggere nel portico ai lati della porta due iscrizioni, delle quali daremo la più interessante, che riguarda il metallo, porta alla sinistra di chi entra:
VRBANVS. VIII. PONT. MAX
VETVSTAS. AHENEI. LACVNARIS
RELIQVIAS
IN. VATICANAS. COLVMNAS. ET
BELLICA. TORMENTA. CONFLAVIT
VT. DECORA. INVTILIA
ET. IPSI. PROPE. FAMAE. IGNOTA
FIERENT. IN. VATICANO. TEMPLO
APOSTOLICI. SEPVLCHRI. ORNAMENTA
IN. HADR1ANA. ARCE
INSTRVMENTA. PVBLICAE. SECVRITATIS
ANNO. DOMINI. MDCXXXII. PONTIFIC. IX
Degli altri lavori di metallo esistenti in Roma nel Campidoglio, nella villa Albani, nel museo del Collegio Romano, e nel palazzo Barberini, già ne ha data la detenzione Winkelmann477; alla quale per brevità ci rimettiamo. Aggiugneremo solamente, che siensi conservati quei monumenti o per qualche ragione particolare, che ignoriamo; o perchè molto di buon’ora siano restati sepolti sotto qualche grande rovina, da cui non potessero estrarli quei cercatori. La statua d’Ercole indorata, nel palazzo de’ conservatori in Campidoglio, si dice trovata fra le rovine di un tempio di lui non molto lontano da s. Maria in Cosmedin, poi demolito da Sisto IV.478; e da alcuni si vuole nel Foro Romano presso l’Arco di Settimio Severo, dove fosse trovata anche la Lupa di bronzo479, che altri danno per certo essersi estratta dalle rovine al Fico Ruminale480, ove ora è la chiesa di san Teodoro481. Sono incerte le opinioni intorno alla gran pigna di metallo, che ammirasi nel giardino interno del Vaticano; mentre Flaminio Vacca scrive482, si trovasse nel fondare la chiesa vecchia della Traspontina, alle radici del Mausoleo d’Adriano483; ed altri credono, che sia la stessa, descritta dal più volte citato Pietro Manlio, le di cui parole recammo altrove, come un ornamento stato ne’ primi tempi sopra la statua di Cibele nel Panteon, ove servisse a gettar acqua sopra un fonte484, trasportata poi nell’atrio della basilica Vaticana. La famosa tavola di bronzo, che contiene il senatusconsulto fatto in favore di Vespasiano, ora conservata parimente nel Campidoglio, o perchè stata sempre in luogo pubblico, o perchè disotterrata in più antichi tempi, fu affissa dietro al coro della basilica Lateranense dal succennato Cola di Rienzo485, come un monumento di storia romana interessante la gloria della città, ch’egli volea far rivivere co’ suoi deboli sforzi.
Famoso più di tutti i monumenti in bronzo, e il più ammirabile, è la grande statua equestre di Marco Aurelio Antonino sulla piazza del Campidoglio. Assai cose ne sono state scritte dagli eruditi, e dagli artisti; ma niuno sinora seppe dirne la vera storia. Dicesi trovata in una vigna a s. Giovanni in Laterano; e che vi fosse da principio si vuol far credere verosimile da monsig. Ciampini486, e da Winkelmann487, col dire che al Laterano era nato Marco Aurelio, e ivi era la sua casa. Si fonda questo errore sulla espressione di Flaminio Vacca488, e di qualche altro, che dice trovata la statua in una vigna; e s’intende volgarmente per cavata da sotto terra. Giammai non è stata sotterra quella statua. E’ stata sempre all’aria scoperta, esposta alle ingiurie del tempo, e quali per un prodigio è scampata da quelle degli uomini. Il Palladio489 senza darne alcuna prova scrive, che stesse anticamente in un cortile avanti al Tempio d’Antonino e Faustina in Campo Vaccino. Non erra però di molto; perchè io credo, che sia la stessa, che stava presso l’Arco di Settimio Severo, chiamata di Costantino. Se ne trova la prima volta fatta menzione nella descrizione di Roma, che s’intitola Notizia dell’impero occidentale, illustrata già dal Pancirollo, che la crede fatta al tempo di Teodosio giuniore, morto nell’anno 450.490, e ripetuta dal Nardini491, e dal Muratori492, ove nella regione VIII, si mette: Genium Populi Romani aureum, & Equum Constantini, Senatulum, &c. La seconda volta è nominata Cavallo di Costantino nel suddetto Itinerario, o breve descrizione delle regioni di Roma, fatto, come dicemmo, nell’ottavo, o nel nono secolo: Templum Concordia, Caballus Constantini. Ivi nella nota monsig. Bianchini493 pensa, che questo Cavallo di Costantino possa essere il Cavallo di Domiziano celebrato da Stazio494, al quale fosse levato il nome di quell’abominato imperatore, e surrogato quello di Costantino, come avea pensato il Nardini495; non sapendo nè l’un, nè l’altro di questi Scrittori tutto il resto della storia496.
Nel secolo X. il medesimo Cavallo detto di Costantino seguitava a stare in Campo Vaccino. Abbiamo dalla vita del Papa Giovanni XIII.497, che venuto a Roma l’anno 966. il nominato imperatore Ottone I. per calmar li tumulti eccitati contro quel Pontefice, fra le altre cose diede in poter di lui Pietro prefetto della città, autore di tutti i mali, il quale, recisagli la barba, fu fatto sospendere per li capelli dal Cavallo di Costantino: e avanti allo stesso Cavallo poco dopo, vale a dire l’anno 974. secondo il Muratori498, vi fu gettato di notte il cadavere dell’antipapa Bonifazio figlio di Ferruccio, al tempo del Papa Giovanni XIV.499. Dagli scrittori poi della vita di Clemente III., all’anno 1187. si racconta500, che questo Pontefice ingrandì il palazzo pontificio al Laterano, l’ornò di pitture, e vi fece fare un cavallo di bronzo: equum quoque æreum fieri fecit. Il Tiraboschi, prese letteralmente quelle ultime parole fieri fecit senza cercar più oltre, ha creduto di trar quindi un argomento per provare, che la statuaria fosse a quel tempo in qualche riputazione501. Avesse veduto almeno il Ciacconio nella vita di Clemente502, il quale se ignorava tutta la storia di questo fatto, ben capì, che la statua non poteva essere una nuova statua fatta dal Pontefice, ma quella di Marco Aurelio, che suppone stata dal tempo innanzi al Laterano! Noi pertanto sosteniamo, che Clemente in occasione di far abbellire, e rimodernare il palazzo Lateranense, la facesse colà trasportare dal Campo Vaccino, ove stava abbandonata, e negletta, per ornamento d’una piazza avanti al palazzo medesimo503; e lo proviamo primieramente dalla inverosimiglianza, e quasi impossibilità di fare una statua equestre di bronzo in quel tempo di barbarie; e dal non sapersi per qual motivo potesse mai pensare quel Papa a farne il getto: in secondo luogo, perchè il Cavallo di Costantino d’allora in poi non si trova più ricordato in Campo Vaccino, ma bensì al Laterano. Ve lo dice esposto in luogo pubblico, e lo descrive, con una favoletta riguardo alla sua prima origine, Cencio Camerario, che già notammo avere scritto al tempo di Celestino III. intorno all’anno 1191. pochi anni dopo Clemente, le di cui parole tratte dal manoscritto Vaticano vengono riferite dal Ciampini504. Colle stesse parole viene descritta parimente la statua equestre di Costantino dal citato autore De mirabilibus Romæ, che pur dicemmo esser vivuto nel secolo XIII., come osserva il Montfaucon505.
Quando i Papi stavano in Avignone il mentovato Cola di Rienzo506, per dare al popolo una festa, fece gettar vino rosso dalla narice destra di questo Cavallo, e acqua dalla sinistra quasi tutta una giornata: donde io non saprei dedurre con Winkelmann507, che la sola statua del Cavallo fosse allora scoperta, e quella di Marco Aurelio sotterra: congettura, che fa il nostro Autore, perchè l’una, e l’altra statua suppone trovata in quei contorni; e perchè non sapea, che per l’avanti sempre il solo Cavallo si trova nominato, non mai la statua dell’imperatore, sebbene gli fosse addosso indubitatamente, come costa dalla descrizione fattane dal Camerario, e dall’altro, che lo ha trascritto. Fin a questo tempo di Cola di Rienzo, e forse molto dopo, fu chiamato Cavallo di Costantino. Per li secoli di mezzo non è da maravigliarli di un errore così grossolano: ma poi come è succeduto, che tal nome gli sia stato dato sin dal tempo di Teodosio il giovane? Sarà stato forse per la basilica non molto lontano fatta, o restaurata come dicemmo dal Senato, o da Costantino? O perchè egli operasse qualche cosa a benefizio della statua? O per errore popolare, che non sarebbe tanto improbabile tuttochè in tempi non affatto barbari; come è indubitato, che sin d’allora s’introdussero delle storpiate, ed altre false denominazioni dei monumenti, che possono vedersi nella stessa Notizia in confronto delle descrizioni di Rufo, e di Vittore?508. Confesso liberamente di non saper che me ne dire; quantunque mi sembri verosimile, che a questa falsa denominazione noi siamo debitori della conservazione dell’insigne monumento fino al presente, perchè forse il nome di Costantino lo rese venerabile anche ai tiranni della città, alle fazioni, e agl’ingordi cercatori de’ metalli.
Rimase in quel luogo la statua fino al tempo del Pontefice Sisto IV., il quale avendo restaurato il palazzo Lateranense quasi tutto rovinato509, la fece collocare in luogo più vistoso avanti lo stesso palazzo, come scrive bene il Ciacconio. Su questo trasporto è da farsi una riflessione, che toglie ogni equivoco. Flaminio Vacca scrive al luogo citato, che il Cavallo fu ritrovato in una vigna incontro alla Scala Santa; e stando in terra molti anni, non tenendosene conto, fu creato Sisto IV., che lo drizzò nella piazza Lateranense con un bel piedistallo di marmo. Lo dice trovato in una vigna. Quel luogo, dove stava, e dove fu posto da Clemente III., anticamente non poteva esser una vigna; ma la piazza avanti al palazzo. E siccome questo allora aveva un altro giro assai più lungo dalla parte della Scala Santa, rimarcabile nella stampa datane dal Ciampini, e da altri; coll’andar del tempo, prima di Sisto IV., che fu più volte restaurato, e probabilmente ristretto, come lo fu poi molto più al tempo di Sisto V., che lo rifece quale si vede al presente; il cavallo considerato all’antico suo luogo da Flaminio Vacca, il quale scrisse dopo Sisto V., e dagli altri appresso, compariva trovato in una vigna, perchè fu fatta vigna dove prima si estendeva una parte del palazzo. Dal Laterano venne in fine trasportato l’anno 1538. per ordine di Paolo III. a trionfare sulla piazza del Campidoglio510, ove noi lo lasceremo a durar lungamente degno oggetto d’ammirazione a chi lo vede, lo copia, e lo disegna; e più di quello, che sull’informe scoglio di Pietroburgo sembra precipitarsi, fermo, ed immobile alle atrabilari zannate dei Falconet, e degli altri tutti, che per esaltare le proprie cose, avviliscono, e deprimono le altrui.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. iI. p. 419. §. 9.
- ↑ De privatorum, publicorumque ædificiorum urbis Romæ eversoribus.
- ↑ De Musivis, cap. 5. pag. 72.
- ↑ Storia della letteratura ital. Tom. iiI. lib. I. cap. VII. §. VII.
- ↑ Dell’Obel. di Ces. Aug. cap. 16.
- ↑ De Civ. Dei, lib. 1. cap. 7.
- ↑ Annali d’Italia, anno 409. Tom. iiI. par. 1. pag. 44.
- ↑ De reb. getic. cap. 30.
- ↑ De Civit. Dei, lib. 1. cap. 7., lib. 3. cap. 29., Serm. 269. in nat. Apostol. cap. 56. oper. Tom. V. par. 2. col. 1290., Retract. lib. 2. cap. 43., Tom. I. col. 56.
- ↑ Eccles. hist. lib. 12. num. 3. Tom. iiI. pag. 545.
- ↑ Hist. lib. ult. cap. 39.
- ↑ De bello vandal. lib. 1. cap. 2. Tom. I. pag. 180.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 364.
- ↑ oper. Sirmondi, Tom. il. pag. 356.
- ↑ Hist. eccles. tripart. lib. i1. cap. 9. op. Tom. I. pag. 368.
- ↑ Eclogæ histor. in fine, presso Fozio cod. LXXX., e nella Hist. Byzant. Tom. I. Excerpta, pag. 14. D.
- ↑ Aggiugne a questo luogo, che secondo le misure prese dal geometra Ammone, quando vennero per la prima volta i Goti a Roma, le mura di quella città giravano ventun miglio. Vedi Nardini lib. 1. cap. 6.
- ↑ loc. cit. cap. 5. pag. 189. B.
- ↑ Vedi Tom. iI. pag. 410. col. 1.
- ↑ Compend. hist. Tom. I. pag. 346. princ.
- ↑ vers. 69. segg.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. iI. p. 378. n. d.
- ↑ Variar. lib. 7. form. 15.
- ↑ Vedasi quì avanti Tom. iI. pag. 155 not. b, ove abbiamo parlato con Plinio più diffusamente dei lavori fatti dagli Etruschi anche per Roma, e per altre parti d’Italia. Plinio li chiama lavori toscani, come propij di questa nazione toscana, o etrusca, a differenza della greca, e di altre, non per indicare uno stile proprio, e particolare di quella nazione, che vediamo dai lavori suoi non aver sempre mantenuto uno stesso stile. Vedi qui avanti Tom. I. pag. 238 not. a.
- ↑ Il Tiraboschi loc. cit non avendo badato che potevano essere dello svelto ordine corintio, mal a proposito le spiega per lavori, o architettura fatta al tempo de’ Goti. Potea pur riflettere, che Cassiodoro parla delle fabbriche antiche, e dei Romani.
- ↑ Ripete in compendio questi stessi sentimenti form. 13., che darò appresso.
- ↑ lib. 3. epist. 51.
- ↑ lib. 5. epist. 42.
- ↑ lib. 7. form. 6.
- ↑ Di cui si è parlato qui avanti Tom. iI. pag. 371. §. 19.
- ↑ Di cui parimente dissi alla pag. 321. not. c
- ↑ lib. 4. epist. ult.
- ↑ lib. 1. epist. 25.
- ↑ lib. 7. epist. 30.
- ↑ lib. 3. epist. 10.
- ↑ Tom. I. sect. 59. n. 200.
- ↑ De bello goth. lib. 1. cap. 19.
- ↑ Il P. Berti Eccles. hist. Breviar. sec. VI. cap. 6. in append. scrive, che incendiasse il Campidoglio, senza citare autore.
- ↑ lib. 4. cap. 22. e 33.
- ↑ Procopio lib. 3. cap. 22.
- ↑ Lo stesso lib. 3. cap. 37.
- ↑ loc. cit. pag. 90.
- ↑ Procopio lib. 3. cap. 22.
- ↑ lib. 4. cap. 21.
- ↑ Nominata nel Tom. iI. pag. 208.
- ↑ lib. 1. cap. 25.
- ↑ Dial. lib. 2. c. 25. op. Tom. iI. col. 240.
- ↑ De foraminibus lapidum in priscis ædificiis.
- ↑ sect. 60. n. 107. Tom. I. pag. 110.
- ↑ lib. 16. presso il Muratori Rer. Italic. Script. Tom. I. pag. 107. C
- ↑ De bello goth. lib. 4. cap. 22.
- ↑ Serm. 107. de verb. Evang. cap 10. n. 13. in fine. oper. Tom. V. par. 1. col. 547.
- ↑ Tom. iI. pag. 416. n. 1.
- ↑ Contra Symm. Lib. 1. v. 502. segg. V’è stato chi ha preteso, che Prudenzio faccia parlare Teodosio, al tempo del quale vivea, non avendo forse badato al contesto del discorso. Credo che erri pure Bandini, il quale l. c. pag. 86. n. 1. vuol che debbano intendersi quelle parole delle statue degli uomini illustri. Quando mai queste aveano bisogno di essere purificate, e considerate come per altro uso, e per semplici monumenti dell’arte?
- ↑ Epist. cl. 1. epist. 18. n. 31. Op. Tom. iiI. col. 886. B.
- ↑ Questi parlando del tempio di Giano nominato qui avanti, dice che al tempo dell’assedio di questa città fatto da Totila, un giorno fu trovata la porta di esso sforzata, come per aprirla: il che ei sospetta che fosse fatto da qualche Gentile rimasto in Roma, per rinnovare l’antica usanza di aprire il tempio di Giano in tempo di guerra. Aggiugne però, che non si seppe l’autore di quell’attentato, e che in tanta confusione, e tumulto non ne fu ricercato: donde può arguirsi, che se v’erano rimasti Gentili in Roma, essi fossero ben pochi, e stessero con dei riguardi, e forse occulti: e ben pochi erano generalmente, come abbiamo dall’imperator Teodosio giuniore nella legge 22. Cod. Theod, lib. 16. tit. 10. De pagan. sacrif. & templ. fatta nell’anno 423., ove dice che crede non esservene più: Paganos, qui super sunt, quamquam jam nullos esse credamus.
- ↑ lib. 5. cap. 41. pag. 625.
- ↑ Vedi Tom. iI. pag. 420.
- ↑ Abregé de l’histoire d’Italie, all’anno 557. Tom. I. pag. 95.
- ↑ lib. 15. tit. 1. De operibus publicis.
- ↑ lib. 8. tit. 10. De ædificiis privatis, e tit. 12. De operibus publicis.
- ↑ Corpus hist. med. ævi, T. iI. col. 1684.
- ↑ Rer. Italic. Script. Tom. iiI. par. 2. pag. 56. Il Muratori alla pag. 4. ne fa pochissima stima per le vite de’ Papi fino a Innocenzo III.
- ↑ Delic. erud. Tom. iI. e iiI.
- ↑ Comment. urban. lib. 22. pag. 655.
- ↑ Prefazione alla Raccolta di statue, pag. VII.
- ↑ Sanctus Gregorius vindicatus, ec. c. 2.
- ↑ Tom. iiI. lib. iI. cap. iI. §. XV.
- ↑ Dict. hist. art. Gregoire, rem. L.
- ↑ Hist. crit. ec. Append. pag. 669. seg.
- ↑ Vindiciæ, & observationes juris, Volum. I. cap. I.
- ↑ Il P. Corsini De Præf. urb. pag. 174. all’anno 571. dubita, che sia stato piuttosto prefetto, o governatore di Roma. Se avesse avuto quella carica, il nostro argomento crescerebbe; poichè il prefetto di Roma sopraintendeva alle fabbriche pubbliche, alla erezione delle statue fatte per merito a qualcuno; in somma avea la cura di tutto ciò, che spettava al comodo, ed agli ornamenti di Roma, come otterrà lo stesso Corsini pag. XLI. seg.
- ↑ Possono vedersi le descrizioni di Roma fatte da Sesto Rufo, e da Publio Vittore, i quali scrissero al tempo di Valentiniano, e Valente circa l’anno 570. di Gesù Cristo; e l’altra fatta qualche tempo dopo, come diremo appresso, data dal Pancirolo, col titolo di Notizia dell’impero occidentale.
- ↑ lib. 5. epist. 40.: Urbane simplicitatis vocabulo me fatuum appellat. Vedi il Baronio, Tom. X. anno 595. n. 20. 21. pag. 383. e l’autore delle Osservar. sopra un libro intitol. Dell’orig. e del comm. della mon., e della istit. delle zecche d’Italia, lib. 1.pag. 28.
- ↑ Si veda lo stesso san Gregorio lib. 2. epist. 46., lib. 5. epist. 42.
- ↑ De gest. Langobard. lib. 4. cap. 37.
- ↑ sect. 116. Tom. I. pag. 117. Ho detto, che il Panteon fosse restato chiuso fino a quel tempo, perchè lo suppongo un tempio, il quale si dovette chiudere come gli altri, per la legge dell’imperator Costanzo nel Codice Teodosiano lib. 16. tit. 10. De pagan. sacrif. & templis, leg. 4., e per l’altra d’Onorio in data dell’anno 399. portata nello stesso titolo leg. 18. Il ch. sig. abate Lazeri in un discorso sulla consecrazione di esso, fatta dal lodato Papa Bonifazio IV., si è impegnato, per quanto ha saputo ragionare, a sostenere che non fosse tempio, e che tale non lo credessero i Cristiani; perchè altrimenti non sarebbe sfuggito all’armato loro zelo, quando essi correvano senza riserva ad abbattere i tempj, e simulacri, ed ogni avanzo di superstizione gentilesca in vigore di una legge di Teodosio giuniore emanata nell’anno 416., con cui si ordinava la distruzione di tutti i tempj; cosicchè. dic’egli, niun altro tempio (cosa in vero notabile molto) troviamo noi in Roma, la quale ne era pure così piena: oppure, soggiugne pag. 40., che essendo da un pezzo cessato in Roma il pubblico culto de’ falsi dei, e però l’uso di quello tempio, co’ primi, qual che se ne fosse la cagione, non distrutto, nè abbattuto; aver poi i Cristiani al sopravvenir la legge di Teodosio potuto o credere, o dubitare, che non fosse esso vero tempio destinato ad adorare, e venerare gli dei. La base di questo discorso è la legge di Teodosio il giovane. Questa non va intesa strettamente di distruzione, come bene osserva Gottofredo nel commentario ad essa, e come potrei provarlo assai più diffusamente contro le risposte del signor abate Lazeri. Ma chechè sia di tale spiegazione, era prima da osservarsi, che la legge era fatta per l’Illirico orientale, come nota anche Gottofredo, non per Roma, ove non era necessaria, come potea riflettere il sig. ab. Lazeri, mentre egli diceva che il pubblico culto degli dei vi era cessato da un pezzo, cosicchè i Cristiani non avessero a sapere di certo, se il Panteon era vero tempio dedicato agi’ idoli: cosa peraltro, che non si potrà mai accordare a questo scrittore, sì perchè tra la legge di Onorio, e quella di Teodosio vi corre il giro di anni 17., nel quale non doveano scordarsi del vero uso di questo edifizio; e sarebbe stata cosa quasi prodigiosa, che quello solo, come tempio, fosse sfuggito al loro zelo, quando avessero atterrati tutti gli altri meno celebri, e meno esposti agli occhi di tutta Roma. Se non eia tempio, sarà stato bagno, come accenna il signor abate Lazeri, che altri hanno pensato, o d’altro uso profano. In questo caso come potevano dubitare i Cristiani che fosse, o non fosse tempio, mentre le altre fabbriche pubbliche, e i bagni, come in ispecie si è già veduto di quei d’Agrippa, erano aperti all’uso pubblico molto dopo la legge di Teodosio il giovane? In conseguenza del falso supposto, che la legge di quello imperatore fosse fatta anche per Roma, il signor abate Lazeri si è immaginati i Cristiani correre furibondi a guisa di Baccanti a distruggere tutti i tempj, cosichè neppur uno ve ne sia rimasto. Abbiamo detto abbastanza per provare, che i Cristiani non hanno fatto verun danno alle fabbriche dei tempj; e abbiamo anche fatto osservare, che molto dopo quella legge ve ne sono restati degl’intierissimi, come il Tempio di Giano tutto di bronzo, nominato pocanzi; il Tempio di Giove Capitolino, che era il principale, di cui parlai nel Tom. iI. pag. 420.; il Tempio di Roma, che nomino qui appresso, tutti restati chiusi dopo Teodosio, e tanti altri, che vede chiunque passeggia per Roma, e li fa chi può almeno leggere le descrizioni di Roma antica, e moderna, diversi de’ quali furono consecrati in chiese da tempo antico. Ma per il suo proposito bastava al signor abate Lazeri l’osservare, che Anastasio, Paolo Diacono, e il Martirologio Romano, su i quali egli stesso si appoggia per determinare la consecrazione, lo dicono creduto tempio dai Cristiani, e da Bonifazio quando lo consecrò. Essi hanno scritto poco dopo questo fatto, e anche per ciò meritano fede come per il resto. Paolo Diacono scrive: Idem (Phoca), Papa Bonifacio petente, jussit in veteri fano, quod Pantheon vocabant, ablatis idolatriæ sordibus, Ecclesiam Beati semper Virginis Mariæ, & omnium Martyrum fieri, ut ubi omnium non Deorum, sed Dæmonum cultus erat, ibi deinceps fieret omnium memoria Sanctorum. Nel Martirologio Romano ai tredici di maggio si legge: Romæ, dedicatio Ecclesiæ Sanctæ Mariæ ad Martyres, quam Beatus Bonifacius Papa quartus, expurgato Deorum omnium veteri fano, quod Pantheon vocabantur, in honorem Beatæ semper Virginis Mariæ, & omnium Martyrum dedicavit tempore Phocæ imperatoris. Anastasio: Eodem tempore (Bonifacius) petiit a Phocate Principe templum, quod appellatur Pantheon. In quo fecit Ecclesiam Sanctæ Mariæ semper Virginis, & omnium Martyrum. Con sì chiara maniera di parlare questi scrittori ci danno la propria idea di tempio, e Panteon, secondo l’interpretazione comune, con troppo sottili altre spiegazioni rigettata dal signor ab. Lazeri, come è chiamato questo edifizio da Plinio lib. 34. cap. 3. sect. 7., lib. 36. c. 5. sect. 4. §. 11., c. 15. sect. 24. §. 1., da Dione Cassio lib. 53. cap. 27. pag. 721. Tom. I., da Eusebio, che citeremo qui appresso, da Capitolino, di cui meglio parleremo anche appresso alla pag. 294., da Sparziano nella vita di Adriano cap. 19., nella iscrizione, che ricorderemo anche appresso, da Ammiano Marcellino Rer. gest. lib. 16. cap. 11., da Macrobio Saturn. lib. 2. c. 14.., e da tutti gli altri scrittori greci, che lo chiamano Panteon: e col dirci Paolo Diacono, e il Martirologio, che il Papa, prima di consecrarlo in chiesa, lo spurgò dalle sordidezze dell’idolatria, fanno vedere, che non solamente egli lo credeva stato tempio de’ Gentili; ma che ve n’erano ancora i segni dentro. Dione non solo lo chiama Panteon, ma da anche la ragione di tal nome, dicendo, che così si chiamava forse perchè i simulacri di Marte, e Venere, che v’erano dentro, rappresentavano più divinità; o come crede più volentieri, per la sua forma convessa, che imitava il cielo: Pantheum quoque fecit. Id sic dicitur fortassis, quod in simulacris Martis & Veneris plurium deorum imagines acciperet; vel ut mihi potius videtur, quod forma convexa fastigiatum, cœli similitudinem offenderet. Plinio cit. lib. 26. c. 15. sect. 24. §. 1. dice, che Agrippa lo dedicò a Giove Vendicatore. Aggiugne poi Dione, che dentro Agrippa vi collocò la statua di Giulio Cesare, e volea collocarvi anche quella d’Augusto, e che quelli non volle; ma si contentò che fosse posta nel portico. E perchè ciò? Certamente perchè non volle stare dentro come divinità, come vi stava, e poteva starvi Giulio Cesare, che dopo morte era stato divinizzato. Altrimenti se la fabbrica fosse stata un bagno, o Augusto non dovea trovar difficoltà per lasciarvi mettere la sua statua, o non dovea permettere, che vi stesse quella di suo padre. Per spacciarlo poi con tanta franchezza un bagno, vorrei sapere come mai poteva accordarsi alla natura del bagno quell’occhio così aperto, quello sfogo dell’acqua piovana, che cadeva da esso nel pavimento, e quella gran porta. Queste non solo non li accordano alle regole di Vitruvio, che lib. 5. cap. 10. vuol le stanze de' bagni più calde, che sia possibile con tutte le cautele; ma non hanno esempio. La chiesa di s. Bernardo a Termini, che si porta in paragone, perchè fu già parte delle Terme di Diocleziano, era un calidario, di gran lunga più piccolo del Panteon; e come tale non avea quell’occhio alla volta, che vi è stato aperto dopo, nè lo sfogo dell’acqua per terra; e non sappiamo quanto fosse grande la porta, che non era in fuori, come ora, ma dentro. Oltrracciò se fosse stato bagno, perchè Plinio cit. lib. 34. c. 8. sect. 19. §. 6., e lib. 36. cap. 25. sect. 64. avrebbe distinte da esso le Terme dello stesso Agrippa, che pur erano tutto una stessa fabbrica? E finalmente perchè fare tanta magnificenza per un semplice bagno, palestra, o altro, che si voglia pretendere, sino a farvi le tegole indorate? Quelle al contrario ottimamente convenivano a un sì magnifico tempio, come tali furono fatte ai due citati di Roma, e Capitolino.
- ↑ sect. 119. pag. 120.
- ↑ Rycquio De Capit. cap.16. pag. 205. dice, che vide un resto di quelle tegole quando a suo tempo fu rinnovata la basilica Vaticana; ma equivoca nel dire, che Papa Onorio le tolse dal tempio di Giove Capitolino. Dietro quel tempio di Roma furono trovati i frammenti in marmo della pianta di Roma, come narra Flaminio Vacca Memorie, n. 1., che ora si vedono per le scale del museo Capitolino. Se n’è parlato qui avanti pag. 55. n. c. Gl’illustrò il Bellori., e ultimamente Piranesi Antich. Rom. Tom. 1. Tav. 2. segg. Questi alla Tav. 6. n. 26. spiega per Templum Diocletiani le lettere.. PLVMDI.., che vi si leggono; con che verrebbe a provarsi, che fosse fatta la pianta dopo i tempi di Diocleziano. Ma egli erra a gran partito, perchè nel luogo della medesima, ove si nominano Settimio Severo, e Antonino, vi è l’aggiunto di NN, che vuol dire nostrorum, per indicare, che chi faceva quel lavoro viveva al tempo di quegl’imperatori, chiamandoli suoi, come bene avvertì Bellori, e non ha bisogno di prove. E perciò quel resto di lettere deve spiegarsi Templum Divi, e forse Julii, o Augusti, Titi, Trajani, i tempj de’ quali secondo Rufo, e Vittore erano nella regione VII.
- ↑ Vedi qui avanti pag. 99. not. a.
- ↑ sect. 194. Tom. I. pag. 176.
- ↑ Gl’imperatori Cristiani nell’abolire la religione de’ Gentili confiscarono tutte le cose appartenenti ad essa, e in ispecie i tempi: al fisco furono anche riservate tutte le fabbriche pubbliche; e sì le une, che le altre gl’imperatori le concedevano poi o ai Papi, o ai privati per farne chiese, o per uso privato. Si vedano i due citati titoli del Codice Teodosiano De operibus publicis, e l’altro De paganis, sacriphiis, & templis.
- ↑ Histor. Franc. lib. 10. princ. Era contemporaneo.
- ↑ De scriptor. Eccles. cap. 47. Quest’opera si attribuisce anche a s. Idelfonso vescovo di Toledo, il quale fiorì contemporaneamente, e dopo s. Gregorio il Grande, come anche s. Isidoro.
- ↑ Hist. eccles. gentis Anglor. lib. 2. cap. 1. Fiorì sul fine del VII. secolo.
- ↑ De Pontif. Rom. vit. cap. 66. Scrisse nel secolo X.
- ↑ Nella di lui vita. Vivea sul principio del X. secolo.
- ↑ Presso Canisio Lection. antiq. Tom. iI. par. 3. pag. 256. segg. Si crede vivuto sul fine del secolo IX.
- ↑ Paolo Diacono scrisse dopo il principio del VII. secolo, poco dopo s. Gregorio, e Giovanni sul fine del IX., come osservano i PP. Maurini editori delle opere di questo santo Dottore nella prefazione alle vite da essi scritte, riportate da quegli editori nel Tomo IV. dell’edizione di Parigi 1705., ripetute nel Tomo XV. dell’ultima edizione di Venezia. Per Anastasio, il quale vivea nel IX. secolo, egli non ha fatto altro che unire le memorie già scritte da altri prima di lui al tempo di s. Gregorio II. e del III., raccogliendole da pubblici, e sicuri monumenti, come nota Bianchini nella prefazione all’edizione romana dello stesso Anastasio, e Bencini nelle note alla vita di san Clemente I. sect. 4 Tom. iI. pag. 44.
- ↑ Monsignor Sergardi in una Orazione, che recitò in Campidoglio nel 1703. ristampata fra le Prose degli Arcadi, Tom. I p. 126. segg., e ultimamente fra le sue opere stampate in Lucca Tom. IV. pag. 31., non ha difficoltà di dire, che s. Gregorio incrudelì contro alle statue, ai cerchi, agli archi, e a tutto quello, che ci più ragguardevole avea saputo condurre a fine l’altera potenza degli Augusti; citandone per prova Giovanni Diacono nella di lui vita, e il Baronio nei suoi Annali, senza additarne il luogo, che certamente non avrebbe trovato che nella sua testa; poichè nè l’un, ne l’altro dice tal cosa: anzi il primo al lib. 4., e il secondo all’anno 585. num. 10. 11. Tom. X. pag. 580. riportano le parole dello stesso s. Gregorio, che provano il contrario, come vedremo qui appresso.
- ↑ Qualche avanzo di Gentilesimo era restato in Terracina, per abolire il quale s. Gregorio ne scrisse al vescovo di quella città, Epist. lib. 8. epist. 18.
- ↑ Appunto per quelle inondazioni Augusto lo fece ripurgare dalle materie di fabbriche rovinatevi dentro, e ampliarne il letto, come narra Suetonio nella di lui vita, cap. 30.: Ad coercendas inundationes alveum Tyberis laxavit, ac repurgavit, completum olim ruderibus, & ædificiorum prolapsionibus coarctatum; e vi creò un curatore a posta, come narra lo stesso, cap. 37., detto Curator alvei, & riparum Tyberis, di cui tante volte si fa menzione nelle iscrizioni, come presso Gudio pag. 54. num. 8., pag. 125. num. 5., pag. 320. num. 2., ripetute dal P. Corsini De Præf. urb. pag. 59. 65. 390., e in altre presso il Muratori Tom. I. pag. 451. n. 7., pag. 455. n. 3., Vignoli De Col. Anton, Pii, Iscript. antiq. cl. 3. pag. 312. seg., e tante altre. Ne’ bassi tempi si chiamava Comes riparum, & alvei Tyberis, come si ha Notit. dign. imp. Occid. c. 7. presso Pancirolo. Il Pitisco v. Curator riparum, crede che l’istituzione di quello magistrato sia più antica di Augusto. Ma io dico, che dalla iscrizione, su cui egli si fonda, si possa al più ricavare, che prima straordinariamente sia stato deputato qualcuno ad aver cura del fiume; non già che vi fosse deputato un magistrato ordinario, e perpetuo.
- ↑ De gest. Langob. lib. 3. cap. 23., e nella vita di s. Gregorio, cap. 10.
- ↑ Nella vita di s. Gregorio, lib. 1. c. 34.
- ↑ Hist. Francor. lib. 10. princ.
- ↑ Dialog. lib. 3. cap. 19., lib. 4. c. 32. oper. Tom. iI.
- ↑ Muratori Annali d’Ital. anno 593. Tom. iI. par. 2. pag. 359., Zanetti Del regno de’ Longob. Tom. I. lib. 2. n. 27. p.145. Il Baronio lo differire sino all’anno 595. Annal. Tom. X. n. 1. segg. p. 577. a quell’anno.
- ↑ Vedi s. Gregorio stesso Homil. uit. in Ezech. in fine, oper. Tom. I. col. 1430., e Epist. lib. 6. epist. 6.
- ↑ lib. 1. epist. 2. e 72.
- ↑ lib. 9. epist. 124.
- ↑ Vedi Zanetti loc. cit. num. 28. segg. pag. 145. segg.
- ↑ Regum, lib. i. cap. 5. vers. 4. 5.
- ↑ loc. cit. pag. 85. seg.
- ↑ Vedi il Nardini lib. 7. c. 13. pag. 424. seg., e ivi la nota, ove si fa vedere a lungo, che quello obelisco non sia caduto mai, contro il Ficoroni, Venuti, ed altri, che lo asseriscono.
- ↑ Temistio scriveva ai tempi di Graziano, cioè verso l’anno 584., Orat. 13. amat. in Gratian. imp. pag. 177. D.: Inclyta, ac celebris Roma, immensum est, atque omni oratione majus pelagus pulchritudinis.
- ↑ Tasso Gerusal. Canto 15. st. 20. v. 4.
- ↑ Lo diceva Ammiano Marcellino delle terme lib. 16. cap. 11. Valesio ivi nella nota vuol emendare provinciarum in piscinarum, perchè non avrà veduta la vastità delle Terme Diocleziane, e delle Antoniane.
- ↑ Tom. I. pag. 202. n. *, e lo conferma Giulio Ossequente De prodig. cap. 122.
- ↑ Vedi Tom. iI. pag. 152. not. d. ove noi abbiamo fatto vedete, che non fosse altrimenti bruciata: il che può confermarsi coll’autorità di Servio, il quale viveva, secondo l’opinione più giusta dei critici moderni approvata da Burmanno il giovane nella prefazione alla sua edizione di Virgilio, circa i tempi di Teodosio; e alle Eneidi lib. 8. v. 646. scrive che a suo tempo ancor si vedeva nella Via Sacra.
- ↑ Vedi loc. cit. pag. 339. not. e.
- ↑ Suetonio nella di lui vita, cap. 30., e si veda anche nelle Pandette lib. 1. tit. 15. De officio Præfecti vigilum.
- ↑ Lo stesso ivi, cap. 57. Dione lib. 55. cap. 8. pag. 779., cap. 12. pag. 784. Tom. iI.
- ↑ Nella di lui vita, cap. 38.
- ↑ Suetonio nella vita di Vitellio, c. 15.
- ↑ Lo stesso nella vita di questo imperatore, cap. 8., e Aurelio Vittore.
- ↑ Giorgio Sincello Chronogr. pag. 347.
- ↑ Eusebio in Chron. par. 2. pag. 165.
- ↑ Vedi qui avanti pag. 44. not. a.
- ↑ Sparziano nella di lui vita, cap. 19. pag. 179.
- ↑ Capitolino nella di lui vita, cap. 2. pag. 266. Io lo intendo, che Antonino come successore di Adriano compisse il restauro da lui cominciato. Egli chiama il Panteon Tempio d’Agrippa insieme al Tempio d’Adriano, ed altri: dal che si ricava un argomento concludentissimo per provare, che il Panteon fosse veramente un Tempio, come osservò egregiamente il tante volte lodato monsignor Borgia nella Storia di Tadino, par. 2. §. 5. fra le Simbole del Gori stampate in Roma, ossia Dec. 2. vol. 3. pag. 62. Vedi qui avanti pag. 284. seg. not. b.
- ↑ Data anche da Lucio Fauno De antiq. urb. Roma., lib. 4. cap.18., Grutero Tom. I. pag. 1. n. 1., dal Pagi, Smezio, Desgodetz, dal Piranesi, ed altri tutti scorrettamente. Nell’architrave sta in due linee, cominciando la seconda da IMP. CAES.
- ↑ Vedasi il Nardini Roma antica, lib. 3. cap. 9. 13.
- ↑ Vedi qui avanti pag. 252., e Tom. iI. pag. 400.
- ↑ Vedi Tom. iI. pag. 401. segg.
- ↑ Gottofredo crede, che sia piuttosto di Costanzo.
- ↑ lib. 15. tit. 1. De oper. publ. leg. 2.
- ↑ sect. 65. Tom. I. pag. 72.
- ↑ sect. 38. pag. 42.
- ↑ Vedi qui avanti pag. 90. not. a.
- ↑ Quale credo fosse la colonna di cipollino, di cui ho parlato qui avanti pag. 262. col. 2.
- ↑ Vedasi qui avanti Tom. iI. pag. 406., e Flaminio Vacca Memorie, num. 94. seg.
- ↑ L’anonimo scrittore Antiq. Consantinop. lib. 1, presso il Bandurio Imper. orient. Tom. I. pag. 9., lib. 2. pag. 29., lib. 3. pag. 41.
- ↑ Lo stesso ivi pag. 4.
- ↑ Annali d’Italia, Tom. iI. par. 1. anno 312. pag. 329.
- ↑ Zosimo lib. 2. cap. 13.
- ↑ Ammiano Marcellino lib. 27. c. 3.
- ↑ Epist. class. 1. epist. 40. ad Theodosium, num. 13. oper. Tom. iiI. col. 1020.
- ↑ Muratori Nov. Thes. inscr. Tom. I. pag. 455. n. 4.
- ↑ Tom. I. pag. 100. n. 6. Ho detto secondo la lezione del Grutero, perchè come la dà il Marliano Topogr. urb. Roma, lib. 2. cap. 10., Lucio Fauno De antiq. urb. Romæ, lib. 2. cap. 10., e il Nardini Roma ant. lib. 5. cap. 6. pag. 214. vi mancano le due righe della dedica fatta da Anicio Paolino, e vi è una volta sola il S. P. Q. R.
- ↑ Tom. iI. pag 413. not. c. A questo luogo il nostro Autore non crede che fosse quello il celebre Tempio della Concordia; e ivi ho accennato, che il Nardini al luogo ora citato è dello stesso sentimento, apportando ottime ragioni per farne dubitare. Ma pure io inclinarci a pensare che anzi lo sia: in primo luogo per la riferita iscrizione, che vi fu trovata per testimonianza del Marliano, e di Lucio Fauno: in secondo luogo perchè Benedetto nell’Ordine Romano, che riporteremo quì appresso, dice il Tempio della Concordia accanto all’Arco di Settimio Severo, e lo fa capire ancora intiero, non per altra ragione nominandolo, che per indicare ove stava quell’Arco, e dove passava il Papa; al qual effetto lo scrittore non avrebbe mai dovuto nominare il Tempio della Concordia, che il Nardini colloca più in là di questo, verso la Consolazione, del quale al tempo, in cui fu scritto l’Ordine Romano, forse non vi era vestigio; o se vi era, non doveva andarsi a cercare una fabbrica sì lontana dall’Arco, lasciando la più vicina intiera: e che in fatti di questa intendesse parlare Benedetto si può arguire da Poggio Fiorentino, il quale scrisse prima del Marliano, e la chiama anche Tempio della Concordia o perchè ricavasse tal nome da quella iscrizione, che ancora vi fosse esposta; o se era sotterrata, perchè si era continuato a chiamarlo Tempio della Concordia per tradizione. Nello stesso senso di questo scrittore dell’Ordine Romano parlava anche Dione Cassio lib. 58. cap. 11. pag. 885. Tom. iI. dicendo il Tempo della Concordia vicino al carcere. Servio ad Aeneid. lib. z. vers. 116. lo dice vicino al Tempio di Saturno: Templum Saturni, quod est ante Clivum Capitolinum, juxta Concordiæ Templum; chechè ne dica il Nardini. La difficoltà, che porrebbe nascere dalla iscrizione postavi sul frontispizio, non importa contradizione; potendo benissimo stare, che ma il Senato lo restaurasse per l’antichità, e pescia per un incendio al tempo, che al luogo citato motivammo.
- ↑ loc. cit. pag. 340.
- ↑ La porto così disposta nelle linee, come la dà il P. Corsini; per comodo della stampa. Presso il Nardini lib. 4. c. 6.pag. 164., ed altri, è contenuta in otto linee.
- ↑ Tom. I pag. 470. n. 1.
- ↑ pag. 343.
- ↑ Nella di lui vita, cap. 25. pag. 479.
- ↑ Chron. ad ann. cclxxv. par. 2. p. 177.
- ↑ lib. 14. cap. 9. pag. 178.
- ↑ Codino De orig. Constantinop. pag. 65. e l’anonimo De structura templi magna. Dei Eccl. s. Sophiæ, presso il P. Combefis Origin. rerumq. Constantinopol. pag. 244. Vedi qui avanti pag. 88. not. b.
- ↑ Cassiodoro lib. 2. epist. Vedi il Tiraboschi Tom. iiI. lib. I. cap. VII. §. iI. seg.
- ↑ Cassiodoro lib. 1. epist. 25.
- ↑ Eusebio Chron. ad ann. ccxlvj. par. 2. pag. 174.
- ↑ lib. 4. epist. ult.
- ↑ lib. 3. epist. 31.
- ↑ lib. 1. epist. 21., lib. 2. epist. 34.
- ↑ lib. 7. form. 15.
- ↑ lib. 3. epist. 29. e 31.
- ↑ lib. 10. epist. 8. e 9.
- ↑ lib. 2. epist. 7., lib. 3. epist. 9. e 29
- ↑ Muratori Ann. d’Ital. anno 536. Tomo iiI. par. 2. pag. 135.
- ↑ Vedansi descritti da Procopio De ædificiis Justiniani. Vedasi anche Gio. Antiocheno cognominato Malala, Hist. chron. lib. ult.
- ↑ Ne parla nel suo editto dell’anno 554. al cap. 11.
- ↑ lib. 8. tit. 12. leg. 11.
- ↑ ivi leg. 5.
- ↑ De bello goth. lib. 1. cap. 19.
- ↑ Così spiego il passo di s. Gregorio, che il Senato fosse ridotto quasi a niente, non che più non sussistesse, come potrebbe prendersi a prima vista; perchè ha bene osservato il signor conte Vendettini Del Senato Romano, lib. 1. cap. 2. n. 2. pag. 17., che in questo tempo, e dopo ancora vi era il Senato composto di più Senatori, come costa dagli scrittori contemporanei, e posteriori. Ma il signor conte mostra di non aver veduto questo luogo di s. Gregorio, che avrebbe meritata spiegazione.
- ↑ lib. 2. hom. 6. num. 22. seg. op. Tom. I. col. 1374. seg.
- ↑ Nella vita, lib. 2. cap. 7. Tom. IV. pag. 234.
- ↑ Ann. Tom. iiI.par. 2. pag. 360. anno 593.
- ↑ Ezechiel. cap. 24. vers. 10. seq.
- ↑ Nalium cap. 2. vers. 11.
- ↑ Mich. cap. 1. vers. 16.
- ↑ Roma in ogni stato, par. 1. pag. 571.
- ↑ Presso il Canisio Tom. iiI. pap. 239.: Romæ Tiberis supra modum inundans multa subvertit ædificia.
- ↑ Mus. Italic. Tom. I. par. 2. pag. 63.
- ↑ Rer. Ital. Scrip. Tom. iI. par. 2. p. 295.
- ↑ Nella vita di quel Papa, sect. 280. Tom. I. pag. 165.
- ↑ De Rom. Pontif. presso i PP. Bcnedettini Acta Ss. Ord. s. Bened. Sec. iiI. par. 2. pag. 570., e il Muratori Tom. iiI. par. 2. col. 196. B.
- ↑ Parimente nella vita di s. Adriano, sect. 356. pag. 272.
- ↑ Io non intendo come da queste parole tutti generalmente gli scrittori abbiano potuto ricavare, che l’inondazione rovinasse il ponte d’Antonino. Io compatirei quelli, che ciò asserissero sulla lezione di tali parole, come la riporta il Baronio a quell’anno n. 8. Tom. XIII. p. 24.9.: pontem Antonini, ipsum evertens egressus; ma non so menarla buona al Muratori, e al Vignoli, i quali nella loro edizione d’Anastasio leggono come si legge in questa di monsig. Bianchini; e ciò non ostante il primo negli Annali a quell’anno 791. Tom. IV. par. 2. pag. 176., e il secondo nella nota a quel luogo, vi trovano la rovina di quel ponte. Il Vignoli vi aggiugne di più, che fosse il ponte, detto ora quattro capi, senza nessun fondamento; quando abbiamo da Capitolino nella vita di Antonino Pio, cap. 8., che questo principe rifece il ponte Sublicio. Se poi lo rifacesse di marmo, come sostiene il Venuti Accur. e succ. descriz. topogr. delie Ant. di Roma, par. 2. cap. 2. pag. 27. senza darne prova; o di legno, come pensa il Nardini Rom. ant. lib. 8. cap. 3. pag. 441., argomentandolo da una medaglia d’Antonino portata da Giovanni Sambuco in fine de’ suoi Emblemi, che ha nel rovescio un ponte di legno, rifatto poi da qualchedun altro in pietra, come aggiugne lo stesso Nardini, oppure che fosse fatto anche prima di pietra da Emilio Lepido, come vuole il Marliano Topogr. urb. Romæ, lib. 5. cap. 14., lo diremo meglio qui appresso. Per la questione presente, Anastasio altro non vuol dire, se non che le acque uscite dal loro letto avendo scorso tutta la città sino al ponte di Antonino, il quale non può edere altro se non il Sublicio, detto poi Emilio, ed Antonino dai restauratori, sì per l’autorità di Capitolino, e sì per il piano di Roma, che là finisce, atterrarono le mura della città poco distanti, e si riunirono colle altre acque del fiume. Non saprei di quale altro muro si possa intendere Anastasio, se non era qualcuno sulla sponda del fiume, che impedisse il suo corso. Del muro, che faceva sponda al ponte noi crederei, perchè lo scrittore dice, che queste acque dopo aver rovinato il muro, uscite si riunirono colle acque del fiume: uscite vuol dire dalla città, non uscite dal ponte, o dalle sue sponde, che sarebbe ridicolo il dirlo; e non poteva dirsi, perchè arrivate al ponte già doveano essere unite colle altre del fiume, e insieme al più avrebbero fatta quella rovina del ponte. Oltracciò Anastasio poco prima, e più altre volte dice muri semplicemente le mura della città.
- ↑ Siccome il Vignoli al luogo citato varia in alcune cose da quella lezione del Bianchini, stimo bene di aggiugner qui anche la sua lezione, num. 94.. Tom. ri. pag 232.: In vicesimo præfati eximii Pontificis anno mense decembri, quintadecima indictione fluvius Tyberis a suo egressus alveo intumescens sese per campestria dedit: qui & præ nimia inundatione per portam, qui dicitur Flaminia, ingressus est, ipsam a fundamentis evellens portam, atque ad arcum, qui vocatur Tres Falciclas eam deduxit. Interea & muros in aliquibus transcendit locis, atque ultra basilicam sancti Marci regirans per porticum, qui vocatur Pallacinis, per plateas se extendens usque ad pontem Antonini, ipsum evertens murum egressus est, & in suo se iterum univit alveo; itaut in Via Lata amplius quam duas staturas ejusdem fluminis aqua excrevisset, atque a porta sancti Petri usque ad pontem Molvium aquæ se distenderent juxta remissam vim ipsius fluminis se dedit. Queste, e infinite altre varianti dei codici d’Anastasio fanno vedere quanto poco sia da fidarsi delle denominazioni, che vi si leggono, come i dotti hanno già osservato. Del Pallacinis ne parleremo appresso.
- ↑ Anastasio nella di lui vita, sect. 114. pag. 116.
- ↑ sect. 170. pag. 158.
- ↑ sect. 117. pag. 118.
- ↑ sect. 141. pag. 136.
- ↑ Cedreno Comp. hist. Tom. I. p. 435. seg., Zonara Annal. lib. 14. cap19. pag. 88. seg., Glica Annal. par. 4. pag. 278.
- ↑ De gest. Langobard. lib. 5. cap. 11.
- ↑ Anastasio nella vita di s. Vitaliano, sect. 135. pag. 131. seg.
- ↑ L’Alveri Roma in ogni ogni stato, par. 1. pag. 569. scrive che portasse via anche le statue di marmo, e tutti i più belli ornamenti; ma questa è una delle solite inesattezze di quello scrittore; come è una esagerazione grandissima quella del Vasari nel proemio alle vite de’ pittori ec., pag. 154., ove dice, che Costanze guastò, spogliò, e portossi via tutto il resto, che non aveano guastato i Pontefici, e massimamente s. Gregorio; dopo aver detto senza provarlo, che Totila rovinò Roma a segno di farle perdere la forma, e l’essere stesso, Il Vasari merita fede nelle notizie del suo tempo, e del suo mestiere; ma non in quelle che richieggono maggior erudizione di antica storia,
- ↑ Del regno de Longob. lib. 4. n. 23. Tom. iI. pag. 378. seg.
- ↑ Bianchini Del palazzo de’ Cesari, cap. 6. pag. 150.
- ↑ Secondo Cedreno Compend. histor. Tomo I. pag. 456. C. s. Gregorio II. fu il primo, che con volle si pagassero dai Romani all’imperator Leone, per vedere se così poteva in qualche modo rattenerlo dai suoi eccessi; ma egli imperversando se ne vendicò, facendo confiscare le rendite, che la chiesa di s. Pietro aveva in Calabria, e nella Sicilia.
- ↑ Vedi Anastasio nella vita di s. Gregorio II.
- ↑ Vedi lo stesso nella vita di Stefano II. o III., sect. 232. 235. pag. 197. 199.
- ↑ Vedi lo stesso nella vita di Severino, sect. 212. pag. 122., nella vita di Sergio, sect. 150. pag. 150.
- ↑ Tom. iI. diss. 21. col. 147., e lo ripete il Zanetti loc. cit. Tom. I. pref. p. XXX.
- ↑ Nella di lui vita, sect. 120. pag. 121.
- ↑ sect. 149. pag. 142.
- ↑ Nella vita di Stefano III. o IV., sect. 262. pag. 218.
- ↑ Anastasio nella di lui vita, sect. 169. pag. 158.
- ↑ Anastasio parimente nella di lui vita, sect. 177. pag. 163., Frodoardo parimente nella di lui vita, pag. 569. presso i Padri Benedettini, e presso il citato Muratori col. 67.
- ↑ Anastasio sect. 202. pag. 180.
- ↑ Vedasi il ch. Padre Becchetti nella Continuazione della Storia Ecclesiastica dell’emo Orsi, Tom. IV. lib. 53. n. 13. anno 741.
- ↑ Nella dìi lui vita, sect. 187. pag. 171
- ↑ lib. 9. tit. 17. De sepulchris violatis.
- ↑ num. 12.
- ↑ num. 13. 14. 48.
- ↑ lib. 1. cap. 93. pag. 61.
- ↑ De prof. in virt. sent. in fine, oper. Tom. iI. pag. 85. F.
- ↑ lib. 6. num. 39. Tom. iI. par. 631.
- ↑ n. 9., e ivi il Pagi, Tom. XII. p. 610. Monsignor Mansi vi sostiene, che sia stato l’anno 756.
- ↑ Ann. d’Ital. Tom. IV. par. 2. pag. 46.
- ↑ Registrata nel Codice Carolino, che contiene il carteggio, che allora passava tra i Sommi Pontefici, e i re di Francia, num. 4. Tom. I. pag. 85., e data anche dal Du-Chesne Hist. Franc. Script. Tom. iiI. pag. 707., e dal Muratori Rer. Ital. Script. Tom. iiI. par. 2. pag. 96. Nel Codice Carolino Stefano si numera II.; presso il Du Chesne, il Muratori, e monsig. Bianchini nella sua edizione d’Anastasio, III. La ragione si è, perchè non essendo stato consecrato Stefano II., che visse tre soli giorni, non si ha da alcuni per vero Pontefice.
- ↑ Nella vita di quel Papa, sect. 249. seg.
- ↑ in Chron. presso il Canisio Lect. Antiq. Tom. iiI. pag. 241.
- ↑ in Chron. cap. 6. presso il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. iI. par. 2. col. 176.
- ↑ Anastasio nella vita di Stefano, sect. 250. pag. 210., e il Continuator di Fredegario Append. 2. presso il Du-Chesne Histor. Franc. Script. Tom. I. pag. 775. B.
- ↑ Così dice Anastasio loc. cit. sect. 24.9. pag. 208., e il citato anonimo Salernitano. Il Zanetti lib. 6. n. 40. Tom. iI. pag. 633. crede, che l’assedio durasse 55. giorni soli, fondato fu quella lettera del Pontefice; ma non ha riflettuto, che dopo scritta la lettera durò qualche tempo, com’egli stesso avea detto poco prima.
- ↑ Nella citata vita di Stefano II. o III. sect. 254. pag. 212.
- ↑ Chron. Casinen. lib. 1. cap. 8. presso il Muratori Rer. Italic. Script. Tom. IV. pag. 272. seg.
- ↑ Nella vita di s. Adriano I. sect. 318. pag. 250. Pietro Manlio, che scrisse alla metà del secolo XII. al tempo d’Alessandro III., Hist. Basil. s. Petri, cap. 8. n. 159. seg. presso i Bollandisti Acta Ss. Junii, Tom. VII. p. 33. la porta più estesa, e più ancora che l’Ostiense, aggiugnendo, che a suo tempo i nomi delle città si leggevano puranche in caratteri d’argento sulle porte di bronzo della chiesa di s. Pietro: il che non ha saputo Zanetti, il quale loc. cit. lib. 6. num. 41. pag. 635. impugna l’Ostiense.
- ↑ Vedi l’emo Orsi Dell’orig. del demin. e della fovran. de’Rom. Pont. ec. cap. 5. segg., Cenni Codex Caroliti, ec. Tom. I. pag. 12., Tom. iiI. pag. 92., il P. Becchetti loc. cit.
- ↑ L’imperator Lodovico Pio scriveva a questo proposito in una lettera a Basilio imperator greco, riportata dall’anonimo Salernitano nella sua Cronica, cap. 99., presso il Muratori Tom. iI. par. 2. col. 247.: Si paginas revolvas græcorum annalium, & quæ indiscriminate ab alienis, per vos nequaquam defensi, & quæ a vestratibus Pontifices Romani pertulerunt, perscruteris, profecto invenies, unde illos juste non valeas redarguere: e poco dopo, cap. 100. col. 248. E.: Græci propter cacodoxiam, videlicet malam opinionem, Romanorum Imperatores existere cessaverunt, deferentes non solum urbem, & sedem imperii, sed & gentem Romanam, & ipsam quoque linguam amittentes, atque ad alia transmigrantes.
- ↑ Legatio ad Niceph. Phocam, dopo il principio, oper. pag. 137., e presso il Muratori Rer. Italic. Script. Tom. iI. pag. 479.
- ↑ sect. 326. pag. 255.
- ↑ sect. 120. pag. 121.
- ↑ sect. 331. pag. 258.
- ↑ sect. 333. 336. pag. 259. seg.
- ↑ Corso delle acque ant. par. 1. num. 28. §. 8. pag. 260.
- ↑ De aq. & aquæd. diss. 1. num. 87. segg.
- ↑ loc. cit. n. 21. §. 4. 5. pag. 169.
- ↑ loc. cit. num. 30. pag. 266.
- ↑ sect. 341. pag. 263.
- ↑ Crescimbeni Storia della basil. diac. s. Maria in Cosmed. lib. 1. cap. 3. pag. 17.
- ↑ Veter. analect. Tom. IV. p. 506. segg.
- ↑ Tom. iI. pag. CXXII. segg.
- ↑ loc. cit. pag. 268.
- ↑ Pare che il Padre Casimiro Mem. istor. della chiesa, e conv. d’Arac. cap. 1. pag. 5. lo creda rovinato prima senza nessun fondamento; come senza ragione, fuorché sull’autorità del Platina, pretende che Onorio I. ne levasse le tegole di bronzo per coprire la chiesa di s. Pietro, come abbiamo veduto qui avanti pag. 286. not. b., che pensa anche il Rycquio; e vuol rigettare l’autorità d’Anastasio, che le dice tolte dal Tempio di Roma, come dicemmo al luogo citato, perchè egli stesso nella vita di S. Felice IV. sect. 90. pag. 97. avea detto, che questo Pontefice dedicò a’ Ss. Cosma, e Damiano quel Tempio, da cui non è probabile, che poi Onorio I. levasse le tegole. Ma il P. Casimiro non ha badato, scrivere Anastasio, che san Felice dedicò la chiesa a que’ santi juxta Templum Romæ, accanto, o vicino al Tempio di Roma, non già nel Tempio stesso; e gli antiquarj hanno fatte gran questioni per trovare quale sia questo Tempio. Vedasi l’annotatore al Nardini lib. 1. cap. 12. pag. 108. n. 6. L’autorità del Platina in confronto d’Anastasio non mi pesa punto, avendo in contrario anche altri autori più antichi di lui, e fra gli altri il citato Pietro Manlio, che scrisse nel secolo XII., Hist. Basil. s. Petri, cap. 4. presso i Bollandisti Acta Sanct. Junii, Tom. VII. pag. 44.. C,
- ↑ Vita s. Greg. Magni, cap. 37. oper. s. Greg. Tom. IV. col. 14.
- ↑ V. Anastasio nella di lui vita, sect. 515. 516. 532. seg., il Torrigio Le sacre grotte Vatic. par. 2. pag. 404., l’Arringhio Roma subterr. Tom. I. Lib. 2. cap. 8. pag. 258., il Muratori Antiq. med. ævi, Diss. 26. Tom. iI. col. 460. segg.
- ↑ Annal. Tom. XV. ad ann. 900. n. 1. pag. 500.
- ↑ Leggasi il Vendettini Del senato Rom. lib. 1. cap. 4. segg., e Corti De Sen. Rom. cap. 4. segg.
- ↑ De regno Ital. lib. 7. anno 973. segg. oper. Tom. iI. col. 449. seg. Vedasi anche il Muratori Antiq. medii ævi, diss. 26. Tom. iI. col. 493. segg.
- ↑ Vedasi il Muratori Annali d’Ital. anno 997. Tom. V. par. 2. pag. 345.
- ↑ L’annalista Sassone loc. cit. pag. 366., Rodolfo Glabro lib. 1. cap. 4. pag. 7., Ricordano Malaspina Istor. Fiorent. cap. 52. presso lo stesso, Tom. VIII. col. 916. A., Leone Ostiense Chron. Casin. lib. 2. c. 18. presso lo stesso, Tom. IV. pag. 352., s. Pietro Damiano nella vita di s. Romualdo, cap. 25. oper. Tom. iI. pag. 196., e presso i PP. Benedettini Acta Ss. Ord. s. Bened. Secul. VI. par. 1. pag. 291., Ditmaro Chron. lib. 4.. presso il Leibnizio Script. Rer. Brunsvicens. pag. 354., e gli Annali Hildeshemensi, ivi pag. 721. all’anno 996. 998. Vedasi anche il Vendettini loc cit. cap. 4. num. 8. pag. 65., il Muratori Annali d’Iral. loc. cit. pag. 352.
- ↑ S. Pietro Damiano Epist. lib. 1. epist. ult. ad Cadol. oper. Tom. I. pag. 23. Non lo ha letto con attenzione il Muratori Annali d’Ital. Tom. V. par. 2. p. 351. all’anno 998., ove gli fa dire, che a Giovanni fosse tagliata anche la lingua, e poi gli fosse fatto cantare: Tale supplicium meretur, qui Romanum Papam de sua Sede pellere nititur; pigliandone occasione di celiare, e chiedere a Pier Damiano, come costui potesse cantare dopo essergli stata dianzi tagliata la lingua. Il fatto si è, che s. Pietro Damiano dice tutto il resto, eccettuato che fosse tagliata la lingua all’antipapa. Lo dice bensì l’annalista Sassone presso l’Eccardo Corp. hist. medii ævi, Tom. iI. col. 366., senza aggiugnere, che fosse fatto cantare: onde il Muratori ha confuso il racconto d’amendue gli scrittori. Resipiscente Quiritum populo, scrive il Damiano, atque in zelum dignæ ultionis unanimiter excandescente, irruentes in eum manus injiciunt, oculos eruunt, aures, naresque præcidunt... mox ante retro conversum in asello gloriorum equitem posuerunt, tenentemque sui rectoris in manibus caudam per publicam totius Urbis viam, hæc ut caneret impulerunt: Tale supplicium, &c. Andrea Dandolo Chron. lib. 9. cap. 1. par. 11. presso lo stesso Muratori Rer. Ital. Script. Tom. XII. col. zz6. dice preso Giovanni nel Castel s. Angelo.
- ↑ Sifrido Misnicense Epitome, lib. 1. all’anno 998., forse per errore di stampa 988., presso Giorgio Fabricio Rer. Misnic. Tom. iI. pag. 156.
- ↑ Leggasi il citato Vendettini, e il card. d’Aragona nella vita di Niccolò II., e del di lui successore Alessandro II., presso il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. iI. col. 301. feg.
- ↑ lib. 3. cap. 5. Vedasi anche il Zazzera Della nobiltà dell’Ital. par. 2. nella famiglia Frangipane.
- ↑ Il Volterrano Comment. urb. lib. 23. in fine, pag. 710. scrive, che la casa de’ Savelli fu prima di Pierleone; ma non dice se fosse quella fabbricata sul Teatro di Marcello.
- ↑ Infessura Diar. Urb. Romæ., presso l’Eccardo Corp. histor. med. ævi, Tom. iI. col. 2014., e il Muratori Tom. iiI. par. 2. col. 1249. B. Vedi anche il Sansovino nella Storia di quella casa, lib. 1. pag. 6.
- ↑ Niccolò vescovo Botrontinense Relat. de itin. Ital. Henr. VII. Imper. presso il Muratori Tom. IX. col. 918. E., ove dice, che Enrico unito al popolo lo tolse a Giovanni Savelli, poi lo diede al di lui fratello Pietro, che avea per moglie una di casa Colonna; e di questo intenderà forse parlare Albertino Mussato De gest. Ital. post Henr. VII. Cas. lib. 1. rubr. 2. presso lo stesso Muratori Tomo X. col. 574. scrivendo, che dopo la morte di Enrico nel 1313. lo possedeano gli aderenti dei Colonnesi, i quali voleano cederlo a Roberto re di Puglia venuto a Roma. Trovo fatta menzione di Capo di Bove in una carta del monistero di Subiaco dell’anno 953. pubblicata dal ch. monsig. Galletti Del Primic. della s. Sede, append. n. XIII. pag. 204., in cui si ha, che v’erano le saline; poichè una certa Rosa vendè a quel monistero un filo di salina, ossia come io credo, un ramo di terreno, di que’ tanti, ove si disecca l’acqua marina per estrarne il sale: Filum saline quod ponitur in Burdunaria in pedica que vocatur Capite bove juxta filum de Dominico, qui vocatur Caca in butte; siccome di due altri fili delle medesime saline possedute dalle chiese de’ Ss. Sergio e Bacco, e di S.Pancrazio, si fa menzione in una lettera d’Innocenzo III., di cui parleremo appresso: Duo fila falinarum in Bandonaria, in loco, qui dicitur Caput bovis, juxta filum s. Pancratii. Io non intendo come qui potettero esservi le saline da fare il sale, che non potevano essere altrove, che vicino al mare; e perciò credo che qui si parli di altro luogo alla riva del mare verso il porto di Trajano, ove erano le saline, che pure si chiamasse Capo di Bove: e in fatti là alle saline vi era un luogo detto Burdunaria, di cui si parla in una bolla di Leone IX., che cominciò a regnare l’anno 1049., diretta a Giovanni vescovo di Porto, predo l’Ughelli Italia sacra, Tom. I. col. 122. D.
- ↑ cap. 11. pag. 64.
- ↑ È da farsi una riflessione su queste parole. La colonna, che si concede, vien detta d’Antonino semplicemente, come si dice anche dagli antichi, e non per errore, poiché M. Aurelio fu detto pure semplicemente Antonino, e Antonino Pio, come fecero osservare il Vignoli De col. imp. Anton. Pii, c. 7. pag. 120., e il P. Pagi al Baronio Tom. iI. anno 176. n. 1. pag. 286.; benché gli antiquarj sfino al principio di questo secolo per errore abbiano creduto, che quella colonna fosse la stessa, che quella d’Antonino Pio padre di M. Aurelio scoperta sotto il Pontificato di Clemente XI., come già dissi nel Tom. iI. pag. $§.. not. a. Quel che voglio osservare, è che appunto perchè queste due colonne si chiamavano al tempo del Pontefice Agapito II. semplicemente Colonne d’Antonino, quella di M. Aurelio viene distinta dal Papa coll’aggiunto di major, maggiore, ossia più grande, per distinguerla dall’altra, che doveva essere tutta ancora nel suo antico stato, e non interrata, come ne’ secoli appresso: altrimenti non sarebbe stato necessario quell’epiteto; seppure non le si dà per dire una colonna delle più grandi. L’autore dell’Itinerario, che ho citato qui avanti, la nomina Columna Antonini senza verun aggiunto per distinguerla dall’altra, perchè non ve ne era bisogno, atteso che la nomina come esistente per la strada Lateranense, ch’egli faceva, dalla quale era lontana l’altra d’Antonino Pio. Che poi il Papa intenda parlare della Colonna di M. Aurelio, non dell’altra, si rileva dalla cella di essa nominita nelle citate parole, la quale non età nella Colonna d’Antonino Pio, che non era vuota dentro per salirvi sino in cima.
- ↑ loc. cit. cap. 7.
- ↑ De Templo, & Cœnob. Ss. Bonif. & Alex. append. num. XV. not. 68. pag. 407.
- ↑ Epist. lib. 2. epist. 192. Tom. I. p. 404.
- ↑ Martinelli Roma ex ethnica sacra, cap. 12. pag. 399., Piazza Gerarch. Cardin. pag. 729.
- ↑ Romualdo Salernitano Chron. presso il Muratori Tom. VII. col. 189. in fine, e Sicardo vescovo di Cremona parimente nella sua Cronica presso lo stesso Muratori, ivi col. 595, in fine.
- ↑ Romualdo Salernitano l. c. col. 192. A., Godefrido Viterbese Pantheon, presso lo stesso Muratori Tom. VII. col. 460. in fine, Ottone di Frisinga De gest. Frid. I. lib. 1. c. 28., ivi Tom. VI. col. 662. segg.
- ↑ Tom. I. append. num. XLI. col. 96.
- ↑ cit. cap. 5.
- ↑ Della nobiltà dell’Ital. par. 2. nella Storia della famiglia Frangipane.
- ↑ Variar. lib. 4. epist. 42.
- ↑ Pandolfo Seniore Histor. Mediol. lib. 4. cap. 2. presso il Muratori Tom. IV. pag. 119. dice, che Enrico entrò in Roma per bravura de’ suoi, i quali diedero la scalata alle mura nel mentre che le guardie dormivano. Anche gli altri scrittori da citarsi qui appresso variano fra di loro in qualche piccola circostanza, che non valuto a questo proposito.
- ↑ Nova Biblioth. mscript. libr. Tom. I. pag. 158.
- ↑ Histor. lib. 3. c. 7. presso il Du-Chesne Tom. iiI. pag. 18., di cui dà le parole anche il Baronio a quell’anno, n. 10. Tom. XVI. pag. 331.
- ↑ lib. 3. cap. 53. presso il Muratori Tomo. IV. pag. 469.
- ↑ Presso il Muratori Rer. Ital. Script, Tom. iiI. pag. 313.
- ↑ Chron. presso l’ Eccardo Corp. hist. med. ævi. Tom. iI. col. 622.
- ↑ Hist. Sicula, presso il citato Muratori, Tom. VIII. col. 773. A
- ↑ Hist. Sicula, lib. 3. cap. 37. presso lo stesso, Tom. V. pag. 558. B.
- ↑ Chron. presso il Muratori, Tom. VII. col. 175.
- ↑ loc. cit. cap. penult. pag. 120.
- ↑ Liber ad Amicum, presso Oefelio Rer. Boicar. Script. Tom. iI. pag. 818.
- ↑ Hist. Decad. 2. lib. 3. pag. 203. seg.
- ↑ Dell’Obel. di Ces. Aug. cap. 16. pag. 91. segg.
- ↑ Degli Obelischi, cap. 25.
- ↑ Di alcune case fabbricate vicino a questa chiesa si fa menzione in una carta dell’anno 1076. conservata nell’archivio di s. Maria in Campo Marzo, e pubblicata dal lodato monsig. Galletti Del Primic. della s. Sede, ec. append. num. L.pag. 293. seg.
- ↑ Vedasi il Mercati loc. cit. cap. 36. Io trovo per la prima volta questo Obelisco nominato Agulia in una bolla di Leone IX. dell’anno 1053. data nella Raccolta delle bolle appartenenti alla basilica Vaticana, Tom. I. pag. 25. col. 2., ove il Papa dice, che si chiamava Sepolcro di Giulio Cesare, forse perchè li credeva, che nella palla postagli sulla cima vi fossero le ceneri di quell’imperatore. Altri credevano, che vi fossero le ceneri di Augusto; ma scrive il Cicarelli nella vita di Sisto V., che l’architetto Fontana, il quale fece il trasporto dell’Obelisco, la spezzò, e la trovò fatta di getto tutta piena senza alcun forame.
- ↑ Nella nota alla lettera 7. del libro 3. col. 174. n. 9.
- ↑ Riportate dal detto P. Beaugendre fra le di lui opere, col. 1334. seg, e date prima con qualche variante dal P. Hommey Suppl. Patrum, pag. 456. seg. Pare che nè l’un, nè l’altro di quegli editori abbia veduto, che la prima elegia di queste due così intiera la inserì nella sua onera De gestis regum Anglorum, lib. 3. pag. 134. Guglielmo Malmesburiense, che scrisse alcuni anni dopo Ildeberto, parlando al luogo citato delle rovine di questa città, ove dice: De Roma, quæ quondam domina orbis terrarum, nunc ad comparationem antiquitatis videtur oppidum exiguum, &c. Due versi li dà varianti:
Urbs cecidit, de qua si quicquam dicere dignum
Moliar, hoc potero dicere: Roma fuit - ↑ Hist. della ven. Chiesa, e Monast. di s. Silv. in Capite, cap. 11. pag. 63.
- ↑ Gerarch. Cardinal. Tit. 25. pag. 587.
- ↑ Stor. della Basil. diac. di s. Maria in Cosmedin, lib. 1. cap. 2. pag. 12.
- ↑ Queste iscrizioni, che meriterebbero un luogo distinto tra le formole del Brissonio, sarebbero anche degne di una dissertazione alquanto lunga, che io mi desidero opportunità di pubblicare altrove. Qui farò soltanto alcune riflessioni più necessarie sul nome di Centenaria dato alla Colonna, e sulle date delle lapidi. L’aggiunto di centenario si dava a qualunque cola, che avesse o in peso, o in numero, o in misura, la proporzione, o la quantità del numero cento, o vi si accostasse. Cosi vediamo presso Tertulliano Advers. Gent. cap. 6. nominate le cene centenarie dai cento sesterzj, che per la legge Fannia vi si poteano spendere: Video & centenarias cœnas, a centenis sestertiis dicendas; e De pallio, cap. 5. piatti di cento libbre detti centinarj: Lances centenarii ponderis Sulla molitur. S. Isidoro Orig. lib. 16. cap. 24. scrive, che v’era un peso di cento libbre, che si chiamava centenario. S. Gregorio il Grande Epist. lib. 9. epist. 124.. parla di spese centenarie, e di sei centinaia; e nella iscrizione citata qui avanti pag. 249. col. 2. Sesto Vario Marcello si dice procuratore centenario, ducentenario, trecentenario, per l’annuo stipendio, che aveva da diverse cariche, di 100. ovvero 100000. sesterzj, ec. Crede il Mazochi In reg. Herculan. Mus. æn. Tab. par. 2. pag. 271., che il numero cento fosse quasi un numero religioso, che si desse a molte cose non tanto per il numero, quanto per il nome; e che si desse ai tempj, altari, ed altri edifizj, detti ecatompedi per quella ragione, non precisamente perchè avessero quella misura di cento piedi. Il Crinito De hon. discipl. lib. 14. cap. 6. asserisce, che vi fossero anticamente colonne, e portici detti centenarii, per essere stati lunghi cento passi; e di un triportico lo abbiamo ve luto qui avanti pag. 44. col. 2. Si è anche veduto pocanzi, che il condotto dell’acqua Sabbatina si chiamava centenario semplicemente, per li cento archi, che a un dato luogo lo reggevano, come scrive Anastasio nella vita di Adriano I. sect. 331. pag. 258. Tom. I. In Roma era celebre pure l’Hecatonstylon vicino al Teatro di Pompeo, di cui parla anche Marziale lib.2. epigr. 14. edit. Raderi, e nel lib. 2. epigr. 14. L’anonimo scrittore Ant. Constant. lib. 3. presso il Bandurio Imp. orient. ec. Tom. I. pag. 56. parla di una Torre di Costantinopoli detta centenaria; e in Antiochia, al dir dì Giovanni Antiocheno, cognominato Malala, Hist. chron. lib. 11. in fine, pag. 129. C., vi era un Bagno pubblico detto centenario, danneggiato da un terremoto al tempo di Traiano, e restaurato da M. Aurelio Antonino. Quale di quelle ragioni farà al nostro caso? L’altezza della Colonna è di 175. piedi, per consenso di tutti gli antichi, e dei moderni scrittori sulla fede di quelli, che l’hanno misurata. Siccome poco manca da quello numero ai 200. piedi, è facile che sia stata detta centenaria quasi che fosse di quell’altezza di due centinaja di piedi; come là delle altre colonne dette centenarie, benché non arrivassero ai cento piedi. Potrebbe dirsi ancora, che avesse avuto quel nome per la somma del denaro, che vi fu impiegato. Pare che per questa ragione fosse chiamata centenaria la detta torre di Costantinopoli, perocchè dice l’anonimo, che costò grandi somme: Turris centenaria magnis sumptibus extructa fuit. Secondo che scrive il citato Malala loc. cit. pag. 119. B. l’imperator Adriano quando fece rialzare il Colosso di Rodi, del quale fu parlato qui avanti Tom. iI. pag. 274. n. a., vi fece scrivere alla base, che vi avea spese tre centinaja, senza dire di qual moneta, per le macchine. corde, e artefici; e sappiamo da Erodoto lib. 2. c. 125. pag. 164., da Diodoro lib. 1. §. 64.. pag. 73., e da Plinio lib. 26. cap. 12. sect. 17. §. 3., che alla piramide più grande di Egitto vi era una iscrizione colla somma spesa in cipolle, agli, ravanelli, ed altri simili cibi, ascendente a 1600. talenti d’argento, che fanno più d’un milione di scudi romani. Non posso credere, che col numero cento siasi avuta relazione a qualche epoca; perchè allora la Colonna sarebbe stata detta secolare, come i giuochi secolari, ed altre cose.
L’epoca segnata nelle lapidi è interessante, benché un poco difficile ad appurarsi. Vi si ha il consolato di Falcone, e Claro; il quarto degl’idi di settembre, ossia li 10.; e Adrasto si dice liberto degli Augusti viventi: Dominorum nostrorum Augustorum. Il consolato di que’ due colleghi, secondo la più comune opinione seguita dal Muratori, e dall’Almeloveen, cade nell’anno 193. dell’era volgare, benché il Baronio lo porti all’anno 195. senza darne ragioni; ma poi quelli stessi scrittori danno per suffetti altri consoli, chi in marzo, chi in maggio, chi in giugno, chi in luglio; e in giugno veramente si rileva console Silio Messala presso Dione l. 73. c. ult. p. 1238. Tom. iI. Converrà dunque dire, che in queste lapidi, come in altra presso il Grutero Tom. iI. pag. 475. n. 4., in cui sono segnate le none di settembre, non si sia fatto conto dei consoli suffetti; ma siasi continuato a segnar l’anno col nome dei due ordinaj, come si usava da altri. Una difficoltà mi rimarrebbe, ed è, che potendosi sospettare, che que’ due primi consoli fossero deposti per ordine degl’imperatori, o almeno Falcone uomo prepotente, che avea macchinato contro di Pertinace per esser fatto imperatore, ciò non ostante i razionali degl’imperatori, che erano come procuratori, maestri di casa, e computisti, continuassero colla data di essi, non dei nuovi, forse più ben affetti ai loro padroni. Quest’imperatori poi non possono essere altri, che Settimio Severo dichiarato imperatore nel mese di maggio dello stesso anno, e Decimo Clodio Albino, che Severo ebbe la politica di dichiarare subito cesare mentre stava ancor nella Bretagna per trattenerlo colle buone dal farsi dichiarare anch’egli imperatore dal suo esercito. Osserva il Muratori a quell’anno, Tom. I. par. 2. pag. 290., che v’è chi pensa essersi più tardi risoluto Severo di appigliarsi a quel partito; ma egli poi nota all’anno seguente, rilevarsi dalle medaglie riferite dal Mezzabarba, che Severo adottò Albino per figlio in quell’anno; e la prima delle nostre lapidi par che confermi Albino più che cesare, dicendo amendue augusti; e facendo vedere Adrasto liberto dell’uno, e dell’altro.
Per ultimo voglio fare una riflessione sopra il luogo, ove furono trovate le lapidi. Esse furono trovate nella parte della piazza di monte Citorio in mezzo fra la casa di monsignor Vicegerente, l’altra casa accanto, e il piedestallo della Colonna d’Antonino Pio posto in mezzo alla piazza; e furono trovate al loro luogo cogli avanzi della casa di Adrasto alla profondità per lo meno di dieci in dodici palmi dal piano della piazza suddetta, al livello presso a poco del piano, ove sorge la Colonna di M. Aurelio. Questo conferma l’opinione dell’abate Venuti Accur. e succ. descr. di Roma ant. par. 2, cap. 3. pag. 66., e di altri, i quali pensano, che il monte Citorio non sia un monte naturale; o almeno che da quella parte fosse anticamente assai più basso, come anche dalla parte opposta di quella piazza, ove essendo stato scavato poco prima vidi massi enormi di fabbriche fino a qualche profondità: e così diremo dalla parte della casa della Missione, ove il piano antico dovea essere molto basso, dandocene prova la Colonna d’Antonino Pio dell’altezza di 67. e mezzo palmi senza la base, che vi fu trovata in piedi quasi tutta interrata, come dissi qui avanti pag. 332. not. b. - ↑ Mus. Italic. Tom. iI. pag. 118. segg. Trovo nell’altro Ordine dato dallo stesso Padre Mabillon prima di questo, pag. 103. num. 16., creduto da lui opera del secolo XI, una notizia, che serve a confermare ciò che ho notato qui avanti Tom. iI. pag. 27. seg., e in questo pag. 209. col. 2. intorno all’uso delle lenti presso gli antichi. Vi si dice dunque, che nel sabbato santo il nuovo fuoco può cavarsi o colla pietra, o per mezzo del cristallo: de crystallo, vel de lapide. Questo cristallo altro non può essere, che il cristallo ridotto ad uso di lente, di cui ho notato alla detta pagina 209., che i Greci ne facevano uso per cavarne fuoco opponendolo tra i raggi del sole, e la materia combustibile, come usiamo anche noi. Trovo pure in una lettera del Papa Zaccaria a Bonifazio arcivescovo di Colonia, e poscia di Magonza scritta l’anno 741., e riportata nella Raccolta dei Concilj dell’edizione veneta, Tom. VIII. col. 260. D, fatta menzione di questi cristalli, avendogli forse domandato Bonifazio, se era lecito con essi cavare il fuoco in quel giorno santo: al che il Papa risponde, non esservi tradizione alcuna su di ciò nella chiesa Romana. Donde rileviamo, che le lenti fosser conosciute in Germania nel secolo VIII., e possiamo credere anche in Roma; poiché il Papa non dice di non conoscere quello strumento; ma soltanto, che non era usato in Roma a quell’effetto di cavarne fuoco nel sabbato santo, al quale vi fu usato in appresso, come costa dall’Ordine Romano, ove si da per istruzione, che il fuoco possa cavarsi o con esso, o colla pietra. Come poi sia succeduto di far credere, che Salvino d’Armato degli Armati abbia inventato in Firenze l’uso degli occhiali sulla fine del secolo XIII., come si è veduto alla citata pagina 27., non so indovinarlo.
- ↑ pag. 125.
- ↑ pag. 132.
- ↑ pag. 143.
- ↑ Da questa denominazione è nata la volgare di Macel de’ Corvi. Vedi il Martinelli Romæ ex ethn. sacra, cap. 7. pag. 43.
- ↑ Del Tempio della Concordia vicino all’Arco di Settimio Severo ne parla anche l’autore dell’operetta De Mirabilibus Romæ, presso il P. Montfaucon Diar ital. cap. 20. pag. 293., di cui meglio parleremo appresso: Templum Concordia, juxta Capitolium, ante quod Arcus triumphalis, unde erat aacenaus in Capitolium juxta ærarium publicum, quod erat templum Saturni.
- ↑ Qui si legge Nerviæ. presso il P. Mabillon; ma deve leggerti Nervæ., come poco avanti; e il Tempio, che si dice della stessa dea Nervia, è quello di Nerva, di cui parla il citato autore De mirabilibus, pag. 293.: Infra hunc terminum fuit templum cum duobus Foris Nervæ, cum tempio suo divi Nervæ, cum majori Foro Trajani. Potrebbe essere anche il Tempio di Minerva, che v’era.
- ↑ Ammiano Marcellino lib. 16. cap. 11. notando le maraviglie, che ne fece l’imperator Costanzo al vederlo la prima volta, scrive: Cum ad Trajani Forum venisset, singularem sub omni cælo structuram, ut opinamur, etiam Numinum assertione mirabilem, hærebat attonitus per giganteos contextus circumferens mentem, nec relatu effabiles, nec rursus mortalibus appetendos.
- ↑ Vedi qui avanti, Tom. iI. pag. 403.
- ↑ Vedi loc. cit. pag. 417.
- ↑ Del Primic. della s. Sede, append. num. LXI. pag. 323.
- ↑ Collect. Bullar. Basil. Vatic. Tom. I. pag. 74.
- ↑ Questo Giovanni Primicerio manca nella serie data dal lodato monsig. Galletti.
- ↑ Roma ex ethn. sacra, cap. 9. pag. 167.
- ↑ loc. cit. append. num. XXI. pag. 220.
- ↑ Infessura Diar. Urb. Romæ presso l’Eccardo Tom. iI. col. 1899., e il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. iiI. par. 2. col. 1146.
- ↑ Annal. Minor. Tom. iiI. num. 41. pag. 256. all’anno 1151.
- ↑ Spiegazione d’una bolla d’Anacleto II. antipapa, ec, inserita nella Raccolta d’opusc. scientif. e filol. del P. Calogerà., Tom. XX, pag. 102. segg.
- ↑ Presso il Muratori, Tom. V. pag. 90.
- ↑ De gest. Frid. I. lib. 1. cap. 28. presso lo stesso Tom. VI. col. 662.
- ↑ Ann. Tom. XVIII. anno 1144, n. 4. pag. 633.
- ↑ Vet. script. & monum. ampliss. collect. Tom. iI. col. 196. epist. 211.
- ↑ Hist. Fiorent. lib. 5. cap. 1. presso il Muratori, Tom. XIII. pag. 131.
- ↑ Guglielmo Nangio Chron. all’an. 1255., presso D’Achery Spicil. script. Tom. iiI. p. 38.
- ↑ Hist. Anglor. in Henr. III. all’anno 1258. pag. 654. col. 2.
- ↑ Hist. Aug. de gest. Henr. VII. lib. 11. rubr. 12. presso il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. X. col. 508. B.
- ↑ Le colonne del Tempio d’Antonino, e Faustina, e quelle del Foro di Nerva accanto all’Arco de’ Pantani sono state sfregiate verso la cima per appoggiarvi qualche tetto, come si capisce a ben considerarle. Dentro il portico del detto Tempio si vede chiaramente che sono stati fatti anche altri buchi alle stesse colonne per piantarvi dei travicelli da reggere un solaro.
- ↑ Albertino Mussato l. c. lib. 8. rubr. 4. col. 454. Vedi anche Niccolò vescovo Brotontinense Rel. de itin. ital. Henr. VII, presso il Muratori Tom. IX. col. 913. segg.
- ↑ lib. 8. rubr. 12. col. 507. seg.
- ↑ Leggasi il lodato Corti De Sen. Rom. lib. 7. c. 3. segg., e il Vendettini lib. 3. c. 2. segg.
- ↑ Hist. Fiorent. lib. 10. cap. 19. presso il Muratori Tom. XIII. col. 612.
- ↑ Annal. Tom. XXIV. anno 1327, n. 11. pag. 349.
- ↑ lib. 12. cap. 89. col. 969.
- ↑ Hortatoria ad Nicolaum Laurentii, oper. pag. 536.
- ↑ Istorie, lib. 1. cap. 45. presso il Muratori Tom. XIV. col. 46.
- ↑ Fra Bartolomeo della Pugliola Cronica di Bologna, all’anno 1203., presso il Muratori Tom. XVIII. col. 248., Riccobaldo Ferrariense Hist. imper. nella vita di Enrico V. presso l’Eccardo Corp. hist. med. ævi, Tom. I. col. 1168., e presso lo stesso Muratori Tomo IX. col. 126 A., Volaterrano Comment. urban. lib. 22. pag. 659. Il Valesio nella dissertazione, che ha fatta su questa torre, inserita nella Raccolta d’opuscoli scient. e filol. del P. Calogerà, Tom. XXVIII. pag. 33. segg, non ha saputo trovare l’anno della erezione di essa.
- ↑ Chron. presso l’Eccardo l. c. col. 1504.
- ↑ Rer. Ital. Script, Tom. XV. col. 615. B.
- ↑ lib. 10. epist. 2. oper. pag. 873.
- ↑ Mém. pour la vie de François Petrarche, ec. Tom. iiI. Lib. 4. pag. 35. segg. all’anno 1349.
- ↑ Annal. Tom. XIV. anno 1348. n. 16. col. 1048. Lo seguita il Valesio loc. cit. p. 45. senza provarlo.
- ↑ Presso il Muratori loc. cit. col. 654. E.
- ↑ Congetturerei, che in quella occasione soffrisse danno la Colonna di M. Aurelio Antonino, scoramettendovisi que’ pezzi, che vi si veggono fuor di luogo in maniera da far maraviglia, e da non capirsi in qual modo sia succeduto.
- ↑ Matteo Villani Istor. lib. 3. cap. 42. presso il Muratori Tom. XIV. col. 186.
- ↑ Epist. lib. 1. op. Tom. iiI. pag. 77. 81.
- ↑ loc. cit. pag. 92.
- ↑ Epist. zer. sen. lib. 7. epist. 1. oper. pag. 815.
- ↑ lib. 9. epist. 1. pag. 850.
- ↑ De remed. utr. fort. lib. 1. dial. 41. pag. 39.
- ↑ Epist. fam. lib. 10. epist. 3. edit. 1601.
- ↑ loc. cit. liv. 5. Tom. iiI. pag. 381. all’anno 1374. Vedi anche il Tiraboschi Storia della letter. ital. Tom. V. lib. I. cap. IV. in fine.
- ↑ Vedi il Rainaldo Annal. Tom. XXVI. anno 1374. num. 23. pag. 260.
- ↑ Vedi la stessa santa Revelation. lib. 4. cap. 139. 141., op. Tom. I. pag. 539. segg. Romæ 1628.
- ↑ Si vedano le sue lettere fra le opere, Tom. iI. n. 1. segg., edizione di Lucca 1711.
- ↑ Vedi la sua vita presso il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. iiI. par. 2. col. 652., e la relazione, che dà del di lui viaggio Pietro Amelio Agostiniano in versi, presso lo stesso Muratori loc. cit. col. 699. segg., e presso il P. Bzovio Annal. Tom. XIV. anno 1376. n. 31. col. 1537. segg.
- ↑ Data dal Padre Wietrowski Histor. de magno schism. occid. lib. 1. pag. 8. Vedi anche il P. Bzovio Annal. Tom. XV. ann. 1378. num. 3. pag. 2.
- ↑ Infessura Diar. Urb. Romæ, presso l’Eccardo Tom. iI. col. 1874., e il Muratori Tom. iiI. par. 2. col. 1122., Gianantonio Campano nella vita di Braccio lib. 6. in fine, presso lo stesso Muratori, T. XIX. col. 622. Leodrisio Crivelli nella vita di Sforza Visconti, ivi pag. 672. segg.
- ↑ Vedi il P. Bzovio Annal. Tom. XV. ann. 1390. n. 4. pag. 1 37.
- ↑ Leggansi le due di lui vite presso il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. iiI. par. 2. col. 858. 866. seg.
- ↑ Vedi monsig. Domenico Giorgi nella vita, che ne ha scritta, stampata qui in Roma nell’anno 1742. in 4., e il Tiraboschi Tom. VI. par. 2. lib. I. c. I. §. XXVII. segg.
- ↑ Presso il Muratori loc. cit. col. 929. segg. Vedi anche il Giorgi loc. cit. pag. 166. seg.
- ↑ Vedi il Cassio Corso delle acque corr. ec. Tom. I. par. 1. n. 31. §. 4. pag. 280.
- ↑ lib. 6. pag. 20.
- ↑ Vedi il Cassio loc. cit. §. 5. 6. p. 282.
- ↑ Volaterrano Comment. urban. lib. 22. pag. 679.
- ↑ Diar. Urb. Romæ, presso l’Eccardo Corp. hist. medii ævi, Tom. iI. col. 1897., ove si legge a’ dì 5., e il Muratori Tom. iiI. par. 2. col. 1144. E.
- ↑ loc. cit. pag. 39.
- ↑ lib. 3. tit. 24.
- ↑ De varietate fortunæ Urbis Romæ, in supplem. Thes. Antiq. Rom. Sallengre, Tom.I. col. 508. 505.
- ↑ Non passerò qui sotto silenzio la notizia, che dà l’Infessura Diar. Urb. Romæ, pocanzi citato, presso l’Eccardo Tom. iI. col. 1934., e presso il Muratori Tom. iiI. par. 2. col. 1178. B.: cioè, che alli 23. di luglio 1484. in Campo furono mandati per Papa Sisto IV. venti carra di palle da cannone, detto allora bombarda, fatte di travertino attorniate, le quali furono in numero di quattrocento; e furono fabbricate alla Marmorata, dove si finì di distruggere un ponte di travertino rotto, il quale si chiamava il ponte di Orazio Cocles. Da questa notizia noi ricaviamo due cose: primo il tempo preciso, in cui fu rovinato quasi affatto questo ponte, del quale veggonsi i vestigi a Ripa grande: e in secondo luogo, ch’esso era di travertino simile agli altri, non di marmo, come dicono gli antiquarj per lo più, al:uni de’ quali ho citati qui avanti pag. 310. n. a.; e il Marliano Topogr. urb. Romæ., lib. 5. cap. 14., ove dice, che a suo tempo vi esistevano ancora dei gran pezzi di marmo, avendo inteso per marmo il travertino. Questa opinione non ha altro fondamento, che il nome di ponte marmorato, come pare che dica il Fabricio Descr. urb. Romæ., cap. 16.: ex solido marmore fuit: unde aliquando pons marmoratus dictus est. Nessuno, che io sappia, è arrivato a capire, che il ponte si diceva marmorato, o mormorata, per la vicina marmorata, ossia lo scarico dei marmi, di cui parlammo alla pag. 260. Ce ne aflicurano due bolle, una di Benedetto VIII., che fu Papa dall’anno 1009. all’anno 1014., diretta a Benedetto vescovo di Porto, presso l’Ughelli Tom. I. in Episc. Portuens. col. 118., in cui descrivendosi li confini di quella diocesi, che arrivava sin dentro Roma, le si da per confine il ponte rotto presso la Marmorata, l’altro ponte di s. Maria, ossia il ponte Palatino, detto volgarmente Senatorio, ed ora ponte rotto; e il ponte dove abitavano gli Ebrei, vale a dire il Cestio, che dall’Isola metteva in Trastevere, ove gli Ebrei dimoravano: Incipiente primo termino, dice il Papa, a fracto ponte, ubi unda dividitur per murum, videlicet Transtyberinæ urbis, per Septimianam portam, per portam s. Pancratii.... remeante per medium flumen majus venit usque ad ramum fracti pontis, qui est juxta Marmoratam, inque ad medium pontem s. Mariæ, & ad medium pontem ubi Judæi habitare videntur. L’altra bolla è di Leone IX., che regnò dall’anno 1049. al 1054. anch’essa senza data, presso le stesso Ughelli, col. 124. A., confermatoria di quella, ripetendovisi le medesime parole; dalle quali oltracciò rileviamo, che al principio del secolo XI. erano rotti il detto ponte Sublicio, ossia d’Orazio Cocles, ma non intieramente; e il ponte Janiculense, detto oggi Sisto, da Sisto IV., che lo rifece, come costa dalla iscrizione, che vi si legge, e lo attesta l’autore della di lui vita presso il Muratori loc. cit. col. 1064. B., ed altri; e che il ponte Palatino, già si chiamasse di s. Maria, e fosse ancora intiero, come osservai alla pag. 61., che lo era nel 1313., caduto poi appresso, rifatto, e ricaduto. Trovo bensì nominato nelle dette bolle un ponte di marmo fuori di Roma, sopra il fiumicello chiamato Arrone, dentro i confini di quella diocesi, e detto nel territorio di Galera in un’altra bolla di Leone IX. inserita nel Bollario della basilica Vaticana, Tom. I. pag. 20. col. 2. Si parla dello stesso fiumicello, detto però Anone (come tale si dice nella citata bolla di Leone IX. presso l’Ughelli, forse per errore di stampa, o di amanuense, perchè Arrone si dice nell’altra bolla dello stesso Leone), e del ponte di marmo sopra di esso, in una carta di donazione fatta da s. Silvia al monistero di s. Andrea, ora di s. Gregorio al Monte Celio, nell’anno 603. li 19. maggio, riportata dal P. Mittarelli Ann. Camald. Tom. I. append. n. CXXXVII. col. 284. L’autore De mirabilibus Ramæ., presso il P. Montfaucon Diar. ital. cap. 20. pag. 284., e Pietro Manlio Hist. Bas. s. Petri, cap. 8. n. 166. pag. 54. fra i ponti di Roma nominano il ponte marmoreo di Teodosio, diverso da quello d’Anronino: ma io non so quale sia, e perchè quelli autori lo dicano di marmo, quando è certo che in Roma non vi è stato mai ponte tutto di marmo.
- ↑ Lo stesso guasto di statue per farne calce è stato fatto anche nei contorni di Roma, e ne’ paesi poco distanti. Alcuni anni sono furono trovate delle fornaci piene di lottami vicino a Ostia. E chi sa che queste calcare non siano state in quel luogo appunto, che nella bolla di Celestino III., citata qui avanti pag. 356., trovo nominato calcara non lungi da quella città? Non longe ab Hostiensi civitate sita in loco, qui vocatur calcaria.
- ↑ Venuti Acc. e succ. descr. di Roma ant. par. 1. cap. 1. pag. 13.
- ↑ Dell’Arch. milit. lib. 2. cap. 50.
- ↑ Degli Archiatri Pontificj, Tom. iI. num. XCVI. pag. 280.
- ↑ Così dice il P. Tempesti Vita di Sisto V. lib, 10. num. 27. Tom. iI. Il Venuti Accur. e succ. descr. topogr. di Roma ant. par. 1. cap. 4. pag. 77. ed altri ne danno il merito a Sisto V., di cui diremo appresso.
- ↑ Crede l’abate Francesco Valesio Spieg. d’una bolla d’Anacl. II. antipapa, ec. p. 130., che fosse distrutta in quella occasione la chiesa de’ Ss. Sergio e Bacco accanto all’Arco di Settimio Severo, di cui parlammo qui avanti pag. 333., contro il Martinelli ivi citato, che la vuol distrutta dopo.
- ↑ Vedi Francesco Rabelais Lettr. escrit. ec. lettr. 8. pag. 20. edit. Paris. 1710. in 12.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 412. n. b.
- ↑ Notizia della famiglia Boccapaduli, cap. 5. pag. 115. Quelle, che erano nel giardino di Belvedere, e vi sono restate fino al presente, inchiuse poi nel Museo Pio-Clementino, sono descritte dall’Aldroandi Delle statue di Roma, in princ. pag. 115. segg., ove descrive anche tutte le statue, busti, ed altri monumenti, che si trovavano nelle case private, e in altri luoghi di Roma.
- ↑ Vedi tra gli altri Flaminio Vacca nelle sue Memorie.
- ↑ Nardini Roma ant. lib. 4. c. 6. p. 164. Il Venuti Accur. e succ. descr. topogr. di Roma ant. lib. 1. cap. 5. pag. 84. scrive, che quel cardinale gettasse a terra alcune rovine delle Terme in occasione della fabbrica del palazzo pontificio. Ma dice meglio il Nardini.
- ↑ Lucio Mauro Le ant. di Roma, lib. 6. pag. 67. Scriveva nel 1556.
- ↑ Flaminio Vacca Memorie, num. 11.
- ↑ Inserito fra le dissertazioni dell’Accademia di Cortona, Tom. I. num. XI. Vedi anche il Nardini Roma ant. lib. 6. cap. 9., e ivi l’annotatore.
- ↑ Secondo i registri della computisteria camerale, gentilmente comunicatimi dal sig. Giovanni Fenucci, giovane erudito addetto alla medesima, nella Colonna di M. Aurelio tra il restauro, e la statua vi furono spesi scudi 9660., non compreso il metallo del valore di scudi 1597., e del pefo di 12777. libbre, data dalla Camera. La Colonna Trajana importò scudi 1837. tra il piccolo restauro, e il lavoro della statua, il di cui metallo del valore di scudi 1691.25., e del peso di 15530. libbre, fu dato parimente dalla Camera. Per far la piazza intorno furono spesi 10000. scudi, 6000. de’ quali furono somministrati dal Senato, e Popolo Romano, forse per la cura speciale, che ha sempre avuta di questa Colonna, come osservammo alla pag. 355. Fra queste spese non vi si parla punto di lavoro fatto per iscoprire la base, che probabilmente era già stata scoperta per ordine di Paolo III., come accennammo. Poggio Fiorentino al luogo citato alla p. 373. n. b., scrive, che la Colonna di M.Aurelio era stata colpita da un fulmine; ma non dice il quando. forse sarà un effetto di esso il fuoco, che si vede aver patito la Colonna in qualche parte, per cui vi sono stati necessari maggiori restauri, siccome ancora perchè è sempre stata più esposta alle ingiurie dell’aria per il luogo, ove si trova, non tanto riparato dalle case, e dai monti come la Trajana, che è anche lavorata di un più basso rilievo.
- ↑ Vedi il Cassio Tom. I. per. 1. num. 34. pag. 311. segg. L’acqua Sabbatina, o Trajana, di cui parlammo innanzi, la fece ritornare Paolo V., accrescendola di molto. Si veda lo stesso Cassio loc. cit. n. 19. p. 353. segg.
- ↑ Leggasi il Discorso fatto sopra di essa in quella occasione da Ottavio Falconieri, inserito nel Tomo IV. delle Antichità Romane del Grevio, e in fine della Roma antica del Nardini.
- ↑ Così spiego Cassiodoro in Chron. pag. 387., e l’autore di un catalogo degl’imperatori romani presso l’Eccardo Tom. I. col. 30., i quali dicono, che Domiziano fece l’Iseo, il Serapio, e il Panteon.
- ↑ Anastasio nella di lui vita, sect. 200. pag. 179. Tom. I.
- ↑ L’autore della di lui vita presso il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. iiI. par. 2. col. 858.
- ↑ Venuti Acc. e succ. descr. topogr. di Roma, par. 2. cap. 3. pag. 75.
- ↑ Du Choul De la relig. des Rom. in princ.
- ↑ Per quella ragione nell’Ordine Romano di Cencio Camerario presso il P. Mabillon Mus. Ital. Tom. iI. Ordo Rom. XII. n. 86. pag. 225., fatto ai tempi di Celestino III. dopo il 1191., ove è la formola del giuramento, che prestava al Papa il nuovo Senatore di Roma, fra le altre cose questi promette di conservare sempre per Sua Santità i luoghi forti della città, l’isola, Castel s. Angelo, s. Maria Rotonda, ec.
- ↑ Nella vita di Anastasio IV., che fu Papa nell’anno 1153., e nel seguente, presso il Muratori Tom. iiI. pag. 440. col. 2., si legge, che questo Papa vi fece fare un palazzo.
- ↑ Ammiano Marcellino lib. 1 7. cap. 4.
- ↑ Oltre le iscrizioni alla base d’ogni Obelisco, che ne fanno fede, può vedersi il Mercati nell’opera, che fece appunto in quel tempo sugli Obelischi.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. I. pag. 112. not. a.
- ↑ Sono ancora per terra l’Obelisco già Lodovisiano, anticamente degli Orti Sallustiani, ora colco a S. Giovanni in Laterano, avanti alla cui facciata voleva alzarlo Clemente XII.; l’altro già di Barberini, ora nel giardino interno del Vaticano, de’ quali vedi qui avanti pag. 265.; e l’altro Obelisco del Sole in Campo Marzo.
- ↑ Il pezzo di ferro, che vi si vede in un luogo tra le commessure, non ha potuto mai servire per fermare le pietre; ma forse vi è stato messo dopo, e in tempi moderni per leva da far saltar via i travertini.
- ↑ De bello goth. lib. 1. cap. 22.
- ↑ lib. 4. cap. 33.
- ↑ lib. 3. cap. 36.
- ↑ cit. lib. 1. cap. 22.
- ↑ Claudiano De VI. Consul. Hon. v. 331.
- ↑ Roma ant. lib. 1. cap. 8.
- ↑ Cassiodoro Chron. all’anno 500. oper. Tom. I. pag. 395.
- ↑ Nemor. union. labyr. tract. 6. oper. pag. 480., De schism. lib. 3. c. 10 pag. 158.
- ↑ Venuti loc. cit. par. 2. c. 5. pag. 120.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 379.
- ↑ Anastasio nella di lui vita, sect. 341. pag 263. Tom. I.
- ↑ pag. 329.
- ↑ Vedi Ermanno Cornero Chron. presso l’Eccardo Tom. iI. col. 622.
- ↑ Histor. lib. 1. cap.4.
- ↑ Vedi qui avanti pag. 329. not. c.
- ↑ De reb. imper. & reg. lib. 3. cap. 12.
- ↑ lib. 12. cap. 13.
- ↑ Antiq. Benev. Tom. iI. dissert. 2. c. 4. pag. 63.
- ↑ Vedi il Baronio Tom. X. ann. 593. n. 18. pag. 494., De Vita loc. cit.
- ↑ Hist. Basil. s. Petri, cap. 7. n. 139. seg. presso i Bollandisti Acta Ss. Junii, Tomo VII. pag. 50.
- ↑ Muratori Antiq. medii ævi, dissert. 26. Tom. iI. col. 504., Du Cange Glossar. med. & inf. latin. v. Gyro.
- ↑ In prova del significato di questa parola vedi monsig. De Vita loc. cit. dissert. 5. cap. 5. pag. 416., e monsig. Borgia Mem. istor. di Benev. Par. iiI. vol. 1. pag. 90.
- ↑ Diar. ital. cap. 20. pjg. 291.
- ↑ Par. 2. cap. ult. in fine.
- ↑ Infessura Diar. Urbis Romæ., presso l’Eccardo Tom. iI. col. 1867., e il Muratori Tom. iiI. par. 2. col. 1115
- ↑ De schism. lib. 1. cap. 14. pag. 15.
- ↑ Queste parole io le spiego per cannoni, che in Italia si dicevano bombarde dal rumore, che facevano sparandosi. Già in Francia erano in uso i cannoni da molti anni prima, facendosene menzione, come osserva il Du Cange nel suo Glossario alla parola Canones, sin dall’anno 1356. nei registri dei conti camerali di Parigi. Non farà dunque maraviglia, che fossero anche in Roma nell’anno 1378.; tanto più che era francese quel castellano. Allegretto Allegretti ne’ suoi Diarj Sanesi, all’anno 1479. presso il Muratori Tom. XXIII. col. 791. parla di molte bombarde, per le quali intende sicuramente i cannoni, di una grandezza straordinaria, e di una fra le altre di due pezzi, longa sei braccia, e un terzo, che gettava 340. libbre in circa di pietra. Le palle si facevano di pietra, come fu accennato innanzi pag. 373. not. c.
- ↑ cap. 20. pag. 21.
- ↑ De variet. fort. Urb. Romæ, in fine.
- ↑ loc. cit. presso l’Eccardo col. 1867., presso il Muratori col. 1115.; e vedi il Rainaldo all’anno 1389. num. 13. Tom. XXVI. pag. 518.
- ↑ Vedi monsig. Giorgi nella di lui vita, pag. 167. all’anno 1455.
- ↑ Diar. curiæ, Rom. sub Alex. VI. presso l’Eccardo Tom. iI. col. 2085.
- ↑ Questo Papa fece distruggere un gran monumento, che gli scrittori de’ bassi tempi chiamano Meta, e Memoria di Romolo, come abbiamo veduto di Pietro Manlio, esistente fra la Mole Adriana, e s. Pietro vicino alla chiesa della Traspontina; e si crede per drizzare quella strada, o per togliere al castello l’ostacolo, dietro a cui poteva una buona squadra di soldati appianare, come dice il Nardini lib. 12. cap. 13.; ragione, che mi pare improbabile per ciò, che diremo. Si vuole, che fosse una piramide maggiore di quella di Cestio, dei cui marmi esteriori il Papa Donno I. lastricasse l’atrio di s. Pietro; e oggidì se ne veda il ritratto scolpito nella porta di bronzo della detta chiesa di s. Pietro fatta fare da Eugenio IV. forse per questa forma di piramide simile a un di presso a quella d’una meta, fu chiamata Meta. Ma poi io non intendo facilmente come potesse essere ridotta ad uso di fortezza, come lo fu veramente; avendosi documenti, che vi si mantenne il presidio sino all’anno 1417., e forse anche dopo, a spese della mentovata basilica Vaticana, mediante l’assegnamento fisso, di cui parlano varie bolle di Pontefici. Vedi il Bollario Vaticano Tom. I. pag. 231. col. 1., e ivi la nota Acrone, il quale negli scolj a Orazio Epod. od. 9. scrive, che questo monumento era il sepolcro di Scipione, è stato meritamente confutato dal Nardini.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 420. Il più volte citato Tiraboschi Tom. iI. lib. l. cap. VII. §. VII. fa dire a Winkelmann nel luogo citato, che vi fosse trovata anche la statua in bronzo di Settimio Severo conservata parimente nel palazzo Barberini.
- ↑ Vasari Tom. iiI. par. 3. pag. 304., e ivi la nota, nella vita di Raffaello.
- ↑ Suetonio nella di lui vita, cap. 9.
- ↑ Suetonio parimente nella di lui vita, cap. 7.
- ↑ Collectanea, oper. Tom. iiI. col. 483. Colon. Agripp. 16l2.
- ↑ Anastasio sect. 273. pag. 224.
- ↑ In mutil. Camp. Amph. tit. cap. 7. pag. 434.
- ↑ Degli Anfit. lib. 1. cap. 4.
- ↑ Nella di lui vita, Tom. I. c. 8. p. 266.
- ↑ loc. cit. lib. 2. cap. 12.
- ↑ Dione lib. 78. e. 2$. Tom. il. p.i 332.
- ↑ Lampridio nella di lui vita, cap. 17. pag. 826. Tom. I. Hist. Aug. Script.
- ↑ Lampridio nella di lui vita, cap. 24. pag. 918.
- ↑ lib. 16. tit. 10. De pagan. &c. leg. 1.
- ↑ Rom. inst. lib. 3. cap. 5. pag. 261. Ivi poco appreso parla di molte fabbriche rovinate a suo tempo in campagna per fare calce coi travertini.
- ↑ Antiq. rom. lib. 3. cap. 12.
- ↑ Roma ricerc. nel suo sito, giorn. 6.
- ↑ lib. 3. epist. 49.
- ↑ loc. cit. num. 47. pag. 45.
- ↑ num 50. segg. pag. 49. segg.
- ↑ Cardinal d’Aragona nella di lui vita presso il Muratori Tom. iiI. pag. 434., e l’anonimo autore della Cronica di Pisa, presso lo stesso, Tom. XV. col. 974.
- ↑ Vedi il Corti De Sen. Rom. lib. 7 c. 9. §. 168., il Vendettini Del Sen. Rom. lib. 2. cap. 1. n. 2. segg. pag. 120.
- ↑ Lo stesso nella di lui vita, loc. cit. pag. 459. A.
- ↑ Albertino Mussato De gest. Henr. VII. imp. lib. 8. rubr. 4. presso il Muratori Tom. X, col. 454.
- ↑ num. 53. pag. 53.
- ↑ Annali, presso il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. XII. col. 535.
- ↑ Della trasport. dell’Obel. ec. lib. 2. pag. 18. Roma 1590.
- ↑ Urbano ordinò a questo legato di restaurare il palazzo Lateranense, e preparargli l’abitazione, perchè avea destinato di venire a Roma, come poi ci venne l’anno 1367. Vedi il Rainaldo all’anno 1365. n. 9. Tom. XXVI, pag. 114., e all’anno 1367. n. 5. pag. 150.
- ↑ Mém. sur les anc. monum. de Rome, Acad. des Inscript. Tom. XXVIII. Mém. pag. 585.
- ↑ loc. cit. col. 505.
- ↑ Martinelli Roma ricerc. nel suo sito, giorn. 6., Panciroli Tesori nasc. di Roma, Rione II. chiesa II. pag. 115. Paolo III., che finì il suo fatto già Papa, vi fece trasportare molti marmi cavati a Monte Cavallo, alla Colonna Trajana, all’Arco di Tito, a s. Lorenzo degli Speziali, vale a dire al Tempio d’Antonino, e Faustina, oltre molte altre pietre del Colosseo; e la somma, che vi spese, ascende a scudi 73178.88, secondo le notizie dei libri de’ conti camerali, dall’aprile dell’anno 1545. all’aprile dell’anno 1549., comunicatimi dal lodato Fenucci.
- ↑ num. 48. pag. 46.
- ↑ num. 49. pag. 47.
- ↑ Vedi Albertino Mussato De gest. Henr. VII. imp. lib. 8. rubr. 4.. col. 455., la Vita di Cola di Rienzo, lib. 2. cap. 14. presso il Muratori Ant. med. ævi, Tom. iiI. col. 427., l’Infessura all’anno 1404. presso l’Eccardo Tom. iI. col. 1867., e presso il Muratori Tom. iiI. par. 2. col. 1116.
- ↑ Maffei Degli Anfit. lib. 2. cap. 1. Vedi anche la di lui Storia diplomatica, ove da la figura in rame dell’Arco, e dei buchi.
- ↑ Maffei Degli Anfit. loc. cit.
- ↑ Descr. di Roma, e dell’agro romano, par. 1. cap. 15. pag. 108.
- ↑ loc. cit. pag. 584. seg.
- ↑ Le vestig. di Roma ant. lib. 1. cap. 9.
- ↑ Cicerone in Anton. Philipp. 8., e in L. Pison. cap. 38. num. 93., Paolo l. Si statua 27. ff. De injur., Ulpiano l. Si sepulchrum 2. ff. De sepulcro viol.
- ↑ Scevola. l. Cujusque 4. §. Hoc crimine 1. ff. Ad leg. Jul. Majest., Marciano l. Non contrahit 5., Venulejo l. Qui statuas 6. eod.
- ↑ Ulpiano l. Prætor ait 3. ff. De sep. viol., Paolo l. ult. eod.
- ↑ Scevola l. Medico 40. §. Mulier 2. ff. De auro, arg. &c. legeto.
- ↑ Vedi il Kirchimanno De funer. Roman. lib. 3. cap.14.
- ↑ lib. 27. cap. 3.
- ↑ lib. 15. tit. 1. leg. 37.
- ↑ S. Girolamo Epist. 127. ad Principiam virginem, oper. Tom. I. col. 954. n. 13.
- ↑ Cassiodoro lib. 2. epist. 7.
- ↑ Lo stesso lib. 3. epist. 31.
- ↑ Dico che lo deputò solamente, non lo creò; perchè pare dalla formola, che già vi fosse prima.
- ↑ lib. 7. form. 13.
- ↑ Cassiodoro lib. 4. epist. 14. Nella lettera 18. dello stesso libro ordinò Teodorico, si levasse a un prete l’oro, che era andato cercando per li sepolcri. Non diede quest’ordine Teodorico perchè gli dispiacesse puramente il cercarsi le cole preziose nei sepolcri; ma bensì perchè il farlo non conveniva ad un prete: e pare ancora dal contesto della lettera, perchè questi non avea riguardo alle ceneri dei defunti; e perchè Teodorico voleva, che si cercassero quei tesori con pubblica autorità, come appare dall’altra lettera citata. Le leggi romane, cominciando dalle XII. Tavole, le parole delle quali porta Cicerone De leg. lib. 2. cap. 24. n.60., illustrate dal Gravina, dal Terrasson, e da altri, sino agli ultimi giureconsulti approvati poi da Giustiniano, come Marciano l. Servo 113. ff. De legat. 1., l. Julia 4. §. Sed non sit 6. ff. Ad l. Jul. pecul., Ulpiano l. Et si quis 14. §. Non autem 5. ff. De relig. & sumpt. fun., proibivano di seppellirsi oro, vesti, ed altre cose preziose coi morti; ma proibivamo egualmente a tutti nel titolo delle Pandette, e del Codice De sepulcro violato, di metter mano su i sepolcri per qualunque causa, che potesse violarli, guadarli, o per derubarli: e senza fondamento dal proibirsi nelle citate leggi, che si mettano coi morti tali cose, e dal dirsi che chi toglie oro, o altro dai sepolcri non manca contro la religione di essi, perchè quelle materie non possono considerarsi per religiose, inferisce il Kirchmanno loc. cit., che potessero toglierli giustamente da quelli, che ne aveano il diritto. Gl’imperatori avrebbero avuto un tal diritto; ma nè dalle leggi citate, nè da altre si ricava, che ne abbiano fatto uso.
- ↑ Anastasio nella di lui vita, sect. 331. pag. 258.
- ↑ Vedi il Chokier Fax hist. centur. 2. cap. 48. pag. 274., e monsig. Angelo Rocca Commentar. de Campan. oper. Tom. I. p. 155 segg. Romæ 1719.
- ↑ Vedi qui avanti pag. 68.
- ↑ Tom. iI. pag. 422. not. b. Il Venuti par. 2. cap. 3. pag. 74. scrive, che nei quadrati, o cassettoni sotto alla volta del tempio vi fossero ricchi ornamenti di varj metalli, che li coprivano, e figure, che gli abbellivano, come si arguisce da alcuni pezzetti di lastre d’argento trovativi; ora rimanendovi solo qualche avanzo di stucco, o qualche lamina di piombo. Chi sa quando ne siano stati tolti questi ornati?
- ↑ A questo Pontefice si attribuisce anche di aver fatto levare dei travertini dal sepolcro di Cecilia Metella per impiegarli alla fontana di Trevi. Vedi il P. Eschinardi Descr. di Roma, e dell’agro rom. par. 2. cap. 9. pag. 295., il quale aggiugne, che Sisto V. distrusse quel monumento, vale a dire le fortificazioni aggiuntevi, perchè era divenuto ricettacolo de’ banditi.
- ↑ par. 2. cap. 3. pag. 73.
- ↑ La somma del metallo tolto dal Panteon, secondo che riferisce il Ficoroni, è di gran lunga minore. Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 422. not. b. La spesa fattavi da quel Papa dall’anno 1616. all’anno 1619. tanto per la costruzione delli due campanili, compra de’ legnami per il rifacimento del soffitto, piombo per li campanili, iscrizioni, e varj riattamenti di scarpellino fatti al portico, quanto per le giornate impiegate da diversi uomini, che operarono a levare il metallo dal soffitto, ascese a scudi 15000. in circa, come si ha dai conti camerali. L’iscrizione porta la data dell’anno 1632., perchè allora sarà stato finito tutto il lavoro. Ma poi non intendo come il Papa medesimo non vi facesse rimettere le altre due colonne, che vi furono poste dal Papa Alessandro VII., come dicemmo, alcuni anni dopo.
- ↑ Tom. iI. pag. 43. segg.
- ↑ Lucio Fauno Da Antiq. Urb. Romæ, lib. 2. cap. 7., lib 3. cap. 7., Marliano Topogr. Urb. Romæ, lib. 4. cap. 6.
- ↑ Flaminio Vacca Memorie, num. 3.
- ↑ Lucio Fauno loc. cit. Lìb. 2. cap. 7.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. I. pag. 202. Venuti par. 1. cap. 1. pag. 2.
- ↑ loc. cit. num. 61.
- ↑ L’Aldroandi Statue di Roma, pag. 312. scrive, che si credeva a suo tempo fosse stata per ornamento del mentovato supposto sepolcro di Scipione, insieme alli pavoni anche di bronzo, che ora le si vedono accanto, e con dei delfini, che ora più non vi sono.
- ↑ Ho recate le di lui parole nel Tom. iI. pag. 44. not. d. Volgarmente si dice anonimo l’autore, e si cita il manoscritto esistente nell’archivio della sagristia Vaticana, come ho detto al luogo citato; ma si confondono le aggiunte fattevi dal canonico anonimo coll’opera del Manlio. Al luogo citato ho mosso qualche dubbio intorno a ciò, che dice il Manlio del gettar acqua; sebbene la pigna debba essere la stessa, che prima stava nel Vaticano. Sara probabilmente una favoletta quella, che abbia servito nel Panteon.
- ↑ L’autore della di lui vita, lib. 2. cap. 3. presso il Muratori Antiq. med. ævi, Tom. iiI. col. 405. Vedi anche Leopoldo Metastasio nella illustrazione latina, che ha data di questa Tavola, stampata in Roma nel 1757. in 4.
- ↑ De sacr. ædific. cap. 2.
- ↑ Vedi qui avanti Tom. iI. pag. 395.
- ↑ Memorie, num. 18.
- ↑ Archit. lib. 4. cap. 9.
- ↑ Not. utr. imp. in præfat. pag. 2. 3.
- ↑ Roma ant. lib. 5. cap. 1.
- ↑ Nov. thes. Inscr. Tom. IV. pag. 2129.
- ↑ Tom. iI. pag. CXXXl. n. f.
- ↑ Sylvar. lib. 1. cap. 1.
- ↑ loc. cit. cap. 7.
- ↑ Non mi si obbietti, che di questo Cavallo di Domiziano solamente si parla, non già dell’altro di Marco Aurelio. Dall’autore della citata Notizia dell’impero occidentale si ha che i cavalli di bronzo indorati esposti al pubblico in Roma a tempo suo erano 80., e 23. colossali non dorati. Eppure da Rufo appena si nominano in ispecie quelli di Tiridate, e da lui, e da Vittore il Cavallo di Domiziano, encomiato per adulazione da Stazio; e da Ammiano Marcellino lib. 16. c. 19. si nomina la statua equestre di Trajano.
- ↑ Presso il Muratori Rer. Ital. Script. Tom. iiI. par. 2. col. 331. A.
- ↑ Annal. d’Ital. Tom. V. par. 2. anno 974. pag. 262.
- ↑ Catalogo de’ Pontefici presso l’Eccardo Tom. iI. col. 1640. Vedi anche il Contelorio De Præf. Urb. in supplem. Antiq. Rom. Salengre, Tom. I. col. 555., e il Vendettini Del Sen. Rom. lib. 1. cap. 4. n. 4. pag. 56.
- ↑ Riccobaldo Ferrariense Hist. Pontif. Roman. presso l’Eccardo Tom. I, col. 1217. princ., presso il Muratori Tom. IX. col. 178., fra Francesco Pipino Chron. cap. 14. ivi col. 598., Amalrico Augerio presso lo stesso Tomo iiI. par. 2. col. 377., e presso l’Eccardo Tom. iI. col. 1748., ove le citate lezioni sono tutte scorrette.
- ↑ Stor. della Letter. italiana, Tom. iiI. in fine.
- ↑ Tom. I. col. 1135. E. all’anno 1188. edizione di Roma 1677.
- ↑ Non saprei dire se vi facesse anche trasportare la Lupa di bronzo nominata avanti, che Lucio Fauno allo stesso luogo dice pure stata al Laterano prima che in Campidoglio.
- ↑ loc. cit.
- ↑ Diar. ital. cap. 20. pag. 282. e 296. Da questi due scrittori per la prima volta trovo spacciato, che il Cavallo abbia fra le orecchie sulla fronte la figura d’una civetta, di cui parlossi nel Tom. I. pag. xxv.
- ↑ La di lui vita, lib. 2. cap. 26. presso il Muratori loc. cit. col. 451.: In quella die continuamente de la matina nell’alva fi’ a Nona per le nare de lo Cavallo de Costantino, che ene de vronzo, pe canali de piommo ordenati jesciro pe froscia ritta vino roscio, e pe froscia manca jescio acqua; e cadea indeficientemente ne la conca piena. Tutti li Zitelli, Cittatini, e Stranieri, li quali haveano sete, staveano a lo torno, con festa bevenno.
- ↑ loc. cit. pag. 396.
- ↑ Il Nardini, che sovente nota queste differenze pensa di attribuirle piuttosto ad ignoranza dello scrittore della Notizia: il che talvolta sarà succeduto, ma non crederei sempre. Negli scrittori posteriori sempre più si trovano alterati i nomi.
- ↑ Rasponi De Basil. & Patriarchio Luteran. lib. 4. cap. 1. pag. 294.
- ↑ Scrive Flaminio Vacca al luogo citato, che Michelangelo Buonarruota vi fece il piedestallo con un pezzo di fregio, ed architrave di Trajano, perchè non si trovava marmo sì grande. Ai due lati vi furono poste queste due iscrizioni a capriccio, non sopra fondamenti storici; ignorandosi allora la storia della statua:
pavlvs iiI pont. max. statvam aeneam eqvestrem. a. s. p. q. r. antonino pio
etiam tvm viventi statvtam variis dein. vrbis. casib: eversam. et. a.
sYxto. iiiI pont. max. ad lateran. basilicam repositam vt memoriae opt
principis consvleset patriaeq. decora atq. ornamenta restitveret. ex
hvmiliori loco in aream capitlinam transtvlit atq. dicavit ann sal.
m. d xxx viii
Imp. caesari divi antonini. r. divi hadriani nepoti divi traiani
parthici pronepoti divi nervae abnepoti. m. avrelio antonino pio
avg. germ. sarm. pont. max. trib. pot. xxviI. imp. vi. coss. iiI. p. p. s. p. q. r
Mi conferma a credere, che allora s’ignorasse la storia della statua, la lite, che dice il Vacca insorta, e durata degli anni tra il Capitolo di s. Giovanni in Laterano, e il Senato e Popolo Romano per il trasporto di essa in Campidoglio; pretendendo il primo esserne padrone, perchè trovata in una vigna di sua pertinenza. Se allora si fosse saputo, che un Papa la fece trasportare al Laterano dal Campo Vaccino; si farebbe anche riflettuto, che un altro Papa poteva farla trasportare in Campidoglio. Quella lite peraltro non ebbe alcuna conseguenza; ed è falso ciò, che dice Winkelmann nel Tom. iI. pag. 395. *, che il Senato presenti ogni anno un mazzo di fiori al Capitolo in ricognizione di dominio; non praticandoli ciò, come mi assicura il signor cavaliere Gianpaolo de’ Cinque stato più volte conservatore; e non avendosi memoria, che siasi mai praticato per l’avanti, come attesta il signor ab. Marmi archivista Capitolino, che ne ha fatte a mia richiesta tutte le ricerche.