Questo testo è incompleto.
Er colleggio fiacco La mojje invelenita
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti del 1835

ER CARCIAROLO

     Ecco come se1 fa, mmastro Zabbajja,2
Pe’ nnun sbajjasse uguale all’anno scorzo:3
Voi ’ggni ggiorno seggnate in d’una tajja4
Le some de la carcia5 che vve smorzo.

     Poi ’ggniquarvorta6 ch’er padrone squajja7
In un’antra intaccatesce8 lo sborzo.
Ccusì, a striggne li conti nun ze sbajja.
Chi aripete, aripete: ecco er discorzo.

     È una spesce9 de facche e tterefacche.10
Io tiengo la mi’ tajja, voi la vostra,
E a la fine se conteno l’intacche.

     Nun parlo bbene? Oggnuno tiè la sua:
Poi, quanno viè er padrone je se mostra
E arrestamo capasce11 tutt’e ddua.

24 gennaio 1835

  1. Si.
  2. Questo nome è famoso per averlo portato un artigiano, il quale senza altro soccorso che del suo ingegno portò la meccanica a sommo lustro: di che nel Vaticano restano superbe memorie.
  3. Per non sbagliarsi come l’anno scorso.
  4. Taglia o tacca: noto legnetto per servire di saldaconto agli idioti.
  5. Calce.
  6. Ogni qual volta.
  7. Sborsa danari.
  8. Intaccateci.
  9. Specie.
  10. Face et refac: modo proverbiale che si adopera nel senso di “render la pariglia.„
  11. Restiamo capacitati.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.