< Fedele, ed altri racconti
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Terzo intermezzo Quarto intermezzo

EDEN ANTO




Un amico mio, profondo in zoologia, è convinto da lungo tempo che se il più vecchio degl’ippopotami viventi camminasse ritto sulle zampe posteriori, somiglierebbe tutto, almeno da tergo, al dottore Marcòn, assessore in una cittadina del Polesine, non importa quale, e gonfiato da piccolo notaio a gran riccone, non importa come; tanto che sarebbe pura giustizia chiamarlo ippopotamo d’oro, costui, e non vitello. Due immani piedi che invadono, l’uno il levante l’altro il ponente; due divergenti gambe colossali; un zimarrone mostruoso; nessuna traccia di collo, ma due vaste spalle curve e un testone tanto affogato in esse che la tesa del cappello posa sulla schiena; un enorme braccio proteso in fuori sopra una massa troppo corta; ecco il dottore Marcòn a posteriori.

Egli sguazzava l’altro giorno per le pozzanghere della piazza dove abita, con la ilarità pesante, nell’andatura, di un ippopotamo che fiuta l’acqua.

— Avvocato! — gli gridò un pretino arrancandogli dietro affannosamente. — Avvocato! La permetta!

Marcòn sguazzava sempre via per le pozzanghere senza voltarsi. Il prete lo inseguì ripetendo: Avvocato! Avvocato! Avvocato Vasco! — fino a che lo raggiunse, gli si appigliò allo zimarrone. Soltanto allora il notaio si voltò, senza fermarsi.

— Scusi, sa — diss’egli sorridendo e toccandosi il cappello. — Non sono mica l’avvocato. Servitor suo.

L’altro rimase lì di stucco, contemplando la schiena mostruosa allontanarsi placidamente.

Veduto così, Marcòn pareva tutto Vasco. Solo, Vasco era forse un hippopotamus minor che si distingueva pure dall’altro per le gambe ercoline, per il testone inchinato un poco a sinistra con una linea di melanconica mansuetudine.

Lo strano è che il dottore Marcòn sfangava appunto verso l’abitazione dell’avvocato Vasco. Chi sa che inquietudine nella mole mansueta, nel roseo faccione liscio dell’hippopotamus minor se avesse presentito il venire dell’hippopotamus maior! Ma egli, probo, mite e timido uomo, di origine e abitudini signorili, scivolato lentamente, a settant’otto anni, senza macchia e senza lagno, in una poverta tuttavia nascosta ma paurosa, non pareva pensare in quel momento al suo creditore Marcòn, nè ad alcuna miseria di questo mondo. Stava nel suo studio, ora scrivendo sopra un gran foglio di carta turchina, ora meditando sul frontispizio di un volume in quarto, ingiallito dai secoli. Sviscerato bibliofilo, possedeva una certa cultura classica, larga ed imperfetta, bizzarramente colorita di quel suo ingegno fantasioso che si compiaceva dei pregiudizi più insoliti, dei riavvicinamenti più inattesi, delle induzioni più poetiche, più abborrite dalla grammatica. L’età grave gli aveva tolto ormai di attendere alla sua professione; dalla famiglia non aveva che tribolazioni; dei vecchi amici solo qualche libro gli restava vivo e fedele.

Quel giorno la sua serva era uscita senza chiudere la porta e il dottore Marcòn infilò senz’altro la scala buia, venne su soffiando, aggrappandosi alla ringhiera, sostando ad ogni tre scalini.

— Senti il bestione — disse forte dall’alto la voce aspra della signora Vasco.

— Sarà andato al caffè, già, signor bestia — diss’ella sporgendo dalla ringhiera l’allampanata figura, il secco viso bilioso. — Quanto ci vuole a tirar su quella pancia? Oh Dio, dottore, scusi per carità, credevo che fosse mio marito.

— Niente, signora Carlotta — rispose Marcòn, pacifico. — E fuori di casa quell’altra pancia?

La signora Carlotta corse a vedere, ritornò subito dicendo che Vasco era nel suo studio, e vi accompagnò il notaio.

— Zanetto — diss’ella spalancando l’uscio — guarda il dottore... Eh, vado vado — soggiunse, perchè il dottore si era voltato a lei con una faccia molto eloquente.

Intanto Zanetto, recatasi una mano alla papalina, si veniva levando su su dal seggiolone, guardava con due occhietti bambinescamente timidi e dolenti l'enorme visitatore piantato sulla porta a braccia e gambe aperte, con il cappello nella destra e la mazza nella sinistra.

— I miei complimenti, dottore — diss’egli, umile. — Si accomodi. —

L’altro disse solo:

Patron!

E venne avanti cercando con gli occhi una sedia. L’avvocato finì di alzarsi; trottò a corti passi frettolosi, crollando il ventre, le spalle e la nappa della papalina, a prendere ed accostare due sedie.

Vi calarono piano piano a sedere, guardandosi, il Marcòn molto duro, l’altro molto trepidante.

— La permette? — fece il dottore coprendosi.

— Per amor del cielo! — rispose premuroso il signor Zanetto; e, incoraggiato da quell’ombra di cortesia, trasse la tabacchiera, offerse una presa al Marcòn, ne assorbì un’altra egli stesso; dopo di che i due personaggi, affondando il mento nello sparato, chini gli occhi e aggrottate le ciglia, fecero pulizia a buffetti nella camicia e nell’abito.

Finalmente il dottore Marcòn, spazzati via con quattro dita gli ultimi granelli di tabacco, rialzò la faccia.

— Dunque? — diss’egli.

Il povero Vasco si lasciò lentamente andare sulla spalliera della seggiola e, allargate le braccia cadenti, guardando in alto rispose:

— Non posso, proprio non posso.

Marcòn inarcò le sopracciglia, agitò le grosse labbra pendenti.

— La guardi bene — diss’egli. — La guardi bene, perchè La sa i nostri patti.

— Eh, sissignore. So i patti. Cosa vuole? Faccia. Mi rincresce per la Carlotta che si cruccerà, povera donna, con la sua tenerezza per me, immaginandosi che abbia a crucciarmi molto io. Io invece... cosa vuole?

Vasco abbassò la voce, fece un gesto solenne.

— Ghiaccio, signor mio — diss’egli — ghiaccio in punto... Oh bene — soggiunse. — Le dirò che, essendo ghiaccio, cupio dissolvi, questo sì, cupio dissolvi.

Il ventre e le spalle gli sussultarono d’un breve riso amaro.

— Bravo da senno! — proruppe Marcòn. — Dica che non Le importa nè di debiti nè di creditori, caro Lei! Perchè non si dà le mani attorno? Questo Suo cognato a cui si doveva rivolgere? Questo figlio che le doveva mandar denari?

— Sissignore, lo voleva, poveretto, perchè il cuore è grande; ma poi è mio figlio, quindi disgraziato. Come ufficiale di marina gli tocca andare in Africa, si figuri. Non parliamo, questa sarà una gloria della mia famiglia. Mio figlio scrive beato. Cosa vuole? Beato. Scrive una lettera che fa tenerezza, da eroe. Ma intanto gli occorre un cavallo subito, perchè gli ufficiali di marina potranno essere comandati a terra, e il ministro li obbliga a fornirsi di cavalli. Non crede? Le farò vedere la lettera.

— Gli mandi dell’asino — urlò Marcòn — che gli andrà benone!

Il povero avvocato, ferito nel suo amor paterno, nella sua buona fede, si storceva tutto, mettendo dei brontolii sommessi, qualche «o Dio» di meravigliato e timido risentimento.

— E il cognato? — chiese Marcòn.

— E il cognato... il cognato... — borbottò Vasco che di questo burbero parente aveva uno spavento orribile. — Per dirle la verità, non gli ho ancora parlato; volevo appunto andare da lui stamattina.

— Voleva? Ma vada, vada subito. Non abita qui vicino? L’aspetto. —

Vasco, levatasi la papalina con la sinistra, si grattò la nuca con la destra; quindi, potendo il terrore presente più del futuro, sospirò il suo solito ossequioso «con permesso», e uscì tentennando, con una faccia lugubre.

La signora Vasco udì giù per le scale i tonfi misurati del suo passo, gridò «serva sua, cavaliere» e corse allo studio del marito.

— È andato via, quel cane? — diss’ella aprendo. Vide Marcòn, strillò e fuggì tanto in furia che costui, quand’ebbe finito di girar verso lei la sua mole, il suo faccione sorridente, non la vide più.

Rimase lì un poco a considerar l’uscio, e poi si alzò, fece pian piano il giro dello scrittoio, guardò che cosa diavolo stesse scrivendo quell’imbecille di Vasco.

In capo al gran foglio di carta turchina si leggeva:


ultimo desiderio


Seguivano alcune righe tagliate da due gran tratti di penna in croce.

«Condotto in questa mia cadente vecchiaia a dolorose strettezze, non valendo l’indebolito mio spirito a sopportar l’aspettazione angosciosa di tale miseria che neppur soffra un sottilissimo velo di esteriore decoro, convinto non potere ormai riuscire che di afflizione e gravezza alla mia moglie amorosa, non che al figlio dilettissimo, io...»

Lo scrittore s’era fermato qui. Seguiva uno spazio in bianco. Più sotto si leggevano queste altre parole:

«Condotto in questa mia vecchiaia a miserevoli strettezze, e confidando che la Divina Provvidenza si compiacerà, come dal profondo del cuore ne la supplico, togliermi prontamente questa troppo salda vita, grave alla mia famiglia, presso che incomportabile a me, ringrazio la virtuosa mia moglie di tutto il bene che mi volle e fece, benedico il mio figliuolo dilettissimo, e prego tutti a voler conservare buona memoria di me.

«Se in settantotto anni di onesta e laboriosa vita, io ho in qualche misura bene meritato del mio paese natio, spero possa avere effetto il novissimo voto ch’esprimo ai miei parenti ed amici, alla degna Deputazione della Patria Biblioteca, all’onorevole Municipio. Desidero che il mio prezioso esemplare dell’Orlando Furioso edito da Francesco Rosso di Valenza il 1° ottobre 1532, con privilegi di Clemente VII, del doge Gritti e di Francesco Sforza, passi alla nostra Biblioteca. E la terza edizione del poema, l’ultima delle uscite vivente il poeta, stimata già superiore a tutte le altre dall’illustre Apostolo Zeno, che ne possedette un esemplare postillato dall’Aretino. Cinque soli esemplari si conoscono di questa edizione, uno dei quali fu venduto in Inghilterra dal conte Garimberti di Parma, per lire quattromila. Lire tremila mi furono offerte per il mio esemplare dal libraio R. di Roma. Il frontispizio del volume è disegnato e intagliato da Tiziano Vecellio. A mezzo il lato inferiore vi è raffigurata una fenice sorgente dal rogo ad ali aperte, e sopra la fenice si leggono due misteriose parole che molti dotti uomini si studiarono invano d’interpretare: EDE NANTO. Io credo esser giunto, dopo lungo studio e meditazione, a penetrarne il segreto; ed è mia preghiera che ove il volume possa essere salvato alla Biblioteca, vi s’inserisca uno scritto ricordante il nome mio, il desiderio qui espresso e la mia interpretazione delle due parole arcane.

«Mi parve anzitutto che non avendo i detti vocaboli significato alcuno nel nostro idioma nè in altro moderno nè in quello del Lazio, convenisse ricorrere a un linguaggio mistico del quale sarebbe ora vano ricercar la chiave, oppure alla sacra favella dell’Eliade, ben conveniente al dipintor delle Veneri che tributa omaggio al ferrarese Omero. Di ciò convinto, indagai lunga pezza invano come avessero i due vocaboli a leggersi grecamente, nè potei vedervi lume sino a che non li divisi così: EDEN ANTO; brillandomi allora l’origine loro dalle voci greche δαίω ardo e ἄνθος fiore, e questo significato; arse (o ardeva) con fiore: stupendo significato, sia nel senso figurato riguardo al Poeta; e meraviglioso di grecità parrà a ciascuno che ricordi il πυρος ἄνθος di Eschilo. Potrà forse taluno...»

Qui finiva il manoscritto; ma quando il passo dell’avvocato scosse l’anticamera, Marcòn non aveva letto oltre al periodo delle tremila lire offerte per il libro e stava ancor contemplando quella cifra con un vago sorriso affettuoso. Egli andò alla finestra e finse di guardar nel cortile.

Il signor Zanetto entrò, affannato, più sepolcrale assai che non fosse uscito.

— E così? — disse Marcòn.

— La scusi — rispose l’avvocato, sedendo. — Quel che m’immaginava, caro Lei — soggiunse poi ch’ebbe ripreso fiato. — Mi ha anche strapazzato.

Marcòn sedette anche lui, grave. Seguì un lungo silenzio. Guardavano diritto davanti a sè, uno la porta e l’altro la finestra.

— E come facciamo? — disse finalmente Marcòn. — Vede bene, sono duemilacinquecento lire.

— Signor padrone, — disse la serva entrando, — Le ho portato il caffè.

L’avvocato non si scosse se non quando si vide il vassoio davanti.

— Portatene due — diss’egli sottovoce.

La serva disse che ci aveva pensato, ma che la padrona era uscita con le chiavi, ed ella non aveva altro caffè. Allora il povero uomo, avvezzo da cinquant’anni a quel caffè pomeridiano, lo offerse con un gesto a Marcòn, che ringraziò e allungò sorridendo le mani al vassoio, malgrado gli occhiacci della serva.

— Comanda che ne pigli un altro al botteghino? — chiese costei al suo padrone. — Devo anche uscire, adesso.

— No, Tonina, no — sospirò Vasco, dolcemente. — Piuttosto fate un po’ di fuoco qui.

La serva si mise all’opera, ma forse pensando ad altro, per cui Marcòn, dopo due tre occhiate oblique, dopo due o tre sordi brontolii gutturali le disse:

— Cara lei, si sbrighi.

In quel punto la fiamma brillò e la donna si alzò dal caminetto, prese il vassoio dispettosamente e se ne andò sbattendo l’uscio con un colpo tale che Marcòn fece «ohe!».

— Senta — diss’egli poi. — Faccio, naturalmente, il mio interesse, ma son di carne anch’io, ho cuore e mi ripugna di venire a certi passi con una degna persona come Lei. Guardi se non ci potessimo accordare amichevolmente. Ella ha forse qualche oggetto prezioso, qualche gioiello di famiglia, non so, delle argenterie...

Vasco lo considerò un poco, cacciò la destra nello sparato della camicia, e dopo avervi frugato alquanto, ne la trasse con una medaglina d’argento che fece vedere al Marcòn, quindi alzò ed allargò le braccia; tutto questo in silenzio.

— E quadri? — chiese Marcòn.

— Oh Dio, quadri! Il ritratto di mia moglie. Buono, per questo, buono. Le dirò. Ma è della Carlotta.

— Niente niente, per amor di Dio! — esclamò Marcòn inorridito. — Lasciamo stare... Ma, La senta — riprese dopo una pausa. — M’inganno, o aveva Lei dei libri antichi di un certo pregio?

— Sissignore — rispose Vasco masticando la parola, dimenandosi e guardando dappertutto fuorchè in faccia al suo interlocutore. — Sissignore, ma... cosa vuole?... Andati... venduti... divorati...

— Allora... — disse Marcòn, alzandosi. Guardò in giro come per vedere dove avesse posata la mazza, fermò gli occhi sullo scrittoio.

— Cosa studia di bello? — diss’egli sorridendo.

— Oh, niente — balbettò Vasco, inquietissimo. — Niente. Cerca il Suo bastone?

Marcòn non gli rispose; si accostò allo scrittoio.

— A proposito — diss’egli — quello è un libro vecchio, per esempio.

— Oh nossignore... cioè sissignore, ma un libro di nessun conto o almeno di poco conto. Noialtri si direbbe «un pestalardo».

— È un Ariosto, però, vedo. Un gran poeta, capperi. Potrebbe valere dei bei denari se non fosse così sporco. Lo ha inzuppato nella cioccolata?

— Sporchissimo — rispose Vasco, rasserenandosi alquanto. — Cosa vuole? Rovinato.

Adesso Marcòn tolse gli occhi dal libro e li piantò in viso al suo sciagurato debitore; due occhi lucenti di una bonarietà maliziosa.

— Quanto Le pare — diss’egli — che possa valere in questo stato?

All’avvocato Vasco mancarono il cuore e le gambe. Dovette sedersi.

— Non saprei — rispose — non saprei. Cosa vuole? Per me ha un valore relativo, un valore di affezione.

Gli parve una buona uscita, questa. Le rughe della sua fronte, gli angoli della bocca non posavano un momento. I miti occhietti infantili, intenti al fuoco, comparivano e scomparivano sotto il battere delle palpebre.

— Bene — disse Marcòn — non Le ho detto che ho buon cuore? Faccio una minchioneria, adesso. Prendo l’Ariosto, vado a casa e Le mando la cambiale.

— Lei ha letto! — esclamò l’avvocato con voce soffocata levandosi in piedi e appuntando a Marcòn l’indice tremante della destra. — Lei ha letto! Ma non si porterà mica via il libro, capisce? Nossignore che non lo porterà via!

Il suo testone oscillava convulso, negli occhietti brillavano, sotto il battere delle palpebre, due lagrime.

— Le dico la verità, avvocato — disse tranquillamente Marcòn — avevo sempre pensato ch’Ella fosse un galantuomo.

— E non lo sono? — esclamò Vasco.

— Ecco — rispose il notaio — non so se un galantuomo cercherebbe, come Lei, di frodare i creditori.

L’avvocato guardò il suo avversario con orrore e terrore, cadde sulla sedia. Due tre singhiozzi lo scossero tutto.

— Non volevo frodar nessuno — diss’egli a bassa voce e senza guardare Marcòn. — Volevo che quel libro restasse qui sino alla mia morte. Pensavo che, morto io e conosciuta quella carta, un poco per il merito del libro, un poco per la memoria di questo povero vecchio, il Municipio, i cittadini, o cittadini e Municipio insieme avrebbero riscattato il libro dai creditori, e resterebbe nel mio paese un ricordo del mio nome, di quei pochi studi che ho potuto fare. Ma se Lei mi crede capace di voler frodare i creditori, eccolo là il libro, se lo prenda, se lo porti via.

— Ma non intende, caro avvocato, — esclamò Marcòn — che Lei mi deve ringraziare? Di un libro in quello stato prendere duemilacinquecento lire?

Ciò detto, Marcòn prese l’Ariosto.

— Avvocato, servitor suo — diss’egli.



Vasco non seppe alzarsi, nè articolar parola, nè fare un cenno. Era come istupidito e non si mosse che al terzo appello dell’hippopotamus maior incagliato con la sua preda sulla porta.

— Cos’è questo imbroglio*? — brontolava colui girando e rigirando inutilmente la maniglia dell’uscio. — Cos’è questa faccenda? La scusi, avvocato. Favorisce, avvocato? Avvocato, dico!

L’hippopotamus minor capitò barcollando, si studiò inutilmente di aprire e mise quindi il naso alla toppa, esplorò. L’altro gli pendeva sopra, enorme, palpitante di aspettazione.

— È chiuso per di fuori — mormorò Vasco rialzandosi. — La donna ha forse dato un colpo troppo forte e allora succede spesso così.

— Suoni — disse Marcòn.

Vasco suonò due, tre, quattro volte. Nessuno comparve. Marcòn diede allora una tale strappata al campanello che ruppe il cordone.

— Adesso è finita sospirò l’avvocato.

— Chiami! Gridi! — esclamò l’altro. Il pover’uomo ritornò all’uscio, vi appoggiò la testa e si provò di metter fuori un po’ di voce, ma non aveva fiato.

— Cosa vuole che sentano? — gridò, infuriato, Marcòn. — Aspetti me.

E, posato il libro, si diede a mugghiare con il suo vocione bovino, assestando di gran colpi all’uscio fra una chiamata e l’altra, con la mazza. Ma la padrona stava al confessionale, dicendo male di suo marito; e la serva stava da un tabaccaio dicendo male del notaio Marcòn.

Non v’erano altre uscite. L’unica finestra guardava il cortile. Marcòn aperse, chiamò. Il cortile era deserto, nessuno rispose. Il notaio si voltò a Vasco, sbuffando.

— Non mi è mai toccata — disse — una cosa simile. Ella sta lì a guardarmi ma io devo andar via, capisce? Assolutamente! Ho affari.

— Senta — disse l’avvocato, immerso nella sua idea fissa. — Mi perdoni. Non sarebbe possibile ch’ella mi lasciasse adesso il libro onde io vi facessi inserire la mia interpretazione? E non sarebbe possibile che Ella disponesse in modo da farlo pervenire un giorno o l’altro alla nostra Biblioteca?

— Non mi secchi! — gridò Marcòn. — Non m’importa un fico nè d’interpretazioni, nè di biblioteche. Se la tenga la Sua interpretazione. Il libro poi lo vendo magari in America, se occorre!

L’ira incominciò a bollire nell’adipe dell’uomo pacifico.

— Il libro vale quattromila lire — diss’egli, alzando la voce. — Almeno mi dia cinquecento lire da mandare in Africa a mio figlio!

— Che cinquecento lire! Che figlio!

L’inferocito uomo si affacciò ancora alla finestra, urlando senza ascoltar Vasco, che, tremante di collera, gli fremeva nella schiena:

— Sarò un imbecille, ma questa porta è la Provvidenza che l’ha chiusa!

Prese l’Ariosto, e affrettandosi in punta di piedi, con un occhio al caminetto e uno alla schiena mostruosa, posò il libro sul fuoco. Quindi ritornò, pallido come un morto, sul seggiolone, e, chiusi gli occhi, rovesciato il capo all’indietro, alitava affannosamente. Si suonò al cancello dell’antiporto, più volte. Marcòn si sbracciava a chiamare dalla finestra l’incognito visitatore, che non essendogli aperto e udendo un tal vociare, venne nel cortile. Era lo stesso prete che aveva scambiato Marcòn, in piazza, per Vasco. Egli guardò su, vide alla finestra un testone, due spallacce «Avvocato!» disse salutando. «Almeno questa volta son sicuro ch’è Lei, perchè un’ora fa...» — Non La vede, don scempio — gridò Marcòn — che sono ancora quello di un’ora fa? Non La capisce che non possiamo aprire? Vada a cercare la signora Carlotta o la serva di casa, dica che vengano subito! Cosa fa lì, con la bocca aperta? Si muova!

Il prete pareva schiacciato dalla sorpresa, guardava su, ripeteva «ma come? ma come?» Ci volle del buono prima che capisse e se n’andasse.

Marcòn stette ancora un poco alla finestra, andò ad origliare all’uscio, se udisse qualche rumore di buon augurio, poi ritornò alla finestra, maledicendo tutte le serve del creato. Finalmente udì delle voci nell’antiporto; due stizzose voci femminili, la signora Carlotta e la Tonina, che invece di aprire subito, si bisticciavano.

— Dove ho posto il libro, adesso? — diss’egli. — Avvocato, dov’è il libro?

Vasco aperse gli occhi, levò una mano spiegata e disse solennemente;

Eden Anto.

— Domando — replicò Marcòn — dov’è il libro.

Vasco alzò anche l’altra mano e ripetè:

Eden Anto.

— Oh, non scherzo mica, io, sa? — esclamò Marcòn; e data un’occhiata in giro per la camera senza scoprire libro alcuno, si accostò all’avvocato coi denti stretti:

— Non facciamo commedie! diss’egli. — Fuori questo Ariosto! Fuori subito!

— Ella — rispose Vasco — vuol avere un libro di quella fatta e non sa il greco? Ella vuole la fenice di Tiziano"? Eden Anto, signore; arse, arse con fiore.

Appuntò l’indice al fuoco e proseguì:

— Guardi là. Se vorrà la cenere...

Marcòn mise un grido soffocato alzando le braccia come gli mancasse il respiro, andò al caminetto, e giratosi subito a Vasco, fece due passi verso di lui con la mazza in aria. Si arrestò, mise, scrollando le braccia minacciose, un muggito sordo, trottò a dar di fianco nell’uscio come una catapulta, e, spaccata di colpo la serratura, passò fra la signora Carlotta e la Tonina, traboccò giù per le scale. Le due donne saltarono nello studio.

— Cosa è stato? — chiese la signora Vasco.

— È stato — rispose suo marito, ancora tremante di emozione — che voleva rubarmi e l'ho fatto scappare.

— Rubarti che, straccione?

— Oh, niente — disse il povero signor Zanetto senza guardar sua moglie e scotendosi tutto in un singulto di riso forzato. — Un libro.

— Un libro? Hai un libro di valore, tu?

— Peuh, peuh — fece Vasco, ricominciando a soffiare — poca cosa. Qualche centinaio di lire... forse cento... anzi cento al più... fra le cinquanta e le cento insomma.

— Ah brutto tabaccone, — esclamò la signora. — Hai un libro così e non dici niente, e fai patire tua moglie e tuo figlio! A me questo libro!

L’avvocato allibì, non rispose.

— Gliel’avresti dato — disse sua moglie con una faccia, con una voce da far paura.

— No, no, no — rispose Vasco di fretta. — Non gli ho dato niente. Però, se non lo do a lui, bisognerà che lo dia a un altro, perchè la roba mia è tutta dei creditori.

La signora Carlotta non avrebbe creduto che buaggine umana potesse toccare a tal segno, e guardava suo marito con uno sguardo ineffabile, in silenzio. Quindi scoppiò in insulti, in invettive, fulminando tutto intorno a lei, il pancione stupido, la casa coniugale, la Tonina che difendeva il padrone. Le intimò di uscire; e poichè colei si ribellava, le afferrò un braccio, la trasse alla porta. Se n’andarono così tutt’e due, tempestando, via per l’anticamera.

Vasco, intontito da’ primi colpi, non udì altro. Dopo un certo tempo s’accorse che lo avevano lasciato solo, riconobbe sullo scrittoio il suo manoscritto dell’ultimo desiderio, e pianse lagrime lente, le più roventi, le più amare della sua vita; lagrime, quasi, di una profonda intatta vena, cui finalmente il dolore arrivasse.



Intanto il giorno cadeva, lo studio si faceva scuro. Venne l’ora del pranzo, ma nessuno chiamò l’avvocato, nè lui ci pensò. Preso dal freddo, si trascinò stentatamente a chiudere la finestra, e sedette poi davanti al caminetto, dove poche brage ardevano ancora mettendogli un lieve tepore alle gambe, un chiaror fioco sullo sparato della camicia e sulla fronte. Il capo gli si faceva grave e torbido, ma una calma nuova gli entrava nel petto. Si sentiva meglio, si veniva quietando nella confusa idea d’un bene vicino. Vedeva con soddisfazione inesplicabile, lì nel caminetto, il suo caro Ariosto fatto cenere e brage; vedeva, e di tempo in tempo mormorava le parole misteriose: eden anto. Si stupì di trovare allora per la prima volta come si convenissero anche a lui, alla sua propria vita, che, nella mente scossa, gli comparve florida e lieta, piena solo di ardente amore per i suoi, per la verità e la giustizia. Quest’allucinazione della memoria gli generò poi un dubbio bizzarro, materia di stupore ancora e di meditazione profonda: come mai avesse potuto proporsi, anche un solo istante, di morir volontariamente. Pensò, pensò, non intese, sorrise di sè stesso. E qui il suo spirito intenerito passò a considerar la bontà e la grandezza di Dio, giunse a poco a poco al barlume di quest’altra idea che la Provvidenza faceva a lui, come al suo Ariosto, la grazia di sciogliersi in calore e luce, tranquillamente.

Qualcuno bussò all’uscio, e non udendo rispondersi, lo aperse pian piano con un timido «è permesso?»

— È permesso, avvocato — ripetè, entrando, quel prete che da tanto tempo era in traccia di lui. Pensò che Vasco, di cui vedeva la mole oscura, si fosse appisolato.

— Sono don Clemente — disse a voce alta.

Allora finalmente l’avvocato mormorò «servitor suo», si agitò un poco, tentando, per un’ossequiosa abitudine, alzarsi.

— Comodo comodo comodo — s’affrettò a dire don Clemente. Gli sedette accanto, mise fuori qualche frase sul freddo, sull’umido, sui piaceri del caminetto e dell’oscurità. Vasco non rispondeva mai.

— Mi son permesso d’incomodarla — disse poi il prete — perchè avrei da comunicarle qualche cosa su quel famoso frontispizio. Si ricorda che quando ebbi l’onore di fare la sua conoscenza, abbiamo parlato di un’edizione antica dell’Ariosto?

Eden anto — susurrò Vasco. —

— Sissignore.

— Appunto, eden anto. Ossia, Lei leggeva eden anto, e anche l’abbate Bottoni di Ferrara ha letto così; ma è un equivoco.

— Nossignore — susurrò Vasco.

— Scusi, non c’è dubbio. Non ci può esser dubbio. Se si ricorda, mi pareva licenziosetto quel greco, licenziosetto. Adesso mi hanno scritto da Roma. È una cosa conosciutissima. I caratteri sono sbiaditi, vede; possono trarre in inganno. Bisogna leggere F. DE NANTO abbreviazione di Franciscus de Nanto de Sabaudia ch’è il nome dell’intagliatore, perchè Tiziano ha solamente disegnato. Questo stesso frontispizio lo ha l’edizione romana delle lettere del cardinal Bessarione contro i Turchi.

Vasco tacque.

— Accendendo il lume... — soggiunse il prete, esitante — se Lei ha una lente... si potrebbe vedere...

— Nossignore — balbettò l’avvocato.

L’altro non osò insistere, suppose che il vecchio avesse un sonno invincibile. Si trattenne ancora un poco, in silenzio; quindi dal respiro affannoso dell’avvocato argomentò che dormisse, e uscì a tentoni, in punta di piedi.

Il povero Vasco si disponeva infatti a dormire un sonno invincibile. Pochi minuti più tardi, il rapido fuoco senza fiamma, che correva talora per le reliquie nere del volume, rivelò scomposta la sua mite accorata faccia di bambino. Sulla soglia del Vero, l’ultima illusione gli dava l’ultimo calore, l’ultima luce.

Morì nella notte.

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