< Filocolo < Libro quinto
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Libro quinto - Capitolo 97
Libro quinto - 96

O piccolo mio libretto, a me più anni stato graziosa fatica, il tuo legno sospinto da graziosi venti tocca i liti con affanno cercati, e già il vento richiamato da Eolo manca alle tue vele, e sopra essi contento ti lascia. Fermati, adunque, ricogliendo quelle, e a’ remi stimolatori delle solcate acque concedi riposo, e agli scogli dà l’uncinute ancore, e de’ segati mari e della lunga via le meritate ghirlande aspetta, le quali la tua bellissima e valorosa donna, il cui nome tu porti scritto nella tua fronte, graziosamente ti porgerà, prendendoti nelle sue dilicate mani, dicendo con soave voce: - Ben sia venuto -; e forse con la dolce bocca ti porgerà alcun bacio. La qual cosa s’avviene, chi più di te si potrà dire beato? E certo se altro merito non ti seguisse del lungo affanno, se non che i suoi begli occhi ti vedranno, sì ti fia egli assai grande, e glorioso potrai dire il tuo nome tra’ navicanti. Ella, la quale io sempre figurata porto nell’amorosa mente, mai i tuoi versi non leggerà che di me, tuo autore, non le torni il nome nella memoria: la qual cosa ne fia grandissimo dono. Adunque se di me tuo fattore t’è cura, dimora con lei, ove io dimorare non oso, né di maggior fama avere sollecitudine, ché, con ciò sia cosa che tu da umile giovane sii creato, il cercare gli alti luoghi ti si disdice: e però agli eccellenti ingegni e alle robuste menti lascia i gran versi di Virgilio. A te la bella donna si conviene con pietosa voce dilettare, e confermarla ad essere d’un solo amante contenta. E quelli del valoroso Lucano, ne’ quali le fiere arme di Marte si cantano, lasciali agli armigeri cavalieri insieme con quelli del tolosano Stazio. E chi con molta efficacia ama, il sermontino Ovidio seguiti, delle cui opere tu se’ confortatore. Né ti sia cura di volere essere dove i misurati versi del fiorentino Dante si cantino, il quale tu sì come piccolo servidore molto dei reverente seguire. Lascia a costoro il debito onore, il quale volere usurpare con vergogna t’acquisterebbe danno. Elle son tutte cose da lasciare agli alti ingegni. La cicogna figliante nell’alte torri discende a vivere a’ fiumi. A te bisogna di volare abasso, però che la bassezza t’è mezzana via. E Alcione volando batte le sue ali nelle salate onde, e vive. A te è assai solamente piacere alla tua donna, a cui è licito darti alto e basso luogo secondo che le piace: dalla quale, per mio consiglio, mai non ti partirai. E ove staresti tu meglio che nel suo grembo? Quali mani più belle ti poriano toccare, o occhi riguardare, o voce profferere le tue parole? Da cui se tu pure per accidente esci di mano, e agli altrui occhi pervieni, con pazienza le riprensioni de’ più savi sostieni, e secondo il loro diritto giudicio ti disponi alla menda. Al cinguettare de’ folli non porgere orecchi, ch’è bassa voglia; e a coloro che con benivola intenzione ti riguardano, ingegnati di piacere, e i morsi dell’invidia quanto puoi schifa, ne’ denti della quale se pure incappi, resisti. Tu se’ di tal donna suggetto che le tue forze non deono esser piccole. E a’ contradicenti le tue piacevoli cose, dà la lunga fatica di Ilario per veridico testimonio, e, nel cospetto di tutti, del tuo volgar parlare ti sia scusa il ricevuto comandamento, che ’l tuo principio palesa. Serva adunque i porti mandati, e de’ beni del tuo padre non essere detrattore: vivi, e di me tuo fattore sempre nella mente il nome porta, la cui vita nelle mani della tua donna Amore conservi.

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