< I Persiani (Eschilo-Alfieri) < Atto II
Questo testo è completo.
Eschilo - I Persiani (472 a.C.)
Traduzione dal greco di Vittorio Alfieri (XVIII secolo)
Atto Secondo - Scena terza
Atto II - Scena seconda Atto III

NUNZIO, ATOSSA, CORO


Nunzio

Oimè, dell’Asia intera le cittadi!
Oimè la Persia, e sue dovizie tante!
Come sol una piaga ogni beata
Ventura guasta! Il fior de’ Persi, è ito.
Ahi lasso me! triste novelle io primo
Annunzíar! ma, il deggio: emmi pur forza
Tutta svelar la Persica sciagura:
Intero il vostro esercito periva.[1]

STROFE I


Coro

Guai, feri guai;
Fresche ostili rovine or v’ascoltate,
Persi; nè fia che voi dal pianger mai,
Dal singhiozzar cessiate.

Nunzio

Pur troppo, ahi sì, pur troppo è tal l’evento;
Ed io, contra mia speme il dì riveggio.

ANTISTROFE I


Coro

Certo, ch’è il peggio
Il viver troppo e incanutir, qual noi:
Inaspettata strage tanta io deggio
Udire, e morir poi!

Nunzio

Io presente, in persona e non per fama,
Narravi, o Persi, quanto accadde, io ’l posso.

STROFE II


Coro

Ahimè me, che il colosso
Delle tante frammiste Asiatich’armi,
Qual soffio or parmi
Premesse appena a Grecia sacra il dosso!

Nunzio

Putrefatti cadaveri traboccano
Di Salamína e suoi confini ai liti.

ANTISTROFE II


Ahimè me, i ruggíti
Del tempestoso mar dall’onde insorti,
Lor corpi morti
Spingon sovr’essi infrante al lido attríti!

Nunzio

Nulla giovar lor gli archi: è da radice
Svelta l’armata al forte urtar de’ rostri.

STROFE III


Coro

Piangiamo, urliam, sovra i guerrieri nostri,
Che in troppo angusti chiostri
Schieravan mal lor numerose prore:
Ahi sventurato errore!

Nunzio

Ahi duro e sempre insopportabil nome,
Salamina! funesto, al par che Atene.

ANTISTROFE III


Coro

Grave a membrarsi a’ suo nemici Atene,
Che Perse donne or tiene
Cotante in lutto, invan già dette, spose;
Dei mariti orbe, in eterno dogliose.

Atossa

Lungamente tacqu’io, misera attonita
Da mali tanti; e sì oltrepassa il metro
Questa sventura, che nè il dir concede,
Nè gli altrui detti udire. Ma pur forza
È il sopportar le angosce noi mortali,
Qualor gli Iddii le inviano. Su, dunque,
A parte a parte annovera le piaghe;
E, piangendo anco, imperturbabil narra
Qual sia vivo dei Duci, e qual sia estinto,
Di sè lasciando vedovi i suoi prodi
Pochi rimasti.

Nunzio

È vivo Serse: ei beve
Tuttavia l'alma luce.

Atossa

Un vivo lampo,
Qual dopo tetra notte aurato giorno,
Questo tuo detto entro la reggia arreca.

Nunzio

Ma de’ cavalli diecimila il Duce,
Artémbare, su l’irta spiaggia morto
Di Salamína ei giace. E il Chiliarca
Dadáce, di sua nave giù sbalzato
Da un colpo era di lancia. E il fior di Battri,
Tenagón, di sua salma ingombra ei pure
L’ondisonante aspr’isola d’Ajace.
Terzo Argeste, con Arsamo, e Liléo
Schiacciati tutti a forza a’ scabri scogli
Son della terra Salamina, nido
Di colombe ferace. E da una stessa
Nave estinti cadevano e Farnúco,
E Feréssebo, e Adéo, con quel dai fonti
Sceso del Nilo, il prode Egizio Arctéo.
E Matállo da Crisa, a cui ben trenta
Di destrieri di pece le migliaja[2]
Ivan soggette, questi il folto mento
Tingea morendo in porpora sanguigna.
E il Mago Arábo, e il Battríano Artáme,
Abitator dei Salaminii scogli,
+ Estinti colà giacciono. Ed Amístri;
E Amfistréo vibrar d’indomit’asta;
E Ariomárdo, l’ottimo che a’ suoi
Sardíani gran pianto in morte lascia;
E Seisáme di Misia; e il bel Tarúbi,
Che di Lirna orìundo or cento e cento
Oltre cinquanta battagliere navi
Guidava; ei pure, ahi misero, ivi giace
In trista guisa. Ma dei prodi il prode,
Siénnesi, che ai Cílici comanda;
Uom che al nemico appresta aspri travagli;
Quivi ei muor gloríoso. Io, di tai Duci
Fo menzíon, e il mertano; ma oh quanti
Altri ivi spenti or nel silenzio premo!

Atossa

Estremi danni (oimè) son quei ch’io ascolto;
Disnor de’ Persi, inconsolabil pianto. -
Ma pur, per ordin narrami e da capo,
Quanta foss’ella quella Greca Armata,
Da osar venirne delle prore all’urto
Contro ai Persi navigli.

Nunzio

Abbi per certo,
Che di gran lunga in numero più spesse
Eran le nostre. Dieci volte trenta
Annoveravan le lor navi i Greci;
E sole dieci oltr’esse eran l’elette:
Ma Serse avea (ch’io ’l so) navi ben mille;
E, spareggianti pel veloce corso,
Sette n’ebb’ei sovra dugento: e questo
È il puro vero. Inferíori forse,
+ Parti, a tal pugna ne venissim noi?
Ma un qualche Nume la inegual stadera
Fea straboccar con dispari fortuna,
Un tanto nostro esercito sperdendo.

Atossa

Gli Dei son scudo alla città di Palla.

Nunzio

Ell’è d’Atene la città, in se stessa
Ella invincibil è: secure torri
D’uomini veri ella si fa.

Atossa

Ma, narra
Qual delle navi il primo scontro fosse;
Chi le spingesse alla battaglia primo;
Se i Greci; o se il mio figlio, ebbro pur troppo
Della immensa marittima sua possa.

Nunzio

D’ogni mal nostro era ivi fonte un qualche
Infausto Genio, un Demon tristo, inserto,
Donde, i’ nol so, Regina. Uno de’ Greci
Si appresentava al figlio tuo; questi era
Un dello stuolo Ateníese appunto:
Ed a Serse ei dicea; che se fra l’ombre
Notturne affrontass’ei le Ellénie navi,
Niuna d’esse starebbe; anzi, ne’ remi
Precipitando tutti, occulto scampo
Cercherian di lor vite; ognun diverso.
Ciò udito il Re, non sospettando ei fraude
Esser del Greco i detti, e in un securo
Dalla invidia de’ Numi, a’ suoi Navarchi[3]
Impon così: Che al saettar cessante
Dei Solar raggi e all’annerar dell’etra,
Quant’ella sia l’armata abbianla tosto
In tre squadre a dividere, e farne argine
Fra scoglio e scoglio sì, che ostrutte tutte
Ai Greci legni sien l’uscite; e in cerchio
Stringan cingendo l’isola d’Ajace.
Così, se alcun giammai di fuga schermo
Trovato avesser navigando occulti
I Greci, allor d’inevitabil morte
Punir dovransi i Duci suoi pur tutti.
Tal favellava in fuoco d’ira acceso[4]
Serse; ahi, pur troppo dei decreti ignaro
De’ Numi. Ai di lui cenni i Persi
Ratti obbedendo, ogni nocchier pasciuto
Ai ben adatti scanni avvincolava
I remi già. Tramonta il Sole; è sorta
La notte; appien ecco ordinate e colme
Di remiganti, e combattenti; e Duci,
Son le guerriere navi. Il mar ciascuna
Solca così come schierata mosse;
E ciascun capo tutta notte e a questa
E a quella uscita i naviganti suoi
Va collocando. Trascorrea frattanto
La notte, e tuttavia la Greca armata
Nullo tentò segreto scampo. Insorta
Poi co’ bianchi destrier l’Alba raggiante
A rischiarar la spiaggia tutta, insorge
Tosto l’aure a ferire alto sonoro
Clamor di fausto modulato carme,
Che a un tratto gli aspri Salaminii scogli
+ Echeggiar fea. Stanno, a un tal rimbombo
Inopinato, stupefatti i Persi.[5]
Sacro sonante il salmeggiar de’ Greci,
Non di fuggiaschi un salmeggiare al certo
Egli era, no; bensì di audace scontro,
A cui precipitavansi infiammati
Dalle trombe di guerra. Di repente,
Le frementi spumose onde marine
Dal comandato flagellar de’ remi
Squarciate, agli occhi ci appresentan tutti
I Greci legni. Il destro corno, in bella
Ordinanza precede; intera il segue
La schieratasi armata. Era ad udirsi
Questo lor grido in ogni parte allora:
» Ite, o figli di Grecia, itene; salva
» Sia la patria per voi, libere sieno
» Le mogli, e i figli, e i sacri templi, e i sacri
» Paterni avelli; or qui per lor si pugna.»
Nè di noi Persi al contrapporsi tarde
S’udian le grida. Ogni indugiar vien tronco.
Già contro nave nave all’urto corre.
Prima a investir con suo rostrato bronzo
L’avversa prora e romperla, è una prora
Di Greci, contra una Fenicia; e tosto
Si azzuffan tutte. Al primo impeto incontro
La Persa moltitudin forte sta;
Ma quando, coartata entro lo stretto
Di Salamìna, l’una all’altra nave,
Non che dar forza, impaccio dà, cozzandosi
Tra lor gli aénei rostri, stritolandosi
Co’ remi i remi; i Greci legni allora
Destramente accerchiandole e picchiandole
Sì, ch’alfin nostre navi rimboccavansi;
L’onde allora sparite ampio uno strato
E di travi, e di sangue, e di cadaveri,
Il mar diresti; e si accatastan anco
A ogni spiaggia dintorno. In fuga sperse
Le rimanenti navi nostre vanno:
Ma i corpi semivivi galleggianti,
Schiacciati in testa dal percuoter spesso
Dei Greci armati de’ tanti frantumi
D’assi e di remi, affondano; e innalzavasi
Un lamentevole ululato, ond’erano
Ripieni e i mari e i lidi: atra risorge
Alfin la notte ad ammantar le stragi.
Ma il noverarne a parte a parte i danni,
Nè in dieci dì verriami dato: io dico,
Abbrevíando, che in un giorno solo
Copia sì immensa d’uomini non mai
Spinta era a morte.

Atossa

Ahimè, qual oceáno
D’infortunj or sommerge Persia tutta!

Nunzio

Eppur nè a mezzo gl’infortunj io narro.
Cotanta ci ha calamitade oppressi,
Ch’anche addoppiato, il mio narrar fia manco.

Atossa

Ma in che potea più dunque infierir mai
Nemica sorte? Or parla; al popol Perso
Che mai di peggio accadde?

Nunzio

I Persi, quanti
In giovinezza, in nobilitade e ardire,
E in esser fidi al Re venian distinti;
Tutti di morte inonorata (ahi miseri!)
Perivano.

Atossa

Ahi me lassa! Oh amici! oh sorte! -
Ma pur narrami, in qual guisa períro?,

Nunzio

Di Salamina a fronte una isoletta
Stassi, all’ancore infida, le cui spiagge
Pane, il Dio della danza, abitar gode.
Colà Serse in aguato collocavali
Contro a quei Greci, ch’ivi avriano scampo
Dalle infrante lor navi, onde ritrarne
Vie più lieve e più intera in un la palma;
E prestar pure ai di lui Persi asílo
Contra il furor fortuito dell’onde.
Ma ei mal previde. Vincitori appieno
Della naval battaglia illustre i Greci,
Mercè di un Nume; ecco, il dì stesso, assunte
L’armi bronzate, alla terrestre pugna
Adatte, dalle navi balzan essi,
Tutta accerchiano l’isola, ed è tolta
Ogni ritratta ai Persi. Oltre il tremendo
Nembo dei forte saettati dardi,
Co’ sassi a mano li esterminan anco;
E in fine in massa unanimi con impeto
Su quei miseri piombano, e ne fanno
Brani così, che vivo uno non resta.
Ma Serse intanto da un eccelso scoglio,
Dove in trono sedea da tutti visto
Tutti mirando, in riguardar l’abisso
Di sue sventure, squarciasi l’ammanto,
E disperasi, ed ulula; ed, imposto
Che le pedestri schiere fuggan ratte,
Va in preda ei stesso di scomposta fuga. - [6]
Questa, o Regina, ai pria narrati danni
L’aggiunta ell’è, con cui ti addoppio il pianto.

Atossa

Aborrita Fortuna, or come il senno
Deluso hai tu de’ Persi? amara in vero
Contro all’inclita Atene il figliuol mio
Mietea vendetta. Ahi, scarsa era la strage
Forse dei nostri in Maratóna, a segno
Ch’or riscattarla Serse mio dovesse,
Una peggior soffrendone? Ma, narra;
Qual fu il destin delle fuggiasche navi?
Ove or son elle? il sai ridir tu appieno?

Nunzio

Senz’ordin niuno, ove li spinge il vento
Con le rimaste navi a insana fuga
Si danno i Duci loro. Il resto quindi
Dell’esercito, parte in su i Beozj
Campi cadea, appo le Crénee fonti;
E vi perían si sete: altri, anelanti
E spossati ci andavam strascinando
Pel suol Focense e Dorico, e radevamo
Di Mélia il golfo, ove con limpid’onda
Irríga il pian lo Sperchio. Indi ci accoglie
Acaica terra e Tessala cittade
Necessitosi d’ogni cosa: e quivi
Di fame e sete (le penurie entrambe
Forte pungendo) ne perivan molti.
Poscia al Magnesio e al Macedonio suolo
Pervenimmo, ove l’Asio tragittarsi
Dovea, non men che il palustral cannéto
Di Bolbe, ed il Pangéo monte, per trarci
All’Edónida terra. Ma destava
In quella notte un qualche Iddio per certo
Un rio stridor d’inopinato verno,
Che le Strimonie pure acque fluenti
In saldo ghiaccio ebbe impietrite. Allora
Anco chi dianzi a scherno i Numi avea,
Con preci devotissime implorava
Cielo e Terra, adorando. Al cessar poscia
Delle fervide laudi, ecco avviarsi
Sovra il tenace gelo il Perso esercito:
E qual di noi più affrettasi al tragitto
Pria che suoi dardi ivi saetti Apollo,
Salvo afferra la ripa. Ma inforzavano
Del Solar orbe intanto ognor più i raggi,
Onde l’ardor struggea nel mezzo appunto
Il guado sì, che l’un l’altro sossopra
Cadenti sprofondavano. Beato
Chi di più ratta morte ivi affogava.
Pochi, a cui tocca in sorte andarne illesi,
A grande stento per la Tracia poscia
Ritornano i lor Lari. Un lungo pianto
Persia, d’ogni suo fiore orba, faranne.
Quant’io dissi, tant’è: ma non io tutti
Diceati i guai, cui mandò ai Persi il Cielo.

Coro

O di sventure fabro avverso Nume,
Quanto, ahi, su Persia tutta or grave piombi!

Atossa

Oh annichilato esercito! oh me misera!
Oh mia non dubbia visíon notturna,
Quanto evidenti appalesasti i danni!
E voi, fido Consiglio, interpretarla
Ahi quanto mal sapeste! - I Numi or dunque
Implorerò da pria, poichè prevalse
Il parer vostro: i ritúali doni
Quindi alla Diva Terra e ai tanti estinti
Qui recherò, di tal ufficio esperta,
Così tentando un avvenir men reo.
Nella reggia rientro; e voi frattanto,
Fidi quai siete, a tai eventi intorno
Fidi consigli ite alternando: e pria
Del mio tornar, se qui mai Serse or giunge,
Deh, consolatel voi; voi, ver la reggia
Scorta siate a’ suoi passi; affin che ai nostri
Mali, già tanti, mali or non si aggiungano.

Coro

Poich’a te piacque, o Giove Re, l’altera
Copia disperder dei feroci Persi;
E avviluppare in lutto tenebroso
Di Susa i tetti e d’Ecbatána; immerse
Omai le più delle Persiane donne
In duolo amaro, il molle seno irrígano
Di lagrime, squarciandosi le vesti:
E in su i vedovi talami, che breve
Gioja a lor dier di giovénili amplessi
Cogli adorati sposi, ora solinghe
Stese gemon, di pianto non mai sazie:
Ed io con esse or lagrimar mi accingo
Il fato acerbo di quei tanti estinti.

STROFE I


Coro lir.

Tutta già già l’esausta Asia si strugge
In lagrime d’assenzio.
Serse la trasse, oimè,
Serse, ei sì, la perdè!
Serse imprudente, al mar che tutto sugge
Mal sue navi affidò, sue genti, e sè.
Sia sepolto in silenzio
Il giusto util regnar di Dario omai:
Troppo il dolente nostro animo sfugge
Re mentovar, cui niun pari fu mai.

ANTISTROFE I


Travalicaro gia le alate antenne
Di terra e mar le genti:
Navi funeste, oimè!
Navi, cui preda fe,
Navi, che annichilò l’urtar perenne
Di Greche prore: onde a sottrarne il Re,
Perigli mille e stenti
Valsero appena, come Fama il suona;
Sì ch’ei pe’ campi dei Bistonii tenne
Vie, dove invan col gelo il Sol tenzona.

STROFE II


Ma i primi estinti, oimè,
Lasciati ahi furo là
Dei Salaminj scogli agli aspri piè:
Miseri, a cui fora il non nascer me’!
Piangi, orbata città,
E divorato il cor d’atro dolor,
Del gran tuo pianto fa
Sino al Cielo salir l’alto fragor,
Sì che dien gli urli un qualche sfogo al cor.

ANTISTROFE II


Tratti dall’onde oimè,
Nel mar rabido giù,
Pasto orrendo, ahi pur troppo, dier di sè
Ai muti abitatori, ond’ei nido è,
Tanti, che nulla più.
Vedovata ogni casa lagrimar,
E ogni uom che padre fu
Suoi feri danni immensi in ascoltar,
Muto il veggio dal duol dentro impietrar.

MONOSTROFE


D’Asia certo nel suolo omai più all’ombra
Di Persíane leggi
Non vivranno più i popoli; nè al trono
Sovran supremo che intera la ingombra,
Tributeranno il dono
Da lor dovuto i sottoposti greggi:
Non più prostrati adoreran sommessi,
Fatto il Monarca un’ombra:
Non più a freno le lingue; invidia romba
Si udrà, l’audace popolar baldanza,
E d’ogni tempra eccessi,
D’impunità sorgendo empia speranza.
All’echeggiar della sanguigna tromba,
Persia per sempre in Salamína ha tomba.


Note

  1. Per la seconda volta, e per l’ultima, fo qui osservare che il Testo dice in vece di vostro esercito, l’esercito dei Barbari. E questa parola Barbari parlando dei Persiani in bocche Persiane spasseggia molto in questa tragedia: ma io infedele soltanto in simili occorrenze, l’ho sempre voluta tacere, o scambiare in altra che ci potesse stare.
  2. Destrier di neve, disse Petrarca, poeta non turgido. Destrier di pece, si può far dire da Eschilo, senza punto snaturarlo.
  3. Navarchi qui, come Chiliarchi più addietro pajono parole da concedersi ad un Traduttore, per andar alla breve; tanto più ch’elle non riescono nè più ingrate nè più esotiche di Monarchi, Tetrarchi, e altre simili già da altri affigliate alla lingua nostra.
  4. Vel: Tal favellava in sua superbia eretto.
  5. I Persi. Il Testo, al solito, dice, i Barbari.
  6. Vel: Va di scomposta fuga in preda ei stesso.
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