< I Persiani (Eschilo-Alfieri) < Atto II
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Eschilo - I Persiani (472 a.C.)
Traduzione dal greco di Vittorio Alfieri (XVIII secolo)
Atto Secondo - Scena seconda
Atto II - Scena prima Atto II - Scena terza

ATOSSA, CORO


Coro

Regina, o tu di quante in aurei cinti
Donne ha la Persia, o sovra tutte eccelsa;
Salve, o di Dario moglie, e in un tu madre
Di Serse nostro: entrambi Iddii, se pure
Or già non venne avversitade antiqua
Dar nelle Perse schiere urto novello.

Atossa

Quest’è il pensier, che dall’aurate soglie
In cui già albergo col gran Dario m’ebbi,
Ver voi mi tragge. A me pur punge il core
Sollecitudin fera, cui deporre
Nell’amichevol vostro orecchio or bramo.
Contro al timor sola non basto: io tremo,
Che le ricchezze e l’alto stato, a cui,
Non senza un qualche Iddio, Dario innalzava
La Persia, or tutto quasi polve al vento
Non si dilegui. Oltre ogni dire io mesta
E per le genti e pe’ tesori stommi,
Ambi in periglio; e vani ambo, se l’uno
Orbo è dell’altro. A chi i tesori omai,
Per quanto sien legittimi, ove manchi
L’occhio sublime della reggia, Serse?
Quindi, o del senno Persico voi cima,
Prestate or l’usato ajuto fido
Del consigliarmi vostro.

Coro

Ah! tu ben sai,
Che al primo cenno tuo, quant’è in noi possa,
Sempre, o Regina, all’obbedirti intenti
Stiam: consiglieri amici in noi t’eleggi.

Atossa

Da che ver Grecia l’inimico piede
Con le sue schiere espugnatrici ha volto
Il figlio mio, la notte i sogni sempre
Mi travagliano in copia: ma evidente,
Quanto in questa, non n’ebbi io nullo mai;
Ecco, vel narro. A me parean venirne
Alteramente un par di donne ornate;
In Persi veli è l’una, in Dorie fogge
Avvolta è l’altra: ambe duo Soli, eccelse
Ambe, ed in vista suore; il nascer tranne,
Che greco all’una avvien, barbaro all’altra[1],
Infr’esse mi parea sorta una lite,
Che nota pure al figlio mio, da lui
Venia frenata e ricomposta. Ed ecco,
Ambe egli aggioga ad un sol carro, e oltraggio
Fa di legami alle cervici loro.
Insuperbir di sua ferrata stola
Vedeasi l’una il fren gustando; irata
Recalcitrar vedeasi l’altra; e scosso
Il freno, e rotto in due il pesante giogo,
Con le robuste mani sfracellava
Il carro, e disperdevalo. Stramazza
Il figlio a terra: a lui Dario mostrarsi
Compassionandol: Serse, visto il Padre,
Di dosso i panni ecco squarciarsi. Ahi, tanto
Vidi fra le notturne ombre. Ma quando,
Sorta poscia, le man dal puro fonte
Mondate all’ara riportando, io quivi
Sacrificar già mi apprestava ai Numi,
Che i tristi augurj dileguare han possa,
A pieno volo un’aquila fuggente
Vegg’io di Febo in su l’altar posarsi:
Io, dal timor, a tal vista mi stetti,
O amica, muta. Ma sparvier veloce
La inseguiva; e già sovr’essa piomba
Nella testa incarnandole gli artigli:
L’aquila esterrefatta in preda lasciasi
Strazíar tutta. Orror diemmi il vederlo;
Orrore a voi l’udirlo; a cui ben nota
L’indole ell’è del figlio mio. S’ei lieta
S’avrà la sorte, uom di mirabil’opre
Il vedrem farsi: ma, se avversa il preme,
Non sì però ch’ei vi soccomba, allora
Qual regnerà, niun fren di leggi in questo
Suol contrastando al suo voler sovrano?

Coro

Madre di Serse, nè terror soverchio
Co’ detti nostri in te spirar vogliamo,
Nè audacia pure. In supplice atto ai Numi
Chiedi tu pria, ch’a vuoto i tristi augurj
Tuoi sperdan essi, e che dien corpo ai fausti,
Per te, pe’ figli, e sudditi, ed amici.
Poscia t’è d’uopo alla terra e ai defunti
Libazíoni far, pacatamente
Dario, il consorte tuo che in sogno hai visto,
Invocando, affin ch’egli a te dall’Orco
Mandi, ed al figlio tuo, quassù ventura;
E all’incontro incateni egli nel Tartaro
Le funeste Sciagure. Ecco i consigli
D’un amichevol animo presago,
Cui giudichiam che arrenderti tu debba.

Atossa

Benigno in ver tu primo or questi sogni
Fausto interpreti al figlio e magion mia:
Deh, se ne compia il buono! Io, nella reggia
Tornato appena, ai Numi ed ai defunti
Amati, a norma del consiglio vostro,
Vittime porgerò. Ma intanto, o amici,
Da voi saper mi giova, ver qual parte
Del celeste orizzonte è volta Atene.[2]

Coro

Lungi, là dove il Divo Sol tramonta.

Atossa

Bramoso assai d’impadronirsen era
Il figlio mio.

Coro

Perchè, caduta Atene,
In suo poter verría la Grecia tutta.

Atossa

Gran forze han dunque?

Coro

Ateniesi, il sai,
Fur quei che al Medo esercito dier fine.

Atossa

Pari a lor genti han de’ metalli il nerbo?

Coro

Della terra ne’ visceri han tesoro
D’argenteo fonte.

Atossa

E al saettar, di mano
Destreggian essi?

Coro

All’arco, inetti appieno:
Ma con gli scudi, e lance in resta, scogli.

Atossa

Ma in Atene, or chi regna, e a’ suoi guerrieri
Chi pur comanda?

Coro

Di niun uomo al mondo
Servi non von nè sudditi chiamarsi.

Atossa

Come fan fronte de’ nemici or dunque
Costoro all’urto?

Coro

In guisa tal che sperso
L’egregio immenso esercito ebber essi
Di Dario già.

Atossa

Vicende gravi or narri
A chi sua prole ivi a far guerra invia.

Coro

Ma il ver saprai, parmi, ben tosto. A fretta
Ecco un de’ nostri messagger venirne:
Novelle udrai; sian buone o rie, fien certe.


Note

  1. E benchè il Testo dica, Barbaro; io più volentieri tradurrei, Persico all’altra. Poichè qui parla Atossa e non Eschilo.
  2. Il Testo dice: In qual parte della terra dicano esser situata Atene. Per quanto fosse o concesso o ordinato alle Matrone Orientali d’essere ignoranti, non è però presumibile, che la vedova di Dario, il quale anch’egli avea fatta una famosa spedizione in Grecia, ignorasse il luogo dov’era Atene. Mi fo dunque a credere, che Eschilo nel porle in bocca questa sì strana interrogazione, abbia inteso di farle chiedere della posizione astronomica d’Atene per poi dirigere essa meglio i suoi sacrificj, ed evocazioni d’Ombre dall’Averno. Con tutto che la stranezza e imbecillità delle tante interrogazioni che seguono, persuaderanno pur troppo il lettore, che anche la prima sia di quella tempra e la più madornale.
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