< Il Catilinario ed il Giugurtino
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Prefazione II
Prefazione I Vita di F. Bartolommeo

AL DOTTO E LABORIOSO SCRITTORE


MARCHESE BASILIO PUOTI


ACCADEMICO DELLA CRUSCA



IL MARCHESE DI MONTRONE



Sono andato indugiando a rispondere in iscritto alla vostra umanissima lettera colla quale vi è piaciuto intitolarmi la nuova stampa del volgarizzamento di Sallustio per Frate Bartolommeo da San Concordio, perchè pensavo di ciò sdebitarmi a bocca; e così anche ringraziarvi, come adempio al presente con tutto l’animo, dell’onore fattomi di tenermi ancor vivo fra gli uomini, presso i quali credevo la mia memoria quasi spenta: avendo io dimesso per l’età, e più ancora per le fatiche dell’animo, ogni pensiero di studii. Ma, considerando meglio alle forti e cortesi parole colle quali mi stringete ch’io vi scriva, e temendo d’altra parte non coloro che leggerannole avessero a sospettare di altra cagione che non è del mio silenzio, eccomi a soddisfare in parte alla vostra dimanda: posciachè in tutto, per la ragione dettavi di sopra, non potrei. Senza che la vostra lettera (ch’io vorrei chiamar meglio un trattatello per ammaestramento a bene scrivere) è sì ripiena di dottrina e di accorgimento, che poco o nulla mi rimarrebbe ad apporre. Voi versatissimo nelle vostre lettere greche, e sì nelle latine e nelle Italiane, vi fate guida alla gioventù studiosa perchè sappia quali autori, e come e quando, debba imitare, secondo l’indole e la natura e l’ingegno di chi ponsi a studiarli, e, parlando più particolarmente de’ nostri italiani, voi volete che chi intende alla perfezion dello scrivere, dopo aver fatto tesoro de’ modi dell’aureo trecento, vengasi a spaziare alquanto nel cinquecento, e più in qua anche, acciocchè acquisti maggior maestria nell’ordinare con lucidezza la costruzione, e nell’ornar meglio il favellare: di che sembrano a voi mancare alcuni autori di quel beatissimo secolo. Ed in cotesta opinione sarei io: se non che piacerebbemi avvertire che gli scrittori del trecento bisogna in due classi dividere: l’una cioè che scriveva il volgare per gl’inletterati; e questa, per essere meglio intesa, seguiva la costruzion popolare: l’altra per gli studiosi; e questi sono per lo più i traduttori dè classici come quel Zanobi da Strata, il Cavalca nelle Vite de’ Santi Padri, e questo Fra’ Bartolommeo, non che altri ch’io qui per brevità tralascio, ed alcuni di quei traduttori onde ignorasi ’l nome, ma che pur furono gran maestri di politissimo dettato; fra quali non ultimo è da annoverare il volgarizzatore del libro della Vecchiezza di Cicerone e dell’Epistola a Quinto fratello. Or da questi, a parer mio, trarrebbero maggior vantaggio i giovani che da coloro che posteriormente scrissero: ne’ quali se trovasi purgatezza di lingua, stemperato n’è sovente lo stile, sì che nell’abbondanza delle parole la forza dè concetti si snerva, della qual cosa si è voluto dagli stranieri fare spesso rimprovero agl’Italiani: onde Bernardo Davanzati fu mosso a vendicarli, mostrando nella sua versione di Tacito come la nostra favella poteva per brevità e nerbo stare a paro colla latina. Nè ciò ottenne mescolando alcuna volta nel suo dire certi riboboli fiorentini (chè senza quelli non sarebbe meno vibrato e conciso), ma trovando i vocaboli più adatti ad esprimere quelli del suo autore, senza ricorrere alle circonlocuzioni, e rendendone schiettamente e con efficacia i pensieri: il che non suole comunemente farsi da’ traduttori, perocchè, ammaestrato com’egli era dal continuo leggere nella Divina Commedia, ne apparò quegli scorci, che invano si cercherebbero negli scrittori che furon prima o dopo di quel sommo, il quale, altamente sentendo, altamente scriveva. Così, se il Bembo con quelli che gli tenner dietro, anzi che restringere la nostra favella sul solo esemplare delle rime del Petrarca, fossesi allargato nella Divina Commedia, molte voci oggi non parrebbono antiquate, e la nostra lingua, fatta più ricca ed abbondante, non avrebbe mestieri cercar fuori di sè nuovi vocaboli per soddisfare al bisogno de’ moderni scrittori. Imperocchè il Petrarca dar non poteva più di quello che richiedeva la sola materia di amore, dove la Divina Commedia descriveva fondo a tutto l’universo: ond’è che oggi, e dotti e indotti, tutti si fanno a svolgere il poema sacro, fonte di ogni bel modo di dire, e di tutta la sapienza italiana. Ed in ciò è da lodare il Perticari, il quale, sponendo in ogni sua parte la mente di Dante, voleva che uno fosse il linguaggio comune a tutti gl’Italiani. Se non che, per cessar le gare provinciali, egli tolse di mezzo il centro a cui concorrer doveano le linee: parlo della Toscana e degli altri paesi d’Italia: quella come punto di mezzo, gli altri come raggi a quello rivolti, dappoichè così solamente poteasi servare quella unità, la quale, indivisa, racchiude in sè ogni forza. Nè a ciò avvisarono quei Toscani che furon sì pronti a combattere le opinioni del Perticari; al quale anzi assicurarono la vittoria, abborrendo volontarii quel linguaggio che appresero col nascere, e che tuttora per le piazze e’ mercati sonava loro agli orecchi. Se dunque buona fu l’opinione del Perticari, non bene, a parer mio, si argomentò nel mandarla ad effetto, e peggio fu per quelli che la combatterono.

Ma, tornando a nostra materia, quello che più importa che sappiano i giovani si è che, oltre all’imprender bene la lingua, e’ si studino di formarsi bello e spedito lo stile; senza il quale non possono aver vita le scritture: sì come reggiamo in alcune opere degli antichi, le quali tuttora si leggono, e leggerannosi con ammirazione, solo perchè bellamente distese. In fatto che altro, se non questo, fa tanto pregiare i versi di Catullo e di Orazio medesimo? a’ quali se tu togli la vaghezza del dire, non nuovi ma comuni parrebbero i loro pensamenti: e tali pure diverrebbono voltati in nostra lingua per chi non sapesse rilevarli con modi peregrini, e ponendo mente alla giacitura delle parole. La qual cosa bene intendeva Ugo Foscolo, col quale n’ebbi spesso a ragionare. E sovvienmi ch’egli mi citava alcuni versi di Virgilio, nel tradurre i quali voleva che una tal voce si collocasse nel luogo medesimo che trovasi nel latino: come, per esempio, in quel verso:

Et fortanatam si nunquam armenta fuissent
Pasiphaen......

ove diceva che dal traduttore doveasi Pasifae lasciar giacere posposto come nell’originale, onde spesso interveniva che ci esercitassimo insieme in sì fatte prove. E, poichè mi è occorso di nominare Virgilio, ditemi di grazia onde tanta fama hassi meritamente acquistata questo insigne scrittore, se non dalla bellezza, purità ed eleganza del suo stile? de’ quali pregi se spoglio fosse il suo poema dell’Eneide, non sarebbe chi volesse studiosamente leggerlo, nè farsene le maraviglie, perocchè, in quanto all’invenzione e tessitura della favola, molti difetti apparirebbero che sono da quel suo maraviglioso dettato coverti, il quale egli non da Omero, come alcuni inconsideratamente credono, ma dalla scuola alessandrina apparò: come che dicasi aver egli voluto nella favola imitare quel sommo Greco, riunendo nel solo suo poema le azioni dell’Odissea e dell’Iliade: donde non temono di conchiudere aver la copia vinto l’originale. Il che quanto sia lungi dal vero può per ogni mezzano ingegno vedersi, solo che facciasi a paragonare i primi sei libri dell’Eneide coll’Odissea: ove si persuaderà che l’imitazione non solamente non avanza l’esemplare, ma che molto indietro gli rimane. In fatto, quale differenza non si manifesta tra la peregrinazione di Enea e quella di Ulisse? Il Trojano, fuggiasco dalla patria, sbrigatosi della moglie, va correndo i mari in cerca di fortuna, e giunto alla novella Cartagine, d’insperato favore è quivi da quella regina accolto; ma de’ costei doni, delle carezze e de’ godimenti alfin sazio, la tradisce, abbandonandola a disperata morte, per non so quali sogni che ad altri destini il chiamavano. Quanto ammaestramento di costumi e di sapienza trar possasi da cotal modo di procedere io nol dico, chè ognuno di per sè il vede, e più ancora se guarderassi al suo arrivo in Italia: ove a modo di assassino guasta le pacifiche nozze di Turno con Lavinia; la quale, ucciso quello, e impiccatasi per disperazione la costei madre, fa sua sposa, dicendo sempre essere così ne’ fati ordinato: e vi fonda il nuovo regno, cui da ultimo occupar doveva quell’Ottaviano, nella cui infinta natura studiò il poeta per formare il suo eroe. Il quale parrà mai, a chi voglia dirittamente giudicare, ch’entrar possa in paragone con Ulisse, esempio di vera sapienza, pieno d’ogni maniera di accorgimenti, e ammaestrato dalla sua Dea per cui la sapienza medesima era figurata? Questi sì andò lungamente peregrinando, come il traeva l’ira implacabile de’ Numi, ma non per ingannare altrui, ma per farsi esperto del mondo e de’ vizii umani e del valore, e benchè deliziasse presso la ninfa Calipso, sempre nondimeno sospirava la sua cara Itaca, la fida moglie, il diletto figliuolo: le quali cose per rivedere infiniti disagi sostenne, e pericoli incontrò: e da ultimo con singolare avvedutezza e virtù fece vendetta de’ Proci che le sostanze gli divoravano, e riposossi vecchio e stanco nel seno della sua famiglia. Chè se ora metter vogliamo gli ultimi libri dell’Eneide a fronte dell’Iliade, parrannoci un nano appetto a un gigante: ove si consideri Enea voler farla da Achille, ma quali sarebbero poi gli altri duci del campo greco? quale l’Ajace, il Diomede, l’Ulisse, l’Idomeneo? forsechè questi s’intenderanno rappresentati per il forte Gia, il forte Cloante, la cui valentia si rimane nell’epiteto che appone loro il poeta? perocché in quali fatti s’addimostrano essi degni d’agguagliarsi, almeno in parte, a’ Greci testè nominati? Ma Omero non era cortigiano, e Virgilio sì: Omero viveva in una età vicina all’eroica, e Virgilio nella corruzione ch’avea morta la repubblica: Omero col suo canto non voleva accattarsi il favore di alcun potente, e Virgilio sforzavasi di lusingare Augusto. Alla diversità dunque de’ tempi in che vissero sì l’uno e sì l’altro tribuir deesi la diversità delle loro òpere, tantò egli è vero che gli scrittori da’ costumi e modi del loro secolo s informano, onde in Omero lo stile è semplice, vero, e tocca talvolta il sublime; elegante, fiorito in Virgilio, ma del sublime senza esempio, non altrimenti che in Dante voi ravvisate Omero, nel Petrarca Virgilio, ma nè Omero nè Dante possono imitarsi, e di Virgilio e del Petrarca infiniti sono gì imitatori. Avvegnaché la setta oggidì che appellasi volgarmente romantica, abbonendo ogni vecchia servitù, e datasi a ringiovanire le lettere, ha confinato nelle anticaglie la povera prole di Mnemosine, nè altro segue che ’l suo genio: sotto il qual nome non so se Tifone o Arimano vogliasi intendere, certo è che di questo vocabolo suonano e versi, ora sciolti, ora in nuove guise rimati, e prose dispettose e spezzate, secondo che il genio spira liberamente; non rimanendo antichi se non pochi seguaci dell’età che ci ha jtreceduti di fresco, la quale pur ella, facendo passaggio dal secolo di Augusto a quello di Nerone e di Domiziano, più di Lucano che di Virgilio (vedi simiglianza di costumi!), e più di Tacito che di Livio dilettavasi. Quindi gli scrittori, di mano in mano, della maniera affettala invaghiti, tanto vis’invescarono, ohe agevol cosa fu, travalicando ogni precetto, venire alle presenti condizioni dello scrivere: nelle quali oggimai vagando confusamente gl’ingegni, e cercando ove pure fermarsi, forz’è al postutto che le perdute orme ritrovino. Ma non è del mio proposito intorno a ciò sermonare. solamente, perchè abbiam toccato degl imitatori, piacemi qui un altro disimil fatta esempio aggiugnere. dico dell’Ariosto e del Tasso. Il primo, tuttoché delle greche e latine lettere dotto, non si propose ad esemplare nel suo divino poema Omero, ma volle seguitare la favola del Bojardo: e per la varietà della natura, del valore e delle azioni de’ suoi guerrieri, ch’erano pur quelli de’moderni tempi eroici, fu un nuovo Omero per noi. e così, troppo indulgente accostumi del suo secolo, non avess’egli contaminata la sua opera di alcune scurrilità e narrazioni sconvenevoli alla maestà dell’epopeja! de’ quali difetti ninno nel suo predecessóre si nota: il quale, se avesse avuto più copia di lingua e artificio di poetare, io non dubito di affermare che all’Innamorato non avrebbe tolto il pregio del primo luogo il Furioso: chè le battaglie di Albracca non sono meno omeriche di quelle combattute sotto Parigi. Non pertanto, se il Berni nel porvi la sua mano, anzi che inframmettervi delle sue piacevolezze, avesse inteso nella lingua a pulirlo dandogli maggiore forza e dignità, oggi l’Orlando innamorato sarebbe ricerco e letto al pari che il furioso. Ora, facendoci d’altra parte a considerare la Gerusalemme liberata, troveremo come il Tasso, messosi troppo servilmente sulle peste omeriche, vi cammina, disuguale al suo modello, chè quel suo Rinaido riesce una figura magra di Achille; e sì Goffredo di Agamennone, e Argante di Ettore, nè più libero si spedì allorchè volle rifare la sua opera nella Conquistata: perocchè dalle calcate orme non si tolse; anzi vie maggiormente fermovvi le piante: nè compiè la vendetta contro al suo signore; perchè la Gerusalemme liberata, non la conquistata, gli sopravvive. Ma egli è veramente sommo poeta quando da sè inventa e crea soggetti nuovi e sconosciuti all’antichità: qual è Solimano, e quel suo Tancredi, in cui egli sè stesso dipinse. Non parlo dello stile, chè molto in lungo andrebbe il mio ragionamento, giova solo ricordare che dai concetti troppo affinati del Tasso si generò quella falsa scuola del secento, onde avemmo biasimo e mala voce dagli stranieri: i quali pare essi medesimi dilettarsi ora di riprodurla. In tal modo da moderni rinnovarsi l’antico: e sì all’architettura del Palladio e di Michelangelo succedere il tritume gotico; non potendosi dall’uomo inventare nulla oltra le forze e’ confini del suo ingegno, né oltre l’esperimento lunghissimo che ne fecero le passate generazioni. Può egli adunque per le antiche vie andare innanzi e tornarsi, variando solo nelle apparenze: le quali a buono o reo fine riusciranno, secondo che buoni o rei saranno gli usi dé suoi tempi. E questo che noi diciamo dell’arte dello scrivere puossi parimente applicare ad ogni altra cosa che riguarda l’umano consorzio. Laonde, chiudendo questi brevi cenni (che pure dar possono materia a largo ragionamento, ove vogliasi di maggiori argomenti e d’esempli afforzarli), acciocché non paja aver io meditato un mio trattato per giunta al vostro (mentre che scrivo come gitta la penna), ripeterò solamente un’altra fiata quello che altrove già dissi, cioè i favellari tragger forma e colore da’ costumi e da’ governi: onde il vero ingenuo linguaggio italiano doversi cercare nel secolo che Italia reggevasi da sè, pria che di leggi e di modi fossesi fatta imitatrice d’altrui.

Ero per deporre la penna, quando mi è giunta l’inaspettata novella essere voi stato fatto accademico della Crusca. Di che quanto gaudio io prenda lascio a voi il considerare, che ben conoscete l’affezione che da più anni vi porto, e come sempre ho desiderato che in quel tribunale di nostra lingua sedessero uomini capaci di rettamente giudicarne, e di porgerne i primi esempio co’ loro scritti. Or sì che non potrassi più di voi dire quel che forse di alcun altro avrassi a ripetere— Praefulgebant Cassius atque Brutus eo ipso quod effigies eorum non visebantur.— Ma poichè vi correrà l’obbligo di mandare a’ vostri nuovi colleghi alcun fresco lavoro il quale vie maggiormente li confermi nella giusta opinione che hanno mostrato avere di voi, concedetemi ch’io qui diavene il subjetto: e questo è che dichiariate chè Orazio, tanto amicissimo di Virgilio, non gli dia vanto, come a Vario, del carme epico (e non ignorava che l’amico suo era in su lo scrivere l’Eneide), dicendo così:


          .....forte epos acer,
Ut nemo, Varius ducit: molle atque facetum
Virgilio adnuerunt gaudentes rare Camoenae.


a che rispondeva Properzio con enfasi:

Cedite, romani scriptores, cedite graji:
Nescio quid majus nascitur Iliade.


Taccio ogni altra cosa che potrei a più chiarezza soggiungere, per non lasciarvi in mano la chiave del mio pensiero. e, facendo oramai fine, tutto mi vi proffero e raccomando.


Di Napoli, il maggio del 1843.

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