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Brunetto Latini - Il Tesoro, volume I (XIII secolo)
Traduzione dalla lingua d'oïl di Bono Giamboni (XIII secolo)
Prefazione
Il Tesoro I Libro I


PREFAZIONE





I.


Nella solitaria mia cameretta di studio, quando assorto nella meditazione della Divina Comedia, più sento in me ed applaudo l’immagine di Dio, se improvviso mi si facesse innanzi, come lo ritrarrebbe l’Ariosto,


Un venerabil vecchio in faccia mesta,


e mi si annunciasse quale maestro di Dante; non sarebbe atto di riverenza e cortesia, ch’io non gli profferissi. E se con un melanconico ammiccare dei languidi occhi infossati accennando alle spesse e sconcie macchie della sua veste, addatosi della spontanea mia compassione, mi soggiugnesse: Aspetto lungo studio e grande amore di qualche Italiano! come potrei non sentirmi acerbamente eccitato? Credi, amico lettore, che appunto così accadesse.

Mettiamo dunque mano alacremente all’opera, e ragioniamo innanzi tratto di ser Brunetto Latini, e del suo grande Tesoro: poi di Bono Giamboni, e del suo Volgarizzamento: finalmente dell’opera mia, alla quale, comunque possa riuscire, nè il lungo studio nè il grande amore sono mancati. La impresi in nome di Dante.


II.


Brunetto1 figlio di Bonacorso Latini2, nacque d’illustre famiglia in Firenze.

L’anno di sua natività, pare sia stato il 12203.

Il titolo di ser, datogli da Dante, e da tutti gli antichi scrittori, indica la professione di notaio. Vale quanto sere, sire, signore, dal latino senior (provenzale senor, senher, ser), ed era proprio a que’ giorni, dei preti non insigniti di prelatura, e de’ notai.

Fu dittatore del Comune di Firenze, cioè segretario. Dittatore a que’ giorni, come fu detto anche di Piero dalle Vigne, era chiamato chi dettava o scriveva lettere a nome di altri.

Egli era di parte guelfa. Manfredi re di Sicilia, era stato chiamato in aiuto dai ghibellini scacciati da Firenze. I guelfi invocarono re Alfonso di Castiglia. “Acciò che egli con sue forze venisse abbattere la superbia e signoria di Manfredi, per la quale cagione i guelfi di Firenze gli mandarono ambasciadori per sommoverlo dal paese, promettendogli grande aiuto acciò che favoreggiasse parte guelfa, lo ambasciadore fu ser Brunetto Latini, uomo di grande senno. Ma innanzi che fosse fornita la imbasciata, i Fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti (Ricordano Malespini, Istor. Florent. c. 162).„ La battaglia di Monte Aperti fu a’ 4 di settembre dell’anno 1260. Ricordano annoverando poi tutti i guelfi cacciati di Firenze dai vincitori, nomina “ser Brunetto Latini e’ suoi. (Ib. c. 168).„

Dopo che abbiamo udito la dolente storia da un contemporaneo; ascoltiamola dallo stesso Brunetto, coll’elogio di re Alfonso:

El Tesoro comenza
     Al tempo che Fiorenza
Fiorìo, e fece frutto
     Sì ch’ella era del tutto
La donna di Toscana,
     Ancora che lontana

Ne fosse i’ una parte,
     Rimossa in altra parte,
Quella de’ ghibellini,
     Per guerra de’ vicini,
Esso Comune saggio
     Mi fece suo messaggio
All’alto re di Spagna
     Che or è re della Magna,4
E la corona attende
     Se Dio non gliel contende,
Che già sotto la luna
     Non si trova persona5
Che per gentil legnaggio,
     Nè per alto barnaggio,6
Tanto degno ne fosse,
     Com’esso re Nanfosse.7

     E io presi compagna,8
E andai in Ispagna,
     E feci l’ambasciata
Che mi fu comandata.
     E poi sanza soggiorno
Ripresi mio ritorno,
     Tanto che nel paese
Di terra Navarese
     Venendo per la calle
Del pian di Roncisvalle,

     Incontrai ’no scolajo
Sovr’un muletto bajo,
     Che venia da Bologna;
E, sanza dir menzogna,
     Molt’era savio e prode.
(Ma lascio per le lode
     Che sarebbero assai).
Io lo pur dimandai
     Novella di Toscana
In dolce lingua e piana.
     Ed e’ cortesemente
Mi disse immantenente
     Ch’e’ guelfi di Fiorenza
Per mala provedenza,
     E per forza di guerra,
Eran fuor della terra,
     E ’l dannaggio era forte
Di prigione e di morte.
                    (Tesoretto, Capitolo I.)

Ascoltiamo ancora da Brunetto il medesimo racconto, e lo sfogo dell’ira sua contro Manfredi. “Questo Manfredi crebbe tanto, ch’ebbe il reame di Puglia e di Cecilia. Onde molti dissero, ch’egli l’ebbe contro Dio, e contra ragione, sì che fu del tutto contrario a santa Chiesa; e però fece egli molte guerre, e diverse persecuzioni contra a tutti quelli d’Italia che si tennero con santa Chiesa, e contra a questa partita di Firenze, tanto che ellino furono cacciati di loro terra, e le loro case furono messe a fuoco ed a fiamma e a distruzione. E con loro fu cacciato maestro Brunetto Latino; ed allora se ne andò egli per quella guerra sì come scacciato in Francia, e là compilò egli questo libro per amore del suo amico, sì come egli dice nel prologo. (Tesoro, Libro II, capitolo XXIX).9„ E nel principio del suo commento alla Rettorica di Cicerone da esso volgarizzata: “La cagione perchè questo libro è fatto, è cotale, che questo Brunetto Latino per cagione della guerra la quale fue tra le parti di Firenze, fu sbandito da Firenze, quando la sua parte guelfa, che si tenea col papa e con la Chiesa di Roma, fu cacciata e sbandita dalla terra l’anno MCCLX. Poi se n’andò in Francia, per procacciare le sue vicende.„10

A ragione Dante facevasi predire il bando acerbissimo dalla patria, da tale maestro onde aveva appresa l’ira implacabile dell’esule. Così avesse ottenuto, come sperava, senza viltà quando che fosse, il ritorno!

In Francia ebbe accoglienza ospitale presso un amico, del quale nessuno ci tramandò il nome. Il grato ospite così ne favella, nel prologo al suo volgarizzamento della Rettorica di M. Tullio: “Là trovò un suo amico, della sua cittade e della sua parte, e molto ricco d’avere, ben costumato e pieno di grande senno, che gli fece molto onore e molta utilitade, e perciò l’appellava suo porto, siccome in molte parti di questo libro pare apertamente, ed era molto buono parlatore naturalmente, e molto desideroso di sapere ciò che li savi avevano detto intorno la rettorica. E per lo suo amore questo Brunetto Latino, il quale era buono intenditore di lettera, ed era molto intento allo studio della rettorica, si mosse a fare questa opera, nella quale mette innanzi il testo di Tullio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua scienza, e dell’altrui, quel che ne fa di mestieri. „

Come nel poema di Dante nessuno de’ contemporanei chiarì alcune allusioni a persone, perchè da tutti erano conosciute, e noi ne desideriamo indarno la chiave: così nessuno registrò chi fosse questo amico generoso di ser Brunetto, al quale dedicò il Tesoro, e ne parla in più luoghi con molto affetto.

Fu detto che abitasse a Parigi, e v’insegnasse filosofia11. Se con questo aneddoto volle ricordarsi che nel suo esiglio in Francia dettasse opere di filosofia, si disse il vero. Nè egli, nè i contemporanei parlano della sua scuola.

Ignoriamo quanti anni durasse il suo esiglio. Fu certamente fino alla morte di Manfredi, ucciso nella battaglia di Benevento a’ 26 febbraio 1266. In patria ricuperò l’antico incarico di segretario del Comune, e prese parte a molti nobili uffici12. Nel 1280 cooperò alla pace, comecchè effimera, tra guelfi e ghibellini. Morì nel 1294, e fu sepolto nella sua parrocchia di santa Maria Novella. Nella capella del palazzo del Podestà a Firenze, si conservò il suo ritratto. Nella capella del sepolcro di Dante a Ravenna, sono quattro medaglioni, che rappresentano Virgilio, Brunetto Latini, Can grande, e Guido Cavalcanti13.

L’abate Mehus fece una collezione degli elogi di ser Brunetto, intorno ai quali osserva il Tiraboschi, che i posteriori non sono che ripetizione dei precedenti.

Riporterò. questi soli, che sono i più autorevoli.

Giovanni Villani, dopo di averne narrata la morte, aggiugne: “Fu un grande filosofo, e fu un sommo maestro in rettorica, tanto in ben saper dire, quanto in ben dittare.... et fu dittatore del nostro Comune, ma fu mondano uomo. Et di lui avemo fatto menzione, perchè egli fu cominciatore et maestro in digrossare i Fiorentini, a farli scorti in bene parlare, et in sapere giudicare et reggere la nostra repubblica secondo la politica.„

Filippo Villani: “Brunetto Latini fu di professione filosofo, d’ordine notaio, e di fama celebre e nominata. Costui, quanto dalla rettorica potesse aggiungere alla natura, dimostrò. Uomo, se così è lecito dire, degno di essere con quei periti ed antichi oratori annumerato.... Fu motteggievole, dotto ed astuto, e di certi motti piacevoli abbondante, non però senza gravità e temperamento di modestia, la quale faceva alle sue piacevolezze dare fede giocondissima, di sermone piacevole, il quale spesso moveva a riso. Fu officioso e costumato, e di natura utile, severo e grave, e per abito di tutte le virtù felicissimo, se con più severo animo le ingiurie della furiosa patria avesse potuto con sapienza sopportare.„

Di Brunetto qualche opera è ancora sepolta in qualche biblioteca, o tomba di derelitti viventi che sospirano la luce: qualche altra è smarrita.

Possediamo oltre il grande Tesoro, del quale ragioneremo poi, il Tesoretto dall’autore intitolato Tesoro, in versi settenari rimati a due a due, forse frammezzato da prose, come la Consolazione della filosofia di Boezio, che ora deploriamo perdute14. È perduto altresì il fine del poema. Forse nessuno, come sospetta il Nannucci, si prese briga di ricopiare le prose, che per avventura furono inserite nel grande Tesoro, come vi è ripetuta la miglior parte dei versi del Tesoretto, il quale per questa cagione potè essere detto da Giovanni Villani sua chiave15.

In questo poema egli canta, come ritornando dalla sfortunata sua ambasciata ad Alfonso re di Castiglia, da uno scolare di Bologna intendesse la sconfitta e l’esiglio de’ suoi guelfi. Fuori di sè per dolore smarrisce la via, e riesce alle radici di un monte, ove incontra una veneranda matrona, ch’è la Natura. Dopo lungo scientifico dialogo con essa, entra in una vicina selva a cercarvi la filosofia. Vi trova baroni, re, uomini dotti. Vede la Virtù, imperatrice accompagnata da quattro figlie regine, Temperanza, Prudenza, Fortezza e Giustizia, servite da quattro dame di corte, Larghezza, Leanza, Cortesia, Prudenza. Continuando l’avventuroso viaggio, trova il Dio d’Amore, ed Ovidio cancelliere della sua corte, che dà mano al poeta ad uscire di quel laberinto. Fatto voto di ritornare a Dio, pentito de’ suoi peccati li confessa ad un frate a Monpelieri, e predica molti precetti morali. Ripiglia il poetico viaggio, cavalca di nuovo per selve, e poggia alla cima dell’Olimpo. Colà incontra l’astronomo Tolomeo: ma qui il poema è bruscamente troncato, come dicemmo16.

Il Favolello è un’epistola, nel metro stesso del Tesoretto, a ser Rustico di Filippo, poeta fiorentino, suo amico17.

Se gli attribuisce il Fiore di filosofi, e di motti savi, sull’autenticità del quale è a leggere il Nannuci, nell’opera citata, che ne pubblicò una parte. (V. Illustrazione del Prologo del lib. VI del Tesoro).

La Rettorica di ser Brunetto Latini, è il Trattato de inventione di M. Tullio, da esso volgarizzato, che possediamo ora in parte. Non è il primo libro delle partizioni, come scrisse il Fontanini. A torto il Salviati dubitò dell’autenticità di questo volgarizzamento, oltre la testimonianza del Villani, avendo in suo favore altresì quella di Brunetto, e dei secoli. È inserito in gran parte nel libro VIII del Tesoro.

L’Etica di Aristotele attribuita a Brunetto che è il Libro dei vizi e delle virtù ricordato dal Villani, è il libro VI del Tesoro, che prima fu compilato, e poscia dall’autore annestato nella maggior parte del Tesoretto.

Possediamo inoltre alcuni volgarizzamenti di Orazioni di Cicerone, di Livio, di Sallustio ecc.

Due gravi accuse furono fatte a ser Brunetto: di essere stato lussurioso contro natura, e di avere composto l’osceno Pataffio.

L’Allighieri nel canto XV dell’Inferno, lo trova punito di sì enorme vizio con troppi. Letterati grandi e di gran fama, rammenta il poeta, miseramente ne furono lerci. Non è il poeta che cerca il peccatore in quella bolgia, come fece di altri, nè che primo lo adocchia e conosce. È da esso raffigurato, quasi contro la sua volontà. Venuto a parlare con esso, di tutt’altro gli favella, che del turpe delitto, come usa con tutti i perduti: anzi gli mostra affetto di figlio, gratitudine di buon discepolo, e stima che a nessun altro maggiore. Si noti bene quell’esclamazione affettuosa se altra mai: “O figliuol mio!„

     Così adocchiato da cotal famiglia
Fui conosciuto da un che mi prese
Per lo lembo, e gridò: Qual meraviglia!
     Ed io, quando il suo braccio a me distese,
Ficcai gli occhi per lo cotto aspetto,
Sì che il viso abbruciato non difese
     La conoscenza sua al mio intelletto:
E, chinando la mano alla sua faccia,
Risposi: Siete voi qui, ser Brunetto?
     E quegli: figliuol mio, non ti dispiaccia
Se Brunetto Latini un poco teco
Ritorna indietro, e lascia andar la traccia.

Il maestro è dipinto sotto l’aspetto meno odioso, ch’era possibile. Le lodi più affettuose al suo ingegno ed al suo cuore sono poi ad esso profuse. Ma è forza conchiudere, che quella inesorabile giustizia, eco direi per poco della giustizia di Dio, che superiore ad ogni attenenza di patria, di partito, o di amicizia, ingiungeva al poeta di condannare al supplizio eterno degli atei, Cavalcante, padre dell’intimo suo amico Guido, e Farinata degli Uberti salvatore di Firenze, e di innalzare al paradiso Buonconte da Montefeltro, contro del quale combattè a Campaldino, e forse di sua mano uccise; gli imponeva di registrare fra i sodomiti il suo buono e caro maestro, perchè pubblicamente infamato per lo sozzo delitto. Il Villani, nell’elogio di Brunetto non tacque, ch’egli fu “uomo mondano.„ Brunetto stesso nel Tesoretto, quando sotto il flagello dell’esiglio rinsavì, confessa all’amico, dopo di avergli raccontata la sua conversione:

E poi ch’io son mutato,
     Ragion è che tu muti;
Che sai che siam tenuti
     Un poco mondanetti
                         (Cap. XXI.)

Che volesse dire “Uomo mondano„ lo spiega l’uso vivente della lingua nella frase comune a tutta la penisola: “Donna di mondo.„

Non facciamo le meraviglie, se ripatriato ebbe gli onori e pubblici incarichi di prima, nulla ostante quella macchia infame. Era vecchio, era convertito: per la sua rara perizia nel parlare e dettare, era necessario ad un partito finalmente vittorioso in guerra civile.

Accettando anche solo in parte, colla severa nostra critica, l’erudito ragionamento dell’accademico della Crusca Francesco Del Furia, ne abbiamo abbastanza a provare, che non è opera sua il Pataffio, “una delle più triste e pazze cose che s’abbia mai viste l’Italia„ come lo chiamò il Perticari: “il sozzo breviario de’ bagascioni e de’ pederasti„ come disselo il Monti.

Disconviene del tutto all’uomo grave e dotto (sentenzia il Del Furia) che poneva ogni suo studio in ben dire e ben dettare, e in digrossare i suoi Fiorentini, comporre un libro colla lingua e stile della più fetida canaglia, e colla sfacciata immoralità dei bordelli. — Osserviamo di rimando, che non è a stupire se laidamente abbia dettato, chi laidamente coll’opera ha contaminato la patria. L’uomo pur troppo non è sempre quello che deve essere, nè quello che vuol parere, e pare. Alcuni momenti di aberrazione mentale, e morale, sembrano fatali anche ai genii più illustri. Se fossero oggi scoperti anonimi in qualche biblioteca; e chi mai ardirebbe di imputare al divino Galilei alcuni suoi versi?

Gli scrittori contemporanei, o che fiorirono poco dopo Brunetto, come Domenico Aretino, Francesco Buti, Giovanni e Filippo Villani, quantunque avessero occasione di favellarne, del Pataffio non fanno parola. - Rispondiamo, ch’è argomento affatto negativo. Ne possono aver taciuto, perchè n’ebbero vergogna per l’autore, per la letteratura nazionale, e per sè medesimi.

Benedetto Varchi nell’Ercolano, fu il primo che disse Brunetto autore del Pataffio: “Ser Brunetto Latini, maestro di Dante, lasciò scritta un’opera in terza rima, la quale egli intitolò Pataffio, divisa in dieci capitoli, nella quale sono migliaia di vocaboli, proverbi, e riboboli, che a quel tempo usavano in Firenze, e oggi di cento non se ne intende pur uno.„ — Rispondiamo, che in qualunque serie, uno deve essere il primo. Il Varchi asserisce il fatto come cosa nota, e senza controversia. La sua autorità vale assai.

Il depravato gusto di poetare per frottole, e per motti, è posteriore a Brunetto. I bisticci, gerghi, riboboli, strambotti, e simile lordura, usaronsi solamente nel secolo dopo di esso. — Ricordiamo, di grazia, la storia di altri nostri componimenti, dei quali quanto più frughiamo nelle biblioteche, ritroviamo più antica l’origine, fino ai primordii delle lingue romanze, al basso latino, e più là.

Non si trovò antico testo a penna, in cui si legga il nome di ser Brunetto, come non l’ha il codice della Magliabechiana del secolo XVII, nè le due copie della Marucelliana, l’una del Salvini, l’altra del Biscioni. — Notiamo, che qualche altro codice antico si può ancora trovare, e staremo a vedere se ha nome d’autore. Chi tace, nè afferma nè nega.

Il Salvini scrisse questo titolo, che si conserva autografo, in principio del suo commento: «Vocaboli fiorentini, distinti in dieci capitoli chiamati Pataffio, detto di Messer Brunetto Latini.» — Incominciamo ad intenderci. Quest’autorità si contrappone assai bene a quella del Varchi.

In un codice della Laurenziana, del secolo XV, si legge nel titolo: “Vocaboli fiorentini, distinti in dieci capitoli, chiamati Pataffio, fatto per... de’ Mannelli, sendo in prigione.„ — Di questa prigionia l’autore fa cenno al capitolo V, dove manda in dono alcune rose:


     L’amico Cesar abbia la più fina,
     Che mi vide in prigione con ambascio.


Facciamo tesoro di questa notizia, che vale non poco.

Nel capitolo VI parla dei Priori di Libertà, stabiliti nel 1282, cioè tredici anni, o in quel torno, prima della morte di Brunetto. Nel capitolo IV nomina le due porte di Firenze, Faentina e san Gallo, edificate nel 1284, cioè dieci anni, o in quel torno, prima della morte di Brunetto. Era dunque assai vecchio quando lo componeva, se vero è che l’abbia composto. Ma nel capitolo IX l’autore si dipinge in fiorente giovinezza, comechè povero:


     Povero in canna son, col capo biondo.


Dunque non può esserne Brunetto l’autore. — È agevole rispondere, che nessuna legge obbliga il poeta (ed in modo particolare il poeta del Pataffio), a render conto esatto di sè. Come Virgilio giovane si finse vecchio colla barba grigia nell’egloga prima; Brunetto grigio si potè finger giovane col capo biondo nel Pataffio. Tanto può esser vero che Brunetto allora fosse giovane, quanto è vero che fosse povero. Mettiamo in sodo a buon conto, che se Brunetto compose que’ sozzi capitoli, li compose in vecchiaia.

Nel capitolo IX si parla di soldi, e di soldi rotti:


Amore ha nome l’oste; un soldo rotto
Spendi, e non bere acqua di cisterna.


L’aggiunto rotto, mostra che l’autore parla del soldo, o soldino, moneta d’argento e rame coniata nel 1462, un secolo e mezzo dopo la morte di Brunetto. Il soldo tutto di rame, fu fatto coniare dal duca Cosimo assai più tardi. — Questo è argomento che prova.

Nel capitolo VII si parla di grossi, e di un tosatore di essi:


Tu ti fai beffe di grossi tonduti.


Ma i grossi furono coniati la prima volta nel 1296, quando Brunetto da due anni era morto... — L’argomento vale per mille.

Nel capitolo IX allude al fatto scandaloso, narrato dal Boccaccio nella novella di monna Belcolore, avvenuto tra il 1320 e il 1330, come fu dimostrato dal Manni. Dunque... — Altro argomento, che vale per mille.

Nel capitolo III ha questo lazzo contro i guelfi:


Non frottolar, che tu gli hai traballati:
Quando l’asino ragghia, un guelfo è nato.


Come può credersi, che Brunetto guelfo in carne ed ossa in tutti li suoi libri, in tutta la sua vita, scaraventasse tanto plebea villania contro dei guelfi? E molto più, aggiungo, quando i guelfi erano ritornati vittoriosi in patria, avevano dimenticato le colpe della sua gioventù, vecchio canuto lo onoravano e rimuneravano quale principale sostegno della repubblica? Non abbiamo bisogno di altre prove. La causa è vinta. Brunetto non è l’autore del Pataffio.

Ripetiamo dunque lieti al maestro di Dante, le cordiali parole di tanto discepolo:


Se fosse pieno tutto il mio dimando,
                              voi non sareste ancora
Dell’umana natura posto in bando.

Che in la mente m’è fitta, ed or m’accora,
     La cara e buona immagine paterna
     Di voi, quando nel mondo ad ora ad ora

M’insegnavate come l’uom s’eterna:
     E quant’io l’abbo in grado, mentr’io vivo
     Convien che nella mia lingua si scerna.


III.


Il Tesoro, da esso intitolato il grande Tesoro, è la grande opera di Brunetto, nella quale adunò il fiore dell’altre opere sue18, non che gli studii e le cure di tutta la sua vita: della quale diceva a Dante altresì fra l’eterno dolore, non di altro sollecito che di essa,


Sieti raccomandato il mio Tesoro,
Nel quale io vivo ancora, e più non chieggio.


Il Tesoro può dirsi l’enciclopedia italiana dei tempi di mezzo. Protesta il suo autore, che nessuno può reputarsi istrutto a sufficienza, se non conosce almeno la prima sua parte.

Lo divide in tre parti, ogni parte in libri, ogni libro in capitoli19.

La prima parte tratta della creazione del mondo, della formazione dell’uomo, della storia dell’antico e del nuovo Testamento, dell’origine dei primi regni, dell’astronomia, geografia, e storia naturale.

La seconda parte tutta dedicata alla morale, si divide in due: un compendio della etica, o morale di Aristotele: una dimostrazione pratica dell’etica con sentenze di filosofi, e con esempi.

La terza parte discorre della politica, o governo della città. La distingue in due: arte di parlare, o rettorica: arte di governare, con riguardo speciale alle condizioni d’Italia de’ suoi tempi, delle quali l’autore era informatissimo, e dà un prospetto di grande interesse, ch’è forse il miglior trattato del Tesoro.

Il bisogno di un’enciclopedia era stato sentito assai prima dell’età di Brunetto. Lo Speculum universale di Vincenzo de Beauvais, fu detto il più antico libro di simil genere. Dell’età di Brunetto sono, Le livre de Sydrach, ossia La Fontaine de toutes sciences: L’Image du monde, attribuita a Gautier de Metz, ambi in versi francesi: Le Tresor di Pietro de Corbiac: Le Breviaire d’amor, di Ermengardo de Béziers, ambi in versi provenzali.

Prima del Beauvais (dai nostri appellato il Bellovacense), Alessandro Neckam in Inghilterra aveva scritto due libri De naturis rerum. (London 1863, edit. Wright). Filippo di Thaun avea composto nel secolo duodecimo due poemi editi dal Wright, Le livres des creatures, ed il Bestiarius. Frugando, se ne possono trovare anche altri.

Il Quadrio accusò il Latini di avere copiato e Tesoretto e Tesoro, dal Tesoro di Pietro di Corbiaco. Il Bettinelli ripetè l’accusa, rincarando la dose, come quegli che nemico di Dante nelle famose Lettere virgiliane, poco amico doveva essere del suo maestro. Il Galvani con quella dottrina che lo distingue, dimostrò che, eccetto qualche accidentale somiglianza in qualche parte di minore rilievo, l’opera di Brunetto è originale (Osservazioni sulla poesia dei Trovatori, capitolo XLIII.) Il Nannucci ponendo a confronto i brani di Pier da Corbiaco con quelli di Brunetto che hanno qualche somiglianza, fa toccar con mano la frivolezza ed insussistenza dell’accusa (Op. et loc. cit.).

Ser Brunetto schiettamente confessa di avere compilato da molti libri, oltre che nelle frequenti citazioni inserite nel Tesoro, nello stesso proemio: «Non dico io niente in questo libro, che sia tratto del mio povero senno, nè della mia ignuda, scienza; anzi è come una massa di mele tratta da diversi fiori; che questo libro è compilato solamente dei meravigliosi detti degli autori, che dinanzi al nostro tempo hanno trattato di filosofia.„ Non si può dunque a ragione redarguire di plagio. Egli compila, e non crea.

Il Chabaille raggranellò brani di scrittori francesi, anteriori o contemporanei di Brunetto, i quali espongono le medesime dottrine del Tesoro, e ne conchiuse, ch’egli dimorando in Francia, e scrivendo in lingua francese, abbia copiato da essi. Non negherò che Brunetto possa aver avuto sotto de li occhi quei libri, e fattone anche ad un bisogno il suo vantaggio; ma nego, che da quelle sorgenti di seconda mano abbia egli in maggior copia attinto. Suoi maestri ed autori sono Aristotele, M. Tullio, Plinio, Solino, Seneca, ed i libri della Sacra Scrittura prima di tutti. Il Tesoro infatti, in qualche antico manoscritto è detto sul frontespizio “tradotto dal latino„ e taluno che si arrestò alla prima parvenza delle cose, disse lo traducesse Brunetto dal latino in francese, e finalmente Bono Giamboni lo voltasse in italiano20. Si asserì tradotto dal latino in francese, perchè da autori latini, o tradotti in latino, per la maggior parte lo compilava l’esule italiano ospite in Francia. Senza che, raffrontando il testo autentico del Tesoro, coi testi degli autori citati, li riscontriamo di sovente voltati alla lettera. Anzi al testo latino di essi ci è forza talvolta ricorrere, per correggere la lezione errata, o incerta del Tesoro. Le mende, e non lievi, che all’età di Brunetto erano in quei testi; nel Tesoro purtroppo sono fedelmente riprodotte. Di qualche equivoco di Brunetto ci accorgiamo, scovando in quei testi l’ambiguo vocabolo latino che lo fece adombrare. Tutto questo si parrà chiaramente ne’ molti luoghi criticamente annotati in questa edizione. Fu pertanto a quelle primitive sorgenti che in generale attinse Brunetto. Nessuna meraviglia, che altri scrittori ripetano le stesse dottrine, ch’erano allora comune patrimonio dell’Europa cristiana. Di prima, o di seconda mano, quegli scrittori francesi le avranno estratte dai medesimi autori. Se sono eguali a quelle di Brunetto, non può dirsi con certezza che avvenga perch’egli abbia da essi copiato; ma per l’assioma, che due cose eguali ad una terza sono eguali fra loro21.

I Francesi fecero di quest’opera sommi elogi, come rammenta e prova il Chabaille. Il nostro Alain Chartier, egli scrive, lo colloca nel numero dei sapienti, degli storici, e dei poeti più celebri dell’evo antico e del medio. “Vuoi tu adunque riscontrare li tuoi casi in altrui, e le avventure dei nostri giorni paragonare a quelle de’ nostri antichi? Leggi Omero, Virgilio, Tito Livio, Orazio, Trogo Pompeo, Giustino, Floro, Valerio, Stazio, Lucano, Giulio Celso, Brunetto Latini, Vincenzo (di Beauvais citato poco sopra) e gli altri autori di storia che si affaticarono a prolungare la breve loro età colla illustre e diuturna fama dei loro libri. (L’Espérance, ou Consolation des trois vertus etc. pag. 362, edit. Duchesne, Paris 1617.)

Aymery du Peyrat, abate di Moissac, il successore del quale fu nominato nell’anno 1407, scrisse in latino una cronica dei papi, nella quale cucì un lungo brano del Tesoro di Brunetto Latini, che egli qualifica: “Vir magnae prudentiae, et venustae facundiae.„ (Ms. fonds de Baluze, N. 4991 A, in fol. a 2 colonn. XV siècle).

“L’edizione delle Assises de Jèrusalem, edita dal La Thaumassiere, contiene due capitoli (CCLXXXII, CCLXXXIII) tolti dal Tesoro (del Gouvernement des Citès, des Seignories, et des Piliers). L’opera di Brunetto Latini ottenne, com’è noto, grandissima fama in Europa nel secolo decimoquarto, e per molte ragioni egli mostravasi degno di tale successo (M. le comte Bougnot, Assises de Jèrusalem, in fol. tom. I. p. 32 note 6.

Levesque de la Ravalière copiò dal Tesoro il ritratto d’Iseult, e vi pose fine con questa osservazione: “Questo ritratto non è nello stampato romanzo di Tristano: lo trassi dalla Rettorica di Brunetto, il quale citollo come esempio di immagine e descrizione perfetta. Egli è vero, che non si può dare più anima e vita, e presentare ogni parte di un ritratto con maggior verità e miglior pittura dei particolari. Per essere ammirata da tutti, non vi si può desiderare che un colorito più fresco (Poesìes du roi de Navarre, to. II. p. 199).„

La scienza di Brunetto, a chiudere tutto in un motto, è quella del suo secolo. Lettura di pochi libri, e di sovente scorretti, nei quali si credeva compendiato lo scibile. Ragionamenti logici, su basi spesso illogiche, perchè di sola autorità di autori male copiati, male tradotti, male interpretati. Le opinioni dei teologi confuse colla divina rivelazione. Fede cieca nell’ipse dixit di Aristotele, appellato da ser Brunetto nel prologo del Tesoro: “il nostro imperadore.„

Ciò nondimeno albeggia nel Tesoro qualche nitido raggio del sole, che sarebbe nell’evo moderno spuntato, e della luce del quale noi felicemente godiamo. Nell’illustrazione del testo, a suo luogo è notato secondo i varii capitoli.

In fatto di storia naturale talvolta non è pago di ripetere materialmente quello che ha letto: ed aggiunge di avere interrogato viaggiatori, o chiesto informazioni da navigatori (lib. V. c. 14). Declina almeno per parte sua ogni responsabilità, nominando l’autore nel quale ebbe a leggere il prodigioso fatto, o fenomeno, della verità del quale non si dà a vedere del tutto persuaso. Vi fa capolino la critica.

In fatto di storia leggendaria, quantunque ne sovrabbondi, sospetta talvolta che sia mito allegorico quello che si spaccia comunemente quale verità storica. Non crede all’aneddoto di Remo e Romolo allattati dalla lupa (lib. I. c. 35). Spiega moralmente la favola delle sirene (lib. IV c. 7.). In ciò, a dir vero, doveva avere avuto maestri Cicerone ed Orazio: il primo dei quali dice novelletta inventata per abbindolare il povero popolo, quella di Romolo e Remo: il secondo nell’epistola a’ Pisoni interpreta in senso politico il mito di Amfione e di Orfeo. Anche Dante, discepolo di Brunetto, canta di Romolo:

                              e vien Quirino
Di sì vil padre, che si rende a Marte
                                   (Par. VIII)

Raccolse notizie preziose, che furono germi di grandi scoperte, sorprendenti per la sua età. Parla della bussola, della calamita, e dei due poli (lib. II. c. 49.): ragiona liberamente sulla sfericità della terra, e sugli antipodi (lib. II. c. 35): tocca altresì della circolazione del sangue (lib. II. c. 36). Giugne perfino a condannare l’abuso della tortura nei giudizii: la tollera solamente per li peggiori delitti, e quando si abbia un embrione di prova: insegna in favore dell’accusato il modo dell’interrogatorio ch’egli deve subire (lib. IX. cap. 21.). Prova incontrastabile, che l’uomo procede a passi lentissimi, e che le novità dell’oggi, hanno le radici nei secoli più remoti.

Lo stile di Brunetto è chiaro, regolare, semplice. Le sue comparazioni, come quelle dei trovadori, sono per lo più dedotte da oggetti naturali. L’elogio è del Chabaille, editore del testo autentico, del quale favelleremo appresso.

Francesco Del Furia recitò di ser Brunetto questo panegirico:

“Fu Brunetto lo stupore, l’ammirazione dei suoi tempi. Il filosofico genio, di cui era dalla natura dotato, guidollo a ricercare le vestigia delle arti e delle scienze smarrite negli scritti medesimi della veneranda antichità, e per mezzo dei lumi in tali ricerche acquistati, fece risorgere gli studi i dei rettorie) insegnamenti, additò i fonti della morale filosofia, mostrò l’arte di bene amministrare e governare gli stati: in una parola, fu il filosofo, il rettore, il politico, ed il più insigne scienziato del secolo XIII22.„ (Lettera 14 aprile 1819 sul Pataffio di ser Brunetto Latini, Atti dell’Accad. della Crusca, to. 2 pag. 247.)


IV.


Nei manoscritti del Tesoro, nessuno dei quali è autografo, lamentasi incredibile diversità di lezioni. Essendo opera di compilazione, lo stesso autore potè di tempo in tempo riordinarla, restringerla, ampliarla. È fuori d’ogni contrasto, che dopo il suo ritorno in patria, rivide, e rifece, almeno in parte, il Tesoro. Le violente invettive contro Manfredi, la sua dinastia, ed il suo partito, furono aggiunte dopo la battaglia di Benevento nella quale perì, e dopo la disfatta dei ghibellini ed il trionfo dei guelfi. Questi brani mancano infatti nei manoscritti più antichi. (V. Illustrazione al libro II e VII.)

Il Tesoro essendo un libro di testo per l’istruzione, ed in parecchi luoghi confessando l’autore che ommette o compendia per amore di brevità, e per poco rimettendosi alla spiegazione orale del maestro; egli è chiaro da sè, come discepoli e maestri vi facessero mutilazioni, correzioni, chiose, appendici.

Lisciamo le solite varianti per ignoranza, negligenza, o saccenteria di amanuensi.

Il Chabaille con l’aiuto di ben quaranta codici fece la prima edizione del Tesoro, proposta da Napoleone I, venuta in luce finalmente sotto Napoleone III23. Prese a base dell’edizione un codice dell’anno 1284, in dialetto dell’Isola di Francia. È scritto mentre Brunetto era in vita, e nel dialetto della regione colà da esso abitata, il quale si trasformò poi nella moderna lingua francese24. Dagli altri manoscritti criticamente estrasse varianti, glosse, interpolazioni, appendici. In questa edizione possiamo rallegrarci di possedere finalmente l’autentico Tesoro.25.

Dispiace nondimeno, che non consultasse i codici francesi che abbiamo in Italia, dai quali avrebbe potuto attingere nuove e rilevanti cognizioni per la grande sua opera.

Questo io scelsi per base della mia collazione del Volgarizzamento di Bono Giamboni coll’autentico Tesoro.

Mi giovarono inoltre non poco tre codici francesi, il Capitolare di Verona, l’Albani ed il Libri posseduti dal principe Boncompagni, già diligentemente collazionati da Bartolomeo Sorio, che lasciò in eredità i faticosi suoi studii a chi continuasse l’opera sua26.

Il professore Adolfo Mussafia nell’anno 1869 diede in luce a Vienna colla tipografia di corte e stato, uno Studio sul Tesoro di Brunetto Latini. Distingue i mss. italiani da lui studiati a Firenze in due famiglie. La prima è di quelli, che non hanno la giunta storica della quale parliamo nelle Illustrazioni del libro II. A questi appartiene l’edizione principale italiana del nostro Volgarizzamento, ed il maggior numero dei codici francesi. La seconda famiglia, che può suddividersi, contiene i codici che hanno le giunte storiche dei libri I e II; ed uno o più capitoli di Natura. Alcuni, come il ms. Visiani, hanno in luogo del libro VII, il Libro di costumanze27.

Egli ne presenta questo prospetto:


PRIMA FAMIGLIA


Laurenziano 42, 19 completo
" 90, 46 "
Magliabechiano 2, 48 1-8 (c. 63)
" 2, 82 1-5 e fram. 6 e 8

Laurenziano 42, 21 1-5
" 42, 22 1-5
Gaddiano , 83 1-5
Riccardiano 21, 96 1-5
Palatino E , 5 2. 54 1-5
Gaddiano , 4 1-5 (unico)
Laurenziano 76, 70 7,6
" 76, 74 9


SECONDA FAMIGLIA


A


Laurenziano A 42, 23 compl.


B


Magliabechiano 2, 47 compl.
Laurenziano 42, 20 1-5
Gaddiano , 26 1-5
Magliabechiano 8, 36 1/2 6,8


C


Riccardiano 22 compl.
Palatino E 5, 5 26 compl.
Visiani compl.
Ambrosiano compl.


V.


Poco si conosce di Bono Giamboni, volgarizzatore del Tesoro.

Fa contemporaneo di ser Brunetto, e nacque, come sembra vero, intorno al 124028.

Dicono alcuni eruditi, fra’ quali il Mehus, che giovane andasse in Francia, e soggiornasse a Parigi. Nell’anno 1262 era giudice in un sestiere di Firenze detto di san Procolo29. Nell’anno 1282 era giudice nel sestiere di porta san Pietro30. Morì dopo l’anno 1295.

Era valente giurisperito, e dotto scrittore. Il Mehus lasciò scritto a suo onore: Habeas Bonum Iambonum filium florentinum, non tam gallice peritum, quam librorum et gallorum et latinorum interpretem criticum, praeterea et veterum scriptorum investigatorem acerrimum. (Pref. alla lettera di Ambros. Camald.)

Abbiamo di esso, oltre questo Volgarizzamento del Tesoro di Brunetto Latini, il Volgarizzamento delle storie di Paolo Orosio, Volgarizzamento dell’arte della guerra di Flavio Vegezio, Volgarizzamento della forma di onesta mia di Martino Dumense, Introduzione alla virtù, Della miseria dell’uomo, e Giardino di consolazione. Si crede sua opera la Rettorica di Tullio, volgarmente attribuita a frate Guidotto da Bologna (Nannucci Op. cit.).

Il Giordani, che disse il Tesoro, enciclopedia di quel secolo cominciatore della civiltà, giudicò fina la lingua del Volgarizzamento di esso, fatta nel secolo stesso da Bono Giamboni (Lettera a Gino Capponi).

Sentenzia il Perticari, che potremo in esso trovare molte gravi e splendenti voci per filosofia, e molte forme chiarissime per connetterle. Confessa pure, che molte frasi sono francesi, e non degne di imitazione, come quelle che ricevute dai guelfi toscani quando appresso la sconfitta di Monte Aperti fuggirono in Francia, dagli scrittori furono poi ripudiate. (Scrittori del Trecento, lib. II. cap. 7.)

Il Salviati giudicò, che le parole sono belle e nette, e la loro giacitura assai vaga, avvegnachè alquanto meno semplice di quella del Villani. Non è peraltro in tutto sicuro, sì per la qualità del soggetto, alla quale abbisognano alcune volte termini dottrinali; e per lo disavvantaggio che si ha comunemente nel trasportare i concetti d’una lingua in un’altra: sì anche, perchè Bono per avventura non fu verso di sè buon maestro della fiorentina semplicità come Giovanni Villani, o pratica d’altra lingua, o chechè altro ne fosse la cagione. Comechesia, è utilissima opera, e tra le maggiori ricchezze e principali averi è da riporta del favellare natio (Osservazioni sulla lingua).

Quale finalmente sia il merito di Bono Giamboni in questo volgarizzamento del Tesoro di ser Brunetto, non possiamo dirittamente conoscere, se prima non sappiamo qual codice dell’originale francese egli avesse innanzi: se prima non sappiamo come egli abbia veramente tradotto, avvegnachè non possediamo nessun suo codice autografo. Molti sono gli sbagli, le ommissioni, ora indicate, fedelmente raffrontando lo stampato Volgarizzamento col Testo autentico francese: ma chi giudicherà quante e quali di queste colpe sieno del volgarizzatore, e quali e quante degli amanuensi o ignoranti, o sbadati, o presuntuosi correttori dei codici, o tutto e peggio ad un tempo?

Il Sorio scrisse nella prefazione al lib. VII del Volgarizzamento del Tesoro da esso ridotto a miglior lezione: “Ho detto, ch’io temo non essere di Bono Giamboni il volgarizzamento di questo libro VII; ed a sospettare mi induce il vedere aver franteso scapestratamente l’originale il traduttore toscano di questo libro troppo più spesso che Bono Giamboni non fece a gran pezza nel resto dell’opera; ed averlo franteso di quelle voci medesime, e di quelle frasi che furono bene intese e tradotte nel resto dell’opera da Bono Giamboni.„ Nè più ne meno può ripetersi di non pochi brani dell’intero Volgarizzamento, come si pare dalle correzioni frequenti, e dalle critiche osservazioni appostevi. Nell’Illustrazione al libro VII dimostro, come, non ostante le scorrezioni, esso sia autentico; ed il timore del Sorio non sia abbastanza fondato.

Raffrontando sempre il Volgarizzamento col Testo autentico, e coll’aiuto di buoni mss. scelsi tra le varianti, emendai gli errori, riempii le lacune, raddrizzai la sintassi.

Sarò gratissimo a chi mi additi i miei falli, per quello stesso amore delle nostre lettere per lo quale io additai e corressi gli altrui.


VI.


La prima edizione del Volgarizzamento, secondo il Carrer, è la trivigiana, in foglio, del Fiandrino, data in luce l’anno 1474. La mia vien fuori appunto nel quarto centenario di questa prima!

La seconda si fece in Venezia dai Fratelli da Sabbio, Panno 1528: edizione scorretta. Il Mazzucchelli dice latina la prima edizione, tratto in errore dal Mattaire: dubita che fosse latina anche la seconda, tratto in errore dal Fontanini.

La terza edizione è del 1533, impressa in Venezia da Marchio Sessa: edizione ammodernata, e smozzicata da chi che sia, secondo la sentenza del Salviati (Avvertim. lib. XI cap. 12); ma usata dall’Accademia della Crusca: edizione, secondo lo stesso Carrer, gemella per le scorrezioni alla prima trivigiana, comechè dal Bottari, senza forse averla veduta, stimata migliore.

Sopra questa del 1533, il Carrer pose mano alla sua edizione del 1839, senza poter confrontarla coll’originale francese stampato 24 anni dopo, e senza l’aiuto continuo di nessun codice: giovandosi delle due edizioni anteriori, delle citazioni dei brani del Tesoro racimolate dalla Crusca, e sopra tutto del suo squisito buon senso. Nel libro VI, o Etica di Aristotele, seguì anche l’edizione di Lione del 1538, e di Firenze del 173431.

Bartolomeo Sorio, preparando un’edizione del Volgarizzamento ridotto alla sua vera lezione, si giovò dei manoscritti che enumero:

Ms. Marciano Farsetti N. LIII. Venne alla Marciana di Venezia dalla libreria del balì Farsetti. È quello commendato come ottimo dal Salviati, scritto nel secolo XIV. Fu posseduto dal Lasca, e poi dal Manni. Ne rimangono solamente quattro quinti del primo libro.

Ms. Marciano Bergamasco N. LIV. È cartaceo del secolo XIV. Pervenne alla Marciana dal Contarini l’anno 1713. È una versione del Tesoro fatta in dialetto bergamasco da un Raimondo da Bergamo. Tien luogo di un codice francese, per la sua materiale traduzione a verbo a verbo.

Ms. Ambrosiano. È nell’Ambrosiana di Milano, del secolo XIV G. 75. P. sup. Ommette il trattato della sfera, ed il libro VII: ha diciotto capitoli nel libro II, che mancano all’originale. È pregievolissimo, ed ha molte vere lezioni, che gli altri non hanno. Concorda spesso col ms. Farsetti.

Al cap. 9. lib. V del Tesoro postillato dal Sorio, è questa Nota:

“Da questo capitolo fino al capitolo XIII inclusive, mi sono altresì profittato delle lezioni francesi e toscane stampate dal benemerito conte Alessandro Mortara a Prato 1851, le quali egli trasse da un ms. francese 319 della Bodleiana, e da un altro ms. francese della Biblioteca reale di Parigi N. 7069. E le toscane lezioni egli trasse da due mss. Laurenziani XIX e XXIII del banco XLII.„

Al capitolo 9 del libro VII. annota: “In questo capitolo e in altri seguenti allego la stampa lionese, ed intendo del Trattatello delle quattro virtù accodato all’Etica di Aristotele che fu tratto da varii passi di questo libro settimo raccozzati insieme. Allego questo medesimo trattatello del ms. Gianfilippi, leggendosi in coda alle Favole esopiane volgarizzato per uno da Siena.„

Nel libro VII cita un ms. Zanotti. Nel margine della prima pagina di una copia di questo ms. collazionata dal Sorio, ora nella Comunale di Verona, è scritto di sua mano. Il ms. era dell’ab. Paolo Zanotti di Verona. Questa copia fu tratta per cura del p. B. Sorio D. O. il quale assicura, che il ms. antico era del secolo XIV, benchè non ne avesse la data. Il ms. antico ora giace a Roma presso S. E. il commend. Francecesco De Rossi. Il ms. conteneva l’Etica di Aristotele volgarizzata da messer Brunetto Latini, ed il Fiore di Rettorica di M. Tullio, volgarizzato da frate Guidotto da Bologna.„

Tutti questi codici e francesi ed italiani furono studiati dal Sorio. Le sue postille scrisse in foglietti inseriti nell’edizione del Carrer, in tre copie, lasciate in testamento alla Comunale di Verona, non avendo potuto condurre a termine la promessa correzione di tutto il grande Tesoro.

Ne pubblicò il libro I, e parte del libro II, dal capitolo XXIV al L, ne’ quali si contiene il Trattato della sfera, ed il libro VII.

“Volgarizzamento del primo libro del Tesoro di ser Brunetto Latini fatto per Bono Giamboni, recato alla sua vera lezione da B. Sorio P. D. O. di Verona. Bologna, tip. delle Scienze 1858 (Estratto dal giornale, l’Eccitamento), ristampato a Trieste.„

“Il Trattato della sfera di Ser Brunetto Latini ridotto alla sua vera lezione e illustrato con note critiche e Sistema di cronologia tratto dal testo di Brunetto Latini per cura di B. Sorio P. D. O. di Verona. Milano tip. Boniardi-Pogliani di Ermenegildo Besozzi. 1858.„

“Libro VII del Tesoro di Ser Brunetto Latini, testo originale francese, e traduzione toscana ridotto alla lezione vera del concetto originale con note critiche ad ogni passo emendato dal padre Bartolomeo Sorio D. O. di Verona. Modena, tip. Eredi Soliani 1867 (Estratto dagli Opuscoli religiosi letterari e morali, pubblicati in Modena 1864-67).„

VII.


Una litania non breve potrei qui tessere di preclari uomini di lettere, i quali dimostrarono nei loro libri vivo desiderio, che purgato fosse il Volgarizzamento del Tesoro, degli innumerabili e sconcissimi strafalcioni che in tutte le edizioni lo deformano. Sono fra questi, il Salviati, il Maffei, il Salvini, il Zeno, il Fontanini, il Zanoni, il Benci, il Monti, il Perticali, il Nannucci.

Non pochi furono quelli che posero mano all’opera. La promisero condotta a perfezione il Libri, il Bencini ed il Sorio contemporanei nostri; ma, qualunque ne fosse la cagione, rimase ancora fra’ desiderii.

Allontanato come il maestro Brunetto, non dalla mia patria, ma dalla mia cattedra dopo trent’anni di onorati studii, acciò il riposo cui sono ingiustamente condannato, per mia colpa non traligni in ozio, mi accinsi all’impresa proffertami dall’illustre presidente della regia Commissione pe’ testi di lingua, commend. Francesco Zambrini. Come Diogene confutava Zenone il quale negava l’esistenza del moto, alla sua presenza muovendosi; con quest’opera intendo di confutare il ministero della pubblica istruzione, che senza accorciarmi in nessun modo nessuna difesa mi giudicò inabile alla pubblica istruzione, per essa senza posa, e spero non senza qualche onore e profitto, affaticandomi.

Mi proposi di stampare il Volgarizzamento di Bono Giamboni, criticamente emendato ed illustrato. Ecco perciò il metodo da me fedelmente seguito.

Presi a base della mia, l’edizione del Carrer. Questa raffrontai diligentemente col testo autentico francese edito da Chabaille. A destra ed a sinistra mi sono munito degli studii editi e inediti del Sorio, e di altri in buon numero, quanti potei conoscere ed avere in mano.32.

Confrontando il Volgarizzamento col Testo autentico francese, trovai lacune, giunte, errori, varianti.

Se la lacuna era nella stampa del Volgarizzamento, la riempii colla traduzione del Testo, e giovandomi della lezione migliore che i mss. citati somministrassero.

Quando la lacuna fosse di qualche periodo, o più, e manifestamente si vedesse da Bono ommessa, perchè là volle compendiare anzi che tradurre per imperfezione del suo Testo; fui pago di accennarla, riportando le parole del Testo francese, senza manomettere il Volgarizzamento.

Se la lacuna era nel Testo, giudicai che il Volgarizzamento contenesse giunta o glossa di Bono o del codice ch’egli tradusse. Lasciai però integro il Volgarizzamento, accennando solamente che quell’inciso manca al Testo.

Tal fiata nelle varianti del Testo francese rinvenni la ragione delle giunte del Volgarizzamento. Rispettandole sempre, ne feci breve annotazione, acciò si apprendesse la ragione delle varianti del Volgarizzamento; e non si imputassero ad ignoranza o negligenza del Volgarizzatore.

Le ripetizioni, o meglio duplicazioni, di parole e di linee, come altresì gli spostamenti di parole o periodi, fatti per incuria dell’amanuense; dal Volgarizzamento levai e corressi: ma non mai senza avvertirne il lettore per filo e per segno.

Gli errori sono di molte forme. Gli errori del Volgarizzamento, trovati confrontandolo col Testo, per colpa quasi sempre di chi lo copiò; corressi, fra le varianti dei mss. scegliendo le più conformi al Testo. Dove queste mancassero, o non fossero conformi al Testo, vi ho sostituito altra lezione, dimostrandone il bisogno. Dove fosse dubbio che Bono potesse aver letto altro codice del Testo; e molto più quando le varianti riscontrate nel Testo offrivano una lezione diversa, ma non errata; esposi il dubbio nelle annotazioni, lasciando integro il Volgarizzamento.

Quando l’errore fosse di un concetto, franteso da messer Giamboni, lo lasciai nella stampa, appuntandolo, e ponendovi di fronte la lezione del Testo, acciò l’errore di Bono per avventura non fosse imputato a Brunetto.

Se l’errore di concetto è nel Testo, lo lasciai, nè sempre lo appuntai. Era solamente la buona fede del Sorio, che poteva promettersi purgato il Tesoro da tutti gli errori di concetto, quando corretta ne fosse coi codici migliori la lezione33. Gli errori di fatto e di scienza nel Tesoro, sono molti di quelli che ripete poi Dante suo discepolo: sono gli errori del medio evo. A tutti correggerli, sarebbe necessario rifare nella maggior parte il Tesoro. A volerli tutti confutare, oltre che sarebbe fatica sprecata perchè ogni discreto lettore li vede e confuta da sè, occorrerebbero più capitoli che non sono nel Testo. Aggiunsi qui e colà qualche critica illustrazione, quando parvemi opportuna.

Le varianti dei mss. che per lo più sono varianti di parole, vagliai alla meglio, preferendo le più conformi all’autentico Testo. Nei dubbii sull’autenticità della lezione o francese o italiana, decise la critica, registrando sempre a piè di pagina le ragioni della scelta.

Le varianti di concetto, nelle quali il Volgarizzatore palesemente intese di migliorare e correggere il Testo, tutte lasciai quali sono, avvertendo la diversa lezione del Testo, e riportandone l’autentica lezione in nota.

A dir breve: un apice del Volgarizzamento non è toccato, senza darne contezza al lettore, il quale a colpo d’occhio può restituirvi l’antica lezione, se della mia non fosse contento.

Con queste norme mi studiai con perseverante sollecitudine di ridurre il Volgarizzamento alla vera lezione, cotalchè Bono riconoscesselo genuina sua dettatura, e Brunetto sua fedel traduzione.

Giudicherà il lettore, come l’opera mia al critico disegno abbia risposto.

Verona, novembre 1874.

Luigi Gaiter


  1. [p. 57 modifica]Scrissero la biografia di ser Brunetto, Filippo Villani, in lingua latina, fra le Vite di uomini illustri fiorentini: Domenico di Bandino d’Arezzo, contemporaneo del Villani, che pure scrisse degli uomini illustri: parecchi antichi commentatori di Dante, raccolti dall’ab. Mehus: gli istoriografi della nostra letteratura, e gli editori delle sue opere.
  2. [p. 57 modifica]Negli ultimi versi del Favolello, Brunetto dice di sè stesso all’amico:

    E quel tuo di Latino
    Tien’ per amico fino.

    Nel Tesoretto chiamasi «Fi di Latino.» Non vuol dire che fosse figlio (Fi, o Fio, come allora scrivevasi), ma discendente di un Latino, onde erasi [p. 58 modifica]denominata la sua famiglia. Anche gli Allighieri avevano tratto il nome da un Aldighiero o Allighiero, e così mille altri.

  3. [p. 58 modifica]«Così opina l’ab. Zannoni. Ma se la notizia trovata dal Biscioni è vera, che Bianca figliuola di ser Brunetto Latini fosse moglie di Guido di Filippo da Castiglionchio nel 1248, pare che dovesse essere anteriore al 1220 la nascita del nostro Notaio (Nannucci, Manuale della letteratura del primo secolo della lingua italiana).» P. Chabaille, editore della grande edizione del Tesoro di cui parleremo, lo dice nato nel 1230, e morto nel 1294, e nota: «Ces dates 1230 et de 1294 se lisent au bas d’un portrait de Brunetto Latini, gravò d’après le tableau originai conservò à la galerie do Florence. Un exemplaire de ce portrait orne le manuscrit du Trésor légué par sir Francois Douce à la bibliothèque bodléienne à Oxford, où nous l’avons vu. M. Fauriel dans une savante notice sur l’auteur du Trésor, notice insérée au tome XX de l’Histoire lettraire de la France (p. 276-304), et dont nous avons profité, fait naître Brunetto dix au même quinze ans plus tôt; mais nous croyons devoir nous en tenir, sur ce point, au document d’Oxford.»
  4. [p. 58 modifica]Alfonso re di Castiglia, fu proclamato re dei Romani alla metà di quaresima del 1257: non ebbe mai la corona sperata. Dopo lungo interregno il 1273 Rodolfo di Absburgo fu imperatore del sacro romano impero.
  5. [p. 59 modifica]Rima luna con persona, come altrove, secondo l’abuso di que’ tempi. Ne abbiamo esempi senza numero nei più antichi nostri rimatori.
  6. [p. 59 modifica]Legnaggio, come stipite da lignum e stips, onde l’albero genealogico, i rami, e la linea (francese, lignage, e ligne). Baronaggio (provenzale, baronatge), signoria.
  7. [p. 59 modifica]Il Redi nelle Annotazioni al Ditirambo, scrive: «Nella lingua provenzale ad alcune voci che cominciano per lettera vocale, era costume di aggiungere in principio la lettera N, come per esempio in vece di Ugo dicevasi Nuc, e in vece di Alfonso, o di Anfonso, scrivevasi Nanfons.... Quindi è, che ser Brunetto Latini nel Tesoretto, secondo la maniera provenzale: Esso Comune saggio ecc.» Non è vero, che nella voce Nanfos, quell’N sia aggiunta perchè la parola comincia da vocale. Quell’N, è scorcio di En, perchè dal Senior dei Latini, i Provenzali prima fecero Sen, e poi En, e ’N, che valeva presso di loro Sir: onde scrissero ’N Alfons, cioè Sir Alfonso: ’N Oc, Sir Noc: ’N One, Sir One: ’N Bertrand, Sir Bertrand etc.: e nei codici la N si trova scritta unita al nome, come Nanfons, Nuc ecc. Anche Giov. Villani, libro VII, cap. 102: «Lasciò re d’Aragona Nanfus suo primogenito.» (Nannucci, op. cit.).»
  8. [p. 59 modifica]Compagna per compagnia. Anche Dante più volte: per es.: Io mi restrinsi alla fida compagna, cioè persona di sua compagnia, che era Virgilio (Purg. III).
  9. [p. 60 modifica]Scrisse il Boccaccio nel Commento alla Divina Comedia: «Questo ser Brunetto Latino fu fiorentino, e fu assai valente uomo in alcune delle liberali arti, ed in filosofia; ma la sua principal arte fu notaria, nella quale fu valente molto: e fece di sè, e di questa sua facoltà sì grande stima, che avendo in un contratto fatto per lui, errato, e per quello essendo stato accusato di falsità, volle avanti esser condannato per falsario, ch’egli volesse confessare di avere errato, e poi per isdegno partitosi di Firenze, e quivi lasciato per memoria di se un libro da lui composto, chiamato il Tesoretto, se ne andò a Parigi, e quivi dimorò lungamente.» La novella fu ripetuta da Benvenuto da Imola, e da altri commentatori di Dante, fra’ quali anche il Landino. Nessuno meglio del contemporaneo Malespini, e dello stesso Brunetto, poteva sapere la vera cagione del suo esiglio. «Io non mi persuaderò così facilmente, conchiude Girolamo Tiraboschi, che Brunetto volesse piuttosto incorrere l’infamia ad un falsario inflitta, che quella tanto più lieve, che nasce da un involontario fatto. (Storia della Lett. Ital. lib. III, cap. 5.)» Vedi anche Giovanni Villani, lib. VI, 75, 81, e lib. VIII. cap. 10. Filippo Villani, Vita di Brunetto, con note del Mazzuchelli. Alla nota 123 si legge un documento sincrono di Lupo da Castiglionchio il vecchio.
    «Non sappiamo se Brunetto, fornita l’ambascieria, tornasse in Firenze, e di qui poi si trasferisse in Francia: ovvero se, partito dalla patria nel 1260, qui non tornasse che dopo aver dimorato appresso [p. 61 modifica]i Francesi. L’ab. Zannoni è del primo parere. Ma se, come dice il Malespini, innanzi che fosse fornita l’ambascieria i Fiorentini furono sconfitti a Monte Aperti il dì 4 di settembre 1260; se i guelfi si ritirarono dalla città a’ dì 13 del medesimo mese, cioè nove giorni dopo la sconfitta; è lecito dubitare, se Brunetto avesse tempo a ripatriare innanzi la cacciata dei guelfi (Nannucci, Op. cit.).»
  10. [p. 61 modifica]Ambrosii Traversarii epistolae (Firenze, 1759): Filippo Villani, Vite, pag. 32 e 124.
  11. [p. 61 modifica]In un atto del 1269, redatto da lui stesso, si qualifica: Ego Brunectus de Latinis notarius, nec non scriba consiliorum communis Florentiae (Fauriel Op. cit.)
  12. [p. 61 modifica]Chabaille, Op. cit.
  13. [p. 61 modifica]Ne avverte lo stesso Brunetto, che voleva nel Tesoretto inserire alquanti brani in prosa, trovando difficoltà di esprimere in verso ed in rima li suoi ammaestramenti. Ecco le sue parole:

         Quando vorrò trattare
    Di cose, che rimare
         Tenesse oscuritate,
    Con bella brevitate
         Ti parlerò per prosa,
    E disporrò la cosa
         Parlandoti in vulgare,
    Che tu. intende e appare.
                             (Capitolo V.)

    [p. 62 modifica]

    Appresso ti ho contato
         Del ciel, com’è stellato.
    Ma quando fia stagione
         Udirai la ragione
    Del ciel, com’è ritondo,
         E del sito del mondo.
    Ma non sarà per rima,
         Come scritt’ho di prima;
    Ma per piano volgare
         Ti fia detto l’affare,
    E mostrato in aperto,
         Che ne sarai ben certo
                        (Capitolo X.)

         Ed io che mi sforzava
    Di ciò, che io mirava,
         Saver lo certo stato,
    Tant’andai d’ogni lato
         Per saper la natura
    D’ognuna creatura,
         Ch’io vidi apertamente
    Davanti al mio vedente
         Di ciascun animale
    E lo bene e lo male,
         E lor condizione,
    E la generazione,
         E lo lor nascimento,
    E lo cominciamento,
         E tutta loro usanza.
    La vista, e la sembianza.

    [p. 63 modifica]

         Ond’io aggio talento
    Nello mio parlamento
         Ritrar ciò che ne vidi:
    Non dico ch’io m’affidi
         Di contarlo per rima
    Dal pie fin alla cima;
         Ma ’n bel volgare, e puro,
    Talchè non sia scuro,
         I’ vi dirò per prosa
    Quasi tutta la cosa
         Qua ’nnanzi dalla fine,
    Perchè paia più fine.
                             (Capitolo XI.)

         Così un dì di festa
    Tornai alla foresta,
         E tanto cavalcai,
    Ch’io mi ritrovai
         Una diman per tempo
    In sul Monte d’Olempo
         Di sopra in sulla cima.
    E qui lascio la rima,
         Per dir più chiaramente
    Ciò, ch’io vidi presente,
         Ch’i’ vidi tutt’il mondo
    Sì come egli è ritondo,
         E tutta terra, e mare,
    E ’l foco sopra l’aire,

    [p. 64 modifica]

         Ciò son quattro elementi,
    Che son sostenimenti
         Di tutte creature
    Secondo lor nature.
                             (Capitolo XXII.)

  14. [p. 64 modifica]Brunetto chiama Tesoro, quello che noi ora diciamo Tesoretto (il primo verso del quale, dice: El Tesoro comenza ), e grande Tesoro, quello che noi diciamo Tesoro. Gio. Villani scrisse di lui. «Fu quegli che spuose la Rettorica di Tullio, e fece il buono e utile libro detto Tesoro, e il Tesoretto, e la chiave del Tesoro, e più altri libri in filosofia, e de’ vizii e di virtù. (Op. et loc. cit.)» Nota il Nannucci: «Il Manni, citando il passo del Villani, invece di leggere, come han tutti i testi, e fece il buono e utile libro del Tesoro, e il Tesoretto, e la Chiave del Tesoro, legge invece; il buono e utile libro del Tesoro, e il Tesoretto, ch’è la chiave del Tesoro. Questa lezione, che stimiamo la più vera, scioglierebbe ogni nodo. Ma dice l’ab. Zannoni, che essa non è avvalorata da nessuno dei tanti codici del Villani da lui veduti, i quali hanno tutti: il Tesoretto e la chiave del Tesoro. Si potrebbe rispondere: 1.° Che ciò non esclude che vi possano essere dei codici, che abbiano la lezione del Manni; ne l’ab. Zannoni gli avrà certo veduti tutti. 2.° Che è la cosa la più facile del mondo, che i menanti, i quali ognun sa come guastassero e impiastricciassero per la loro ignoranza e saccenteria le opere altrui, [p. 65 modifica]abbiano errato e scritto: il Tesoretto e la Chiave del Tesoro, invece del Tesoretto ch’è la Chiare del Tesoro. 3.° Che non è credibile, che il Manni, uomo così diligente e accurato nel collazionare i testi, ci abbia data quella sua lezione a capriccio, e non appoggiata all’autorità di nessun codice. Comunque si sia la cosa, che per chiave del Tesoro intendersi debba il Tesoretto, siamo indotti a sospettarlo da un passo del Tesoretto medesimo, dove si legge:

         Di tutte e quattro queste
    Lo puro sanza veste
         Dirò in questo libretto.
    Dell’altre non prometto
         Di dir, uè di contare;
    Ma chi ’l vorrà trovare
         Cerchi nel gran Tesoro.
    Ch’io farò per coloro
         Ch’anno lo cor più alto.

    Quasi dica: Non delle altre virtù, ma solo di queste quattro (Cortesia, Larghezza, Leanza, Prudenza), ed in breve, io parlerò in questo libro, il quale non è che un inviamento, una chiave, che aprirà, per dir così, la via onde entrare nel Tesoro, nel quale io tratterò di tutte più sottilmente. Ed intatti, la maggior parte delle cose del Tesoretto sono state poi ripetute da Brunetto più estesamente nel Tesoro (Op. cit. Vol. II. Opere di B. Latini)

  15. [p. 66 modifica]«Ecco una visione del poeta, una descrizione di luogo, e di oggetti fantastici, uno smarrimento in una foresta, una pittura ideale della virtù e dei vizii, lo scontro in un antico poeta latino, che presta officio di guida al poeta moderno, e quello di un antico astronomo, che i fenomeni celesti gli spiega: ed ecco per avventura il primo germe del componimento del poema di Dante, o almeno l’idea generale, in cui gettò e fuse in qualche modo le sue tre idee particolari dell’Inferno, del Purgatorio, e del Paradiso. Avrà una visione come il suo maestro; si smarrì in una foresta, in luogo deserto e selvaggio, d’onde si troverà trasportato sulle ali del pensiero dove lo richiederà il suo disegno, o lo vorrà il suo genio. Gli è necessaria una guida. Ovidio era stato la guida di Brunetto. In argomento maggiore sceglierà poeta maggiore. Sceglierà quello che era l’oggetto de’ suoi studii, e che aveva sempre fra le mani, Virgilio, al quale la discesa di Enea all’inferno dava una ragione per essergli guida. Ma perch’egli è pagano, entrar non può nel paradiso. Colà condurrallo un’altra guida, e sarà Beatrice, oggetto del suo primo amore, alla quale aveva promesso di dire cose non dette prima di alcuna donna.»
    Chi è pago dell’esteriore apparenza delle cose, accetterà questa sentenza del Ginguenè (Storia della Lett. Ital. Vol. II). Chi è più innanzi nella storia della letteratura, trova mille altri embrioni della Divina Comedia, in tante visioni fantastiche, e viaggi alla seconda vita. Chi intende Dante, sa che ammessa pure la preesistenza della materia, il solo alito di [p. 67 modifica]Dio poteva darle la forma miracolosa, e infonderle lo spirito immortale, che ne fece, quasi direi, un argomento di fatto a provare l’esistenza di Dio medesimo, e la sua rivelazione all’uomo.
  16. [p. 67 modifica]Abbiamo anche un Favolello, o Flabello, di Amerigo di Peguillano. indirizzato a Sordello. I Provenzali usarono i Flabels, o epistole indirizzate a qualche amico. Flabels, da fabula, vale breve racconto, o parlata. I Provenzali e Spagnuoli usarono Fablar nel senso del nostro favellare, o del latino fabulari. Da fabula, si fece fiabe e fable, e fiaba. (Galvani, Osservazioni sulla poesia dei Trovadori.)
  17. [p. 67 modifica]L’Etica di Aristotele fu stampata prima a Lione il 1568, poi a Firenze il 1734 più correttamente. V. Illustrazione al prologo del libro VI.
  18. [p. 67 modifica]Il Chabaille nella prefazione al Tesoro, cita un libro edito da I. de Tournes a Lione, in 4.° nel 1568, il quale contiene le opere minori, vere o supposte, di ser Brunetto, fuse poi nel suo grande Tesoro.
  19. [p. 67 modifica]Qui parlo della divisione del Tesoro secondo il Testo francese, che è l’autentica e filosofica. Nel Volgarizzamento seguii la divisione delle stampe, per conformarmi alle citazioni frequentissime della Crusca (delle quali il Sorio lasciò inedito il voluminoso catalogo), e di tutti i libri di filologia italiana. Non [p. 68 modifica]mancai di notare ai loro luoghi le varianti Ira l’una e l’altra divisione.
  20. [p. 68 modifica]Si legga il catalogo dei manoscritti studiati per l’edizione del Chabaille. Si trova fra gli altri: Biblioteca imperiale, 7320 A-B Lancelot, in foglio velin. «Ce livre est apellé le Tresor de Sapience, que maistre Brunet Latin traslata de latin en francois, et est ung livre plain de toutes bonnes sciences et de tous biens.» Anche nel codice della reale biblioteca di Torino, il Tesoro è detto traduzione dal latino. Leggasi l’illustrazione al prologo del libro VI del Tesoro.
  21. [p. 68 modifica]In fine dell’opera si darà una tavola degli autori e libri citati da Brunetto. Saranno così svelate le fonti del suo Tesoro, cioè quelle da lui confessate.Paolo Emiliani Giudici nella Storia delle belle lettere in Italia, non parlò distesamente del Tesoro, perchè composto in lingua francese. Scrisse in nota: «È una specie di enciclopedia, o un compendio di tutto lo scibile, che nella forma si allontana alquanto dalle grette trattazioni del Trivio e Quadrivio, ed era un gran passo verso il perfezionamento della forma scientifica. Nondimeno in paragone delle opere dei dottori scolastici, e per tacere di tanti altri, di Tommaso d’Aquino, il Tesoro è meschinissima cosa. La sola cagione che ne formò l’importanza, ed accrebbe la fama presso il pubblico, fu, che in quel libro, per mezzo della forma volgare, buona copia di nozioni scientifiche, che nello stato della popolare
  22. [p. 68 modifica] [p. 69 modifica]istruzione de’ temiti dovevano apparire, ed erano un vero tesoro, si diffondeva presso il popolo, in cui era già decisamente sviluppato il bisogno di un alimento intellettuale (Lez. III.)»
  23. [p. 69 modifica]«L’Empereur Napoleon avait en la pensée de faire imprimer aux frais de l’État le Livre du Trësor avec des commentaires, et il avait designè une commission á cet effet. Les préoccupations des dernieres années de son règne ne lui permirent point de donner suite à ce projet.» (Circolare del ministro dell’istruzione pubblica. 15 maggio 1835).
  24. [p. 69 modifica]«Nous avons adoptè, pour notre publication, le dialecte de l’Ile de France, c’est-a-dire celui dans lequel a dû ecrire Brunetto Latini, et qui commençait a devenir la langue française (Chabaille, prefazione)
  25. [p. 69 modifica]Li livres dou Trésor par Brunetto Latini publiè pour la premiere fois d’après les manuscrits de la bibliothèque impériale, de la bibliothèque de l’arsenal, et plusieurs manuscrits des départements et de l’ètranger par P. Chabaille de la société impériale des antiquaires de France, des antiquaires de Picardie, et de la société d’emulation d’Abbeville. Paris, Imprimerie impériale, 1863.
  26. [p. 69 modifica]L’insigne biblioteca del Capitolo di Verona possede un ottimo codice francese del Tesoro, Numero 387-DVIII in foglio di membrana perfettamente [p. 70 modifica]conservato. Era di Scipione Maffei. Fu studiato dal Salvini, che l’ebbe in gran pregio.
    Il principe Baldassare Boncompagni possedè un codice francese proveniente dalla biblioteca Albani, ed un altro già appartenente a Guglielmo Libri Canicci. che aveva promesso un’edizione del Tesoro originale.
    Questi tre codici sono descritti nel Trattato della sfera di ser Brunetto Latini ridotto alla sua vera lezione ecc. per cura di B. Sorio P. D. O. di Verona: (Milano, tip. Besozzi, 1858) e da esso furono collazionati col Volgarizzamento di Bono Giamboni, edizione di Luigi Carrer, Venezia 1839, per una edizione di tutto il Tesoro, della quale lasciò i manoscritti alla Biblioteca comunale di Verona, con obbligo di concederne l’uso al commend. Francesco Zambrini presidente della regia Commissione pe’ testi di lingua, per una edizione del Tesoro ch’egli avesse ad imprendere. Per gentile proposta di esso io posi mano a questa edizione, valendomi delle postille del Sorio, come nella stampa è notato, e consultando nei dubbi il prezioso codice Capitolare.
  27. [p. 70 modifica]Mi sono giovato di questo studio, citando i mss. colle indicazioni sopra accennate, in ispecie nei libri VII e VIII; ed usando della frase generale mss. fiorentini, quando egli ad essi accenna in genere, senza indicazione particolare di alcuno di essi.
  28. [p. 71 modifica]Fu figlio di Giambono dei Vecchi, o Vecchietti. È forse la famiglia rammentata da Dante:

    E vidi quel di Neri, e quel del Vecchio
                                                           (Par. XV.)

  29. [p. 71 modifica]Apparisce da una carta citata dal Manni, nell’avviso ai lettori premesso all’Etica di Aristotele. È una procura, conservata nel pubblico archivio di Firenze, fatta per atto pubblico da Diana vedova di Guglielmo Amidei, in persona di messer Bono Giamboni del Vecchio, giudice del popolo di san Brocolo. Il Villani (Cronica, lib. XII, cap. 35) dice altrettanto, parlando della morte di Santifico, il quale scrive essere Iacopo fiorentino, che fu di messer Bono Giamboni, giudice del popolo di san Brocolo.
  30. [p. 71 modifica]Un documento esistente in un codice Strozziano N. 1104, dice: «Dominus Bonus quondam domini Ianiboni del Vecchio, judex ordinarius pro Comune Florentiae, Curiae Sextus Portae sancti Petri, anno domini 1282.»
  31. [p. 67 modifica]L’Etica di Aristotele fu stampata prima a Lione il 1568, poi a Firenze il 1734 più correttamente. V. Illustrazione al prologo del libro VI.
  32. [p. 71 modifica]Oltre le opere minori, citate a lor luogo, fu consultato: Del Tesoro volgarizzati da Brunetto Latini, Libro I, dal prof. R. De Visiani tratto da un suo ms. membranaceo, che si riferisce al principio del secolo XIV, assai fedele all’originale edito nella dispensa 104 della Scelta di curiosità letterarie inedite o rare ecc. tip. Romagnoli, Bologna.
    [p. 72 modifica]Questo ms. per gentile concessione del suo possessore, fu da me poi studiato in servigio di questa edizione, ed è citato coll’abbreviazione Ms. Vis.
  33. [p. 72 modifica]Prefazione al Libro primo volgare del Tesoro recato alla sua vera lezione.
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