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Traduzione dal greco di Lorenzo Pozzuolo (1873)
Antichità
Questo testo fa parte della raccolta I poemi di Esiodo (Pozzuolo)

LAVORI E GIORNI.

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Pïerie Dive, che inneggiando i nomi
     Rendete illustri, or su sciogliete un canto
     Al vostro genitor; ditene come
     Gli umani or sono oscuri, ed ora chiari,
     Ora nobili, or volgo. – È tal del sommo
     Giove il voler chè a posta sua fa i forti,
     E i forti fiacca; a posta sua gli alteri
     Fa tapini, e i tapini alto solleva,
     Rizza il caduto e il sollevato atterra
     Il Dio tonante, che su tutti ha il trono. —
Giove che m’odi e vedi, a me sii fausto,
     Raddrizza i miei giudizi, e sì ch’io possa

     A Perse il vero favellar. — Or dunque
     Non una sola è la Tenzone in terra;
     Ma due d’indole avversa, onde diresti
     L’una degna d’onor, l’altra di sprezzo.
     Di fiere lotte e d’odii una è feconda,
     Invisa a ogni mortal, che sol le è ligio
     Per immutabil volontà dei numi;
     L’altra, che è figlia dell’oscura Notte,
     Nacque prima di quella, e alma migliore
     Sortì da Giove che sublime impera
     Nella terra, nel ciel, negl’imi abissi.
     Questa sprona i mortali alle fatiche
     Ch’ove lo scioperato altri già ricco
     Vegga provvido arar, piantarsi il campo,
     Governar sua magion, si desta, e a gara
     Fa il vicin col vicin che beni aduna.
     Tenzone amica dei mortali è questa
     È gara tra vasai, gara tra fabbri,
     Tra mendichi, tra vati. – Apri la mente,
     O Perse, ai detti miei. Te sì proclive
     Al forense piatir la rea Tenzone

     Non mai distorni dal lavor: chè poco
     Ha tempo da sprecar fra piati e al foro
     Chi per un anno non ripose a tempo
     Di Cere i doni, della terra i frutti.
     Quando fia che n’abbondi, allor pur tessi
     Frodi e litigi per rapir l’altrui.
     Pur te n’è tolto il modo: or via si sciolga
     La nostra lite con giudizio retto,
     Qual da Giove ne vien. Già dividemmo
     L’eredità; ma con rapace mano
     Molta me ne frodasti, e ligio troppo
     Fosti ai venali giudici, vogliosi
     D’aver fra man siffatte liti: oh stolti!
     Non sanno quanto la metà più valga
     Del tutto, e quanto d’utile pur sia
     Nell’asfodello e nella malva.1 – I numi
     Nascosero sotterra all’uomo il vitto;
     Altrimenti in un dì potuto avresti
     Facilmente adunar quanto bastasse
     A farti viver neghittoso un anno;
     Tosto il timone appenderesti al fumo,

     Vana di muli faticosi e bovi
     Sarebbe l’opra. Nol patì più Giove
     Corrucciato dal dì che lo scaltrito
     Prometeo l’ingannò, quindi ai mortali
     Crudi affanni apprestò. Lor tolse il fuoco,
     Ma il buon Giapezio lo raddusse accolto
     Entro una cava ferula di furto,
     Del Dio fulminator ribelle al senno.
     Onde così gli favellò sdegnoso
     L’adunator dei nembi: «O d’ogni astuzia
     Dotto Giapezio, del rapito fuoco,
     D’aver delusa la mia mente or godi!
     Fonte a te fia di mali e ai tuoi nepoti
     Chè in pena io manderovvi un tal malanno,
     Che ognun se ne innamori, e in fondo all’alma
     Careggi in esso il suo martor.»2 Sì disse
     Ghignando il padre di mortali e numi.
     E all’inclito Vulcano impon, che tosto
     Stempri terra con onda; umana voce
     V’infonda e vigoria; d’eterna diva
     Un’imago ne faccia, una leggiadra

     Vergine seducente. A Palla impone
     Le insegni le ingegnose arti di spola,
     E alla bella Ciprigna in sulle chiome
     Le sparga e vezzi ed indomate brame,
     E amor d’abbigliamenti, e all’Argicida
     Le dia procace, frodolento ingegno
     E al re Saturnio Giove essi ubbidiro.
     Plasmò tosto d’argilla il chiaro Storpio
     Un’imago di vergine vezzosa,
     Qual Giove la volea, vestilla e ornola
     La glaucopide Dea, d’aurei monili
     Il collo le abbigliar le dive Grazie
     E Pito augusta, e di leggiadri fiori
     Le inghirlandaro il crin l’Ore chiomate.
     Pallade le acconciò gli abbigliamenti,
     E l’Argicida, ligio al Dio tonante,
     Colmolle il sen di blandi detti e frodi,
     E d’arti insidiose, e la parola
     Donolle infine il messagger dei numi.
     E Pandora ei nomò cotal fattura
     Perocchè turti dell’Olimpo i divi

     A lei, funesta all’uomo, offriro un dono.3
     Compita la dolosa opra fatale,
     Giove comanda all’inclito Argicida,
     Al presto araldo degli Dei, la rechi
     Ad Epimeteo in don. Questi scordossi
     Di Prometeo l’avviso, alcun presente
     Non accettasse dall’Olimpio Giove,
     Ma indietro il respingesse, affinchè danno
     All’uom non ne seguisse; egli accettollo,
     E del dono funesto indi s’accorse.
     Chè prima si vivean le umane genti
     Scevre di mali e di lavor penoso,
     E d’ogni morbo apportator di morte
     Chè ben tosto i malor fan bianco il crine.
     Tolse Pandora il rio coperchio a un doglio,
     Onde piovve sull’uom di mali un nembo,
     Restando solo la speranza chiusa
     Nel saldo fondo: chè, così volendo
     L’Egioco nume adunator dei nembi,
     Ratto Pandora precideale il volo
     Col riporre il coperchio. A mille i mali

     Si sparsero così: chè pien n’è il mare,
     Pieni ne sono i continenti. I morbi
     Giorno e notte a lor posta infra gli umani
     Portatori di duolo erran silenti
     che Giove accorto non diè lor la voce,
     Così sfuggire a lui si spera indarno. —
Or altra cosa ti dirò, se il brami,
     In brevi e scorti accenti, e in cor li serba.
     Come nacquer d’un seme uomini e divi,
     I sempiterni dell’Olimpo in prima
     Fêr l’aurea etade dell’umana schiatta,
     Che durò finchè Crono ebbe lo scettro.
     Come i numi vivea sgombra di cure,
     Di travagli e dolori: egra vecchiezza
     son l’assalia; di piè, di braccia ognora
     Forte e ignara di guai gioia festosa,
     E l’uom moriva qual dal sonno vinto.
     Era ricolmo d’ogni ben, spontanea
     L’alma terra di frutti eragli larga.
     Tutti di buon voler, tutti tranquilli,
     Partiansi in pace i ministeri e i frutti,

     Ricchi di greggi e cari ai Dii beati.
     Or quando quest’etade andò sotterra,
     La mente del gran Giove i divi e fausti
     Ne feo custodi dell’umana stirpe,
     Veglianti sulle giuste opre e malvage,.
     E d’aere cinti sulla terra ovunque Dator
     s’aggiran di ricchezze; un tanto
     Sortir regale onor. — Gli Olimpii numi
     L’argentea età fêr quindi assai men buona,
     Dall’aurea di natura e cor difforme.
     L’uom della madre al fianco entro l’ostello
     Pargoleggiando un secolo crescea.
     Se pur giungeva dell’etade al fiore
     Vivea breve stagion colma d’affanni.
     Stolti! che non sapean da mutui oltraggi
     Temprarsi i tristi, e i consüeti onori
     Ricusavano ai numi e ostie sull’are.
     L’ira di Giove disparir li feo,
     Poichè d’Olimpo ai venturosi numi
     Negavano ogni culto. E dacchè il grembo
     Della terra pur questa età nascose,

     Fu detta degli umani inferi genii,
     Men buoni dei terrestri, e nondimeno
     Lieti ahch’essi d’onori — Il padre Giove
     Fece quindi la terza età di rame,
     Dall’argentea diversa, orrida d’armi,
     Di Marte intenta ai duri rischi e all’onte
     Schiva dei frutti della terra, il fero
     Petto avea d’adamante. Età tremenda!
     Di gran forza era ognuno: immani braccia
     In granati lacerti ognun scotea
     Di rame l’armi, le magion di rame,
     Di rame ogni opra fean: chè il terso ferro
     Non era ancor. Dal proprio braccio domi
     Ei piombaro nel crudo Orco profondo
     Inonorati, ed abbenchè sì truci
     Li attinse il nero fato; e alla corusca
     Lampa del sol li tolse — Or quando questa
     Età l’abisso sepellì, la quarta
     Diede il nume Cronide all’alma terra,
     Miglior, più giusta degli eroi la diva
     Stirpe, che Semidei per ogni piaggia

     Chiamò l’etade che la mia precorse.
     Altri la dura guerra in aspre mischie
     Nella Tebe settempila distrusse
     Sovra i campi Cadmei scesi a tenzone
     Per lo trono d’Edipo. Altri pur trasse
     La guerra in nave sopra i vasti flutti
     Per la bella chiomata Elena in Ilio,
     Ove l’estremo fato al sol li tolse.
     Il padre Giove nell’estreme rive
     Lungi dai numi li mandò lor dando
     Vitto e magion dagli uomini divisi,
     E Crono è il loro re. Felici eroi!
     Scevri di cure all’isole beate4
     Vicino ai gorghi d’Oceáno han sede:
     Per essi quel terreno almo produce
     Tre volte all’anno i saporiti frutti.
     Oh nella quinta età non foss’io nato,
     O morto prima, o nato poi! La ferrea
     Etade or viene. Ogni miseria e doglia
     Nè dì, nè notte all’uom posa daranno:
     Cure angosciose gli addurranno i numi;

     Ma pur sarà col mal misto alcun bene.
     E questa schiatta ancor spegnerà Giove,
     Quando chi or nasce incanutir vedrassi
     Sul fronte il crine Somiglianza alcuna
     Non fia tra i padri e i figli, il prisco affetto
     Tra ospiti, amici, tra fratei fia spento,
     Nessun rispetto ai genitor canuti,
     Avranno i figli; petulanti motti
     Vibreranno su loro, empii obliando
     L’ira dei numi: ai genitori cadenti
     Che li nutriro negheran gl’iniqui
     Ogni grato ricambio. Essi a vicenda
     Distruggeransi la città; spregiato
     Sarà il dabben, l’onesto, il fido al giuro,
     E onorato il perverso, il vïolento.
     Pudor, Giustizia spariranno: i tristi
     Ai buoni noceran con rea calunnia,
     Collo spergiuro. I miseri mortali
     Avran compagna ognor l’orrida Invidia
     Sussurrante maledica e gioiosa
     Dell’altrui duolo. Involeransi al mondo

     Nemesi e Verecondia in ver l’Olimpo
     In bianco velo avvolte il casto viso.
     Rediran fra gli Eterni abbandonando
     L’uomo a sue dure e disperate angosce.
Or ai giudici miei narro una fola,
     Benchè saggi essi soli. Il nibbio un giorno
     Ghermì coll’ugne, e si portò alle nubi
     Un canoro usignuol Dai torti ugnoni
     Trafitto il miserello si lagnava,
     E lo spietato rapitor: «Che cianci,
     O caro? gli diceva: or sei caduto
     D’un più forte in balìa: nulla or ti vale
     Il tuo canto; verrai dov’io ti meno;
     Farò pasto di te se mi talenta,
     O ti libererò. Stolto chi vuole
     Contender col più forte: ei sarà vinto
     E n’avrà scorno e duol.» – Così gli disse
     L’augel che ruota i vanni agili e larghi.
Ma tu, Perse, del giusto odi la voce,
     Nè servire a nequizia: essa è funesta
     Al debole, neppure al forte è lieve

     Il sostenerla; ei n’è gravato e offeso.
     Ben diversa è la via che al giusto mena;
     Il giusto alfin trïonfa, e l’insensato
     Ben l’impara a sue spese. Il vindice Orco
     Aggiunge ratto il neguitoso, ed alto
     Grida Giustizia ovunque onta le rechi
     Chi cupido di don giudica torto.
     Ella plorando va nell’aere avvolta
     Le città, le magioni, e guai recando
     A chi venale la rinnega merca
     Ma dove agli stranieri e ai cittadini
     Si fa ragion, nè si devia dal giusto
     Fioriscon popoli e città; la pace
     Feconda i campi; Giove ampioveggente
     Ne tien lontana la feroce guerra.
     Fame non soffre mai, nè altra sciagura
     Un popol giusto, ed ornangli la mensa
     Delle durate sue fatiche i frutti.
     Alma nutrice gli è la terra; i rami
     Di ghiande han carchi le montane querce,
     Di favi i tronchi, e di ricciuti velli

     Pompeggiano le mandrie: eguali ai padri
     Escono i figli dal materno grembo.5
     Ei lieto d’ogni ben non ha mestieri
     Di fender l’onde, ben lo nutre il suolo.
     Ma il veggente Cronide il suo giudizio
     Appresta a quanti v’hanno empii ed iniqui.
     Un’intera città spesso è distrutta
     Per un sol che malvage opere ordisce6
     Giove manda dall’alto orrida pena
     Fame e contagio, e il popolo perisce;
     Fa sterili le donne, orba le case
     D’abitator l’Olimpio Dio; talora
     Degli empi grandi eserciti distrugge,
     Le mura o i legni in mare affonda.
Ed anche vi pensate, o regi, a questo
     Alto giudizio. Perocchè gli Eterni
     Son presenti ai mortali, e segnan quelli
     Che ponendo in non cale il lor corruccio
     Con ingiusto piatir fannosi guerra:
     Chè a mille a mille sull’altrice terra
     Dispensò Giove all’uom custodi eterni,

     Veglianti sulle giuste opre e malvage,
     Nell’invisibil aer presenti ovunque.
     V’è di Giove la vergine figliuola,
     Dice, agli Olimpii numi augusta e sacra.
     Or quando nequitoso alcun la oltraggia,
     Ella dei genitor s’asside al fianco,
     E gli spone del reo l’opre perverse,
     Perchè il popolo sconti il fio dovuto
     Al delitto dei re, pravi di mente,
     Nel ministerio di giustizia iniqui.
     Regi di doni ingoiatori a questo
     Pensate, e il vostro giudicar sia retto,
     E abborite ogn’intrigo. In sè medesmo
     Ritorce il danno chi l’ordisce altrui;
     Pravo disegno esizïoso torna
     A chi lo machinò. L’occhio di Giove,
     Che tutto scorge e sa, vede pur queste
     Opre malvage, nè le oblia, se vuole;
     Vede quale giustizia in seno alberghi
     Questa città. Non io, non il mio figlio
     Esser giusto potria solo fra tutti,

     Se ne nuoce esser giusto, e se il perverso
     Trïonfa sull’onesto: il fulminante
     Giove però nol patirà, lo spero.
Queste cose nell’alma, o Perse, accogli.
     Devoto al giusto, prepotenza abborri:
     Chè Giove a leggi assoggettò gli umani.
     A belve, a pesci, ai predatori alati
     Diè mangiarsi a vicenda: alcuna legge
     Loro nol vieta; ma giustizia ei diede
     Supremo bene all’uomo. Orquando ei conscio
     Il vero attesti, d’ogni ben fia colmo
     Dal nume onniveggente; ove all’incontro
     Falsi il vero, spergiuri e il giusto offenda,
     S’aspetti alta sciagura: infame prole
     Lascerà dietro sè, mentre onorati
     Verranno i figli del devoto al giuro.
Di sagge cose istrutto altro or dirotti,
     O stoltissimo Perse.7 Ordire inganni
     È facil cosa: chè la via n’è piana,
     E da presso ne stà. Ma i Divi eterni
     Fero penosa di virtù la via;

     Chè lunga, scabra, ripida è da prima;
     Pur se l’erta n’arrivi, agevol fassi,
     Benchè sì travagliosa. Ottimo è quegli
     Che tutto per sè scorge, ed i più destri
     Mezzi trova al suo fine. È buono ancora
     Chi dei consigli altrui docil si giova:
     Ma nulla val quell’uom che per sè stesso
     È diserto di senno, e chiude l’alma
     Alla saggezza altrui. Ma tu fratello,
     Di Dio rampollo, dei precetti miei
     Memore ognor t’adopra, onde ti fugga
     La fame, e l’alma coronata Cere
     Tarrida, e la magion t’empia di vitto:
     Chè l’ignavo ha la fame ognora ai panni.
     Uomini e Divi a sdegno hanno colui,
     Che inerte vive, e pari ai pigri fuchi,
     Che si divoran delle pecchie il frutto.
     Ma sia tua cura l’eseguire a tempo
     I tuoi lavor, perchè tue celle in ogni
     Stagione sian ricolme; oro ed armenti
     Son figli del lavor. Più caro ai Divi

     Ti rendi se fatichi ed ai mortali:
     Ch’egli hanno il neghittoso in gran disdegno.
     Nessun’onta è il lavoro, onta è l’inerzia:
     Te fatto ricco l’infingardo invidia
     Ben tosto se t’adopri, avendo il ricco
     Ognor sull’orme sue potenza e fama.
     A un provvido mortal qual tu già fosti
     Meglio è il lavoro, e dall’aver degli altri
     Allontanando il desiderio stolto
     Col tuo sudore procacciarti il vitto;
     E questo io ti consiglio. È pudor turpe
     Quel del mendico; quel pudor che tanto
     Giova all’uom, per costui si volge in danno.8
     Penuria di rossor, ricchezza è madre
     Di sicurtà. — Non i rapiti averi,
     Ma quei che un Dio ne dà sono i migliori.
     Che se pure talun per vïolenza
     Fa sè felice delle altrui fortune,
     O con lingua mendace (il che sovente
     Intervien se la mente il lucro acciechi,
     Ed effrenata bramosia la punga),

     Costui ben tosto fan tapino i numi,
     Ne disertan la casa, e i dì felici
     Brevi gli fanno. Pari fio si attenda
     Chi il supplicante o l’ospite maltratta,
     O scelerato il talamo fraterno
     Contamina di furto, o frodolento
     Inganna orfana prole, od in contesa
     Oltraggia il vecchio genitor cadente
     Con aspri motti: se ne cruccia Giove
     Per certo, e le nefande opre ricambia
     Infin con cruda pena. Or tu la stolta
     Mente allontana da cotai delitti.
     Secondo il tuo poter fa sacrifizi
     Con santo rito e puro core; ai Divi
     Abbrucia pingui lombi: offri talora
     Incensi e libagion quando ti corchi,
     E quando al balzo orïental si affaccia
     L’alma luce del dì, perchè pietoso
     Abbiano il cor per te, perchè il retaggio
     Compri d’altrui, non altri il tuo — L’amico
     Chiama al tuo desco, e il tuo nemico oblìa.

     Invita quei che t’abita vicino
     Principalmente: perocchè discinto
     Al tuo bisogno volerà il vicino,
     Mentre il parente vorrà pria vestirsi.
     Vicin cattivo è un mal, gran bene un buono.
     Colui che un buon vicino ebbesi in sorte
     Fe’ grande acquisto: non morriati un bove
     Se un reo vicino non t’avessi accanto.9
     Giusta misura dal vicino esigi,
     S’ei ti presta del suo; del tuo gli rendi
     Egual misura e più, potendo; all’uopo
     Pronto soccorritor così lo avrai.
L’ingiusto lucro abborri; ingiusto lucro
     È pari a detrimento. Ama chi t’ama,
     E a chi ti muove incontro incontro muovi.
     Non dare a chi non dà; dona a chi dona:
     Evvi chi dona al donator, nessuno
     Fa presente a chi il niega. Ottimo è il dono;
     Pessimo è il furto apportator di morte.
     Chi voglioso fa un dono, e sia pur grande,
     Ne gode in fondo al cor; ma chi l’audace

     Mente volge alla preda, e sia pur poca,
     Procaccia angoscia all’alma sua: chè il poco
     Aggiunto al poco, e spesso, assai diviene.
     Chi il censo aumenta, e in casa il serba, evita
     La nera fame, e d’ogni affanno è sgombro:
     In casa è il meglio; sposto a rischi è fuori.
     È bello usar di ciò che pronto abbiamo,
     Molesto è abbisognar di ciò ch’è lunge,
     Tel reca a mente. Al cominciar del doglio
     Ed al finir, saziati pur, ma a mezzo
     Sii parco: è vano l’esser parco al fondo,
Della mercede convenuta sia
     Pago l’amico; testimoni adduci,
     Pur se patteggi col fratel: soverchia
     Fidanza e diffidenza all’uom fatali.
     Te non seduca femina abbigliata
     Giuntati dolce a insidiar lo scrigno:
     Chi pon fede in costei la pon nei ladri.
     T’abbi pure un sol figlio: il censo avito
     Per esso crescerà: se fia che vecchio
     Tu muoia, un altro figlio abbiti allora:

     Facile imparte Giove anche a più figli
     Molte ricchezze. È molto grande il fondo?
     Più gran cura richiede e frutta in copia.
Or se ricchezza il cor t’alletta, intenta
     Agli alterni lavori abbi la mente.
     Al sorger delle Pleiadi Atlantidi10
     La falce, e al lor cader la stiva impugna.
     Elle quaranta notti ed altrettanti
     Giorni stannosi ascose; indi a lor volta
     Fanno ritorno, allor che i denti arguti
     Alla sua falce il mietitore aguzza.
     Tali leggi del ciel son pei bifolchi
     Che coltivano campi al mar vicino,
     O pingui zolle di profonde valli
     Lungi dal mare iroso. In cotai lochi
     Ara succinto, semina succinto,
     Mieti succinto, se ti cale a tempo
     Di Cerere compir tutti i lavori,
     Cresca a tempo la messe, e all’altrui porta
     Tu tapinando invan non picchii. Or dianzi
     Così da me venisti, o stolto Perse,

     Ma nulla io più ti do, nè presto, il sappi.
     Ai lavori, onde in cielo i numi han posto
     Per l’uomo i segni, attendi: chè doglioso
     Con moglie e figli non mendichi un pane
     Dal vicin che ribùttati: due volte,
     Tre volte anche otterrai; ma se a noiarlo
     Insisti, sarà vano ogni tuo prego,
     E le tue ciance perderansi all’aura.
     Onde a sciorti dai debiti t’esorto,
     E la fame a schivar. — Casa anzitutto
     Abbi e bovi aratori, ed una compra
     Ancella, che dei buoi l’orme pur vegli
     Tutti gli arnesi all’uopo abbi già pronti
     Per non chiederli altrui che te li nieghi,
     E così ne sii privo, e intanto scorra
     L’opportuna stagion con tuo gran danno.
     Non differir ciò che far dèi: chi passa
     Il tempo vanamente, e il dopo attende,
     Non empie mai granaio: aduna beni
     Sol l’uom solerte, e coll’inopia in guerra
     L’ignavo è sempre. — Quando cessa il sole

     Di saëttare l’infocata vampa,
     Che di sudor ne immolla, e il sommo Giove
     Di piogge autunno irriga, e all’uom più snelle
     Le sue membra si fan (chè Sirio allora
     Più vago della notte il dì vïaggia
     Men sul capo al mortal sacro alla Parca)
     Scevro di vermi affatto è allora il bosco
     Del ferro al taglio; al suol sparge sue frondi,
     Nè dà germi novelli. Orti sovvenga,
     Che questo a tagliar bosco è il tempo adatto.
     Fatti un mortaio11 o di tre piè, un pestello
     Di tre cubiti, e un asse, il quale sia
     Di sette piè se acconcio il vuoi; se d’otto,
     Farne potresti un mazzapicchio. Un carro
     Di dieci spanne armarti dèi di ruote,
     Che tre n’abbiano d’orbe. In traccia vanne
     Di curvi legni all’uopo; e ove di leccio
     Te n’offra il monte o il pian recali in casa,
     E fanne il bure, che è il più saldo all’opra
     Di bovi aranti, se di Palla il servo
     Ben nel dental lo infigga, e con chiavelli

     Col timon lo commetta. Un doppio aratro
     In casa industre ti lavora e serba,
     Un d’un pezzo, e un composto: è il meglio, il credi:
     Chè se un ne rompi, aggioghi all’altro i bovi.
     Di lauro o d’olmo sceveri di tarlo
     Siano i timoni, ed il dental di quercia,
     Di leccio il bure (il dissi) e i buoi novenni:
     Chè in questa etade di vigor son pieni,
     E acconci quindi, nè fia mai che sorga
     Conflitto fra di loro, onde tra i solchi
     Franto ne sia l’aratro, e rotto a mezzo
     L’intrapreso lavor. Guida dei buoi
     Uom quarantenne sia, che un pan di quattro
     Spicchi ingollato in trentadue bocconi,12
     Dritto le zolle insolchi, e all’opra intento
     Non badi ai suoi compagni. A sparger semi,
     E ad evitar di rinovarli adatto
     Un più giovin non è: chè ognor costui
     Trescar vorrebbe coi suoi pari. — Attendi;
     Quando gracchiar dall’alte nubi ogni anno
     Odi la gru, dell’aratura il tempo

     Ella t’annunzia e del piovoso inverno,
     Ed a chi non ha buoi l’alma costerna.
     Tu allora ai tuoi, d’intorte corna insigni,
     Sii largo di foraggio. E tosto detto:
     «Prestami bovi e carro» e tosto ancora
     A risponder si fa: «Sono al lavoro.»
     V’ha chi saggio sa dir: «Farommi un carro»;
     Ma stolto non sa farselo ed ignora,
     Che gli è mestieri aver già in serbo in casa
     I cento pezzi, di che un carro ha d’uopo.
Come dell’aratura è giunto il tempo,
     T’accingi all’opra coi famigli arando
     Dai primi albori il suolo, umido o secco,
     Se vuoi vedere il campo irto di spiche.
     Fendi il maggese in primavera, e ai caldi
     Soli non fia che ti deluda: i semi
     Gli affida quand’è soffice, e maligno
     Non teme incanto,13 e ricchi fa gli eredi.
     Al Giove inferno e a Cerere pudica
     Rivolgi una preghiera, onde maturo
     Il sacro dono cerëal ti abbondi.

Quando ad ararti appresti, e quando dato
Di piglio al sommo della stiva, il dorso
Con un virgulto istighi ai buoi, ch’avvinti
Pei guinzagli al timon traggon l’aratro,
Un garzoncel dell’arator sull’orme
Gli augei deluda ricoprendo i semi
Col rastro: chè per l’uom l’ordine è il meglio,
E pessimo è il disordine: sui solchi
Vedrai così piegar le colme ariste,
Se il Dio d’Olimpo a lieto fin le adduca.
Torrai dai cesti i ragnateli, e il core
Sui ben riposti gioiratti, io spero
Scorrerai la stagion dei verdi prati
Provvisto in copia: desioso il guardo
Sull’altrui vitto non terrai; ben altri
Bisogno avrà di te. Che se proscindi
Le pingui glebe quando il sol dà volta,
Mieterai raccosciato in man stringendo
Ben poco, e ariste e loglio alla rinfusa
Brutto di polve e mesto in core unendo
In sì scarsi manipoli, che appena

     Una sporta tu n’empia, onde sii fatto
     Segno all’altrui pietade. Altra talora
     Dell’Egioco è la mente, all’uomo arcana;
     Onde se ari tardivo, ecco il rimedio.
     Come prima il suo metro intra le frondi
     Il cuculo intonò, nunzio di gioia
     Per ogni piaggia all’uom, se al terzo giorno
     Piovane doni il ciel, nè tosto cessi,
     E tanta che dei buoi l’orma non varchi,
     Ma neppur l’empia a mezzo, allor potresti
     Alla tarda aratura aver compenso.
     Figgi in petto tai cose, e cògli a tempo
     E primavera verdeggiante e piova.
Nella fredda stagion quando dall’opre
     L’acre gelo distoglie, allorchè molto
     Ben può in casa giovare a sue faccende
     L’uomo solerte, la fabril fucina,14
     E degli scioperoni i crocchi evita.
     Te fra le strette del bisogno il crudo
     Verno non colga, sicchè man stecchite
     Tu mostri e gonfi piè.15 Colui ch’inerte

     S’affida in grembo a vana speme, affonda
     Nella miseria: chè gli manca un pane.
     È rea la speme, che nutrica il pigro
     Nei crocchi assiso, e a cui sia manco il vitto.
Mostra nel colmo della state ai servi
     Le formiche, e dì lor: Non sempre avrete
     Estate; la capanna or v’estruite
     Fatevi schermo contro il triste mese
     Che da Leneo16 si noma, avaro ai bovi,
     E contro i geli, ond’irto il campo rende
     Di Borea il buffo, che traverso i lidi
     Di Tracia, altrice di puledri, arriccia
     Del vasto mare il dorso, e campi e selve
     Fa reböare: impettioso investe
     Aërie querce e olenti pini a mille,
     E al suol li incurva, e cupamente allora
     Mugghia l’ampia foresta. Irti pel gelo
     Hanno le belve i velli, e infra le cosce
     Ristringono la coda. Irsuto tergo
     Loro non giova se l’acuta brezza
     Lor passa il folto ventre; anche dei buoi

     Trapassa il cuoio, ed ogni schermo è vano,
     E della capra ancor gl’ispidi ciuffi.
     Pure sparmia l’agnel di Borea il soffio,
     Perchè d’un anno intier la lana il cuopre.
     Il veglio accanto al focolar rannicchia;
     Pur non offende il rugiadoso volto
     Della fanciulla, che al fidato fianco
     Della madre s’asside ancora ignara
     Degli arcani di Venere leggiadra;
     Quando uscita del bagno, e unta di pingue
     Olio le molli membra entro i recessi
     Della magion la notte ella si corca,
     Mentre infuria la bruma, e i piè si rode17
     Nel suo ricetto rattristito il polpo
     Dall’inedia costretto, esca nessuna
     Non gli mostrando il sole, onde si sfami.
     Chè sulle genti allor fosche il sembiante
     Il sol si volve, e tardo ai Greci appare.
     Le belve allor dei boschi abitatrici,
     Di corna armate o inermi, alle selvose
     Valli si fuggon con digiune gole.

     Punte d’un sol desio, cercan riparo
     Ermi burrati, e cavernose rupi.
     Allor gli umani si scotendo i bianchi
     Fiocchi di neve van pari a vegliardi,
     Che curvi il dorso, e proni al suolo il volto,
     Fan terzo piè un bastone. Allor ti vesti,
     Io tel consiglio, soffice mantello
     E tunica ch’ai piè lunga ti scenda:
     Poca sia la sommessa, e molta invece
     La sovrapposta, e indossala; chè i crini
     Non ti tremin pel corpo ispidi ed irti.
     Costringi i piedi entro calzar di cuoio
     Di toro a forza ucciso,18 adatti e folti
     All’interno di feltro. Appena senti
     Giungere il verno, con bovino nervo
     Di capri primogeniti ti cuci
     Velli con velli, sì che sianti schermo
     Contro il nembo alle spalle, e il capo cuopri
     D’un pileo acconcio a premunir gli orecchi:
     Chè gelido di Borea all’alba è il soffio.
     Mattutino vapor pende dall’alto

     Cielo sui solchi a fecondar le messi
     Degl’industri mortali; esso s’impregna
     Dell’alimento dei perenni fiumi,
     E lo spiro dei venti in alto quindi
     Lo solleva dal suolo; e ora il piovoso
     Grembo discioglie a sera, ora va preda
     Del tracio Borea fugator dei nembi.
     Tu lo previeni, tue faccende affretta, E
     torna a casa, nè giammai ti colga
     Il nero nembo, che dal ciel crosciando
     T’inzuppi i vestimenti e il corpo immolli.
     A tempo il fuggi: chè stagion perversa,
     E cruda all’uomo ed alle bestie è questa.
     Allor dà la metà del vitto ai bovi;
     Ai servi più della metà;19 ch’è acconcia
     La notte lunga a ristorar le forze.
     Serba tal norma tutto l’anno, i giorni
     Comparando alle notti infin che l’alma
     Terra di nuovo all’uom prodighi i frutti.
Ma quando, dacchè il sol sue ruote ha volto,
     Il sessantesmo dì brumal fia giunto,

     Arturo allor lasciando i sacri gorghi
     D’Oceàn ne si mostra astro lucente
     Al crepuscolo primo; indi la figlia
     Di Pandion, la rondinella aleggia,
     E col lamento mattutino annunzia
     Che primavera è giunta. Allor le viti
     Abbi potato, è il meglio; e quando l’afa
     Fuggendo cerca la lumaca il rezzo
     Strisciandosi dal suolo in sul fogliame,
     Viti più non scavar; le falci aguzza,
     E sollecita i servi. I seggi ombrosi
     Fuggi nei giorni della messe, quando
     Il sole adugge i volti, e te dormente
     L’alba non colga; ma t’affretta, e sorto
     Col dì raguna nel tuo tetto il vitto,
     Che bastevolti sia. L’alba n’esige
     Dell’opra un terzo,20 l’alba in via n’è scorta,
     E n’è scorta al lavor, l’alba che apparsa
     Desta le genti, e molti bovi aggioga.
Quando nell’operosa arsa stagione
     Fiorisce il cardo, e sulle frondi assisa

     Ne fa sentir la garrula cicala,
     Battendo l’ali, eterno, acre il suo metro,
     Oltre l’usato allor la capra impingua,
     Nettare è il vin, la femina è lasciva,
     E l’uomo è fiacco: chè ginocchia e testa
     Gli abbatte il Sirio e gli rïarde il volto.
     L’ombra d’un antro ti ristori allora,
     E vin di Biblo e lattea torta e latte
     Di capra nati non nutrente, e carne
     Di capro primo nato, e vaccherella
     Del bosco alunna e ancor non madre. All’ombra
     Bevi sdraiato rubicondi nappi,
     E di vivande ti rinfranca il petto,
     Mentre il fiato di Zefiro söave
     Ti molca il viso, e ti susurri accanto
     Chiara d’alpestre rupe onda perenne,
     Di cui temprin tre parti una di vino,21
Come pria d’Orïon l’astro fulgente
     In cielo appar, sollecita i famigli
     A trebbiare di Cere i sacri doni
     In aia liscia, e in piano all’aure aperto,

     E il ricolto misura e il serba in dogli.
     E come in casa avrai posto in sicuro
     Tutto il ricolto, scegliti un custode
     Che non ha Lari, ed una fante improle:
     Fante con figli è mal sicura. E un cane
     Zannuto ti procaccia, e bene il pasci,
     Perchè notturno non ti predi il ladro.
     Fieno e fogliame per un anno aduna
     Foraggio a bovi e a muli; indi le stanche
     Membra posin dei servi e i buoi sien sciolti,
Ma come Sirio ed Orïon fien giunti
     A mezzo cielo, e la vermiglia Aurora
     Contempli Arturo, allor recidi, e reca
     In casa tutti di tua vigna i raspi.
     Lasciali sposti a dieci soli e a dieci
     Notti; per cinque giorni indi li cuopri,
     E nell’anfore al sesto il dono infondi
     Del giocondo Liëo. Ma quando il disco
     Dell’adusto Orione in mar si attuffi
     Colle Iädi e le Pleiadi, rammenta
     Che d’arar riede il tempo. Ogni stagione

     Così seguan le alterne opre del campi.
Che se di venturarti all’onde infide
     Desio ti vince, ascolta. Allorchè in fuga
     Dal gagliardo Orion cacciate innanzi
     Le figlie di Plëòn van sotto i flutti,
     Soffiano i venti imperversando, e allora
     Alle onde torbe non fidar la vela;
     Ma al suol ti volgi, e fa com’io ti dico.
     Traggi in secco il navil, intorno intorno
     Con sassi l’assicura, e sì che saldo
     All’iroso dei venti impeto resti.
     Schiudine la carena, affinchè l’alto
     Nembo nol guasti; te ne serba in casa
     Tutti gli attrezzi: acconciamente assetta
     Le ali del pino passegger dell’onde,
     E il ben costrutto temo al fumo appendi.
     Giunta poi la stagione ai nauti amica,
     Spingi tra i flutti il pin veloce, e il carca
     D’adatta merce, perchè poi ne rechi
     A casa il lucro, come un tempo il nostro
     Genitor, folle Perse, al mar fidossi

     D’onesto vitto in traccia. Abbandonata
     L’Eölia Cuma e largo mar solcato,
     Ei qui venne per nave, agi e tesori
     Non per fermo fuggendo e lieta vita,
     Ma travagliosa povertà che Giove
     Manda ai mortali. D’Elicona al piede,
     D’Ascra nel borgo misero, di verno
     Triste, d’estate impronto, e non mai buono,22
     Egli pose sua stanza. – Or ti rimembra
     D’ogni lavoro, o Perse, il giusto tempo,
     Ma sopratutto del solcare i flutti.
     Buono un piccol navil, ma meglio a un grande
     Fida la merce: maggior carco acquista
     Lucro maggior, se il turbine furente
     Frenano i venti. Se desio t’invoglia
     Il pelago a tentar l’ardita mente
     Per fuggire il bisogno e la ria fame,
     Del mar sonante io ti dirò il costume,
     Benchè ignaro di navi e mare io sia.
     Perocchè mai non fendei coi remi
     Il vasto Ponto, tranne allor ch’io giunsi

     Dall’Elide all’Eubea, dove gli Achei
     Attendendo il posar delle procelle
     Unir dell’alma Grecia oste infinita
     Contro Ilio d’alme femine feconda.
     E in Calcide n’andai, dove un agone
     Pel prode Anfidamante erasi inditto,
     Molti premi offerendo i chiari figli
     Ai vincitori. Vincitor nel canto
     M’ebbi un tripode ansato, e in don lo appesi
     All’Eliconie Muse, ove da prima
     Esse del canto mi svegliar la fiamma.
     Soltanto questa di naval vïaggio
     Sperienza io m’ebbi, eppure all’uopo io tapro
     L’alto consiglio dell’Egioco Nume:
     Chè arcane cose mi svelàr le Muse.
Poi che dal Cancro adusto il sol si è volto,
     Fausta è l’onda al nocchier nei dì cinquanta
     Che precorrono il fin dell’incandente
     Stagione affaccendata. Infranto il pino
     Non fa dal mar, nè i passegger sommersi,
     Se pure il nume scotitor dei lidi

     Non ti voglia perduto e il re dei numi,
     Che dei beni e dei mali arbitri sono.
     Placide allor son l’aure e quete l’onde:
     Sicuro spingi allora in grembo ai flutti
     La presta prora, e il carco entro v’adatta.
     Però affretta il ritorno al patrio tetto,
     Non aspettar il nuovo mosto, e i nembi
     D’autunno, e il verno che sorgiunge, e il turbo
     Del fiero Noto, che tornato insieme
     Col nembo aütunnal l’onde abbaruffa,
     E le fa perigliose. – Altro v’è tempo
     Pur buono a veleggiar, la primavera.
     Quando simil della cornacchia all’orma
     Vedi la foglia nei ficulnei rami,
     Accessibile è il mar. È questo il tempo
     Di navigarlo in primavera: io poi
     Non tel consiglio; il cor non ben mi affida:
     Còrlo t’è d’uopo in giusto punto, e appena
     Sfuggiresti a un sinistro. Eppure il folle
     Mortal vi si cimenta, avendo l’alma,
     Oh sciagurato! schiava ognor del lucro.

     Duro è il perire dai marosi avvolto;
     Però serba in tua mente i miei consigli.
Al pino non fidar tutto l’avere,
     Ma lascia in casa più di quel che arrischi:
     Ch’è gran pensiero venturarsi ai flutti,
     Come un plaustro gravar di troppo pondo;
     L’asse n’è infranto, e va perduto il carco.
     Fa tutto con misura: ottima norma
     È il tempestivo oprar. – Mènati moglie
     Quando nè molto più, nè molto meno23
     Conti sei lustri: il giusto tempo è questo;
     E la fanciulla si mariti al quinto
     Anno di pubertà. Vergin la togli,
     Perchè tu il cor le informi a bei costumi
     Scegli colei che t’abita vicino,
     E a te ben nota, perchè poi dei ghigni
     Del vicinato non ti faccia obietto.
     Nulla di meglio d’una saggia moglie,
     Nulla di peggio d’una triste, buona
     Soltanto a consumar, che il suo marito
     Per quanto forte senza fiamme abbrucia,

     E negli anni fiorenti il fa canuto.
Dei santi numi la presenza ognora
     Rispetta: non far pari il tuo fratello
     All’amico; se il fai, bada che primo
     Tu non gli rechi offesa, nè ingannarlo
     Pure per celia. Che se primo ei fosse
     A farti offesa e ad ingannarti, allora
     Ten paghi doppio il fio. Pur se richiegga
     L’amistà tua di nuovo, e i torti emendi,
     Tu buon lo accogli. D’un pitocco è proprio
     Il farsi amico or questo, or quel; ma il tuo
     Volto sia sempre in armonia col core.
     Non dare ospizio a molti, e non negarlo
     A tutti; non ti far compagno ai tristi,
     Nè dar briga ai dabbene. Al poverello
     Di rinfacciar non ti patisca il core
     La squallida indigenza che lo rode:
     Ch’essa vien pur dai numi. È un gran tesoro
     Per l’uom la parca lingua; è immenso pregio
     Nel modesto parlar:24 se mal tu parli,
     Di peggio udrai. Non essere ritroso

     A dar lo scotto per comun banchetto:
     Chè poco spendi, e gran favor n’acquisti.
A Giove non libar, nè agli altri numi
     In sul mattin le rubiconde spume
     Con mani immonde: chiuderian sdegnosi
     Gli orecchi alle tue preci. Al sol di contra
     Diritto acqua non far, nè da che imbruna
     Il giorno, tel rammenta, infino all’alba,
     Sia ch’entro via cammini, o fuor di via,
     Nè nudo: chè la notte ai Divi è sacra.
     L’uomo di verecondo e pio costume
     Ciò fa curvato, o d’un parete accanto
     D’orto chiuso. Se il talamo segreto
     Te mesca alla tua sposa, immondo ancora
     Non presentarti al focolar; ten guarda.
     Non reduce da rito atro, funèbre,
     Ma dal banchetto sacro ai Divi, attendi
     A crear figli. Non guadar giammai
     Le limpide onde dei perenni fiumi
     Senza prima pregar rivolto il viso
     Alle belle correnti, e terse avendo

     Le mani nelle linfe alme e spumanti.25
     Chi varca un fiume e reo le man non monda,
     Tema il furor dei numi, e il duol che il segue.
     Nelle sacre agli Dei cene solenni
     La morta non tagliar dalla viv’ugna26
     Delle tue dita col lucente ferro.
     Non credere miglior dell’annaquato
     Lo schietto vin;27 compagna ognor avresti
     L’esiziale ebbrezza. Inauspicata
     Non sorga tua magion, perchè lugubre
     Non vi crociti sopra la cornacchia.28
     D’olla che immonda sia non trar vivanda
     Per imbandirla, nè lavarti in quella:29
     V’ha pena anco a tal colpa. Immoto in piume
     Non si lasci poltrir (saria gran fallo)
     Un figlio dodicenne: un forte ei fora,
     E un imbelle ne fai; neppur s’ei vide
     Dodici lune: egual ne fora il danno.
     Qual s’addice ad un uom, gli eviratori
     Tepidi bagni evita; un dì ben grave
     Detrimento n’avresti. Ove t’incontri

     Nei fumanti olocausti, i riti arcani
     Non ne schernire: ne faria vendetta
     Il nume irato. Non fedare il seno
     Delle fonti e dei fiumi al mar correnti
     Col profluvio dell’epa: all’uopo vanne
     Lontan: chè l’atto ben saria da turpe.
     Temi la mala fama: agile vola
     La triste fama, a sopportar gravosa,
     Difficile a infrenar: essa del tutto
     Giammai non muore: chè le genti ovunque
     Alimento le danno, e diva è anch’essa. –
Osserva i dì che il cielo volve acconci
     Ai lavori, e ne rendi i servi edotti.
     L’ultimo dì del mese, in cui le genti
     Sciolgono i piati e fanno festa, è adatto
     A veder l’opre, e a dispartirne il prezzo:
     Chè a questo il destinò Giove sagace.
     Il dì che il viso suo la luna innova,
     Del mese il quarto e il settimo sono fausti:
     Chè nel settimo il Dio dall’aureo brando
     Del grembo di Latona al giorno uscio.

     Della luna crescente ottimi sono
     A por mano ai lavor l’ottavo e il nono.
     L’undecimo e il dodecimo son buoni,
     E quel miglior di questo, a tosar greggi,
     E a côrre i dolci frutti. Aracne allora
     Alto montando la sua tela ordisce
     Provvida del futuro, e prede aduna
     Tra primavera e i soli estivi; e quella
     La donna emuli allor, l’ordito appresti,
     E alla spola dia sedula di piglio.
     Se a seminar t’accingi, attento evita
     Il tredicesmo, che per altro è fausto
     All’innesto di piante. Il sedicesmo
     Alle piante nocivo, auspice amico
     Splende al nascer dei maschi, ed infelice
     È a quel delle fanciulle e al loro imene.
     Neppur il sesto al nascer loro arride,
     Ma in quello evira pur capretti ed agni:
     Ad assiepar le mandrie è assai secondo,
     E maschi a procrëar: arguti motti,
     Parlar infinto, lusinghiero e scorto

     Avrà chi nasce in questo giorno. Il capro
     E il bue muggente nell’ottavo evira,
     E al dodicesmo il paziente mulo.
     Il più lungo dell’anno, il dì ventesmo
     Figlio sagace ti darà: fecondo
     D’acute menti dispensiero è sempre.
     A produr maschi il decimo è propizio,
     Femine il quartodecimo. Ti rendi
     Docili in questo dì la greggia e il lento
     Bove e il mastin zannuto, e il faticante
     Mulo, lor vello palpeggiando. Attento
     Bada, che l’alma non t’ingombri il duolo
     Nel quarto e venduattresmo: ei son solenni.
     Bensì nel quarto mena moglie, all’uopo
     Esplorati i migliori auspici alati.
     Il quinto evita sciaurato e triste:
     Chè in quello è grido d’Eride nascesse
     L’Orco tremendo agli spergiuri,30 e in quello
     Di lui ministre ultrici errin l’Erinni.
     Ma nel decimosettimo di Cere
     Le sacre manne scevera e componi

     In aia ben spianata, e taglia selva
     Per arnesi domestici e per coste
     Di navili, e per quanto a navi è d’uopo,
     E nel dì quarto a fabricarti imprendi
     Piccolo agile pin: pur a tal’opra
     Migliore è il nonodecimo sul vespro.
     Propizio sorge il nono sole all’uomo,
     Sia ch’ei pianti arboscei, sia che gli nasca
     Femina o maschio: ognor fu buono a prova.
     Che il ventesimonono ottimo sia
     A far saggio del doglio, e bovi e muli
     E rapidi corsier piegare al giogo,
     A trarre in grembo dei cerulei flutti
     Il ben costrutto pin, san pochi, e pochi
     Gli danno il nome vero. Il doglio al quarto
     Spilla: il decimoquarto è il dì più sacro.
     Che il ventesimoprimo è assai felice
     Dell’alba all’apparir, pochi san pure,
     E a sera non così. – Son questi i giorni
     Degni di nota pei mortali, e gli altri
     Ambigui sono, o indifferenti e innocui:

     Chi loda l’un, chi l’altro, e il ver san pochi:
     Ch’ora noverca è la giornata, or madre.
Felice venturoso è quei ch’edotto
     Di tai leggi le cole, accetto ai numi,
     Agli augurii fedel, scevro di colpe.




  1. [p. 153 modifica]Della malva e dei bulbi di asfodello faceasi una vivanda, onde nutrivansi i poveri, e quei che menavano vita frugale. Aristof., Plut., v. 543; Oraz., Epodo, II, 57. È il principio morale della temperanza riprodotto dalla scuola Socratica. Plat., Polit., V, 3.
  2. [p. 153 modifica]Pensiero simile in Petrarca. In vita di Laura, Sonetto 76, v. 5, cioè:
    Gli occhi invaghiro allor sì dei lor guai....
  3. [p. 153 modifica]Questa parola infatti, stando all'etimologia più ovvia, darebbe complesso di tutti i doni.
  4. [p. 153 modifica]Vedi Erod., III, 26; Plin., Stor. Nat., V, 32; Oraz. Epodo, XVI, v. 41 e segg. – Sulla postura geografica di queste isole si disputò molto: merita sia letto il libro l’Océan des anciens et les peuples préhistoriques di Moreau de Jonnés, edito quest'anno a Parigi.
  5. [p. 153 modifica]Oraz., Od., V, lib. IV, v. 23. «Le puerpere sono lodate, perchè il loro parto ritrae le fattezze del loro marito.»
  6. [p. 153 modifica]Opinione antichissima invalsa presso ogni popolo, [p. 154 modifica]cioè che il furore della vendetta divina si spinga fino a involgere intere città nella pena d’un solo. — Vedi Bib., Giosuè, c. VII; e Oraz., Od. II, lib. III, v. 29; Epist. I, lib. II, v. 14.
  7. [p. 154 modifica]Questo aggiunto insolente non faccia maraviglia. L’espressione greca che gli corrisponde era divenuta d’uso comune e quasi convenuta in simili contingenze. L’Oracolo rispondendo a Creso gli dice pure: «O Lidio, re di molti popoli, o stoltissimo Creso.» (Erod., I, 85, passo citato da Göttling.) È il tono di superiorità assunto da chi sa verso chi non sa.
  8. [p. 154 modifica]Vedi la stessa sentenza in Omero, Il., XXIV, 45.
  9. [p. 154 modifica]Forma proverbiale per significare qualunque avere, e ci porta in piena epoca pastorizia, in cui tutta la ricchezza consisteva in armenti e greggi.
  10. [p. 154 modifica]Le stesse che i Latini diceano Vergilie. Vedi Plinio Stor. Nat. XVIII, 69.
  11. [p. 154 modifica]Fu la prima macina degli antichi.
  12. [p. 154 modifica]Si parla d’una forma speciale di pane. Il senso intimo delle parole è, che l’aratore si nutra bene, ma presto, per non sottrar tempo al lavoro.
  13. [p. 154 modifica]Lo scarso ricolto era talvolta attribuito a imprecazioni di malevoli e ad opera di malia. Fu una superstizione assai estesa nell’antichità. Vedi Leggi delle XII Tavole, raccolte dal Dirsken, pag. 539.
  14. [p. 154 modifica]I poveri e gli oziosi in Grecia raccoglievansi [p. 155 modifica]d’inverno nelle fucine, come i Romani nelle tonstrine, o botteghe di barbieri.
  15. [p. 155 modifica]Credeasi la fame produr tali effetti.
  16. [p. 155 modifica]Cioè il mese detto Leneone dagli Jonii, Bucatio dai Beoti e Gamelione dagli Attici. Per noi sarebbe il tempo, che comprende la seconda metà di dicembre e la prima di gennaio.
  17. [p. 155 modifica]Cioè il mese detto Leneone dagli Jonii, Bucatio dai Beoti e Gamelione dagli Attici. Per noi sarebbe il tempo, che comprende la seconda metà di dicembre e la prima di gennaio.
  18. [p. 155 modifica]Qualità importante, come quella che vedesi un po’ in seguito nella parola primogeniti, perchè la pelle sia forte.
  19. [p. 155 modifica]Sul cibo da distribuirsi ai servi, vedi Catone, De Re rustica, VI, 57; Plauto, Stico, atto I, sc. 2, v. 60.
  20. [p. 155 modifica]È sotto altra forma la stessa sentenza d’Oraz., Epist. II, lib. I, v. 140, cioè: «Chi principia è alla metà dell’opera.»
  21. [p. 155 modifica]Vedi Plutarco, Conv. III, citato dal Göttling.
  22. [p. 155 modifica]Questi aggiunti dati alla sua terra natale sono uno sfogo innocente del risentimento svegliato nel suo animo dalla sentenza iniqua dei suoi giudici nella lite col fratello Perse.
  23. [p. 155 modifica]Vedi Aristotile, Polit. VII, 14.
  24. [p. 155 modifica]Questo passo fu citato e interpretato da Aulo Gellio, I, 110, l.c.
  25. [p. 156 modifica]Somigliante rito troviamo appo gli antichi popoli Italici per la Dea Feronia, cui nel Soratte era sacra una fontana. Vedi Oraz., Sat. V, lib. I, v. 24.
  26. [p. 156 modifica]Nel testo è notevole la denominazione data alla mano cioè dai cinque rami, pentozo, tanto più notevole in quanto la stessa bella imagine troviamo nella letteratura dell’India, in cui la mano è pur concepita come una pianta che ha cinque rami, cioè è detta pañk’açākha.
  27. [p. 156 modifica]Il senso del testo qui è controverso. Io mi attenni all’interpretazione del Göttling. Secondo altri dovrebbe tradursi:

    Non por limite al ber dei convitati.

  28. [p. 156 modifica]Il Salvini seguendo un’altra lezione traduce:

              Quando casa tu fai, non lasciar buche,
              Che assiso non vi gracchii il cornacchione.

  29. [p. 156 modifica]Controverso è pur qui il senso del testo: io seguii l’interpretazione datane da Plutarco.
  30. [p. 156 modifica]Concetto ripetuto da Virgilio, Georg. I, 277.

Note

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