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LAVORI E GIORNI.
Pïerie Dive, che inneggiando i nomi
Rendete illustri, or su sciogliete un canto
Al vostro genitor; ditene come
Gli umani or sono oscuri, ed ora chiari,
Ora nobili, or volgo. – È tal del sommo
Giove il voler chè a posta sua fa i forti,
E i forti fiacca; a posta sua gli alteri
Fa tapini, e i tapini alto solleva,
Rizza il caduto e il sollevato atterra
Il Dio tonante, che su tutti ha il trono. —
Giove che m’odi e vedi, a me sii fausto,
Raddrizza i miei giudizi, e sì ch’io possa
A Perse il vero favellar. — Or dunque
Non una sola è la Tenzone in terra;
Ma due d’indole avversa, onde diresti
L’una degna d’onor, l’altra di sprezzo.
Di fiere lotte e d’odii una è feconda,
Invisa a ogni mortal, che sol le è ligio
Per immutabil volontà dei numi;
L’altra, che è figlia dell’oscura Notte,
Nacque prima di quella, e alma migliore
Sortì da Giove che sublime impera
Nella terra, nel ciel, negl’imi abissi.
Questa sprona i mortali alle fatiche
Ch’ove lo scioperato altri già ricco
Vegga provvido arar, piantarsi il campo,
Governar sua magion, si desta, e a gara
Fa il vicin col vicin che beni aduna.
Tenzone amica dei mortali è questa
È gara tra vasai, gara tra fabbri,
Tra mendichi, tra vati. – Apri la mente,
O Perse, ai detti miei. Te sì proclive
Al forense piatir la rea Tenzone
Non mai distorni dal lavor: chè poco
Ha tempo da sprecar fra piati e al foro
Chi per un anno non ripose a tempo
Di Cere i doni, della terra i frutti.
Quando fia che n’abbondi, allor pur tessi
Frodi e litigi per rapir l’altrui.
Pur te n’è tolto il modo: or via si sciolga
La nostra lite con giudizio retto,
Qual da Giove ne vien. Già dividemmo
L’eredità; ma con rapace mano
Molta me ne frodasti, e ligio troppo
Fosti ai venali giudici, vogliosi
D’aver fra man siffatte liti: oh stolti!
Non sanno quanto la metà più valga
Del tutto, e quanto d’utile pur sia
Nell’asfodello e nella malva.1 – I numi
Nascosero sotterra all’uomo il vitto;
Altrimenti in un dì potuto avresti
Facilmente adunar quanto bastasse
A farti viver neghittoso un anno;
Tosto il timone appenderesti al fumo,
Vana di muli faticosi e bovi
Sarebbe l’opra. Nol patì più Giove
Corrucciato dal dì che lo scaltrito
Prometeo l’ingannò, quindi ai mortali
Crudi affanni apprestò. Lor tolse il fuoco,
Ma il buon Giapezio lo raddusse accolto
Entro una cava ferula di furto,
Del Dio fulminator ribelle al senno.
Onde così gli favellò sdegnoso
L’adunator dei nembi: «O d’ogni astuzia
Dotto Giapezio, del rapito fuoco,
D’aver delusa la mia mente or godi!
Fonte a te fia di mali e ai tuoi nepoti
Chè in pena io manderovvi un tal malanno,
Che ognun se ne innamori, e in fondo all’alma
Careggi in esso il suo martor.»2 Sì disse
Ghignando il padre di mortali e numi.
E all’inclito Vulcano impon, che tosto
Stempri terra con onda; umana voce
V’infonda e vigoria; d’eterna diva
Un’imago ne faccia, una leggiadra
Vergine seducente. A Palla impone
Le insegni le ingegnose arti di spola,
E alla bella Ciprigna in sulle chiome
Le sparga e vezzi ed indomate brame,
E amor d’abbigliamenti, e all’Argicida
Le dia procace, frodolento ingegno
E al re Saturnio Giove essi ubbidiro.
Plasmò tosto d’argilla il chiaro Storpio
Un’imago di vergine vezzosa,
Qual Giove la volea, vestilla e ornola
La glaucopide Dea, d’aurei monili
Il collo le abbigliar le dive Grazie
E Pito augusta, e di leggiadri fiori
Le inghirlandaro il crin l’Ore chiomate.
Pallade le acconciò gli abbigliamenti,
E l’Argicida, ligio al Dio tonante,
Colmolle il sen di blandi detti e frodi,
E d’arti insidiose, e la parola
Donolle infine il messagger dei numi.
E Pandora ei nomò cotal fattura
Perocchè turti dell’Olimpo i divi
A lei, funesta all’uomo, offriro un dono.3
Compita la dolosa opra fatale,
Giove comanda all’inclito Argicida,
Al presto araldo degli Dei, la rechi
Ad Epimeteo in don. Questi scordossi
Di Prometeo l’avviso, alcun presente
Non accettasse dall’Olimpio Giove,
Ma indietro il respingesse, affinchè danno
All’uom non ne seguisse; egli accettollo,
E del dono funesto indi s’accorse.
Chè prima si vivean le umane genti
Scevre di mali e di lavor penoso,
E d’ogni morbo apportator di morte
Chè ben tosto i malor fan bianco il crine.
Tolse Pandora il rio coperchio a un doglio,
Onde piovve sull’uom di mali un nembo,
Restando solo la speranza chiusa
Nel saldo fondo: chè, così volendo
L’Egioco nume adunator dei nembi,
Ratto Pandora precideale il volo
Col riporre il coperchio. A mille i mali
Si sparsero così: chè pien n’è il mare,
Pieni ne sono i continenti. I morbi
Giorno e notte a lor posta infra gli umani
Portatori di duolo erran silenti
che Giove accorto non diè lor la voce,
Così sfuggire a lui si spera indarno. —
Or altra cosa ti dirò, se il brami,
In brevi e scorti accenti, e in cor li serba.
Come nacquer d’un seme uomini e divi,
I sempiterni dell’Olimpo in prima
Fêr l’aurea etade dell’umana schiatta,
Che durò finchè Crono ebbe lo scettro.
Come i numi vivea sgombra di cure,
Di travagli e dolori: egra vecchiezza
son l’assalia; di piè, di braccia ognora
Forte e ignara di guai gioia festosa,
E l’uom moriva qual dal sonno vinto.
Era ricolmo d’ogni ben, spontanea
L’alma terra di frutti eragli larga.
Tutti di buon voler, tutti tranquilli,
Partiansi in pace i ministeri e i frutti,
Ricchi di greggi e cari ai Dii beati.
Or quando quest’etade andò sotterra,
La mente del gran Giove i divi e fausti
Ne feo custodi dell’umana stirpe,
Veglianti sulle giuste opre e malvage,.
E d’aere cinti sulla terra ovunque Dator
s’aggiran di ricchezze; un tanto
Sortir regale onor. — Gli Olimpii numi
L’argentea età fêr quindi assai men buona,
Dall’aurea di natura e cor difforme.
L’uom della madre al fianco entro l’ostello
Pargoleggiando un secolo crescea.
Se pur giungeva dell’etade al fiore
Vivea breve stagion colma d’affanni.
Stolti! che non sapean da mutui oltraggi
Temprarsi i tristi, e i consüeti onori
Ricusavano ai numi e ostie sull’are.
L’ira di Giove disparir li feo,
Poichè d’Olimpo ai venturosi numi
Negavano ogni culto. E dacchè il grembo
Della terra pur questa età nascose,
Fu detta degli umani inferi genii,
Men buoni dei terrestri, e nondimeno
Lieti ahch’essi d’onori — Il padre Giove
Fece quindi la terza età di rame,
Dall’argentea diversa, orrida d’armi,
Di Marte intenta ai duri rischi e all’onte
Schiva dei frutti della terra, il fero
Petto avea d’adamante. Età tremenda!
Di gran forza era ognuno: immani braccia
In granati lacerti ognun scotea
Di rame l’armi, le magion di rame,
Di rame ogni opra fean: chè il terso ferro
Non era ancor. Dal proprio braccio domi
Ei piombaro nel crudo Orco profondo
Inonorati, ed abbenchè sì truci
Li attinse il nero fato; e alla corusca
Lampa del sol li tolse — Or quando questa
Età l’abisso sepellì, la quarta
Diede il nume Cronide all’alma terra,
Miglior, più giusta degli eroi la diva
Stirpe, che Semidei per ogni piaggia
Chiamò l’etade che la mia precorse.
Altri la dura guerra in aspre mischie
Nella Tebe settempila distrusse
Sovra i campi Cadmei scesi a tenzone
Per lo trono d’Edipo. Altri pur trasse
La guerra in nave sopra i vasti flutti
Per la bella chiomata Elena in Ilio,
Ove l’estremo fato al sol li tolse.
Il padre Giove nell’estreme rive
Lungi dai numi li mandò lor dando
Vitto e magion dagli uomini divisi,
E Crono è il loro re. Felici eroi!
Scevri di cure all’isole beate4
Vicino ai gorghi d’Oceáno han sede:
Per essi quel terreno almo produce
Tre volte all’anno i saporiti frutti.
Oh nella quinta età non foss’io nato,
O morto prima, o nato poi! La ferrea
Etade or viene. Ogni miseria e doglia
Nè dì, nè notte all’uom posa daranno:
Cure angosciose gli addurranno i numi;
Ma pur sarà col mal misto alcun bene.
E questa schiatta ancor spegnerà Giove,
Quando chi or nasce incanutir vedrassi
Sul fronte il crine Somiglianza alcuna
Non fia tra i padri e i figli, il prisco affetto
Tra ospiti, amici, tra fratei fia spento,
Nessun rispetto ai genitor canuti,
Avranno i figli; petulanti motti
Vibreranno su loro, empii obliando
L’ira dei numi: ai genitori cadenti
Che li nutriro negheran gl’iniqui
Ogni grato ricambio. Essi a vicenda
Distruggeransi la città; spregiato
Sarà il dabben, l’onesto, il fido al giuro,
E onorato il perverso, il vïolento.
Pudor, Giustizia spariranno: i tristi
Ai buoni noceran con rea calunnia,
Collo spergiuro. I miseri mortali
Avran compagna ognor l’orrida Invidia
Sussurrante maledica e gioiosa
Dell’altrui duolo. Involeransi al mondo
Nemesi e Verecondia in ver l’Olimpo
In bianco velo avvolte il casto viso.
Rediran fra gli Eterni abbandonando
L’uomo a sue dure e disperate angosce.
Or ai giudici miei narro una fola,
Benchè saggi essi soli. Il nibbio un giorno
Ghermì coll’ugne, e si portò alle nubi
Un canoro usignuol Dai torti ugnoni
Trafitto il miserello si lagnava,
E lo spietato rapitor: «Che cianci,
O caro? gli diceva: or sei caduto
D’un più forte in balìa: nulla or ti vale
Il tuo canto; verrai dov’io ti meno;
Farò pasto di te se mi talenta,
O ti libererò. Stolto chi vuole
Contender col più forte: ei sarà vinto
E n’avrà scorno e duol.» – Così gli disse
L’augel che ruota i vanni agili e larghi.
Ma tu, Perse, del giusto odi la voce,
Nè servire a nequizia: essa è funesta
Al debole, neppure al forte è lieve
Il sostenerla; ei n’è gravato e offeso.
Ben diversa è la via che al giusto mena;
Il giusto alfin trïonfa, e l’insensato
Ben l’impara a sue spese. Il vindice Orco
Aggiunge ratto il neguitoso, ed alto
Grida Giustizia ovunque onta le rechi
Chi cupido di don giudica torto.
Ella plorando va nell’aere avvolta
Le città, le magioni, e guai recando
A chi venale la rinnega merca
Ma dove agli stranieri e ai cittadini
Si fa ragion, nè si devia dal giusto
Fioriscon popoli e città; la pace
Feconda i campi; Giove ampioveggente
Ne tien lontana la feroce guerra.
Fame non soffre mai, nè altra sciagura
Un popol giusto, ed ornangli la mensa
Delle durate sue fatiche i frutti.
Alma nutrice gli è la terra; i rami
Di ghiande han carchi le montane querce,
Di favi i tronchi, e di ricciuti velli
Pompeggiano le mandrie: eguali ai padri
Escono i figli dal materno grembo.5
Ei lieto d’ogni ben non ha mestieri
Di fender l’onde, ben lo nutre il suolo.
Ma il veggente Cronide il suo giudizio
Appresta a quanti v’hanno empii ed iniqui.
Un’intera città spesso è distrutta
Per un sol che malvage opere ordisce6
Giove manda dall’alto orrida pena
Fame e contagio, e il popolo perisce;
Fa sterili le donne, orba le case
D’abitator l’Olimpio Dio; talora
Degli empi grandi eserciti distrugge,
Le mura o i legni in mare affonda.
Ed anche vi pensate, o regi, a questo
Alto giudizio. Perocchè gli Eterni
Son presenti ai mortali, e segnan quelli
Che ponendo in non cale il lor corruccio
Con ingiusto piatir fannosi guerra:
Chè a mille a mille sull’altrice terra
Dispensò Giove all’uom custodi eterni,
Veglianti sulle giuste opre e malvage,
Nell’invisibil aer presenti ovunque.
V’è di Giove la vergine figliuola,
Dice, agli Olimpii numi augusta e sacra.
Or quando nequitoso alcun la oltraggia,
Ella dei genitor s’asside al fianco,
E gli spone del reo l’opre perverse,
Perchè il popolo sconti il fio dovuto
Al delitto dei re, pravi di mente,
Nel ministerio di giustizia iniqui.
Regi di doni ingoiatori a questo
Pensate, e il vostro giudicar sia retto,
E abborite ogn’intrigo. In sè medesmo
Ritorce il danno chi l’ordisce altrui;
Pravo disegno esizïoso torna
A chi lo machinò. L’occhio di Giove,
Che tutto scorge e sa, vede pur queste
Opre malvage, nè le oblia, se vuole;
Vede quale giustizia in seno alberghi
Questa città. Non io, non il mio figlio
Esser giusto potria solo fra tutti,
Se ne nuoce esser giusto, e se il perverso
Trïonfa sull’onesto: il fulminante
Giove però nol patirà, lo spero.
Queste cose nell’alma, o Perse, accogli.
Devoto al giusto, prepotenza abborri:
Chè Giove a leggi assoggettò gli umani.
A belve, a pesci, ai predatori alati
Diè mangiarsi a vicenda: alcuna legge
Loro nol vieta; ma giustizia ei diede
Supremo bene all’uomo. Orquando ei conscio
Il vero attesti, d’ogni ben fia colmo
Dal nume onniveggente; ove all’incontro
Falsi il vero, spergiuri e il giusto offenda,
S’aspetti alta sciagura: infame prole
Lascerà dietro sè, mentre onorati
Verranno i figli del devoto al giuro.
Di sagge cose istrutto altro or dirotti,
O stoltissimo Perse.7 Ordire inganni
È facil cosa: chè la via n’è piana,
E da presso ne stà. Ma i Divi eterni
Fero penosa di virtù la via;
Chè lunga, scabra, ripida è da prima;
Pur se l’erta n’arrivi, agevol fassi,
Benchè sì travagliosa. Ottimo è quegli
Che tutto per sè scorge, ed i più destri
Mezzi trova al suo fine. È buono ancora
Chi dei consigli altrui docil si giova:
Ma nulla val quell’uom che per sè stesso
È diserto di senno, e chiude l’alma
Alla saggezza altrui. Ma tu fratello,
Di Dio rampollo, dei precetti miei
Memore ognor t’adopra, onde ti fugga
La fame, e l’alma coronata Cere
Tarrida, e la magion t’empia di vitto:
Chè l’ignavo ha la fame ognora ai panni.
Uomini e Divi a sdegno hanno colui,
Che inerte vive, e pari ai pigri fuchi,
Che si divoran delle pecchie il frutto.
Ma sia tua cura l’eseguire a tempo
I tuoi lavor, perchè tue celle in ogni
Stagione sian ricolme; oro ed armenti
Son figli del lavor. Più caro ai Divi
Ti rendi se fatichi ed ai mortali:
Ch’egli hanno il neghittoso in gran disdegno.
Nessun’onta è il lavoro, onta è l’inerzia:
Te fatto ricco l’infingardo invidia
Ben tosto se t’adopri, avendo il ricco
Ognor sull’orme sue potenza e fama.
A un provvido mortal qual tu già fosti
Meglio è il lavoro, e dall’aver degli altri
Allontanando il desiderio stolto
Col tuo sudore procacciarti il vitto;
E questo io ti consiglio. È pudor turpe
Quel del mendico; quel pudor che tanto
Giova all’uom, per costui si volge in danno.8
Penuria di rossor, ricchezza è madre
Di sicurtà. — Non i rapiti averi,
Ma quei che un Dio ne dà sono i migliori.
Che se pure talun per vïolenza
Fa sè felice delle altrui fortune,
O con lingua mendace (il che sovente
Intervien se la mente il lucro acciechi,
Ed effrenata bramosia la punga),
Costui ben tosto fan tapino i numi,
Ne disertan la casa, e i dì felici
Brevi gli fanno. Pari fio si attenda
Chi il supplicante o l’ospite maltratta,
O scelerato il talamo fraterno
Contamina di furto, o frodolento
Inganna orfana prole, od in contesa
Oltraggia il vecchio genitor cadente
Con aspri motti: se ne cruccia Giove
Per certo, e le nefande opre ricambia
Infin con cruda pena. Or tu la stolta
Mente allontana da cotai delitti.
Secondo il tuo poter fa sacrifizi
Con santo rito e puro core; ai Divi
Abbrucia pingui lombi: offri talora
Incensi e libagion quando ti corchi,
E quando al balzo orïental si affaccia
L’alma luce del dì, perchè pietoso
Abbiano il cor per te, perchè il retaggio
Compri d’altrui, non altri il tuo — L’amico
Chiama al tuo desco, e il tuo nemico oblìa.
Invita quei che t’abita vicino
Principalmente: perocchè discinto
Al tuo bisogno volerà il vicino,
Mentre il parente vorrà pria vestirsi.
Vicin cattivo è un mal, gran bene un buono.
Colui che un buon vicino ebbesi in sorte
Fe’ grande acquisto: non morriati un bove
Se un reo vicino non t’avessi accanto.9
Giusta misura dal vicino esigi,
S’ei ti presta del suo; del tuo gli rendi
Egual misura e più, potendo; all’uopo
Pronto soccorritor così lo avrai.
L’ingiusto lucro abborri; ingiusto lucro
È pari a detrimento. Ama chi t’ama,
E a chi ti muove incontro incontro muovi.
Non dare a chi non dà; dona a chi dona:
Evvi chi dona al donator, nessuno
Fa presente a chi il niega. Ottimo è il dono;
Pessimo è il furto apportator di morte.
Chi voglioso fa un dono, e sia pur grande,
Ne gode in fondo al cor; ma chi l’audace
Mente volge alla preda, e sia pur poca,
Procaccia angoscia all’alma sua: chè il poco
Aggiunto al poco, e spesso, assai diviene.
Chi il censo aumenta, e in casa il serba, evita
La nera fame, e d’ogni affanno è sgombro:
In casa è il meglio; sposto a rischi è fuori.
È bello usar di ciò che pronto abbiamo,
Molesto è abbisognar di ciò ch’è lunge,
Tel reca a mente. Al cominciar del doglio
Ed al finir, saziati pur, ma a mezzo
Sii parco: è vano l’esser parco al fondo,
Della mercede convenuta sia
Pago l’amico; testimoni adduci,
Pur se patteggi col fratel: soverchia
Fidanza e diffidenza all’uom fatali.
Te non seduca femina abbigliata
Giuntati dolce a insidiar lo scrigno:
Chi pon fede in costei la pon nei ladri.
T’abbi pure un sol figlio: il censo avito
Per esso crescerà: se fia che vecchio
Tu muoia, un altro figlio abbiti allora:
Facile imparte Giove anche a più figli
Molte ricchezze. È molto grande il fondo?
Più gran cura richiede e frutta in copia.
Or se ricchezza il cor t’alletta, intenta
Agli alterni lavori abbi la mente.
Al sorger delle Pleiadi Atlantidi10
La falce, e al lor cader la stiva impugna.
Elle quaranta notti ed altrettanti
Giorni stannosi ascose; indi a lor volta
Fanno ritorno, allor che i denti arguti
Alla sua falce il mietitore aguzza.
Tali leggi del ciel son pei bifolchi
Che coltivano campi al mar vicino,
O pingui zolle di profonde valli
Lungi dal mare iroso. In cotai lochi
Ara succinto, semina succinto,
Mieti succinto, se ti cale a tempo
Di Cerere compir tutti i lavori,
Cresca a tempo la messe, e all’altrui porta
Tu tapinando invan non picchii. Or dianzi
Così da me venisti, o stolto Perse,
Ma nulla io più ti do, nè presto, il sappi.
Ai lavori, onde in cielo i numi han posto
Per l’uomo i segni, attendi: chè doglioso
Con moglie e figli non mendichi un pane
Dal vicin che ribùttati: due volte,
Tre volte anche otterrai; ma se a noiarlo
Insisti, sarà vano ogni tuo prego,
E le tue ciance perderansi all’aura.
Onde a sciorti dai debiti t’esorto,
E la fame a schivar. — Casa anzitutto
Abbi e bovi aratori, ed una compra
Ancella, che dei buoi l’orme pur vegli
Tutti gli arnesi all’uopo abbi già pronti
Per non chiederli altrui che te li nieghi,
E così ne sii privo, e intanto scorra
L’opportuna stagion con tuo gran danno.
Non differir ciò che far dèi: chi passa
Il tempo vanamente, e il dopo attende,
Non empie mai granaio: aduna beni
Sol l’uom solerte, e coll’inopia in guerra
L’ignavo è sempre. — Quando cessa il sole
Di saëttare l’infocata vampa,
Che di sudor ne immolla, e il sommo Giove
Di piogge autunno irriga, e all’uom più snelle
Le sue membra si fan (chè Sirio allora
Più vago della notte il dì vïaggia
Men sul capo al mortal sacro alla Parca)
Scevro di vermi affatto è allora il bosco
Del ferro al taglio; al suol sparge sue frondi,
Nè dà germi novelli. Orti sovvenga,
Che questo a tagliar bosco è il tempo adatto.
Fatti un mortaio11 o di tre piè, un pestello
Di tre cubiti, e un asse, il quale sia
Di sette piè se acconcio il vuoi; se d’otto,
Farne potresti un mazzapicchio. Un carro
Di dieci spanne armarti dèi di ruote,
Che tre n’abbiano d’orbe. In traccia vanne
Di curvi legni all’uopo; e ove di leccio
Te n’offra il monte o il pian recali in casa,
E fanne il bure, che è il più saldo all’opra
Di bovi aranti, se di Palla il servo
Ben nel dental lo infigga, e con chiavelli
Col timon lo commetta. Un doppio aratro
In casa industre ti lavora e serba,
Un d’un pezzo, e un composto: è il meglio, il credi:
Chè se un ne rompi, aggioghi all’altro i bovi.
Di lauro o d’olmo sceveri di tarlo
Siano i timoni, ed il dental di quercia,
Di leccio il bure (il dissi) e i buoi novenni:
Chè in questa etade di vigor son pieni,
E acconci quindi, nè fia mai che sorga
Conflitto fra di loro, onde tra i solchi
Franto ne sia l’aratro, e rotto a mezzo
L’intrapreso lavor. Guida dei buoi
Uom quarantenne sia, che un pan di quattro
Spicchi ingollato in trentadue bocconi,12
Dritto le zolle insolchi, e all’opra intento
Non badi ai suoi compagni. A sparger semi,
E ad evitar di rinovarli adatto
Un più giovin non è: chè ognor costui
Trescar vorrebbe coi suoi pari. — Attendi;
Quando gracchiar dall’alte nubi ogni anno
Odi la gru, dell’aratura il tempo
Ella t’annunzia e del piovoso inverno,
Ed a chi non ha buoi l’alma costerna.
Tu allora ai tuoi, d’intorte corna insigni,
Sii largo di foraggio. E tosto detto:
«Prestami bovi e carro» e tosto ancora
A risponder si fa: «Sono al lavoro.»
V’ha chi saggio sa dir: «Farommi un carro»;
Ma stolto non sa farselo ed ignora,
Che gli è mestieri aver già in serbo in casa
I cento pezzi, di che un carro ha d’uopo.
Come dell’aratura è giunto il tempo,
T’accingi all’opra coi famigli arando
Dai primi albori il suolo, umido o secco,
Se vuoi vedere il campo irto di spiche.
Fendi il maggese in primavera, e ai caldi
Soli non fia che ti deluda: i semi
Gli affida quand’è soffice, e maligno
Non teme incanto,13 e ricchi fa gli eredi.
Al Giove inferno e a Cerere pudica
Rivolgi una preghiera, onde maturo
Il sacro dono cerëal ti abbondi.
Quando ad ararti appresti, e quando dato
Di piglio al sommo della stiva, il dorso
Con un virgulto istighi ai buoi, ch’avvinti
Pei guinzagli al timon traggon l’aratro,
Un garzoncel dell’arator sull’orme
Gli augei deluda ricoprendo i semi
Col rastro: chè per l’uom l’ordine è il meglio,
E pessimo è il disordine: sui solchi
Vedrai così piegar le colme ariste,
Se il Dio d’Olimpo a lieto fin le adduca.
Torrai dai cesti i ragnateli, e il core
Sui ben riposti gioiratti, io spero
Scorrerai la stagion dei verdi prati
Provvisto in copia: desioso il guardo
Sull’altrui vitto non terrai; ben altri
Bisogno avrà di te. Che se proscindi
Le pingui glebe quando il sol dà volta,
Mieterai raccosciato in man stringendo
Ben poco, e ariste e loglio alla rinfusa
Brutto di polve e mesto in core unendo
In sì scarsi manipoli, che appena
Una sporta tu n’empia, onde sii fatto
Segno all’altrui pietade. Altra talora
Dell’Egioco è la mente, all’uomo arcana;
Onde se ari tardivo, ecco il rimedio.
Come prima il suo metro intra le frondi
Il cuculo intonò, nunzio di gioia
Per ogni piaggia all’uom, se al terzo giorno
Piovane doni il ciel, nè tosto cessi,
E tanta che dei buoi l’orma non varchi,
Ma neppur l’empia a mezzo, allor potresti
Alla tarda aratura aver compenso.
Figgi in petto tai cose, e cògli a tempo
E primavera verdeggiante e piova.
Nella fredda stagion quando dall’opre
L’acre gelo distoglie, allorchè molto
Ben può in casa giovare a sue faccende
L’uomo solerte, la fabril fucina,14
E degli scioperoni i crocchi evita.
Te fra le strette del bisogno il crudo
Verno non colga, sicchè man stecchite
Tu mostri e gonfi piè.15 Colui ch’inerte
S’affida in grembo a vana speme, affonda
Nella miseria: chè gli manca un pane.
È rea la speme, che nutrica il pigro
Nei crocchi assiso, e a cui sia manco il vitto.
Mostra nel colmo della state ai servi
Le formiche, e dì lor: Non sempre avrete
Estate; la capanna or v’estruite
Fatevi schermo contro il triste mese
Che da Leneo16 si noma, avaro ai bovi,
E contro i geli, ond’irto il campo rende
Di Borea il buffo, che traverso i lidi
Di Tracia, altrice di puledri, arriccia
Del vasto mare il dorso, e campi e selve
Fa reböare: impettioso investe
Aërie querce e olenti pini a mille,
E al suol li incurva, e cupamente allora
Mugghia l’ampia foresta. Irti pel gelo
Hanno le belve i velli, e infra le cosce
Ristringono la coda. Irsuto tergo
Loro non giova se l’acuta brezza
Lor passa il folto ventre; anche dei buoi
Trapassa il cuoio, ed ogni schermo è vano,
E della capra ancor gl’ispidi ciuffi.
Pure sparmia l’agnel di Borea il soffio,
Perchè d’un anno intier la lana il cuopre.
Il veglio accanto al focolar rannicchia;
Pur non offende il rugiadoso volto
Della fanciulla, che al fidato fianco
Della madre s’asside ancora ignara
Degli arcani di Venere leggiadra;
Quando uscita del bagno, e unta di pingue
Olio le molli membra entro i recessi
Della magion la notte ella si corca,
Mentre infuria la bruma, e i piè si rode17
Nel suo ricetto rattristito il polpo
Dall’inedia costretto, esca nessuna
Non gli mostrando il sole, onde si sfami.
Chè sulle genti allor fosche il sembiante
Il sol si volve, e tardo ai Greci appare.
Le belve allor dei boschi abitatrici,
Di corna armate o inermi, alle selvose
Valli si fuggon con digiune gole.
Punte d’un sol desio, cercan riparo
Ermi burrati, e cavernose rupi.
Allor gli umani si scotendo i bianchi
Fiocchi di neve van pari a vegliardi,
Che curvi il dorso, e proni al suolo il volto,
Fan terzo piè un bastone. Allor ti vesti,
Io tel consiglio, soffice mantello
E tunica ch’ai piè lunga ti scenda:
Poca sia la sommessa, e molta invece
La sovrapposta, e indossala; chè i crini
Non ti tremin pel corpo ispidi ed irti.
Costringi i piedi entro calzar di cuoio
Di toro a forza ucciso,18 adatti e folti
All’interno di feltro. Appena senti
Giungere il verno, con bovino nervo
Di capri primogeniti ti cuci
Velli con velli, sì che sianti schermo
Contro il nembo alle spalle, e il capo cuopri
D’un pileo acconcio a premunir gli orecchi:
Chè gelido di Borea all’alba è il soffio.
Mattutino vapor pende dall’alto
Cielo sui solchi a fecondar le messi
Degl’industri mortali; esso s’impregna
Dell’alimento dei perenni fiumi,
E lo spiro dei venti in alto quindi
Lo solleva dal suolo; e ora il piovoso
Grembo discioglie a sera, ora va preda
Del tracio Borea fugator dei nembi.
Tu lo previeni, tue faccende affretta, E
torna a casa, nè giammai ti colga
Il nero nembo, che dal ciel crosciando
T’inzuppi i vestimenti e il corpo immolli.
A tempo il fuggi: chè stagion perversa,
E cruda all’uomo ed alle bestie è questa.
Allor dà la metà del vitto ai bovi;
Ai servi più della metà;19 ch’è acconcia
La notte lunga a ristorar le forze.
Serba tal norma tutto l’anno, i giorni
Comparando alle notti infin che l’alma
Terra di nuovo all’uom prodighi i frutti.
Ma quando, dacchè il sol sue ruote ha volto,
Il sessantesmo dì brumal fia giunto,
Arturo allor lasciando i sacri gorghi
D’Oceàn ne si mostra astro lucente
Al crepuscolo primo; indi la figlia
Di Pandion, la rondinella aleggia,
E col lamento mattutino annunzia
Che primavera è giunta. Allor le viti
Abbi potato, è il meglio; e quando l’afa
Fuggendo cerca la lumaca il rezzo
Strisciandosi dal suolo in sul fogliame,
Viti più non scavar; le falci aguzza,
E sollecita i servi. I seggi ombrosi
Fuggi nei giorni della messe, quando
Il sole adugge i volti, e te dormente
L’alba non colga; ma t’affretta, e sorto
Col dì raguna nel tuo tetto il vitto,
Che bastevolti sia. L’alba n’esige
Dell’opra un terzo,20 l’alba in via n’è scorta,
E n’è scorta al lavor, l’alba che apparsa
Desta le genti, e molti bovi aggioga.
Quando nell’operosa arsa stagione
Fiorisce il cardo, e sulle frondi assisa
Ne fa sentir la garrula cicala,
Battendo l’ali, eterno, acre il suo metro,
Oltre l’usato allor la capra impingua,
Nettare è il vin, la femina è lasciva,
E l’uomo è fiacco: chè ginocchia e testa
Gli abbatte il Sirio e gli rïarde il volto.
L’ombra d’un antro ti ristori allora,
E vin di Biblo e lattea torta e latte
Di capra nati non nutrente, e carne
Di capro primo nato, e vaccherella
Del bosco alunna e ancor non madre. All’ombra
Bevi sdraiato rubicondi nappi,
E di vivande ti rinfranca il petto,
Mentre il fiato di Zefiro söave
Ti molca il viso, e ti susurri accanto
Chiara d’alpestre rupe onda perenne,
Di cui temprin tre parti una di vino,21
Come pria d’Orïon l’astro fulgente
In cielo appar, sollecita i famigli
A trebbiare di Cere i sacri doni
In aia liscia, e in piano all’aure aperto,
E il ricolto misura e il serba in dogli.
E come in casa avrai posto in sicuro
Tutto il ricolto, scegliti un custode
Che non ha Lari, ed una fante improle:
Fante con figli è mal sicura. E un cane
Zannuto ti procaccia, e bene il pasci,
Perchè notturno non ti predi il ladro.
Fieno e fogliame per un anno aduna
Foraggio a bovi e a muli; indi le stanche
Membra posin dei servi e i buoi sien sciolti,
Ma come Sirio ed Orïon fien giunti
A mezzo cielo, e la vermiglia Aurora
Contempli Arturo, allor recidi, e reca
In casa tutti di tua vigna i raspi.
Lasciali sposti a dieci soli e a dieci
Notti; per cinque giorni indi li cuopri,
E nell’anfore al sesto il dono infondi
Del giocondo Liëo. Ma quando il disco
Dell’adusto Orione in mar si attuffi
Colle Iädi e le Pleiadi, rammenta
Che d’arar riede il tempo. Ogni stagione
Così seguan le alterne opre del campi.
Che se di venturarti all’onde infide
Desio ti vince, ascolta. Allorchè in fuga
Dal gagliardo Orion cacciate innanzi
Le figlie di Plëòn van sotto i flutti,
Soffiano i venti imperversando, e allora
Alle onde torbe non fidar la vela;
Ma al suol ti volgi, e fa com’io ti dico.
Traggi in secco il navil, intorno intorno
Con sassi l’assicura, e sì che saldo
All’iroso dei venti impeto resti.
Schiudine la carena, affinchè l’alto
Nembo nol guasti; te ne serba in casa
Tutti gli attrezzi: acconciamente assetta
Le ali del pino passegger dell’onde,
E il ben costrutto temo al fumo appendi.
Giunta poi la stagione ai nauti amica,
Spingi tra i flutti il pin veloce, e il carca
D’adatta merce, perchè poi ne rechi
A casa il lucro, come un tempo il nostro
Genitor, folle Perse, al mar fidossi
D’onesto vitto in traccia. Abbandonata
L’Eölia Cuma e largo mar solcato,
Ei qui venne per nave, agi e tesori
Non per fermo fuggendo e lieta vita,
Ma travagliosa povertà che Giove
Manda ai mortali. D’Elicona al piede,
D’Ascra nel borgo misero, di verno
Triste, d’estate impronto, e non mai buono,22
Egli pose sua stanza. – Or ti rimembra
D’ogni lavoro, o Perse, il giusto tempo,
Ma sopratutto del solcare i flutti.
Buono un piccol navil, ma meglio a un grande
Fida la merce: maggior carco acquista
Lucro maggior, se il turbine furente
Frenano i venti. Se desio t’invoglia
Il pelago a tentar l’ardita mente
Per fuggire il bisogno e la ria fame,
Del mar sonante io ti dirò il costume,
Benchè ignaro di navi e mare io sia.
Perocchè mai non fendei coi remi
Il vasto Ponto, tranne allor ch’io giunsi
Dall’Elide all’Eubea, dove gli Achei
Attendendo il posar delle procelle
Unir dell’alma Grecia oste infinita
Contro Ilio d’alme femine feconda.
E in Calcide n’andai, dove un agone
Pel prode Anfidamante erasi inditto,
Molti premi offerendo i chiari figli
Ai vincitori. Vincitor nel canto
M’ebbi un tripode ansato, e in don lo appesi
All’Eliconie Muse, ove da prima
Esse del canto mi svegliar la fiamma.
Soltanto questa di naval vïaggio
Sperienza io m’ebbi, eppure all’uopo io tapro
L’alto consiglio dell’Egioco Nume:
Chè arcane cose mi svelàr le Muse.
Poi che dal Cancro adusto il sol si è volto,
Fausta è l’onda al nocchier nei dì cinquanta
Che precorrono il fin dell’incandente
Stagione affaccendata. Infranto il pino
Non fa dal mar, nè i passegger sommersi,
Se pure il nume scotitor dei lidi
Non ti voglia perduto e il re dei numi,
Che dei beni e dei mali arbitri sono.
Placide allor son l’aure e quete l’onde:
Sicuro spingi allora in grembo ai flutti
La presta prora, e il carco entro v’adatta.
Però affretta il ritorno al patrio tetto,
Non aspettar il nuovo mosto, e i nembi
D’autunno, e il verno che sorgiunge, e il turbo
Del fiero Noto, che tornato insieme
Col nembo aütunnal l’onde abbaruffa,
E le fa perigliose. – Altro v’è tempo
Pur buono a veleggiar, la primavera.
Quando simil della cornacchia all’orma
Vedi la foglia nei ficulnei rami,
Accessibile è il mar. È questo il tempo
Di navigarlo in primavera: io poi
Non tel consiglio; il cor non ben mi affida:
Còrlo t’è d’uopo in giusto punto, e appena
Sfuggiresti a un sinistro. Eppure il folle
Mortal vi si cimenta, avendo l’alma,
Oh sciagurato! schiava ognor del lucro.
Duro è il perire dai marosi avvolto;
Però serba in tua mente i miei consigli.
Al pino non fidar tutto l’avere,
Ma lascia in casa più di quel che arrischi:
Ch’è gran pensiero venturarsi ai flutti,
Come un plaustro gravar di troppo pondo;
L’asse n’è infranto, e va perduto il carco.
Fa tutto con misura: ottima norma
È il tempestivo oprar. – Mènati moglie
Quando nè molto più, nè molto meno23
Conti sei lustri: il giusto tempo è questo;
E la fanciulla si mariti al quinto
Anno di pubertà. Vergin la togli,
Perchè tu il cor le informi a bei costumi
Scegli colei che t’abita vicino,
E a te ben nota, perchè poi dei ghigni
Del vicinato non ti faccia obietto.
Nulla di meglio d’una saggia moglie,
Nulla di peggio d’una triste, buona
Soltanto a consumar, che il suo marito
Per quanto forte senza fiamme abbrucia,
E negli anni fiorenti il fa canuto.
Dei santi numi la presenza ognora
Rispetta: non far pari il tuo fratello
All’amico; se il fai, bada che primo
Tu non gli rechi offesa, nè ingannarlo
Pure per celia. Che se primo ei fosse
A farti offesa e ad ingannarti, allora
Ten paghi doppio il fio. Pur se richiegga
L’amistà tua di nuovo, e i torti emendi,
Tu buon lo accogli. D’un pitocco è proprio
Il farsi amico or questo, or quel; ma il tuo
Volto sia sempre in armonia col core.
Non dare ospizio a molti, e non negarlo
A tutti; non ti far compagno ai tristi,
Nè dar briga ai dabbene. Al poverello
Di rinfacciar non ti patisca il core
La squallida indigenza che lo rode:
Ch’essa vien pur dai numi. È un gran tesoro
Per l’uom la parca lingua; è immenso pregio
Nel modesto parlar:24 se mal tu parli,
Di peggio udrai. Non essere ritroso
A dar lo scotto per comun banchetto:
Chè poco spendi, e gran favor n’acquisti.
A Giove non libar, nè agli altri numi
In sul mattin le rubiconde spume
Con mani immonde: chiuderian sdegnosi
Gli orecchi alle tue preci. Al sol di contra
Diritto acqua non far, nè da che imbruna
Il giorno, tel rammenta, infino all’alba,
Sia ch’entro via cammini, o fuor di via,
Nè nudo: chè la notte ai Divi è sacra.
L’uomo di verecondo e pio costume
Ciò fa curvato, o d’un parete accanto
D’orto chiuso. Se il talamo segreto
Te mesca alla tua sposa, immondo ancora
Non presentarti al focolar; ten guarda.
Non reduce da rito atro, funèbre,
Ma dal banchetto sacro ai Divi, attendi
A crear figli. Non guadar giammai
Le limpide onde dei perenni fiumi
Senza prima pregar rivolto il viso
Alle belle correnti, e terse avendo
Le mani nelle linfe alme e spumanti.25
Chi varca un fiume e reo le man non monda,
Tema il furor dei numi, e il duol che il segue.
Nelle sacre agli Dei cene solenni
La morta non tagliar dalla viv’ugna26
Delle tue dita col lucente ferro.
Non credere miglior dell’annaquato
Lo schietto vin;27 compagna ognor avresti
L’esiziale ebbrezza. Inauspicata
Non sorga tua magion, perchè lugubre
Non vi crociti sopra la cornacchia.28
D’olla che immonda sia non trar vivanda
Per imbandirla, nè lavarti in quella:29
V’ha pena anco a tal colpa. Immoto in piume
Non si lasci poltrir (saria gran fallo)
Un figlio dodicenne: un forte ei fora,
E un imbelle ne fai; neppur s’ei vide
Dodici lune: egual ne fora il danno.
Qual s’addice ad un uom, gli eviratori
Tepidi bagni evita; un dì ben grave
Detrimento n’avresti. Ove t’incontri
Nei fumanti olocausti, i riti arcani
Non ne schernire: ne faria vendetta
Il nume irato. Non fedare il seno
Delle fonti e dei fiumi al mar correnti
Col profluvio dell’epa: all’uopo vanne
Lontan: chè l’atto ben saria da turpe.
Temi la mala fama: agile vola
La triste fama, a sopportar gravosa,
Difficile a infrenar: essa del tutto
Giammai non muore: chè le genti ovunque
Alimento le danno, e diva è anch’essa. –
Osserva i dì che il cielo volve acconci
Ai lavori, e ne rendi i servi edotti.
L’ultimo dì del mese, in cui le genti
Sciolgono i piati e fanno festa, è adatto
A veder l’opre, e a dispartirne il prezzo:
Chè a questo il destinò Giove sagace.
Il dì che il viso suo la luna innova,
Del mese il quarto e il settimo sono fausti:
Chè nel settimo il Dio dall’aureo brando
Del grembo di Latona al giorno uscio.
Della luna crescente ottimi sono
A por mano ai lavor l’ottavo e il nono.
L’undecimo e il dodecimo son buoni,
E quel miglior di questo, a tosar greggi,
E a côrre i dolci frutti. Aracne allora
Alto montando la sua tela ordisce
Provvida del futuro, e prede aduna
Tra primavera e i soli estivi; e quella
La donna emuli allor, l’ordito appresti,
E alla spola dia sedula di piglio.
Se a seminar t’accingi, attento evita
Il tredicesmo, che per altro è fausto
All’innesto di piante. Il sedicesmo
Alle piante nocivo, auspice amico
Splende al nascer dei maschi, ed infelice
È a quel delle fanciulle e al loro imene.
Neppur il sesto al nascer loro arride,
Ma in quello evira pur capretti ed agni:
Ad assiepar le mandrie è assai secondo,
E maschi a procrëar: arguti motti,
Parlar infinto, lusinghiero e scorto
Avrà chi nasce in questo giorno. Il capro
E il bue muggente nell’ottavo evira,
E al dodicesmo il paziente mulo.
Il più lungo dell’anno, il dì ventesmo
Figlio sagace ti darà: fecondo
D’acute menti dispensiero è sempre.
A produr maschi il decimo è propizio,
Femine il quartodecimo. Ti rendi
Docili in questo dì la greggia e il lento
Bove e il mastin zannuto, e il faticante
Mulo, lor vello palpeggiando. Attento
Bada, che l’alma non t’ingombri il duolo
Nel quarto e venduattresmo: ei son solenni.
Bensì nel quarto mena moglie, all’uopo
Esplorati i migliori auspici alati.
Il quinto evita sciaurato e triste:
Chè in quello è grido d’Eride nascesse
L’Orco tremendo agli spergiuri,30 e in quello
Di lui ministre ultrici errin l’Erinni.
Ma nel decimosettimo di Cere
Le sacre manne scevera e componi
In aia ben spianata, e taglia selva
Per arnesi domestici e per coste
Di navili, e per quanto a navi è d’uopo,
E nel dì quarto a fabricarti imprendi
Piccolo agile pin: pur a tal’opra
Migliore è il nonodecimo sul vespro.
Propizio sorge il nono sole all’uomo,
Sia ch’ei pianti arboscei, sia che gli nasca
Femina o maschio: ognor fu buono a prova.
Che il ventesimonono ottimo sia
A far saggio del doglio, e bovi e muli
E rapidi corsier piegare al giogo,
A trarre in grembo dei cerulei flutti
Il ben costrutto pin, san pochi, e pochi
Gli danno il nome vero. Il doglio al quarto
Spilla: il decimoquarto è il dì più sacro.
Che il ventesimoprimo è assai felice
Dell’alba all’apparir, pochi san pure,
E a sera non così. – Son questi i giorni
Degni di nota pei mortali, e gli altri
Ambigui sono, o indifferenti e innocui:
Chi loda l’un, chi l’altro, e il ver san pochi:
Ch’ora noverca è la giornata, or madre.
Felice venturoso è quei ch’edotto
Di tai leggi le cole, accetto ai numi,
Agli augurii fedel, scevro di colpe.
- ↑ [p. 153 modifica]Della malva e dei bulbi di asfodello faceasi una vivanda, onde nutrivansi i poveri, e quei che menavano vita frugale. Aristof., Plut., v. 543; Oraz., Epodo, II, 57. È il principio morale della temperanza riprodotto dalla scuola Socratica. Plat., Polit., V, 3.
- ↑ [p. 153 modifica]Pensiero simile in Petrarca. In vita di Laura, Sonetto 76, v. 5, cioè:
- Gli occhi invaghiro allor sì dei lor guai....
- ↑ [p. 153 modifica]Questa parola infatti, stando all'etimologia più ovvia, darebbe complesso di tutti i doni.
- ↑ [p. 153 modifica]Vedi Erod., III, 26; Plin., Stor. Nat., V, 32; Oraz. Epodo, XVI, v. 41 e segg. – Sulla postura geografica di queste isole si disputò molto: merita sia letto il libro l’Océan des anciens et les peuples préhistoriques di Moreau de Jonnés, edito quest'anno a Parigi.
- ↑ [p. 153 modifica]Oraz., Od., V, lib. IV, v. 23. «Le puerpere sono lodate, perchè il loro parto ritrae le fattezze del loro marito.»
- ↑ [p. 153 modifica]Opinione antichissima invalsa presso ogni popolo, [p. 154 modifica]cioè che il furore della vendetta divina si spinga fino a involgere intere città nella pena d’un solo. — Vedi Bib., Giosuè, c. VII; e Oraz., Od. II, lib. III, v. 29; Epist. I, lib. II, v. 14.
- ↑ [p. 154 modifica]Questo aggiunto insolente non faccia maraviglia. L’espressione greca che gli corrisponde era divenuta d’uso comune e quasi convenuta in simili contingenze. L’Oracolo rispondendo a Creso gli dice pure: «O Lidio, re di molti popoli, o stoltissimo Creso.» (Erod., I, 85, passo citato da Göttling.) È il tono di superiorità assunto da chi sa verso chi non sa.
- ↑ [p. 154 modifica]Vedi la stessa sentenza in Omero, Il., XXIV, 45.
- ↑ [p. 154 modifica]Forma proverbiale per significare qualunque avere, e ci porta in piena epoca pastorizia, in cui tutta la ricchezza consisteva in armenti e greggi.
- ↑ [p. 154 modifica]Le stesse che i Latini diceano Vergilie. Vedi Plinio Stor. Nat. XVIII, 69.
- ↑ [p. 154 modifica]Fu la prima macina degli antichi.
- ↑ [p. 154 modifica]Si parla d’una forma speciale di pane. Il senso intimo delle parole è, che l’aratore si nutra bene, ma presto, per non sottrar tempo al lavoro.
- ↑ [p. 154 modifica]Lo scarso ricolto era talvolta attribuito a imprecazioni di malevoli e ad opera di malia. Fu una superstizione assai estesa nell’antichità. Vedi Leggi delle XII Tavole, raccolte dal Dirsken, pag. 539.
- ↑ [p. 154 modifica]I poveri e gli oziosi in Grecia raccoglievansi [p. 155 modifica]d’inverno nelle fucine, come i Romani nelle tonstrine, o botteghe di barbieri.
- ↑ [p. 155 modifica]Credeasi la fame produr tali effetti.
- ↑ [p. 155 modifica]Cioè il mese detto Leneone dagli Jonii, Bucatio dai Beoti e Gamelione dagli Attici. Per noi sarebbe il tempo, che comprende la seconda metà di dicembre e la prima di gennaio.
- ↑ [p. 155 modifica]Cioè il mese detto Leneone dagli Jonii, Bucatio dai Beoti e Gamelione dagli Attici. Per noi sarebbe il tempo, che comprende la seconda metà di dicembre e la prima di gennaio.
- ↑ [p. 155 modifica]Qualità importante, come quella che vedesi un po’ in seguito nella parola primogeniti, perchè la pelle sia forte.
- ↑ [p. 155 modifica]Sul cibo da distribuirsi ai servi, vedi Catone, De Re rustica, VI, 57; Plauto, Stico, atto I, sc. 2, v. 60.
- ↑ [p. 155 modifica]È sotto altra forma la stessa sentenza d’Oraz., Epist. II, lib. I, v. 140, cioè: «Chi principia è alla metà dell’opera.»
- ↑ [p. 155 modifica]Vedi Plutarco, Conv. III, citato dal Göttling.
- ↑ [p. 155 modifica]Questi aggiunti dati alla sua terra natale sono uno sfogo innocente del risentimento svegliato nel suo animo dalla sentenza iniqua dei suoi giudici nella lite col fratello Perse.
- ↑ [p. 155 modifica]Vedi Aristotile, Polit. VII, 14.
- ↑ [p. 155 modifica]Questo passo fu citato e interpretato da Aulo Gellio, I, 110, l.c.
- ↑ [p. 156 modifica]Somigliante rito troviamo appo gli antichi popoli Italici per la Dea Feronia, cui nel Soratte era sacra una fontana. Vedi Oraz., Sat. V, lib. I, v. 24.
- ↑ [p. 156 modifica]Nel testo è notevole la denominazione data alla mano cioè dai cinque rami, pentozo, tanto più notevole in quanto la stessa bella imagine troviamo nella letteratura dell’India, in cui la mano è pur concepita come una pianta che ha cinque rami, cioè è detta pañk’açākha.
- ↑ [p. 156 modifica]Il senso del testo qui è controverso. Io mi attenni all’interpretazione del Göttling. Secondo altri dovrebbe tradursi:
Non por limite al ber dei convitati.
- ↑ [p. 156 modifica]Il Salvini seguendo un’altra lezione traduce:
Quando casa tu fai, non lasciar buche,
Che assiso non vi gracchii il cornacchione. - ↑ [p. 156 modifica]Controverso è pur qui il senso del testo: io seguii l’interpretazione datane da Plutarco.
- ↑ [p. 156 modifica]Concetto ripetuto da Virgilio, Georg. I, 277.