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Il vento come un mostro ebbro mugliare
udii notturno. Errava non veduto
3tra i monti, e poi s’urtava al casolare
piccolo, ed in un lungo ululo acuto
fuggiva ai boschi, e poi tornava ancora
6più ebbro, con suoi gridi aspri di muto.
L’udii tutta la notte, ed all’aurora,
non più. Dormii. Sognai, su la mattina,
9che la pace scendeva a chi lavora.
Or vedo: scende. Scende: era divina
l’anima. Il cielo tutto a terra cade
12col bianco polverìo d’una rovina.
Non un’orma. Vanite anche le strade.
La terra è tutto un solo mare a onde
15bianche, di porche ov’erano le biade.
Resta il mio casolare unico, donde
esploro in vano. Non c’è più nessuno.
18E solo a me che chiamo, ecco risponde
il pigolìo d’un passero digiuno.
Sul liscio faggio danzi corra voli,
Maria, lo staccio! Siamo soli al mondo:
22stacciamo il pane che si fa da soli!
Voli lo staccio e treppichi giocondo,
vaporando il suo bianco alito fino,
25che si depone sul tuo capo biondo.
O lieve staccio, io t’amo. Il tuo destino
somiglia al mio: tener la crusca; il fiore,
28spargerlo puro per il tuo cammino.
E fai codesto con un tuo rumore
lieto, in cadenza: semplice, ma bello
31per l’orecchio del pio lavoratore.
Ma triste, sotto mezzodì, per quello
del viandante, che rasenta i triti
34limitari del lungo paesello:
ch’ode un danzar segreto, ode tra i diti
di donna sola, in ogni casa, andare
37te, casalingo cembalo, che inviti
lo sciame errante al tacito alveare.
Taci, querulo passero: t’invito.
Sempre diventa il tuo gridìo più fioco:
41taci: or ora imbandisco il mio convito.
Il poco è molto a chi non ha che il poco:
io sull’aròla pongo, oltre i sarmenti,
44i gambi del granturco, abili al fuoco.
Io li riposi già per ciò. Ma lenti
sono alla fiamma: e i canapugli spargo
47che la maciulla gramolò tra i denti.
Nulla gettai di quello che non largo
mi rese il campo: la mia man raccoglie
50anche i fuscelli per il mio letargo.
Serbo per il mio verno anche le foglie
aride. Del granturco, ecco via via
53mi scaldo ai gambi e dormo sulle spoglie.
Ciò che secca e che cade e che s’oblia,
io lo raccolgo: ancora ciò che al cuore
56si stacca triste e che poi fa che sia
morbido il sonno, il giorno che si muore.
Il mio povero mucchio arde e già brilla:
pian piano appoggio sopra due mattoni
60il nero testo di porosa argilla.
Maria, nel fiore infondi l’acqua e poni
il sale; dono di te, Dio; ma pensa!
63l’uomo mi vende ciò che tu ci doni.
Tu n’empi i mari, e l’uomo lo dispensa
nella bilancia tremula: le lande
66tu ne condisci, e manca sulla mensa.
Ma tu, Maria, con le tue mani blande
domi la pasta e poi l’allarghi e spiani;
69ed ecco è liscia come un foglio, e grande
come la luna; e sulle aperte mani
tu me l’arrechi, e me l’adagi molle
72sul testo caldo, e quindi t’allontani.
Io, la giro, e le attizzo con le molle
il fuoco sotto, fin che stride invasa
75dal calor mite, e si rigonfia in bolle:
e l’odore del pane empie la casa.
Chi picchia all’uscio? Tu forse Aasvero,
che ancor cammini per la terra vana,
79arida foglia per un cimitero?
Chi picchia all’uscio?... E fioca una campana
suona... Chi suona? Forse un vecchio prete,
82restato a guardia della tomba umana?
È solo; e ancora a mezzodì ripete
l’Angelus, ed a rincasare invita,
85morti, voi, che sotterra ora mietete.
Socchiudo l’uscio. — Antica ombra smarrita,
che in cerca erri del corpo; ultima foglia,
88che stridi ancora dove fu la vita;
qual vento t’ha portato alla mia soglia,
vecchio ramingo, ultima foglia morta
91d’albero immenso che non più germoglia?
Ma tu sei vivo: hai fame! E qui ti porta
necessità. Sei vivo: soffri! Vivo
94sei: piangi! Ed ecco, dunque, apro la porta:
entra, fratello; chè ancor io... sì, vivo. —
Entra, vegliardo, antico ospite: ed ecco
l’azimo antico degli eroi, che cupi
98sedeano all’ombra della nave in secco
(si levarono grandi sulle rupi
l’aquile; e nella macchia era tra i rovi
101un inquïeto guaiolar di lupi...):
il pane della povertà, che trovi
tu, reduce aratore, esca veloce,
104che sol s’intrise all’apparir dei bovi:
il pane dell’umanità, che cuoce
in mezzo a tutti, sopra l’ara, e intorno
107poi si partisce in forma della croce:
il pane della libertà, che il forno
sdegna venale; cui partisci, o padre,
110tu, nelle più soavi ore del giorno:
ognuno in cerchio mangia le sue quadre;
più, i più grandi, e assai forse nessuno;
113o forse n’ebbe più che assai la madre,
cui n’avanza da darne un po’ per uno.
Azimo santo e povero dei mesti
agricoltori, il pane del passaggio
117tu sei, che s’accompagna all’erbe agresti;
il pane, che, verrà tempo, e nel raggio
del cielo, sulla terra alma, gli umani
120lavoreranno nel calendimaggio.
Chè porranno quel dì su gli altipiani
le tende, e nel comune attendamento
123l’arte ognun ciberà delle sue mani.
Ecco il gran fuoco, che s’accende al vento
di primavera. Ma in disparte, gravi,
126sulla palma le bianche onde del mento,
parlano i vecchi di non so che schiavi
d’altri e di sè: ma sembrano parole
129sepolte, dei lontani avi degli avi.
Guardano poi la prole della prole
seder concorde, e, con le donne loro
132e i loro figli, in terra, sotto il sole,
frangere in pace il pane del lavoro.
- ↑ [p. 234 modifica]È il pane, anzi il cibo, direi, nazionale dei romagnoli. Si fa senza lievito e si coce sopra un testo. Rassomiglia quindi agli azimi che gli Ebrei mangiano per Pasqua insieme cum lactucis agrestibus (Num. 9, 11). È pane affrettato e ognuno lo fa da sè. È il pane primitivo: panem... primo cinis calidus et fervens testa percoxit. deinde furni paulatim reperti (Sen. Ep. mor. 90, 24). O vedete, miei conterranei, che non c’è bisogno di cercare un equivalente italiano alla parola testo, che è latina latinissima (oltre testa, c’è anche testu)? E non è bello sostituire a piada (da plata, che è un relitto greco nelle nostre spiaggie che tanti altri ne hanno, come matra per madia, calzèdar per brocca od orcio), quella cara pizza che i napoletani si meraviglierebbero molto se sapessero che i [p. 235 modifica]nostri contadini la mangiano a desinare e a cena. Piada dunque cotta sul testo. E sia il pane del Calendimaggio, la qual festa è o deve essere il passaggio, il Phase, dalla vecchia Èra alla nuova. E nel passaggio è convenevole cibo quello dei tempi primi, quello degli Ebrei che scampano alla servitù, quello dei venuti dall’oriente nella terra Saturnia. Ricordate? Leggete Virgilio, nell’Eneide, libro VII, versi 109 e segg. Dove imparerete che in latino si chiamavano quadrae quelli che noi eredi e fedeli di Roma chiamiamo quadretti. E vedete Hor. Ep. I, 17, 49; Verg. Moretum 47; Sen. Ben. IV, 29, 2.