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286 Arte romana.

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Trattato di archeologia (Gentile).djvu{{padleft:348|3|0]]giava ed intendeva l’arte greca, si scusa e quasi nasconde il gusto e l’intelligenza sua[1]. Ma quando poi tal ritrosia fu vinta, la conoscenza dell’arte greca divenne parte d’una ben finita educazione letteraria, ma ristretta ad un’intellettuale aristocrazia, con carattere di cultura storica e d’erudizione, di ostentazione di dottrina. La Grecia era meta del pensiero e del desiderio di ogni ben educato romano; Cicerone, padre e figlio, Virgilio, Orazio l’avevano visitata a scopo di studio; già era nata la poesia e la melanconia delle ruine; si facevano viaggi in paesi lontani e ormai spopolati solo per ammirarvi qualche capolavoro scampato alle mani dei depredatori; per null’altro era visitata Tespie di Beozia che per vedervi l’Eros di Prassitele; e l’Afrodite di questo maestro faceva accorrere gente a Cnido. Ma assai troppo spesso erano viaggi di lusso e di curiosità, per dire: «ho veduto». Nè pare che il sentimento artistico della nazione romana se ne avvantaggiasse più di quello che s’avvantaggi il gusto estetico della gran massa della nazione inglese per i tesori del Museo Britannico, o per gli incessanti viaggi in Italia. Acquistar opere d’arte, aver una ricca collezione era moda, e per sola ostentazione molti profondevano in ciò patrimonî[2]. Indi le pretese d’intendersene, e il fare della finezza del gusto e dell’abilità della critica un pregio sommo[3]. A molte opere d’arte

  1. Cicerone in Verr., IV, 2.
  2. Ved. Orazio, Satire, 3, 64: Insanit veteres statuas Damasippus emendo.
  3. Occorre il detto di Trimalcione: Meum intendere nulla pecunia vendo, e l’osservazione di Stazio circa la bravura del riconoscere l’autore d’un’opera anche senza essere segnato; Silvae, IV, 6: Artificum veteres cognoscere ductuset non inscriptis auctorem reddere signis.
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