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I
Con buona pace dei moralisti laureati, a me pare che una delle più notevoli figure di tutta la storia letteraria di Roma sia appunto questa di Petronio, uomo di corrotti costumi, che ebbe, oltre l'arguto ingegno e la maestria non comune nell'arte dello scrivere, il coraggio di mostrarsi tale negli scritti quale fu nella vita: virtù difficile a rinvenire in qualunque tempo e fra ogni gente, difficilissima in tempi di corruzione e di servitù.
Perciocchè gli uomini hanno spesso tal naturale e tal arte, che quanto più sono abietti e codardi, e tanto più vogliono parer nobili e generosi: crescendo sempre l'ipocrisia in ragion diretta della viltà.
Laonde io credo che Seneca sia meno stimabile di Petronio, perchè, vissuti entrambi alla stessa corte, che fu quella pestilentissima di Nerone, il primo, reggendo senza scrupoli il sacco alle dissolutezze del principe e insozzandosi in ogni ragione di turpitudini, affettò e predicò negli scritti quella morale che egli conosceva soltanto di nome; quando l'altro, uomo e scrittore di un pezzo, non solo intimamente e palesemente si piacque di quella vita, ma la ritrasse nei più vivaci colori dell'arte, e visse e morì sempre eguale a se stesso.
Questo coraggio della propria vita e della propria morte a me sembra l'unica cosa di romano che restasse a quei tempi di nessuna virtù; e per questo non dubiterei di proporre Petronio sì come esempio a parecchi schizzinosi omiciattoli dei tempi nostri, ai quali non rimanendo lor altro della virtù che una screpolata vernice, di questa si pompeggiano in guisa da tenersi in diritto di gridare allo scandalo e di scalmanarsi, ogni qual volta il vizio si presenti ai loro occhi pudibondi senza la famosa foglia di fico, e si esprima così senza riguardi e circonlocuzioni di sorta nel dire, come senza maschere o ipocrisie codarde nell'operare.
Questo dico soltanto riguardo il vivere, poichè, quanto al morire, non è questo certamente il caso di fare discorsi, essendo ognuno oggimai così tenace alla vita, come che essa abbia poco o nulla di pregevole in sè e di benefico ad altri, che il volerli persuadere a spregiarla e guardar serenamente la morte e tanto o poco meno disagevole quanto il farli diventar nobili o virtuosi: che equivarrebbe a mutar l'asino in aquila e il coniglio in leone.
II
Non essendo questo il luogo di disputare circa il prenome, la patria, l'anno di nascita, anzi il secolo in che visse Petronio, abbandoniamo agli eruditi la gloria di dipanare queste intricate matasse: e ci limitiamo a riferire di lui ciò che fa meglio al proposito nostro, voglio dire al carattere dell'uomo e alle qualità precipue dello scrittore.
Dell'uomo ci tratteggiò maestrevolmente il ritratto Cornelio Tacito in due paragrafi del sedicesimo libro degli Annali, in cui non sappiamo se più si debba ammirare la coscienza dello storico o il magistero dell'artista:
«Petronio, egli scrive, il giorno dormiva e la notte trattava le faccende e i piaceri. Come agli altri l'industria, a lui dava nome la trascuranza; fondeva sua facultade non in pappare e scialacquare, come i più, ma in morbidezze d'ingegno. Quanto più suoi fatti e detti pareano liberi e naturali, tanto più, come non affettati, piacevano. Vice console di Bitinia, e poi consolo, riuscì destro e intendente. Ridato ai vizi, o lor somiglianze, diventò dei più intimi. Fu fatto maestro delle delizie; niuna ne gustava Nerone in tanta dovizia, che Petronio non fosse arbitro. Onde nacque invidia in Tigellino, ch'ei seco competesse, e dei piaceri fosse miglior maestro. Adoperando adunque la crudeltà, più possente nel principe d'ogni altro appetito, corrompe uno schiavo a rapportare che Petronio era tutto di Scevino; non gli è dato difesa: la famiglia quasi tutta rapita in prigione.
Cesare per sorte era venuto in Terra di Lavoro, e Petronio giunto a Cuma, vi fu ritenuto: ma non corse a torsi la vita: fecesi tagliare le vene, poi legare, per scioglierle a sua posta: e disse agli amici parole non gravi, nè da riportarne lode di costante. E fecesi leggere non l'immortalità dell'anima, non precetti di sapienti, ma versi piacevoli. Ad alcuni schiavi donò, altri fece bastonare; andò fuori, dormì, acciò la morte, benchè forzata, paresse naturale.
Non, come molti che morieno, adulò nel testamento Nerone o Tigellino o altro potente; ma al principe mandò scritte le sue ribalderie con tutte le sue disoneste fogge, sotto nome di sbarbati e di femine; e le sigillò, e ruppe l'anello, perchè non fosse adoperato in danno d'altri».
Che questo Petronio fosse l'autore del Satyricon, e il libro di che parla Tacito proprio questo che abbiamo teste menzionato, parrebbe assai ragionevole e chiaro, se le ipotesi del Burmann e l'erudizione farraginosa dell'Ignarra non avessero intorbidato le acque da un pezzo.
Quello che a me pare sopra tutto notevole in queste parole dello storico è la serenità veramente epicurea ch'esso attribuisce all'animo di Petronio in maggior conto di Socrate: il quale, benchè non perdesse fino agli ultimi istanti la signoria dell'animo e la facoltà di filosofare tranquillamente, pur non potè fare che non dissertasse intorno all'anima immortale, quasi l'idea di una vita avvenire in certo modo lo consolasse, rendendogli men doloroso l'abbandono della presente.
Ma Petronio, fermo com'era nella convinzione di morir tutto con il corpo, non pur non si dolse di dovere staccarsi per sempre dalle dolcezze del vivere, che era stato per lui un continuo variar di voluttà, ma attese fino all'ultimo alle consuete occupazioni; e piuttosto che badaluccarsi, con più o meno auree filastrocche, intorno a soggetti metafisici, pensò a dilettarsi scherzosamente coi soliti amici, non dando alla morte maggior importanza che al sonno.
Questa non ordinaria serenità egli dovette in primo luogo al suo temperamento e in secondo alla sua filosofica educazione: poichè l'abito del filosofare, quantunque assiduo, non può mai produrre consimili effetti, quando l'animo non sia naturato a quella fortezza, ch'è necessaria a tradurli con severità nella pratica difficilissima della vita.
III
I Romani, uomini pratici sopra tutti, e più dediti al culto dei campi, al maneggio degli affari, e delle armi, che alla educazione dello spirito e alla contemplazione della Natura, come furono i Greci, non ebbero da prima in nessun grado la filosofia, parendo loro inutilissima di tutte e quasi effetto di vera follia qualunque filosofica disciplina.
Il vecchio Catone, che è da considerare come il tipo dei Romani del primo stampo, inflessibile e crudele nella vita pubblica non meno che nella privata, osteggiatore dei nobili introduttori di morbidezze, nemico acerrimo dei Greci, segnatamente artisti e filosofi che erano per lo più schiavi o liberti, e che egli però doppiamente aborriva, teneva in sommo dispregio con l'arte la filosofia; odiava Socrate qual sofista pericoloso, agitatore del popolo e sovvertitore dello Stato; faceva bandir Carneade; rimproverava a Fulvio Nobiliore l'essersi fatto accompagnare in Etolia da Quinto Ennio; l'arte oratoria e la storia soltanto come utili alla Repubblica; e quando ristava dal guerreggiare e dal contendere, davasi passionatamente all'agricoltura, trafficava bestie e schiavi a un modo; uomo divino proclamando colui che lasci in rendita ai figliuoli quanto egli ha ricevuto in capitale. Ma quando insieme con la mollezza del vivere orientale s'introdussero in Roma le arti, e lo spirito greco, innestato nel tronco latino, per opera segnatamente degli Scipioni, incominciò a fruttificare, anche la filosofia, temperata da Panezio, si fece strada e acquistò favore.
La scuola stoica e la epicurea si disputarono di buon'ora il dominio del pensiero latino; parendo alla prima che a via di rigide astensioni e di magnanime intolleranze con massime virtuose e con nobili esempi si potesse ricondurre un popolo alla antica grandezza; e cercando l'altra nelle serene contemplazioni della Natura e nell'equanime apprezzamento delle cose quella padronanza e libertà, che non poteva più altrove esercitarsi che nello spirito.
Lo stoicismo però, sebbene più conforme alla tempra del carattere e all'indole dell'ingegno romano, andò sempre più perdendo terreno, a misura che si mutavano gli antichi ideali; mentre l'epicureismo, non tanto considerato qual metodo scientifico e nel suo vero concetto morale, quanto come abito e sistema di vivere, si andava un dì più che l'altro adattando agli animi dei Romani dell' impero, che dopo tanta storia di guerre e di carneficine sentivano prepotente il bisogno di riposare.
Lucrezio aveva accolto la filosofia di Epicuro come grido titanico di riscossa intellettuale e morale; ne aveva presentito l'importanza scientifica che le dovevano riconoscere i futuri; ed erasi avventato ai gioghi del pensiero con orgogliosa fermezza di filosofo e con sacro furor di poeta: la terribilità della sua battaglia e delle sue armi, che è quanto dire del suo concetto e del suo stile, non possono disconoscere che gl'inetti; e qualcuno l'ha in questi di sconosciuta con prosopopea ridicola di sopracciò.
Ma Lucrezio è una eccezione nella storia dell'epicureismo romano.
Gli altri non seppero assumere dell'amabile filosofo di Gargettos che la pratica e il sistema di vivere: si tennero studiosamente lontano dalla cosa pubblica, ad esempio di Attico; e, fraintendendo spesso e volentieri le parole e i precetti di quella scuola, di altro non si diedero cura che di rivolgere tutto a proprio vantaggio e delizia, senza badare affatto alla custodia della propria dignità; piegandosi dolcemente a destra e a manca, e sorridendo con certa malizia di tutto, a somiglianza di Flacco.
Al quale, più che ad altri si avvicina Petronio nello scettico apprezzamento della vita, nella spensieratezza e nel tranquillo dominio delle impressioni. Se non che, il primo si compiace spesso di punzecchiare con certi risentimenti postumi di censore; mentre il secondo, senza preoccuparsi gran fatto degli intendimenti morali, compiacendosi anzi del grottesco e deforme e caricandone bizzarramente le tinte, si ride, come ''Catullo, del borbottare noioso dei vecchi moralisti:
A che, o Catoni, con cipiglio austero
state a guardarmi, e condannate in atto
di non volgar semplicità? Pur gode
grazia non triste un favellar sincero;
e ciò, che il popol fa, candidamente
narra la lingua. Or chi l'amplesso ignora
e le grazie di Venere? Chi vieta
di crogiolarsi in tiepido lettuccio?
Esso padre del ver detto Epicuro
ne prescrisse l'amore, e con l'amore
tutta, dicea, l'umana vita ha fine.
L'amore, l'arte, la natura gl'ispirano i sentimenti più vivi e le pagine più belle delle sue scritture.
Una bella donna così e descritta: «Non è parola che possa comprendere la sua beltà: checchè ne dicessi, sarebbe meno del vero. Le chiome naturalmente ricciute le si spargevano per tutte le spalle; piccolissima la fronte, in cui si vedevano le radici dei capelli che si piegavano indietro; i sopraccigli, correnti fino al contorno superiore delle guance, si univano dall'altro lato quasi al confine delle luci; un tantino piegata; e la boccuccia quale immaginò Prassitele che l'avesse Diana; il mento, il collo, la mano, i piedi intraveduti fra i sottili legacci d'oro, vincevano in candore il marmo di Paro». E sfida Giove a abbracciare questa vera Diana in versi graziosissimi non indegni di Mosco:
Messi da banda i fulmini,
o Giove, e come mai
in tra i Celesti favola
silenzioso stai?
Or da la fronte torbida
alzar dovresti, o Nume,
le corna; or la canizie
velar di cignee piume.
Questa e la vera Danae:
sol, la carezza un poco;
e per le membra scorrere
sentirai vampe e foco.
(Cito e traduco dall'edizione del Buecheler, Petroni Arbitri Satirorum reliquiae. - Berolini MDCCCLXII.)
Ma la bellezza egli non soffre scompagnata da gentilezza e arguzia, perchè
Motti, lepor, facezie, riso
vincono la beltà d'ingenuo viso;
e quando trova questa mirabile armonia tra la bellezza delle membra e dell'animo egli è capace d'amare come Tibullo.
Dell'incuria in che eran cadute le arti a quel tempo, assegna le ragioni e si lagna con parole, che potrebbero anche oggi sembrare opportune: « La cupidigia di guadagno è cagione di tali cangiamenti; ai tempi antichi, piacendo ancora la virtù nuda, le arti belle vigevano, ed era una somma gara tra gli uomini, perchè non rimanesse lungamente occulto ciò che potesse giovare all'immortalità.
Così Democrito espresse i succhi di tutte le erbe, e per conoscere la virtù delle pietre e delle piante consumò fra le esperienze la vita.
Eudosso invecchiò in cima a un monte altissimo per sorprendere i moti del cielo e degli astri; e Crisippo, per riuscire alla scoperta del vero, l'animo purgò con l'elleboro.
Ma per volgermi agli scultori, Lisippo morì nella miseria per attendere ai contorni di una sola statua; e Mirone, che quasi l'anima degli uomini e delle bestie chiudeva nel bronzo, non trovò erede.
Noi però immersi nel vino e tra le baldracche, neppure le arti inventate osiamo conoscere, ma, accusando l'antichità, i vizi soltanto insegniamo e impariamo».
Fine conoscitore di bellezze poetiche e poeta non comune egli stesso, mette in canzonella quel brulicume di poetonzoli, invasori come ai dì nostri dei campi dell'arte, i quali «appena sanno di quanti piedi si compone un verso, e legare in un giro di parole un pensierino gentile, credono aver già toccato il cocuzzolo di Elicona».
Flagella chi volendo, come Lucano, comporre una epopea, tesse invece una cronica in versi: descrive la distruzione di Troja, osando venire in lizza con Virgilio nello episodio famoso di Laocoonte, e non dubita di offrirci un saggio di poesia epica nel poemetto sulla «Guerra civile».
Degli dei si burla non rare volte; e anziche trattarli, come Epicuro, da esseri eterni, spensieratissimi di ogni cosa umana, li stima generati dalla paura:
Primo il timor creò nel mondo i Numi
quando i fulmini del cielo ardui cadeano
e n'erano le mura ampie concusse
e di fiamme il percorso Ato splendea.
L'oro reputava più potente di Giove e della fortuna:
Naviga il ricco ognor con fausto vento
e tempra la fortuna a suo talento.
................................
Denaro in mano, e ciò che brami ottieni:
Giove possiede chi gli scrigni ha pieni.
L'ambizione di gloria più difficile a saziare che la fame:
Ciò che ne sfama, provvida
dispensa la Natura;
l'ambizion di gloria
non ha freno e misura.
L'amicizia celebrata dagli Epicurei altro non gli sembra che un tornaconto:
In fin che giova l'amicizia dura,
La vita è una commedia: «quasi tutto il mondo la fa da istrione». La varietà dei piaceri può renderla meno uggiosa:
Non sempre il capo spargere
vo' de lo stesso unguento;
nè ognor del vin medesimo
lo stomaco e contento.
Amar come legittimo
censo la moglie dei;
ma il mio censo legittimo
non sempre amar vorrei.
Lo spettacolo della Natura lo esalta: egli rinfresca l'anima avvizzita fra le voluttà; ed egli la descrive spesso amorosamente, la ritrae con colori, che non hanno da invidiare nulla a Teocrito'' e a Publio Virgilio Marone:
Già l'ombre ardenti avea rotte l'autunno
e con tiepide briglie si volgea
Febo a l'inverno; a scuotere le chiome
già cominciava il platano, e la vite
arricchìa d'uva il palmite compiuto:
quanto l'anno promise, offriasi al guardo
(Ibidem)
Celebra in versi di sovrana bellezza la solitudine campestre e la pace domestica; pennelleggia il tugurio di Enotea con sentimento che sembra strano in un uomo abituato a viver fra le agiatezze:
D'indaco avorio intarsiato d'oro
o di calcato marmo
non raggiava la terra,
nei dorai suoi delusa; anzi un buon gruzzo
v'era di Cere riserbata, imposto
a un graticcio di vimini; e boccali
nuovi di conio, fatti
da mota dozzinal, con facil arte.
Quinci una pila d'acqua dolce e corbe
di vinchi appese a duro tronco, e un orcio
sudicio di Lieo. Di vuota paglia
mescolata con fango eran le mura
da più cavicchi sforacchiate; a un verde
giunco attata pendea la gracil canna.
Altre provviste ancor l'umil casuccia
serbava appese al travicel fumoso:
pendean sorbe mature in odorate
corone accolte e vecchia santoreggia
ed uva dai racemoli appassiti.
Tale in Attica un dì l'ospite casa
d'Ecate fu, che poi di culto degna
a lo stupor dei secoli trasmise
l'inclita Musa del Battiade antico.
Nè meno leggiadra è la pittura di un solitario luogo campestre conveniente alla pace e ai piacevoli furti d'amore:
Spargean l'insigne platano e l'alloro
redimito di bacche e il fluessuoso
cipresso e il tonso pino
da le tremule vette
l'estive ombre d'intorno.
Un fiumicel tra loro
scherzava con l'erranti acque spumoso,
e con la linfa querula
i lapilli mordeva. Era quel loco
fatto all'amore; il rosignol silvestre
e la rondine urbana in tra le erbette
e le viole tenere
a lor opere intesi ivan cantando.
IV.
Da tal uomo e da tali sentimenti non poteva uscire un'opera diversa dal Satyricon, specie di romanzo, che prende quel titolo non tanto dalla mordacità satirica quanto dalla varietà della composizione e delle forme; e che per la ricchezza immaginosa delle scene, per la verità dei caratteri, per la freschezza e vivacità dello stile non ha degni riscontri in tutta la letteratura latina.
Chi lo legga senza preconcetti non dura gran fatica ad accorgersi che Petronio non si propone un fine principalmente morale.
Egli vuole anzi tutto divertirsi a dipingere quella società corrotta, in cui vive, senza pretenzioni, senza sussiego, senza darsi l'aria di miglior uomo che tutti gli altri, non declamando nè dissertando quasi mai nel tono di Giovenale o di Orazio; lasciando alle anime timorate la piena libertà di arricciare il naso, tirandosi indietro da quelle sozzure o di andarvi a mezza gamba col santo pretesto di cercarvi la perla recondita della moralità.
Petronio è un viveur e un artista, un vero precursore del Boccaccio: studia gli altri e sè stesso, e trovando tanti strappi nel povero manto della virtù, non si piglia la pena di ricucirlo, anzi guarda maliziosamente a traverso di quelli per il gusto di vederne ignuda la carne.
Se il mondo è fracido e sente di carogna, che colpa ci ha lui? Se è così, vuol dire che non può essere diversamente.
E però non si meraviglia, non si adira, non impreca al destino, ne implora gli Dei; non ispera il meglio e non s'impaura di peggio: lascia che vada l'acqua a la china; è nato a quel tempo, fra tanta corruttela, e si ingegna a starci il meno male che sia possibile.
La Natura e la Storia procedono indipendenti dalle umane velleità: ed egli si rassegna scetticamente alle loro leggi, non senza ridersi degli uomini che si credono ad esse superiori. Chi sono i principali attori di quella cornmedia, che rappresentavano allora i Romani sulla scena del mondo?
A un imperatore ghiotto, crudele, imbecille è successo un altro a cui i fumi del potere hanno fatto perder la testa: prodigo, ladro, lussurioso, ammazzatore di amici e di mogli, incestuoso e matricida, sprezzatore di numi e superstizioso, trovatore di tormenti e strimpellatore di cetera; distruttore di uomini e di città e artefice di statue e di pitture: padrone e tiranno del mondo e schiavo di femmine e di sè stesso.
Ed ecco Petronio vi crea Trimalcione, Lica, Eumolpione; tre personaggi veri, vivi, parlanti, da cui senti spirare come un alito funesto, che ti rammenta Claudio e Nerone. C'è in Roma una libertà che soggioga e quasi affascina l'imperatore; e Petronio tira in iscena la Fortunata, schiava prima, poi moglie e signora di Trimalcione, a cui «se ella di notte dicesse ch'è mezzodì, egli tosto lo crederebbe. Secca, sobria, ma linguacciuta; ganza da mercato; ama chi ama, chi non ama non ama».
C'è Seneca, mezzano in corte, usuraio in casa, pedante in iscuola, virtuoso nei libri; e Petronio ce ne dà una immagine in Agamennone, uomo divenuto ricchissimo a forza di concussioni e di usure; cortigiano accorto e volpino, parlatore instancabile, raspatore di milioni.
Ci sono le cacciatrici di eredità, ed eccoci Filomena, che, giovane, lavora da sè, vecchia fa lavorare due giovanetti suoi figliuoli, prostituendoli a Eumolpione.
I dissoluti hanno il loro ritratto in Ascilto, le donne galanti in Circe, i mezzani in Corace. Criside è il tipo della servetta capricciosa, Doride e Scintilla delle mogli vane, ciarliere, bracone; Lucurgo, del patrizio grullo; Gitone, del bardassa; Prosetenide, delle incantatrici; Filerone, dei male arricchiti; Trifena, delle mantenute.
Poi vengono i parassiti, i cinedi, gli istrioni, gli schiavi; i magistrati come Abinna, i legulei come Filero: tutta la società romana di allora, fiacca, spensierata, briaca; stanca di piaceri, non sazia, come Messalina; e in mezzo ad essa Petronio, sotto la veste di Encolpo, avventuriere instancabile, sitibondo di piaceri, artista di voluttà, avvolto in cento intrighi, insudiciato da molte sozzure, nemico di pedanti e di sacerdoti, amatore di arte e di donne belle, disposto a ridere degli altri e di sè.
Queste figure che non sono precisamente il tale o il tal altro, ma ti fanno pensare a molti personaggi di quella età perhè sono riuscite artisticamente vere, vengono a raggrupparsi in una scena capitale del romanzo, nella cena di Trimalcione, in un'orgia che ti richiama il convito descritto da Tacito nel quindicesimo degli Annali, ordinato da Tigellino, coronato da un mostruoso sacrifizio dell'imperatore, seguito dall'incendio famoso di Roma.
Tutti sanno la sontuosità delle cene di Lucullo, di Apicio, di Antonio, di Caligola che scialacquò il tributo di tre provincie in un convito; di Vitellio che gittò ventimila scudi in un cibreo; di Eliogabalo che ne spendeva fino a settantacinquemila in un pasto; ma nessuno può farsi un'idea della dissolutezza di Roma imperiale senza assistere con Petronio al banchetto di Trimalcione, dove tu non sai se più devi ammirare la magnificenza delle sale, delle tavole e dei serviti, la ricchezza dei vasellami e la ricercatezza delle vivande e dei vini, o piuttosto la somma perizia dello scrittore che ti fa rivivere in quella società, che da vita a si diverse figure, ti divaga con tanti aneddoti, ti introduce nel secreto di tante anime; che ora ti mette addosso le fiamme della libidine, ora i brividi del ribrezzo; ora ti fa tenere i fianchi dal ridere, ora ti rivolta lo stomaco con la più schifosa volgarità.
Quando le epe son più che satolle e i gorgozzuli ben bene annaffiati, i commensali danno la stura alla maldicenza, alle novelle, alle facezie: ne dicono e ne fanno di tutti i colori, fino a gettar sul letto la padrona di casa. Agamennone comincia a dir la sua: «Un povero e un ricco erano nemici. — Che cosa è un povero? interrompe Trimalcione».
Questi, che sin dal principio ha dato il permesso e l'esempio di dar libero sfogo a qualsiasi bisogno corporale, «perchè non v'è maggior tormento che il contenersi» (Ibidem), comincia a sfoggiare il suo sapere: parla di tutto: di astrologia, di arti, di lettere, e perfino di morale; ma il suo forte e la storia: «Quando fu presa Troia, quel gran furbo e scellerato di Annibale ammucchiò sopra un rogo tutte le statue di bronzo, d'argento e d'oro, e vi appiccò il fuoco. Da tal miscuglio si compose un sol metallo, dal quale i fabbri tolsero a formare vasi, catini, statuette».
E poco dopo: «Diomede e Ganimede erano due fratelli; Elena era loro ancella. Agamennone la rapì, e pose in cambio la serva di Diana. Or qui dice Omero che, pugnando tra loro i Troiani e i Parentini, Agamennone vinse, e diede la sua figlia Ifigenia in moglie ad Achille, per la qual cosa Ajace impazzò».
Mentre fanno baldoria un littore picchia all'uscio, ed entra uno vestito di bianco, accompagnato da moltissima gente. E' forse il pretore? No, è Abinna, scultore di marmi sepolcrali. Trimalcione si fa portare il testamento, lo legge da cima a fondo in mezzo ai sospiri della famiglia; raccomanda pietosamente ad Abinna il suo sepolcro: gli detta l'epitaffio, e rompe in amarissimo pianto.
E' un tratto degno di Shakespeare. Tutta la famiglia empie la casa di lamenti, come si trovasse presente al funerale; ma Trimalcione si fa coraggio e soggiunge: «Poichè sappiamo di dover morire, perchè dunque non ci affrettiamo a godere?».
E' la frase fondamentale di tutto il Satyricon: il grido supremo di una società che si sfascia.
(marzo 1880).