Questo testo è completo. |
◄ | Libro I |
LIBRO II
Teogenio. Adunque, o Microtiro, in questa lunga nostra istoria qual tu sì attentissimo ascoltasti, satisfeci io in parte alcuna a quanto ti promisi? Sollevai io te nulla del tuo merore?
Microtiro. Non facile potrei narrarti quanto mi dilettasti e persuadesti e sollevasti con tanta tua copia e varietà ed eleganza. Fu certo disputazione degna di memoria. Rendone a te grazia e a Genipatro, quale uomo come in tutti suoi altri detti, così in questo a me parse simile all’oracolo di Appolline. E con che modo bellissimo pronosticò a Tichipedo la sua prossima calamità; cosa quasi incredibile di tanta felicità subito ruinare in tanta infelicità! Maravigliomene e duolmene.
Teogenio. A Genipatro, uomo prudentissimo, nulla fu difficile conoscere che a que’ costumi lascivi e a quella vita oziosa e inerte di Tichipedo non mancherebbono presta miseria e tristezza. Mai fu che uomo insolente, temerario, lieve, ambizioso, simile a Tichipedo, potesse non ruinare in profonda miseria. Quelli simili a Tichipedo offendono molti con loro gesti e parole inconsiderate e piene di fastidio e convizio. E’ mal voluti in tempo male ricevono. E quando bene in Tichipedo fusse stata summa modestia coniunta con summa industria, non però sarebbe da maravigliarsi se a lui non sempre fu la fortuna equale e secunda, quale per sua natura sempre fu volubile e incostante. Scrive Plinio fra l’altre simile selve e insule una trovarsi nelle acque presso al laco Vadimonio quale né dì né notte si posi in alcuno luogo. Ancora più e incostante e volubile la fortuna. Quale a me darai tu omo da te in questa età veduto o appresso delle istorie notato in tanta felicità che el sia uscito di vita senza prima soffrire in sé molta parte di miserie? Recita Cornelio Nepote istorico che Pomponio Attico, omo litteratissimo, fu di sì prospera sanità che in anni trenta mai li bisognò curarsi con alcuna medicina. E Antonio Castore dicono passò vivendo anni cento che mai in sua vita provò in sue membra alcuno dolore, e in quella età li servia la memoria interissima e duravali ottimo vigore. Publio Romulo, domandato da Augusto Cesare, rispose avere ben servata in sé la valitudine integra in quale e’ lo vedea con ungere el corpo de fuori con olio, entro assumere per suo bere acqua decotta quale chiamavano mulsa. Visse anni sopra cento ben fermo e in ogni suo membro intero. Lucio Volusio, scrive Cornelio Tacito istorico, fu sopra degli altri formosissimo. Visse anni tre e novanta in prima ricco e ornato di buone arti e nulla offeso da tanti sceleratissimi principi quali furono seco in vita. Senofilo, dicono, visse anni cento e cinque senza sentire a sue membra alcuno incommodo. Ieronimo istorico, scrive Luciano, visse anni quattro e cento fermo in ogni suo sentimento, ancora e persino all’ultimo dì utile a procreare figliuoli. Gorgias visse anni otto e cento sempre sano, e di sì rara sua sana età dicea esserne stata cagione la sua continenza. Dione, tiranno siragusano, persino in anni sessanta visse vacuo d’ogni lutto funebre in casa sua. Non però crederò che a costoro fusse la fortuna nell’altre cose nulla molesta. Furono loro gravi le malivolenze, l’invidie, inimicizie, suspizioni, cure, sollicitudini e gli altri casi avversi quali molestano e’ mortali. Crasso fu giovane sopra gli altri ricchi ricchissimo, pur vecchio perì in estrema infelicità. Quinto Cepione dopo el trionfo suo, e stato consule e massimo pontefice, morì incatenato nella publica carcere. Policrate, tiranno samio, a cui la fortuna sempre era stata propizia, quello el quale per esperimentare quanto in tutte le cose el fusse alla fortuna accetto, gittò in mare el suo anello e ritrovollo in corpo a un pesce statoli presentato, costui finì morendo con grandissima sua ignominia fitto sulla cima d’un monte in croce. E se bene essamineremo, forse troveremo vecchio niuno in quello stato in quale e’ fu giovane. Anzi quasi ancora pare che insieme colla felicità sempre sia aggiunta summa miseria. A Pompeio la sua amplitudine, a Cesare el potere quanto el volea, a Cicerone la sua eloquenza, a Scipione la sua grazia populare, furono capitale e ultimo periculo. Constituta legge della fortuna pervertere ogni dì nuove cose. Né debbasi uno e un altro maravigliare se ella seco usa sua innata perfidia. La famiglia de’ Fabii nobilissima da tanto numero, da uomini trecento in un dì fu ridutta a un solo. Macedonia, provincia gloriosa, quale ebbe imperio in Asia, Armenia, Iberia, Albania, Capadocia, Siria, Egitto, provincie amplissime, ricchissime, potentissime, quale ancora vincendo superò ultimi monti Tauro e Caucaso, quale impose sue leggi a nazione e gente estremissime, Battri, Medi, Persi, e quasi a tutto l’oriente, quale se facea ben riverire e ubbidire sino entro alla India terre luntanissime, costei cadde in calamità e giuoco della fortuna. In uno dì Paulo Emilio, duttore degli esserciti romani, vendette a servitù città macedoniche trionfali numero settanta e due. Adunque, non iniuria, dicea Ovidio poeta:
- con ambigui passi la fortuna erra,
- né segue certa in alcun luogo [mai],
- ma or si porge lieta e ora acerba.
- Solo una legge serba in esser lieve.
Ma di questa inconstanza non aremo tanto da biasimarne la fortuna, quanto in prima la nostra stoltizia, quali mai contenti delle cose presenti, sempre suspesi a varie espettazioni, vorremo pari alli dii essere beati. Negava Euripide ad altri che solo alli dii essere concesso durare in perpetua felicità contenti. Affermano e’ fisici, e in prima Ippocrate, essere a’ corpi umani ascritta vicissitudine, che o crescano continuo o scemino: quello che tra questi due sia in mezzo, dicono trovarsi brevissimo. Così e molto più a tutte l’altre cose mortali certo vediamo essere fatale e ascritto ordine dalla natura che sempre stiano in moto, e in difforme successo vediamo e’ cieli continuo innovare sua varietà. Affermava Platone, comune sentenza di tutti e’ matematici, non prima con sue stelle tornare in simile sito el cielo, che agiratosi per infiniti avolgimenti anni numero sei e trenta migliara; né però si potrà quell’ora dire simile a questa qual sia più pressa alla fine, più lungi dal principio del mondo. Vedi la terra ora vestita di fiori, ora grave di pomi e frutti, ora nuda senza sue fronde e chiome, ora squallida e orrida pe’ ghiacci e per la neve canute le fronti e summità de’ monti e delle piaggie. E quanto pronto vediamo ora niuna, come dicea Mannilio poeta, segue mai simile a una altra ora, non agli animi degli uomini solo, quali mo lieti, poi tristi, indi irati, poi pieni di sospetti e simili perturbazioni, ma ancora alla tutta universa natura, caldo el dì, freddo la notte, lucido la mattina, fusco la sera, testé vento, subito quieto, poi sereno, poi pioggie, fulgori, tuoni, e così sempre di varietà in nuove varietà.
Forse a te queste simili spesso rivedute cose paion men maravigliose. Così stima, e’ casi avversi spesso rintoppati noi rendono più preveduti e meno proni a perturbarci. Ma e’ suole ancora la natura in cose grandissime e incredibili non meno che la fortuna con noi adoperarsi. Non recito e’ portenti e monstri quali, proverbio de’ Greci, sempre ne manda el Nillo e l’Affrica, non e’ giumenti ermafroditi quali menavano el giogo a Gaio Nerone Cesare, e simile maraviglie della natura, che sarebbe materia infinita a raccontarli. Notissima istoria della natura presso di tutti e’ poeti, Sicilia un tempo essere stata iunta e continente con Italia, quale ora Silla e Carriddi, monstri immanissimi, tengono divisa et segiunta. Scriveno che lo essercito d’Antioco re in solo uno dì apresso Carmania in quello proprio luogo combatterono a cavallo in quale avea prima con molte navi combattuto. Racconta Pomponio Mela una regione oltre al fiume Nabar lungi da ogni mare trovarvisi grandissime spine di pesci e molta copia d’ostree e non raro qualche ancore. Erodoto istorico affermava el mare già tempo essere stato sopra Memfi, sopra sino a’ monti di Etiopia, qual terra ora scoperta forse troppo rimase arrida. E forse non raro co’ mortali irata la natura mostra quanto insieme li diletti adducere cose rare in nostra calamità. Scriveno che Tantalo, terra grandissima, e Buzorni in Tracia, città nobilissima, intera fu trangugiata e ruinò in profundo abisso. Pira e Antistia presso a’ Meoti, e Licen e Biria città nobilissime appresso Corinto, e parte di Antiochia furono sumerse dal mare. E tutta la Achaia provincia anni mille e quaranta ’nanzi a Roma condita dicono fu sumersa dalle inundazioni dell’acque, e nei tempi d’Anfione, terzo re di Cicrope in Atene, crebbero l’acque e copersono la maggior parte di Tessaglia. Perironvi anime innumerabili, e da tanto naufragio quelli solo camparono quali fuggirono al monte Parnaso ove Deucalion regnava. Quinci trassono e’ poeti quanto dicono la generazione umana da Deucalione restituita. E scrisse Eutropio che ’l mare ne’ tempi di Valentiniano principe di Roma crebbe e summerse molta parte di Sicilia e anche più terre altrove. E a’ tempi della olimpiade centesima quinta si truova tutta Italia stata labefattata da’ terremuoti. E ne’ tempi che Lisimaco uccise il suo figliuolo, la terra chiamata Lisimachia ruinando sfracellò tutto el suo populo. La terra de’ Lacedemoniesi concussa da e’ monti Tageti nel quarto anno che Archidamo regnava, dicono ancora per quello terremuoto ruinò, quale Anassimander li predisse. E in Siria ne’ tempi che Tigranes regnava, scrive Iustino, perirono fiaccati da terremuoti uomini numero cento e settanta migliara. Ne’ tempi di Tiberio dicono in una notte ruinorono in Asia dodici grandissime e famose città, dove ancora e ne’ tempi di Nerone più nobile città ruinarono, Apamea, Laodicia, Ieropoli e Colossa. E scrive Tacito in que’ tempi stata in Campagna sì veemente tempesta che pel furore de’ venti le ville, gli albori e onni pianta in tutta la provincia si trovò svelta e lungi asportata. E ne’ tempi di Vespasiano in Cipro e ne’ tempi di Traiano pur in Asia quattro terre, Elea, Mirina, Pitane, Cume, rotte da’ terremuoti mancorono. E ne’ tempi di Galieno Augusto principe romano furono terremuoti maravigliosi. Muggirono e’ monti e in profondo sé apersono, e insieme in più luoghi ruppono lungi dal mare a mezzo e’ campi acque salse, e molte furono terre marittime oppresse dal mare e summerse. Pesaro, dice Plutarco, inanzi alla battaglia qual poi fu tra Cesare e Antonio, ruinò inghiottito dalla terra.
Non adunque dobbiamo maravigliarci, omicciuoli mortali e sopra tutti gli altri animali infermissimi, se mai quando che sia riceviamo qualche calamità, poiché noi vediamo le terre e provincie intere suggette ad ultimi estermini e ruine. E quale stolto non aperto conosce l’uomo, come dicea Omero, sopra tutti gli altri animanti in terra vivere debolissimo. Sentenza di Pindaro, poeta lirico, l’omo essere quasi umbra d’un sogno. Nacque l’uomo fra tanto numero d’animanti, quanto vediamo, solo per effundere lacrime, poiché subito uscito in vita a nulla prima se adatta che a piangere, sì come che instrutto dalla natura presentisca le miserie a quali venne in vita, o come gli dolga vedere che agli altri tutti animali sia dato dalla natura vario e utile vestire, lana, setole, spine, piuma, penne, squame, cuorio e lapidoso scorzo, e persino agli albori stieno sue veste duplicate l’una sopra all’altra contro el freddo e non disutile a diffendersi dal caldo, l’uomo solo stia languido giacendo nudo e in cosa niuna non disutile e grave a sé stessi. Agiugni che dal primo dì vedesi collegato in fascie e dedicato a perpetua servitù, in quale poi el cresce e vive. Non adunque iniuria, subito che nasce, piange la sua infelicità, né stracco di dolersi prima prende refrigerio a’ suoi mali, né prima ride se non quando se stessi contenne in tristezza interi almeno quaranta dì. Di poi cresce in più ferma età quasi continuo concertando contra alla debolezza, sempre in qual vuoi cosa desiderando e aspettando l’aito d’altrui. Nulla può senza precettore, senza disciplina, o al tutto sanza grandissima fatica, in quale sé stessi per tutta la sua età esserciti. In puerizia vive mesto sotto el pedagogo; e seguenli suoi giorni in gioventù solliciti e pieni di cure ad imparare leggi e instituiti della patria sua; e poi sotto la censura del vulgo in più età ferma posto soffre infiniti dispiaceri. E quando el ben sia compiuto e offirmato in sue forza e membra, e ornato d’ogni virtù e dottrina, non però ardisce non temere ogni minima bestiuola, e nato per imperare a tutti gli animanti conosce quasi a tutti gl’animali sua vita e salute essere sottoposta. Un verminuccio el molesta; ogni minima puntura l’uccide. Scriveno e’ poeti che a Orione, figliuolo di Iove, compagno di Diana, gloriandosi d’essere sopra degli altri fortissimo e potere uccidere qualunque fera a lui si opponesse, gli dii comossi dierono che un picciolo scorpione lo atterrò in morte. Affermano e’ medici una moscolina pasciuta d’un cadavere venenoso potere essere mortifera. E raccontano e’ fisici trovarsi uno animale chiamato salamandra quale solo salendo avenena tutti e’ pomi in su quello albero dove e’ salse, di veneno simile all’acconito, ed esserne già periti e’ populi. Potrei estendermi in quante erbe, in quanti frutti, in quanti animali, in quante cose la natura vi ponesse contro di noi veneno e morte, e quasi possiamo affermare nulla trovarsi fra e’ mortali in quale non sia forza di darci a morte. Un pelo beuto fra el latte strangolò Fabbio senatore. Uno acino d’uva strozzò Anacreonte filosofo. Ma che più? Non solo la essalazion, quale fumma d’alcune aperture della terra, come presso a Pozzuolo e presso a Suessa, uccide, ma e ancora el fummo della lucerna spenta anneca el parto e dàllo abortivo. E non solo queste cose materiali, ma e in qualunque vòi altra cosa troverai morte. L’agitazion dell’animo ci sta mortale. Scrive Flavio Prisco, siracusano istorico, che ne’ tempi quando Caro Augusto principe romano uscì di vita, molti da subiti tuoni impauriti caderono e perirono. Chilo filosofo, Dionisio tiranno, Sofocles tragico vittore per troppa letizia usciron di vita. E quella donna in sulle porte di Roma vedendo el figliuolo, quale essa avea udita essere morto, per letizia cadde. P. Apuleio, udita la repulsa del fratello, per dolore espirò: Filemon pel troppo ridere. Omero investigando solvere uno enigma datoli da’ pescatori, in quel pensiero mancò. Isocrate, quale nato anni sei e novanta scrisse e’ panogirici, udita la clade de’ suoi ateniesi ricevuta in Cheronia da Filippo, per dolore espirò. El subito e veemente vergognarsi uccise Diodoro filosofo. Aulo Manlio Torquato per troppa volontà di mangiare una torta perì. A Tales milesio el tedio d’ascoltare e’ poeti tragici, e a Crisippo figliuolo d’Apolline el ridere fu mortale. Cosa quasi incredibile che le parole fascinino e perdano gli uomini. Lucio Luccullo, summo principe romano, impazzò a morte guasto da incanti amatori. Curione oratore si dolea in iudizio avere per simile malefici perduta la memoria. Agiugni le altre infermità quale già tante passate età con tante vigilie, tante investigazioni, tanta industria, tanta copia di scrittori e volumi, tanta varietà di rimedi possono né vietarle né ben distorle. E insieme aggiugni e’ nuovi e vari morbi quali di dì in dì surgono a’ mortali. In Roma e non quasi altrove ne’ tempi di Tiberio Cesare scriveno sopravenne nuovo malore non pericoloso a morte ma contagioso e fastidiosissimo. Cominciava al mento, poi dagli occhi in fuori copriva tutta la persona, e cadevagli la pelle d’ogni membro in minuta furfura. El carbunculo, pessimo male ne’ tempi di Luzio Paulo e Quinto Marzio censori, primo fu veduto a’ nostri Latini. Silla dittatore perì corroso da’ pidocchi. A Pericle sirio molta copia di serpenti ruppeno del suo corpo. Mecenate sofferse in sua vita perpetua febbre, e visse anni tre senza mai riposarsi dormendo. Ma che più? Cosa incredibile! Scriveno che nei tempi di Luzio Elio Antonino principe romano uscì d’una cassetta d’oro dedicata ad Apolline in Babilonia fiato sì pestilente che col suo veneno pervenne dando a morte infiniti mortali persino entro la provincia de’ Parti. E così molte egritudini e peste a’ tempi nascono e di provincia in provincia transcorrono. Agiugni quanto non raro ancora e’ minutissimi animali insieme coniunti portino peste ed eccidio contro alla generazione umana. Scrive Iustino e Paulo Orosio istorici ch’e’ populi chiamati Obderite, e que’ che si nominano Avienate, fuggirono e abandonarono el suo paese cacciati dalla moltitudine de’ topi e dalle ranelle. E scrisse M. Varrone in Ispagna essere stata svelta una terra da’ conigli, e in Tessaglia simile dalle talpe data in ruina un’altra città. E racconta Plinio quanto siano infestissimi inimici a’ populi cirenaici e’ grilli. E così troverai in le istorie spesso state a’ mortali gravissime calamitate addutte da tali vilissimi animanti. Né trovasi animale alcuno tanto da tutti gli altri odiato quanto l’uomo. Agiugni ancora quanto a sé stessi l’uomo sia dannoso con sua ambizione e avarizia e troppa cupidità del vivere in delizie e ozio pieno di vizi; qual cose non meno che gli altri suoi infortuni premono e’ mortali. Agiugni la somma stoltizia quale continuo abita in le menti degli uomini, poiché di cosa niuna contento né sazio sempre sé stessi molesta e stimola. Gli altri animali contenti d’un cibo quanto la natura richiede, e così a dare opra a’ figliuoli servano certa legge in sé e certo tempo: all’uomo mai ben fastidia la sua incontinenza. Gli altri animali contenti di quello che li si condice: l’omo solo sempre investigando cose nuove sé stessi infesta. Non contento di tanto ambito della terra, volle solcare el mare e tragettarsi, credo, fuori del mondo; volle sotto acqua, sotto terra, entro a’ monti ogni cosa razzolare, e sforzossi andare di sopra e’ nuvoli. Dicono che in Atene fu chi facea volare per aria un palombo edificato di legno. Che più essemplo detestabile della superstizione degli uomini, che fra’ greci scrittori fusse chi di ciascuno membro umano descrivesse qual fusse el suo sapore? O animale irrequieto e impazientissimo di suo alcuno stato e condizione, tale che io credo che qualche volta la natura, quando li fastidii tanta nostra arroganza che vogliamo sapere ogni secreto suo ed emendarla e contrafarla, ella truova nuove calamità per trarsi giuoco di noi e insieme essercitarci a riconoscerla. Che stoltizia de’ mortali, che vogliamo sapere e quando e come e per qual consiglio e a che fine sia ogni instituto e opera di Dio, e vogliamo sapere che materia, che figura, che natura, che forza sia quella del cielo, de’ pianeti, delle intelligenze, e mille secreti vogliamo essere noti a noi più che alla natura. Che se un tuo figliuolo, non voglio dire un simile a te, verso a chi governa el cielo, volesse riconoscere ogni tua opera e pensiero, tu credo non iniuria li porteresti odio capitale. Nascose la natura e’ metalli, nascose l’oro e l’altre minere sotto grandissimi monti e ne’ luoghi desertissimi. Noi frugoli omicciuoli lo producemmo in luce e ponemmolo fra’ primi usi. Ella disperse le gemme lucidissime e in forma quanto a lei ottima maestra parse attissima. Noi le raccoglemmo persino dalle ultime ed estremissime regioni, e cincischiànle, diamoli nuova lima e forma. Ella distinse gli albori e suoi frutti. Noi gli adulteriamo innestandoli e coniungendoli. Diedeci fiumi quali ne saziassero assetati, e ordinò loro corso libero ed espedito, ma a noi come all’altre cose esposteci dalla natura, benché perfetta, fastidirono le fonte e i fiumi, onde trovammo quasi ad onta della natura profondi pozzi. Né di questo sazi, con tanta fatica, con tante spese, con tanta sollicitudine, solo fra tutti animanti a cui fastidii l’acqua naturale e ottimo liquore, trovorono el vino, non tanto a saziare la sete, quanto a vomitarlo, come se in altro modo non ben si potesse versarlo delle botti. E a questo uso fra le prime pregiate cose el serbano, e piaceli quello che li induca spesso in brutto furore e ultima insania; tanto nulla pare ci piaccia altro che quello quale la natura ci nega, e quello ci diletta in che duriamo fatica dispiacendo in molti modi alla natura. Scrive Erodoto che Ciro re de’ Persi, irato quasi come volesse punire la natura, con spesa maravigliosa affaticò el suo essercito in dividere el Ginde, fiume grandissimo, in rami ccclx, e svolselo per varie vie in mare. Eransi fuggiti gli abeti in su e’ monti altissimi lungi dal mare: noi li strascinammo non quasi ad altro uso in prima che a marcirlo in mare. Stavansi e’ marmi giacendo in terra: noi li collocammo sulle fronti de’ templi e sopra a’ nostri capi. E tanto ci dispiace ogni naturale libertà di qualunque cosa procreata, che ancora ardimmo soggiogarci a servitù noi istessi. E a tutte queste inezie nacquero e crebbero artefici innumerabili, segni e argomenti certissimi di nostra stoltizia. Aggiungi ancora la poca concordia dell’uomo quale egli ha con tutte le cose create e seco stessi, quasi come giurasse in sé osservare ultima crudeltà e immanità. Volle el suo ventre essere publica sepultura di tutte le cose, erbe, piante, frutti, uccelli, quadrupedi, vermi, pesci; nulla sopra terra, nulla sotto terra, nulla che esso non divori. Inimico capitale di ciò che vede e di quello che non vede, tutte le volle a servitù; inimico della generazione umana, inimico a se stessi. Lupo dicea Plauto poeta essere l’uomo agli altri uomini. In quale animante troverai tu maggiore rabbia che nello uomo? Amiche insieme sono le tigri, amici fra loro e’ leoni, e’ lupi, gli orsi; qual vuoi animale venenosissimo irato perdona ai simili a sé. L’uomo efferattissimo si truova mortale agli altri uomini e a se stessi. E troverai più uomini essere periti per cagion degli altri uomini che per tutte l’altre calamità ricevute. Cesare Augusto si gloriava in sue battaglie, senza la strage civile, avere uccisi uomini numero cento e due e novanta migliara. Paulo Orosio istorico raccolse in parte le miserie sofferte da’ mortali persino a’ tempi suoi, e benché fusse scrittore succinto e brevissimo, pur crebbero suoi libri in amplissimo volume, tanta trovò stata sofferta miseria da’ popoli e gente degna di memoria.
Sottoposti adunque a tanti casi, a quanti noi istessi espogniamo, alla temerità e furore della fortuna, alla imbecillità, di nostra sorte, alla nostra voluntaria miseria, dobbiamo nulla maravigliarci se quando che sia incorriamo in qualche incomodo. Più tosto fie nostro offizio, poiché animante niuno meno si truova nato ad ozio e quiete che l’uomo, come fanno e’ medici vedendoci in troppa lieta sanità sospettano, così noi, se forse mai ci seguiranno le cose troppo secunde, dovremo averle sospette. Lodano Filippo re de’ Macedonici, quale avuti tre nunzi lietissimi, l’uno ch’e’ suoi ne’ giuochi olimpici eran vittori, l’altro che Parmenione suo duca in arme avea superato e’ Dardani inimici, el terzo che Olimpia sua donna avea partorito erede un figliuolo maschio, levò le mani al cielo e pregò Dio gli rendesse mediocre calamità a tante letizie. Scrive Livio istorico che Lucio Paulo, quale vinse el re Perses, perduto infra dì otto due suo modestissimi figliuoli, ebbe al populo simile orazione: «Io temea, o cittadini miei, in tanta felicità e successo della fortuna, quale sua natura e costume suole non patire in persona alcuna ferma prosperità, a noi nel nostro trionfo e amplificazione del nostro imperio conseguisse qualche male. Per questo io pregai Dio ottimo e massimo padre de’ mortali, se cosa alcuna avversa fusse apparecchiata alla nostra republica, immettesse a me e alla mia famiglia. E siate adunque, o cittadini miei, di migliore animo. Le cose succederanno bene. Dio immortale quattro dì inanzi al mio trionfo me in parte essaudì togliendomi uno carissimo de’ miei figliuoli, e infra altri quattro dì doppo a tanta nostra gloria ancora mostrò piacerli le mie preghiere quando mi tolse l’altro amantissimo figliuolo. Ora orbato de’ miei eredi rendo a lui grazia, poiché voi arete da condolervi del nostro privato caso più tosto che io a piangere con voi insieme alcuna publica calamità». Simile adunque a questi lodatissimi nulla ci fideremo della fortuna, quale sa e suole sempre usare perfidia, quale una falacissima mostra pacificarsi per avere induzie a maggior guerra e occasione a gravissime insidie; e aparecchiarènci con animo forte e pronto a sostenerla, non come dicea [Demifo] presso a Terenzio, pensando sempre a qualche futuro incommodo, acciò che poi ciò che meno aviene sia in guadagno, qual cosa mal si può premeditare senza qualche perturbazione, e assai basterà, venuto l’incommodo, sopportarlo; ma più tosto apparecchiati contro la fortuna coll’animo staremo iudicando che né essa con sua perfidia, né insieme e’ pessimi uomini con sue ingiurie e malignità potranno a noi in parte alcuna mai molto essere dannosi. Ché se come disputava Genipatro le cose della fortuna non più in sé vagliono se non quanto le riputiamo, ella può nulla essere a noi molesta se non ritollendo el suo. Ma poco a te serà molestia renderli quello che tu poco stimasti. E per tuo offizio debbi nulla stimare le cose caduche per sé e fragili ed esposte a tante volubilità e casi. E poi, dove tu teco così statuisca, e’ perfidi uomini, Microtiro mio abbi a te, possono forse giovare, ma nulla nuocere. Parti che detto maraviglioso? Tu certo lo vedrai verissimo. Dicoti, uomo per iniusto che sia può non farti male, e quanto più sarà verso di te scellerato, più a sé che a te sarà dannoso.
Microtiro. Maravigliomi e di me fo coniettura quanto io in me tutto el dì soffero, né vedo in che modo possa non molto nuocermi la malignità de’ perfidi e iniquissimi uomini, quali ottrettando, inculpando, insimulando, e con quanta possono opera, cura, industria, con ogni loro studio, assiduità e diligenza, con ogni arte, con ogni ingegno, con ogni fraude, mai restano infestissimi e molestissimi fare e dire e pervestigare cose per quali a me ne conseguiti povertà, odio, invidia, inimicizia, mala vita e grave infamia. Pessimi uomini, quali in molti modi benificati da me, impiissimi godono per loro fraude e nequizia vedermi pieno di indignazione, suspizione, sollicitudine e paura, ed estremo pericolo d’ogni mia fortuna e salute.
Teogenio. Ah, Microtiro mio, piacciati secludere intanto queste tue triste memorie. Datti ad ascoltarmi con l’animo più libero, e pervestigheremo insieme quello a noi porgerà la verità e la ragione; ché non dubito qui troveremo ogni sforzo e ogni incetto di questi tuoi immanissimi e scelestissimi inimici poco da stimarli, e voglio da ora te offermi a nulla curarli.
Microtiro. Posso io non ricordarmi delle capitali ricevute iniurie? Posso io non temere e’ pericoli ultimi e assidui in quali d’ora in ora me vedo protratto? Posso io non sentire li sdegni, l’onte, el fastidio di chi senza modo, senza intermissione, senza fine mi stimola? Ma poiché sempre la tua presenza e il tuo ragionare appresso di me tanto valse ch’io interposi ogni altra cura, e solo attesi a meco lodarti tacito e maravigliarmi di tua virtù, e indi insieme gloriarmi d’avere te fidatissimo amico in cui riposi l’animo e la mente mia, seguita, Teogenio mio. Io t’ascolterò con voluttà e attenzione.
Teogenio. Adunque investighiamo insieme quanto possa contro di te una intera turma di viziosi uomini.
Microtiro. E può un solo simile a quelli che tu dicevi pestiferi, perniziosissimi ed essecrabili, più crudeli, più malefici che le rabiosissime bestie, perturbare l’ozio e quiete di qualunque famiglia, di qualunque republica, di qualunque provincia.
Teogenio. Sai quando forse questo potranno e’ non buoni? Quando gli altri simili a loro perduti e sordidissimi uomini ascolteranno e ossecunderanno a loro perfidia. Ma qual serà che a te, uomo modestissimo e ornato d’ottimi costumi, possa con altro nuocere che solo colle membra sua, da presso, da lungi, percotendo, ferendo?
Microtiro. Quasi come questo sia nulla, o come nulla possa con sua invidia, con suo odio e veneno delle parole inseminando suspizione, odio, eccitando inimicizie con sue fizioni e vari tradimenti, o quasi come a qualunque e’ favellano sia dotto e buono. Né possono e’ buoni non fare che in parte e’ non credano quello ch’egli odono.
Teogenio. Affermoti, può certo con questa nulla: l’odio, l’invidia nuoce a lui mentre che così perturbato sé stessi entro a sé compreme e agita. Recita Pomponio Mela ch’e’ populi atlanti in Etiopia arsi dal caldo, quasi come capitale e troppo acceso inimico, ove nulla altro contro a lui possono, sera e mattina biastemmano el sole. Più certo loro quella perturbazion d’animo nuoce che al sole. E recita Aulo Gelio di que’ populi chiamati Psiles, quali irati sé opposero coll’arme al vento austro quale commossa in loro molta rena gli sommerse. Così par sempre intervenga che questi maligni sé stessi porgono a sommergersi in miseria, ma a te dato alle virtù parlar di chi si sia può altro nulla che giovarti. Dicea Mario appresso di Salustio in conzione al populo: «Così a me volli sempre essere mia ragion del vivere, che se questi invidi, e’ miei ottrettatori, dicono di me cose vere, insieme sieno promulgatori delle lode mie. Se forse dicono el falso, non lungi da loro ivi sia degna vendetta, ove palese da’ miei costumi appaia che sono bugiardi». S’e’ simili a loro cupidi d’udire e vedere male assentiscono a loro fizioni, o se i buoni in parte alcuna lasciano persuadersi, el danno sta presso di chi crede el falso, non presso di te quale per altrui fizione nulla diventi piggiore, e loro ingannati si dolgono di chi gli perturbò el vero giudizio, o gastigano sé stessi quali incauti prestarono orecchie a’ fraudolenti. E quando ben così fusse che qualche tuo errore, — non saresti uomo se tu solo non come gli altri qualche volta errassi, — fusse materia de’ tuoi ottrettatori, non dubitare che i viziosi non molto stimano udendo in altri quello che iudicano in sé da non fuggirlo, né a loro debba dispiacere se altri racconta quello che tanto a loro diletti fare. E’ buoni, loro natura, sono indulgentissimi, e udendo gli altrui errati riconoscono in sé come negli altri uomini la natura fragile essere e prona, così e ancora esservi più e più altre e pari e maggiori mende. Ma pur dove questo a te pesasse, come disputava Plutarco, filosofo e ottimo istorico, così certo arai da persuaderti che un sollicito inimico non poco a chi ben voglia tradursi in vita sia utilissimo. Molte facciamo e molte non facciamo cose per non aprire a’ nostri inimici addito a riprenderci, onde abbiamo da non odiare chi non lassi errarci, e chi noi ecciti a virtute e laude.
Microtiro. Ameremo che, adunque, e’ nostri inimici?
Teogenio. Più te molto loderò se tu verso chi sé opponga a te inimico porgerai amore più che odio, umanità più che indignazione, facilità più che contumacia, poiché ogni perturbazione d’animo più nuoce a chi in sé la sente che verso cui ella sia addiritta.
Microtiro. Non adunque m’ingegnerò esserli grave e molestissimo?
Teogenio. Ma in questo voglio, mentre che a chi tu sia in odio vive vizioso, esponga ogni tua opera e industria.
Microtiro. Adunque verso di lui serò quale egli se porge verso a me, a cui niuna sua fatta o ditta cosa piace. Infamerollo, acquisterogli inimici, vendicherommi.
Teogenio. Se e’ fusse dotto e buono, farebbe e direbbe cose non pochissime qual ti piacerebbono, né può un buono se non piacere a un altro buono, e volendo essere grave a un vizioso via brevissima darti alla virtù, ché se tu con fraude cercassi offenderlo, qual cosa non potresti senza cura e pression d’animo, in prima in questo seguiresti tu quanto el desidera di te, quale certo, quanto dicevi, cerca vederti inceso d’ira e di disdegno e simili perturbazioni. E dove in questa opera fusse in te perturbazione niuna d’animo, pur sarebbe inutile fatica la tua procurando che un vizioso sia mal voluto o capiti male. Assai gli acquisteran odio e malivolenza e mala fortuna e’ suoi vizi, e se tu da sue iniurie commosso simile a lui con false diffamazioni e tradimenti, opera d’uomini perversi e maligni, a lui fussi infesto, arebbe ancora da essere più molto di sua perfidia lieto ove tu per sua cagione così fossi divenuto vizioso. Né sarà laude d’animo virile e grande quale io desidero el tuo, se un picciolo sdegno el perturba. Quinci affermano che chi sia generoso sóle odiare ogni cura del vendicarsi, se così sia come si pruova che questa sollicitudine e cupidità di nuocere a chi verso di te fu iniusto, tiene gli animi nostri astritti d’una catena e laccio quale quanto più cerchi scioglierla, te tanto più serra. E sarà nostro offizio di noi studiosi curare che dentro al nostro petto risegga niuna perturbazione per potere quanto dobbiamo liberi ed espediti dare opera alle buone principiate arti e dottrine. E in più modi gioverà dimenticarli e iudicare che sendo di natura e costumi corrotti e scellerati suo offizio fanno e dicono male.
Microtiro. Che faremo adunque? Lasceremo noi seguitarli con sua insolenza e temerità che pigliano in noi ogni licenza, persino a essere colle mani in noi iniusti?
Teogenio. Come amoniscono e’ dottissimi filosofi che cosa niuna meno abbiamo da stimare, ma da nulla tanto dobbiamo guardarci, quanto dalle superstizioni e fatture de’ magici e incantatori, quale nuoceno ad altri niuno che a chi loro crede, così qui noi da’ nostri inimici temendo nulla con ogni precauzione molto e molto provederemo alla salute nostra, non in quella parte come se noi credessimo da loro potere ricevere male alcuno, ma solo per non lasciarli incorrere in maggior iniustizia.
Microtiro. E che a me, perché altri fusse iniusto, purché la sua iniustizia non a me nocesse?
Teogenio. Stimi tu la iniustizia fra le cose non buone?
Microtiro. Stimola pessimo male.
Teogenio. Simile adunque agli altri mali presso a cui ella fosse, non a te nocerebbe.
Microtiro. Suo sarebbe el vizio, ma mio sarebbe l’incommodo.
Teogenio. Ma tuo sarebbe non in picciola parte quel vizio se per tua indiligenza chi si sia venisse contro alle leggi della patria e contro all’ozio de’ buoni, quale tu e ogni buono cittadino debba quanto in sé sia diffendere e mantenere. E sono le leggi nervo e fermezza della republica, per quale in prima dobbiamo esporre ogni nostra industria e opere e fortune, poiché come dicea Platone, aprovata sentenza da tutti e’ filosofi, siamo nati non solo a noi, ma parte di noi a sé vendica la patria, parte chi ne procreò, parte e’ nostri a noi per sangue e per amicizia coniunti. Né a te el vizio di qualunque pessimo in parte alcuna quanto alla patria tua e forse a’ tuoi potrà mai essere incommodo. Dicono che fra le cose terribili niuna si truova terribile quanto la morte. E fra’ vizi odiosissimi, essecrabili, quasi el primo estimano la crudelità. E che adunque di que’ crudelissimi inimici a Tichipedo quali cercavano perderlo, che iudichi tu più fussero gravi, alla patria o a Tichipedo?
Microtiro. Certo a Tichipedo, in cui ogni loro ingiuria s’adirizzava e assedea.
Teogenio. Non errare in questo, Microtiro mio. La patria più molto avea che Tichipedo da dolersi, quale in più modi ricevea offesa. Prima vedea un de’ suoi fatto iniusto e senza le sue leggi in pericolo, senza le quali sentiva sé nulla potere consistere. Temea insieme non perdere uno de’ suoi buoni cittadini. E come dicea Omero che Simiossomo figliuolo d’Antemione nato in Ida insula apresso il fiume Simeonte, giovane ucciso da Ulisse, non potette rendere grati alimenti al padre, così forse e’ suoi arebbono da desiderare Tichipedo; ma lui e qualunque mortale, se bene considereremo, nulla arebbe ricevuto cosa per quale l’altrui crudelità dovesse in sé parerli acerba. Chi sarà che affermi la morte a’ mortali più essere da fuggirla che da desiderarla? E qualunque felicità a se stessi promettano gli altri, qualunque aspettino vivendo bene, pur Tichipedo uno mi pare, benché in que’ tempo amicissimo della fortuna, a cui la morte sarebbe stata non inutilissima. Non arebbe veduto tanta domestica sua calamità. Era felice morte morirsi felice. Né so per che cagione molti tanto desiderino perseverare in vita, quasi come abbino pattuito quiete con tutte le avversità. Versi di Giuvenale, ottimo poeta satiro:
- Pena fu data a chi molto ci vive,
- che iterata sempre clade in casa,
- con molti pianti e perpetuo merore
- s’invecchi adolorato in veste nera.
Onde comune proverbio si dice: «Chi più ci vive più ci piange». E publico vediamo colla età surgono infinite lassitudini a nostre membra, infiniti dispiaceri, né troverai vivuto alcuno più dì a cui non sia domestica alcuna e quasi assidua infermità e dolore. Poi non posso non biasimare chi se dica non potere fare che non tema uscir di vita. E chi sarà che dubiti a ciascuno de’ mortali, naturale sua innata necessità, destinatoli stare el suo ultimo dì? Glaucopis dea, presso ad Omero, negava li dii a qual vuoi loro amico potere distorli che non caggia in eterno sonno e morte. Socrate a chi gli anunziava ch’e’ suoi cittadini deliberorono che morisse, rispuose: «E la natura più fa avea deliberato che neanche loro sempre vivessono». E chi non vede che da el primo dì che noi usciamo in vita, come dicea Manilio Probo, quel poeta astronomico, quasi nascendo moriamo. E dal nostro primo principio in vita pende il nostro fine in morte. Ma el vivere nostro è egli altro che un morirsi a poco a poco? Sono versi di Lucrezio poeta vetustissimo:
- Già poi che ’l tempo con sue forze in noi
- straccò e’ nervi e allassò le membra,
- claudica el piede e l’ingegno e la lingua,
- persin che manca ogni cosa in un tempo.
E apresso a Plauto poeta comico dicea Lisimaco, subito che l’uomo fie vecchio già più né sente né sa. E quell’altro vecchio plautino dicea la vecchiezza essere pur mala mercantia qual seco porta più cose pessime. Qualunque cosa ebbe principio, provano e’ filosofi, arà suo fine naturale, quale necessità certo si richiede a nostra vita. E dobbiamo stimarla sì come necessaria, così ancora né dura essere né inutile. Scriveno che apresso Iasium la faccia di Diana posta in luogo del tempio rilevato a chi entra par trista e mesta, e a chi esce dimostra sé lieta e iocunda. Forse così a noi la nostra vita in quale entrammo con tanta tristezza e tante acerbità, a chi poi ne esca la sente dolcissima, e da uscirne simile qual si dice fa el cigno cantando. Cosa niuna dell’altre necessarie da noi richieste dalla natura si truova non piena di voluttà, el mangiare, bere, posarsi, adormirsi e simili, per quali sedati in noi gli appetiti e movimenti stiamo non dissimili a chi sia acquietato in morte. Così el morire possiamo persuaderci forse fie non sanza qualche voluttà. Ma dobbiamo nulla dubitare che seco la morte aporti a noi dolore niuno. Vediamo che morendo si perdono e’ sentimenti, né può dolersi chi non sente. Adunque la morte non aduce, ma leva el dolore. Per questo bene diceano Diogenes e Archelao e gli altri filosofi nulla essere la morte da temerla, quale meno sia grave quando presente si riceve che quando tu la fuggi. Anzi quasi la morte nulla tiene in sé d’acerbità se non quanto l’aspetti. Argomentava qui l’Epicuro filosofo in questo modo: quello che presente non perturba, espettato non debba offendere, e la morte, quando noi siamo, ella non v’è, quando ella sarà, noi restaremo d’essere. E se alcuni la desiderano, hanno costoro in odio la vita; se altri la teme, troppo li piace el vivere. Né sanno che del vivere come de’ cibi dobbiamo eleggere e’ suavissimi, non quelli che siano molti. Ma, nostra inezia, ci pare non potere fare che non ci pesi non perseverare in vita quanto a noi stessi promettemo, e non pensiamo quanta sia la brevità de’ nostri giorni. Sopra el nostro fiume nascono, le notti estive e brevissime, piccioli animali alati quali tanto viveno quanto se stessi gravi e debolissimi sostengono in aria, e di loro saranno rari di sì lunga età che l’alba di quelle notti in quali e’ nacquero non li truovi caduti e spenti, spazio non quasi sofficiente a produrre uno uomo in vita. Ancora comparata alla eternità la nostra vita mortale in quale noi siamo ci debba parere sì minima che, quando ben fussero certi e dalla natura a noi gli anni di Nestoro promessi, poco dovrebbono avere in noi momento perdendogli a perturbarci. E noi stolti pur pensandovi ci perturbiamo di quello che sempre ci sia maturo e necessario. Accusone la molizie nostra. Adunque Cesare domandato in cena qual fusse ottima morte, rispose la non premeditata, già che nulla presente conosciamo la morte tale che possiamo sentirla, ma non presente pur perturba e atterra gli animi non ben composti. Ma a chi la conosca essere una seperazione di quello che in noi sia libero e incorrotto da quello che sia caduco, mortale, e sottoposto a quante miserie di sopra narrammo, e chi conoscerà essere stoltizia non adattarsi a quello che sia necessario, costui nulla si dorrà se ’l tempo s’apressa che la terra, come dicea Epicarmo, ritorni alla terra e lo spirito voli suso a miglior sedia. Quale animo sendo, come affermava Eraclito, purgato da ogni crassitudine e peso della terra, fugge da questo carcere come saetta e vola in cielo. E credo io troveresti uscito di vita niuno qual volesse ritornarci, e questo come per altri assai incommodi, ancora e per non essere inchiuso in questo loto de’ membri nostri quale, come dicea quel censore de’ principi presso a Omero, sta concreato di terra e d’acqua. Adunque a chi esca di vita diletterà morire, se serà non imprudente, quanto conoscerà che per benefizio della morte, come dicea Eschillo, esso esca in libertà da mille contro e’ mortali infesti e apparecchiati mali. Silio poeta dicea la morte essere porta apertaci dalla natura per quale sia licito fuggire ogni male. E apresso Plauto dicea Palestra, non indotta fanciulla, cosa niuna meglio trovarsi che la morte quando in noi sono le cose in male e in miseria. E così tutti e’ dotti non iniuria la affermano essere uno degli ottimi doni datoci dalla natura, poiché niuna tanto si truova miseria di quale te la morte non vendichi, povertà, carcere, servitù, ignominia, dolori e simili. Pausanias dicono che assiduo vessato dallo spirito d’una quale egli avea ucciso, ebbe da’ nigromanti risposta che tosto sarebbe al suo male buono fine. Verificossi, che non doppo molti dì morendo uscì di tanta molestia. Onde quello che dicea Plinio ne avviene che vediamo chiesta niuna quanto la morte essere dalli dii frequentata; quale uno dono si legge in premio di grandissimo merito a molti buoni gli dii accelerorono. Celebrati in tutte le istorie sono que’ due Cleobis e Abinoto figliuoli d’Argia sacerdote di Iunone: perché e’ giumenti indugiavano, sé imposero al giogo e condussero la madre sua in tempo al sacrificio; per qual pietà la madre pregò lo dio desse a’ figliuoli non più una o un’altra cosa, ma quello che giudicasse a’ mortali ottimo. Retribuilli, ché infra tre dì ambo due morirono. Trofonio e Agamede, scrive Platone, simile dalli dii riceverono premio pel tempio quale edificorono. Ma molti non aspettorono che li dii per sua pietà gli tollesse dalle miserie di questa nostra vita mortale, e con summa voluttà preoccuporono tanto dalli dii adiudicato bene. Scapula pompeiano, convocati e’ suoi servi, apparecchiata la cena, infuso d’unguenti odoriferi, bevendo e lieto s’asettò in mezzo la catasta posta per poi arderlo, e comandò la incendessero. Virrio capuano con suoi senatori numero ventisette, scrive Livio, cenando e lieti preseno el veneno. E apresso Massageti populi era costume vetustissimo che sacrificavano e’ loro per età venuti inutili. Raccontano in India così essere divisa la loro republica, che alcuni danno opera alla agricoltura, alcuni viveno in milizia, altri sé essercitano in portare cose utili a’ suoi commutando colle gente strane suoi frutti e merce, altri quali sieno ottimi e dottissimi governano la republica e hanno cura delle leggi. Quinta generazione fra loro quelli che sono dati al culto delli dii e alla sapienza. Questi sempre in prima acceso el fuoco escon di vita con volontaria morte. E scrivono trovarsi alcune genti chiamate Beloe, quali colle grillande in capo, con molta festività, sazi del vivere, sé stessi precipitano in mare. E molti altri, come que’ populi chiamati Dorbici e Tibareni, reputano cosa misera morirsi infermi: per questo consentiscono da’ suoi in vari modi essere uccisi. Tanto non solo e’ dotti ma e ancora el numero de’ populi con opera consentono la morte essere e lieve e utile. Ma benché così in sé la morte, quale e’ dicono sia e necessaria e non acerba e utilissima e da desiderarla, pur sarà sempre da preferire la sentenza di Platone a ogni nostra poca tolleranza de’ casi avversi, quale affermava come in la battaglia così in vita non essere licito senza volontà del sommo imperadore uscire del luogo a te dato e assegnato. Dicea Biante filosofo summa essere infelicità non potere soffrire la infelicità. Pertanto, come amoniva Valerio Marziale in quello epigramma in quale e’ racconta qual cose facciano la vita essere beata, dobbiamo né temere né desiderare l’ultimo dì di nostra vita.