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LIBRO I
Teogenio. Vedo io Microtiro mio? Corro per abbracciarlo, o parte dell’anima mia! E qual cagione o ragione te mosse non ben fermo né assai restituito a sanità solo a piede qui salire tanta e sì difficile via?
Microtiro. Salve, Teogenio. A me questa via fu e breve e facile ove io venni per veder te, quale uno io amo quanto me stesso. E sperai non altrove che qui tanto potere trovare da recrearmi afflitto e già quasi oppresso da’ casi avversi. E subito che da lungi fra queste ombre di questa selva te vidi sì assederti fiso ora pensare ora scrivere, me io senti’ entro al petto mio non so dove dolce molto commovere, e insieme lacrimai per letizia. Né so come per non sturbarti me contenni ch’io non gridassi una e un’altra voce. Ma certo ebbi me in molta parte recreato; discesi e rimanda’ne e’ cavagli per rimanermi teco.
Teogenio. O Microtiro mio, quanto fu sempre da pregiare la dolce amicizia! Cosa rarissima, ricchezza inestimabile un vero amico, poiché oltre alle lode quale e’ dotti gli ascriveno, ancora tu pruovi la presenza di chi tu ami avere in sé forza di restituirne a miglior stato. Ma sediamo, se così ti piace, qui fra questi mirti, luogo non meno delizioso che i vostri teatri e templi amplissimi e suntuosissimi. Qui colonne fabricate dalla natura tante quante tu vedi albori ertissimi. Qui sopra dal sole noi copre ombra lietissima di questi faggi e abeti, e atorno, dovunque te volgi, vedi mille perfettissimi colori di vari fiori intessuti fra el verde splendere in fra l’ombra, e vincere tanto lustro e chiarore dei cielo; e da qualunque parte verso te si muove l’aura, indi senti venire a gratificarti suavissimi odori. E poi la festività di questi quali tu in presenza vedi uccelletti con sue piume dipintissimi e ornatissimi, a chi non delettasse? Bellissimi, che d’ora in ora vengono con nuovi canti lodando i cieli a salutarmi! E questo qui presso argenteo e purissimo fonte, testimone e arbitro in parte delli studi mei, sempre m’arride in fronte, e quanto in lui sia, attorno mi si avolge vezzeggiando, ora nascondendosi fra le chiome di queste freschissime e vezzosissime erbette, ora con sue onde sollevandosi e dolce immurmurando bello m’inchina e risaluta, ora lieto molto e quietissimo mi s’apre, e soffre ch’io in lui me stesso contempli e specchi. Agiungi che qui niuno invido, niuno maledico, niuno ottrettatore fallace, qui iniquo niuno perturba la nostra quiete e tranquillità. Ma sediamo.
Microtiro. Piacemi. E che cose sono queste quali tu scrivi?
Teogenio. Antiquo mio costume, Microtiro. A me pesa, né posso sofferirmi in ozio, e dilettami in prima essercitarmi scrivendo. Occorsemi materia degna, né fia inutile, stimo, udirla da’ suoi princìpi. Molti de’ vostri fortunatissimi cittadini a me noti e familiari, quando in que’ tempi la fortuna con noi era facile e liberale, soleano vacui di maggiore sue cure pigliarsi faccenda a riprendermi e accusarmi taciturno e pervicace, e quanto e’ diceano, fantastico e bizzarro, quale contento di me stessi nulla degnava quella moltitudine data alla voluttà. E dolevagli ch’io offirmato, a chi pur me accusava e biasimava la mia taciturnità, solo rispondea quello antiquo detto di quel filosofo: me essere mai del mio tacere pentuto, ma ben trovarsi chi del parlare suo sia pentuto spesso; e pregavali non biasimassino colui che non altrove favellava che solo dove esso o dimandasse per imparare, o rispondesse per insegnare e riconfermare virtù e dottrina a sé e a chi l’ascoltasse; ché bene intendeva io quanto apresso simili oziosi e prodighi potevo né imparare né disputare di cosa alcuna degna. Ma poiché la nostra republica e cittadini testé, o ingiuria della fortuna, o forza e merito de’ costumi pravi e corrotti, caderono in calamità e miseria, io vedendo que’ medesimi antiqui miei riprenditori nelle cose avverse solliciti, seco stessi solinghi e tutti alieni da quelli suoi prima usati gesti e costumi non convenire lieti fra la moltitudine e ivi osservare forse troppa tristezza e taciturnità, cominciai meco a ripensare qual più avesse forza a perturbare una republica, o la seconda fortuna, o pur la avversa. E insieme a me parea da investigare qual più fusse, o un buon cittadino utile, o un vizioso inutile alla sua patria. E già in questi comentari essercitandomi scrissi argomenti non pochissimi quali a me stessi persuadeano che i casi avversi molto, quanto presente si vede, perturbino la quiete e tranquillo stato della terra, solere la difficultà de’ tempi inducere povertà e necessità; onde quel detto di Socrate avenia quale e’ dice presso a Platone: terra niuna povera potere vacua essere di molta copia di tagliatori di borse e dati a vilissimi e infami essercizi. Ma molte più fortissime ragioni a me provavano la facilità della fortuna viziare e pervertere ogni ornamento e fermezza delle terre tanto più che la iniqua fortuna, quanto molti troverai meno sapersi reggere in affluenza e prosperità che in aversità. Dalla copia e successo fortunato nasce l’ozio, padre e nutritore d’ogni vizio: indi la insolenza, superbia, lascivia, ambizione e intollerabile licenza. Scritto adunque in questa parte, ora qui meco ripensava quanto un vizioso e perverso ingegno fusse a sé e a chi seco vive pestifero e perniziosissimo più che qual sia altro animale essecrabile, quali tutti, pacifica la loro natura, raro se non a sua difesa irati offendono con quelle armi sue date loro dalla natura, ungue, corna, denti e simile. Solo all’uomo iniquo diletta la sua malignità, e irato e non irato con arme e modi infiniti immette sua peste e morte. E quello che la natura propio e divino suo dono atribuì a’ mortali per agiungerli a cara insieme benivolenza e dolce pace, el favellare, lo uomo pessimo l’adopera in disturbare qualunque grata congiunzione e offirmata grazia. In simili cose, Microtiro mio, spendo io il tempo essercitandomi, quale tanto dicono essere nostro quanto lo adoperiamo.
Microtiro. In cosa niuna potresti esponere tua opera con tua tanta dignità e lode quanto in questi simili studi, onde a te e a’ tuoi acquisti nome e fama di tuo ingegno, e a chi te ami porgi di dì in dì nuova ragione di lodarti e reverirti per tue rare e prestantissime virtù. E saranno certo queste tue disputazioni pari all’altre tue bellissime e ai dotti accettissime, in quali tu ponga diligenza e molto studio in trattarle con ordine e accomodata eloquenza. Ma forse non sarebbe da non aggiungere a queste tue due disputazioni una terza investigazione, quale ora a me soviene in mente, questa: se forse più seco porti molestia e incommodi la difficultà de’ tempi che la improbità degli uomini. Io e dalla iniqua fortuna e da e’ non buoni uomini me sento sì oppresso da tutti e’ mali. Infelicissimo me, ch’io non so quale altrove si truovi misero calamitoso simile a me!
Teogenio. Non tanto mi diletta agiunghi alli studi miei atta e degna materia ad essercitarmi, quanto mi dispiace da te sentire quello che infra’ primi tuoi salutarmi frantesi, te essere coll’animo perturbato. E per distorti da quelle tue triste memorie io me stesi in vari e quanto a me occorreano soavi ragionamenti. Ora mi parse da porgerti mano a sollevarti, ma non vorrei come quel contadino incauto, quale tornando a’ suoi trovò da una ripa caduto un fanciullo, e cupido aitarlo el prese pel braccio quale percosso el tormentava. Adonque gioverà teco investigare questi tuoi mali. Quando io dimando chi forse viene a salutarmi come quello e quell’altro cittadino stia, non raro odo quanto siamo tutti sottoposti a’ vari casi e volubilità della fortuna: colui sta male, arseli la casa, peritoli el naviglio, impoverito; quell’altro pur male, perduto e’ suoi, perduta la patria, ito in essilio, rimaso in solitudine; quell’altro ancora pur male, gravato di febbre giace con dolori debole e lasso; e questi simili vedo a chi ne racconta e a chi ode dolgono. Altri sono de’ quali, se io ne domando, mi referiscono stiano molto male: colui uccise, quell’altro furò, quell’altro tradì, e per tanto loro vizio viveno in essilio, in povertà, in tristezza. Di costoro si biasima l’errore più molto che non si conduole della fortuna. Gli altri incommodi co’ quali el nostro fato noi urteggia o i pessimi uomini c’infestano, se vorremo investigarne, gli troveremo tali che a chi voglia poco stimarli poco noceranno. E vedesi per pruova che, per piccoli che essi sieno, pur possono molto in perturbare chi non poco li stimi. Né trovasi cosa sì grave di queste, quale non sia a qualche uno e lieve e grata. Né cosa sarà tanto espettata, quale in qualche tempo non sia molesta e grave. A molti trovarsi lungi dai suoi dispiace; molti hanno voluttà peregrinando tenersi lungi da chi molto li desideri. Altri piange la moglie sua, el fratello, el figliuolo; a non pochissimi attedia la presenza della moglie, trovansi molti divisi da’ fratelli, disereditati da’ suoi, cacciati da’ padri. Onde, non iniuria, possiamo assentire a que’ dottissimi quali affermano in la vita de’ mortali cose alcune di sua natura essere tali che sempre e a qualunque sia sono buone e utilissime e lodatissime. In qual numero si scrive la virtù, la mente ornata di buon costumi, ben retto iudizio, e ben regolato ingegno, qual cose mai furon dannose. Alcune contro, sua natural malignità, mai si truovano essere se non inutili e da fuggirle: el vizio, la levità, l’ambizione, la troppa cupidità, e simili mali sempre atti a perturbarci e male averci. E queste abitano quanto volemo in noi, né altronde sono che da noi. Altre alcune si truovano cose tali che per sua natura sono né buone né non buone. E di queste pare a me parte sieno le cose poste fuori al tutto di noi sotto imperio e arbitrio della fortuna, ricchezze, stati, amplitudine, potenza; parte sono quelle che stanno aggiunte a noi come la valitudine, forma e abitudine delle nostre membra, non molto meno che quelle di sopra sottoposte a’ vari casi. Quale tutte cose tanto dicono essere buone quanto noi a bene le adirizziamo e bene le adopriamo. Ma pareno a iudizi corrotti e pieni d’errore e di perturbazione ora buone ora non buone quanto el nostro iudizio le pesa e accetta. Certa consiste ferma e constante sempre in ogni suo ordine e progresso la natura; nulla suol variare, nulla uscire da sua imposta e ascritta legge, né può patire che grave alcuno mai sia non atto a descendere, sempre volle che ’l fuoco sia parato ad incendere e dedurre a cenere ogni oposta materia. All’acqua diede la natura propria attitudine di effundersi, e adempiere ogni forma di qualunque vacuo vaso. E così mai fu da natura cosa buona atta a non benificare, e ogni male sempre fu presto a nuocere e danneggiare. Adunque, quanto le vediamo varie e volubile le cose della fortuna, elle non sono tali che noi possiamo affermarle da natura buone o non buone, quale mutata la oppinione e iudizio tanto e in sì diversa parte variano. Conviensi pertanto moderare e bene instituire nostre oppinioni e sentenza, ove molte cose a noi forse paiono utili qual sono disutili, e stimiamo cose non poche gravi essere e moleste quali certo sono levissime e facillime. E a potere questo m’occorreno infinite sentenze, bellissimi detti da’ savi antiqui filosofi e ottimi poeti, cose ritrassinate quasi da tutti li scrittori, tale ch’io non so donde incominciare. Ma piacemi in prima investighiamo le cose estrinseche e proprie della fortuna, quale stimo certo comprenderemo ch’elle sono e buone in sé e non buone quanto noi a noi le riceveremo ed estimeremo. E insieme vederemo le cose aggiunte a noi non però molto avere in buona o in mala parte forza. Ultimo, non dubito a noi rimarrà persuaso solo in noi essere qualunque cosa vero sia o buona o non buona, e pertanto niuno potere cosa alcuna di male ricevere da altri che da sé stessi. E per asseguire questo con qualche iocundità quanto instituimo, mi pare da recitarti la disputazione ebbe a questo proposito Genipatro, quel vecchio qua su, quale in queste selve disopra vive filosofando, omo per età ben vivuta, per uso di molte varie cose utilissime al vivere, per cognizion di molte lettere e ottime arti prudentissimo e sapientissimo; ché mi stimo le sue parole presso di te, amatore de’ dotti e studiosi, aranno autorità, e diletteratti la nostra istoria certo degna d’essere conosciuta. E come furono suoi argomenti e ammonimenti a me sì grati e sì utilissimi che in ogni vita mia tutta ora più li sento da molto pregiarli e comendarli, così certo qui saranno attissimi e convenientissimi a sollevarti da questa conceputa tristezza tua e mala valitudine. Ma prima dimmi, el nostro Tichipedo vive egli quale e’ solea lieto, e quanto esso se riputava beato?
Microtiro. O infelicissimo Tichipedo! E tu, Teogenio, non udisti il suo infortunio? Morì el padre in essilio, proscritto e fugato da que’ suoi inimici quali con arme occuparono la amministrazione delle cose publiche, confiscato e predato le sue fortune; el suo figliuolo notando affogò; la moglie e pel dolore del figliuolo perduto e per altra mala sua valitudine in parto abortivo e difficile mancò; el fratello, uomo temerario e precipitoso, per false insimulazioni e relazioni da occulti loro inimici tratto in iudizio, sé stessi in carcere strangolò. Per qual calamità Tichipedo provide alla sua salute, e fuggendo a sé simile già apparecchiato infortunio me abbracciò e disse lacrimando: «O Microtiro, Dio a te dia miglior fortuna. Io dalla patria mia e dai miei altro nulla porto che ingiuria, sdegno e dolore, e quello che più m’adolora è la carissima madre mia rimasta sola a piangere el mio infortunio e a soffrire di dì in dì infinite miserie». Partissi. Di poi intesi vivea in servitù preso da inimici della nostra patria. Piansi.
Teogenio. Intesi più dì fa la avversità di Tichipedo, ma parsemi utile così domandartene per redurti a memoria quanto a’ tuoi dì vedesti essemplo ottimo e degnissimo onde tu discerna la volubilità e mutabilità della fortuna, e insieme statuisca non te essere, quanto testé dicevi, uno sopra gli altri mortali misero e infelicissimo; se già non intervenisse, come dicono, ch’e’ nostri mali veduti da presso più che gli altrui a noi paiono maggiori: qual cosa ancora si confermerebbe per quanto io recitai che simili mali cresceno in noi e scemano quanto la nostra oppinione gli stima.
Ma torniamo al primo nostro ragionamento. Qui presso a questo fonte Genipatro e io, come sempre fu nostra consuetudine trovarci spesso insieme, leggiavamo. Ecco Tichipedo con suoi cani e moltitudine di levissimi e vilissimi uomini cacciando le fere sopragiunse; giovane in que’ tempi per troppa sua seconda e prospera fortuna elato, insolente, ostentava le gemme, luceali indosso la seta, le perle e le pitture fatte ad ago, e arrogante agitandosi in molti modi mostrava in sé levità e odiosa alterezza. Cominciò a molto lodare questo luogo, e giurò mancarli a somma felicità altro nulla che questo fonte, e certo pur troppo desiderarlo presso alla sua ornatissima villa. A cui Genipatro, omo prudentissimo, con suoi gesti modestissimi e pieni di maravigliosa umanità disse: «Tu, o Tichipedo, non vedesti tutte le delizie di Teogenio molto più che questo fonte amenissime e da volerle. Ma se altro a te non manca, io sempre ebbi tanta autorità in le cose di Teogenio ch’io in questo posso satisfarti: concedoti ne lo porti teco questo fonte; ponlo ove a te piace». Rispuose Tichipedo: «Senza tuo danno saresti meco liberale donando a me quello ch’io non posso accettare». Questo adunque disse Genipatro: «Ti giovi la nostra liberalità che tu conosca te tanto essere non felice quanto in te seggia desiderio di cose alcune a te non possibili. E abbi cura, o Tichipedo mio, che a te non manchino più cose non da te conosciute facile ad averle, e molto più che questo fonte dilettose, senza quali non puoi essere non misero e infelice». Qui uno de quegli assentatori venuti con Tichipedo: «E qual cosa», disse, «può desiderare uno uomo per essere felicissimo quale non sia presso di Tichipedo, bello, ricco, amato, e fra’ suoi cittadini in ogni amplitudine quasi primo fortunatissimo?». Qui Genipatro porse la mano aperta verso di me in mezzo e sorridendo disse: «Le cose qual sono qui presso a Teogenio, quanto mi pare comprendere, sono quelle che mancano a simili a voi benché fortunatissimi. Simile a costui, o Tichipedo, convien che sia chi vuol essere felice, el quale gode questo fonte amenissimo da te tanto desiderato». «Anzi», dissi io, «a te, Genipatro, sia simile chi desidera sé essere beato, apresso cui sono tutte le cose degne e lodate». «Noi adunque», disse quello assentatore, credo per muoverci a riso, «quali desideriamo essere felici, sarà nostra opera tanto zappare su questi monti che le nostre mani diventino callose per non essere dissimili da Genipatro!». Erano le mani a Genipatro callose per lo essercitarsi alla coltura dell’orto suo quando ogni dì esso dava opera qualche ora alla sanità. Rise Tichipedo. Adunque disse Genipatro: «O dolcissimi, quando voi arete inteso el nostro ragionamento, credo iudicherete questi miei calli come segni di qualche industria così più accomodati a felicità che tutte le gemme, con quali ornamenti spesso gli ambiziosi sogliono ostentare sue ricchezze». Molte parole quinci e quindi furon fra quelli inettissimi assentatori, per quali Genipatro vedendosi fatto loro giuoco dedusse e’ ragionamenti, e con maturità si volse a Tichipedo e disse: «Tu, o Tichipedo, giovane fermo e robusto: io vecchierello, debole, languido. Tu ricco, abbiente danari, massarizie, armenti, prati, boschi, orti, ville, possessioni entro e fuori della terra: io povero, nudo. A te padre ottimo, procuratore delle tue fortune; a te figliuoli, a te fratelli temuti e reveriti: io solo. Tu in la tua patria fra’ primi amministratori delle cose noto e nominato: io in essilio ignobile. Difformità tra noi grandissima. Ma quale stimi tu direbbe un savio uomo più fusse di noi due beato?».
Microtiro. O disputazione degnissima! Seguita, non ti interrumpo.
Teogenio. Percosse Tichipedo el piede suo in terra, e protendendo aperte le mani rise con molta voce e disse: «Potrai domandarne tutti e’ nostri cittadini a cui tu e io saremo presenti. Non recuso vivere in questa tua fortuna in quale me duole vederti, se di tutti loro uno solo non in tutto stoltissimo elegge non in prima essere me che te». Qui disse Genipatro: «O felicissimo, se e’ sapranno qual altra differenza sia tra te e me, se conosceranno che tu non puoi farmi parte de’ tuoi beni sanza imminuirli a te, e vederanno le mie ricchezze tali ch’io posso renderne te pari a me ricchissimo con mio emolumento e utilità, forse non responderanno come tu stimi. Ma ecco qui Teogenio, omo né vulgare né d’ingegno tardissimo, e a te e a me familiare. Cominciamo. Dimmi, o Teogenio, se chi può, Dio, maestro delle cose, così a te concedesse quale dimanderai essere quello sarai, a quale di noi due chiederesti essere consimile?». Qui rispuosi io: «Preeleggerei certo essere te, Genipatro». Gridò Tichipedo e disse: «Dileggi tu, che se questo udissero e’ nostri cittadini, riderebbero». «E se Teogenio vedesse de’ suoi amici chi preferisse lo stato tuo al mio», disse Genipatro, «piangerebbe che tanto fusse tardo e stoldo, e sé desiderasse essere infelicissimo. Ma vediamo chi con più ragione si movesse, o que’ tuoi cittadini tutti, o Teogenio solo».
Microtiro. E chi non recusasse vita simile a quella di Tichipedo? Ozioso, inerte, ambizioso, arrogante, levissimo, temerario, lascivo in que’ tempi, e ora per povertà diventato invidiosissimo e maledicentissimo; a cui il non avere alcuna degna faccenda era faccenda laboriosissima. Vita odiosa la sua!
Teogenio. Affermo cotesta tua sentenza, Microtiro, e così statuisco: la vita di Tichipedo, quando la fortuna seco in que’ tempi era propizia, solea esserli grave, né da tanto suo tedio il sollevava l’affluenza e copia delle voluttà in quali sazio sé stesso fastidiva. Quello non ti concedo che la povertà lo faccia essere maledico e invidioso. Erano in lui questi uniti con gli altri suoi vizi, ma non aveano luogo da palesarsi; onde ben dicono quel proverbio, che a chi manchi e’ panni, può non bene coprirsi. Ma saratti non ingrata la mia risposta. Dissili: «Tu, Tichipedo, non nego, stai primo fra i nostri fortunatissimo cittadino, e sono pronte e palese le tue ricchezze; ma chi in mezzo esponesse le ricchezze di Genipatro, forse tu in prima muteresti opinione, e piacerebbeti non essere a te stessi simile per imitarlo. A te, Tichipedo, non mancano gratissimi e carissimi figliuoli, non forse costumati, non forse dotti, non forse di natura e ingegno civile e atti quanto vorresti, e di dì in dì mortali. A Genipatro viveno più e più figlioli, e’ libri suoi da sé ben composti ed emendatissimi, pieni di dottrina e maravigliosa gentilezza, grati a’ buoni e a tutti gli studiosi, e quanto dobbiamo sperarne immortali. A te ancora, Tichipedo, sopravive il padre, la madre, co’ quali tu te consigli e recrei. A Genipatro né manca, né mancherà iusto padre d’ogni suo instituto e santissima madre d’ogni sua volontà, l’intelletto sincero e la ragione interissima. Atorno te ancora, Tichipedo, convengono moltitudine di domestici e familiari, fannoti ridere, lodano te in presenza e onorano, vedi la casa tua ornata e frequentata. Da Genipatro mai si partono quanto e’ vuole ottimi e sapientissimi suoi amici, questi libri co’ quali tu ’l vedi tuttora essercitarsi e ornarsi di virtù e pregio tale, ch’egli è e da chi lo conosce e da chi mai lo vide lodato e onorato».
Microtiro. Rimase, credo, vinto, che?
Teogenio. Notasti tu mai el costume degli ignoranti e insolenti uomini? Vedili superbi, ostinati, poco cedere alla ragione che li convince, meno patire ordine o tempo alcuno a rispondere, e con voce e gesti concitati, con parole rissose, sdegnando el vero, spregiando ogni bene addutta argumentazione nulla acquistano disputando che solo farsi conoscere immodesti. Così Tichipedo con molti gesti osceni, con molte parole ventose quivi si riscaldò, e fra molte altre più lieve parole disse: «E che bella e usitata vostra astuzia di voi litterati, o Teogenio! Tu lodasti qui costui per insieme lodare te e commendare l’arte tua. Ma fra l’altre sue e tue infelicità, Teogenio mio, a me pare la prima che voi consumiate vostre vigilie, espognate tanta opera, duriate con tanta assiduità in cose inutilissime. Saravve licito mai restare di volgere tutto el dì e poi la notte ancora queste vostre carte? E che dolce amicizia vi porgono questi vostri libri, fra’ quali voi occupati vivete pallidi, estenuati, consumati, poveri e infermicci? Che cercate voi con tante vostre inquietissime fatiche? Volete sapere che si facci in cielo, e dove quella e quell’altra stella s’agiri, e non sapete donde abbiate da pascervi e vestirvi. Cercate immortalità già non in tutto vivi in vita pel vostro troppo ostinato studio. Ma che, potete voi scrivere favola nuova e non prima da molti scritta e promulgata? Restavi cosa più laboriosa ad accatarvi el pane che queste vostre letteruzze?»
Microtiro. Rido la inezia di costui.
Teogenio. E così fa, Microtiro mio, sollèvati dal tuo merore. Così giova ridursi a memoria simili cose ridicule per dimenticarci el dolore sorridendo. Sorrise adunque Genipatro e alquanto fermò gli occhi; poi se raccolse e disse: «Io fui giovane un tempo ricco e in fortuna non dissimile alla tua, o Tichipedo, e posso in questa disputazione iudicare quello quale non puoi tu, a cui l’una e l’altra via non sia nota. Tanto t’affermo, questo stato, in quale voi me vedete debole, solo e povero, molto mi diletta, e in la mia vecchiezza truovo solazzi non pochissimi, né certo minimi. Ramentami avere in me e in altri veduto essempli quasi infiniti onde imparai nulla confidarmi né obligarmi alla fortuna. Conosco la sua instabilità e perfidia, provo che chi con la fortuna vorrà avere niuna trama, niuno commercio, costui da lei nullo potrà ricevere danno. E qual cose può la fortuna altro torci che solo quello quale tu con molto grado accettasti da lei? Che può ella farti danno ritollendoti quello quale tu da lei nulla stimasti? Dotto adunque e per lungo uso seco ben saggio, a me stesso insegnai contenere mia volontà e frenare e’ miei appetiti. E così a me fu licito chiudere ogni addito verso me alla fortuna onde ella possa poi richiedermi el suo e discontentarmi. A questo l’uso delle cose, l’essere stato spesso da lei ingannato, l’avere in ogni cosa notato la sua volubilità e incostanza, fu a me ottimo precettore, quale non può essere apresso se non de’ vecchi e vivuti con lunga industria. E truovo in questa mia vecchiezza non minima utilità, ove molte cose molestissime quali me soleano infestare giovane, ora o sazio o libero nulla meco possono. Refrigerato, spento, sublato l’incendio amatorio, sedate le face dell’ambizione, acquietato mille sollicitudini e cure cocentissime quale sono domestiche e assidue alla inesperta gioventù, truovomi ancora per la età reverito, pregiato, reputato; consigliansi meco, odonmi come padre, ricordanmi in suoi ragionamenti, aprovano, seguono i miei ammonimenti; e se cosa vi manca, vedome presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita, se ella forse a me fusse, qual certo ella non è, grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia, e in questo mi conosco oggi dì più felice che mai, poiché in cosa niuna a me stesso dispiacio: qual cosa giovane non m’interveniva. Accusava, incolpava, castigava miei errori, mia tardità, mie’ precipitosi consigli, mie immoderate voluntà, miei studi lievi, mia incostanza. Ora di me stesso contento a me stesso gratifico; quale una faccenda tanto mi diletta quanto, per essere a me più grato e accetto, di dì in dì mi rendo migliore e di dottrina più esculto e di virtù più ornato. E sono le mie quale io vecchio testé prendo voluttà maggiori e dolci molto più che quelle quali io presi giovane, però ch’io sono senza sollicitudine libero d’ogni premolestia, ove quelle da giovane tanto erano dolze e grate quanto erano da me state desiderate ed espettate. Quanto fu prima la molestia desiderando cose amatorie, tanto fu poi dolze la voluttà; quanto la sete, la fame, tanto el saziarmi. Fu adunque la premolestia agiunta e quasi madre della voluttà in le cose quale a me giovane dilettorono; quale premolestia non ora in mie voluttà interviene. Godo testé qui ragionando con voi, godo solo leggendo in questi libri, godo pensando e commentando queste e simili cose de’ quali io vi ragiono, e ricordandomi la mia ben transcorsa vita, e investigando fra me cose sottili e rare sono felice, e parmi abitare fra li dii quando io investigo e ritruovo el sito e forze in noi de’ cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità viversi sanza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna coll’animo libero da tanta contagione del corpo, e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine parlarsi colla natura, maestra di tante maraviglie, seco disputando della cagione, ragione, modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere, riconoscendo e lodando el padre e procreatore di tanti beni. E affirmoti ancora (disse Genipatro) non per queste sole, ma e per molte altre ragioni nulla pospongo la mia fortuna, o Tichipedo, alla tua. E come pospongo non la mia vecchiezza alla tua gioventù, così prepongo non le tue ricchezze e amplitudine alla mia povertà, non la tua populosa famiglia alla mia solitudine».
Microtiro. Cose maravigliose e degne.
Teogenio. «Non insisto», disse Genipatro, «disputando e’ giovani quanto meno ch’e’ vecchi moderati e continenti, tanto più parati a grandissime e ultime egritudine, e de’ giovani morire numero più quanto si vede che de’ vecchi. E sia quanto tu vuoi forza e consuetudine della gioventù avervi robusti, sofferenti in ogni fatica e disagio possiate la polvere, el sole, e’ ghiazzi, e’ venti, che utilità presterete voi giovani alla patria, alla famiglia vostra? Fugarete, ucciderete, sometterete a servitù con vostre mani e armi uno e un altro inimico. Non però tu, o Tichipedo, avanzerai le vittorie, né asseguirai pari insegne e lode in arme a Luzio Tizio Dentato, quale uno uomo invittissimo, provocato a certare a solo a solo, vinse ferocissimi otto uomini armati inimici, e in giusta e ordinata battaglia spogliò combattendo armati uomini trenta e quattro. Quale uno uomo ancora in espedizioni e pugne numero cento e venti sé ebbe strenuissimo e virilissimo, tale che ricevute ferite gravi non meno che cinque e quaranta, tutte dinanzi in la faccia, nel petto, niuna dirietro, premio di tanta sua virtù ebbe da’ suoi imperadori prigioni ventimilia e altri doni militari; suo nomi: aste pure, torque, armille, grillande d’oro e d’argento; numero: ottanta volte dieci e sette centinara. Ma sia, quanto a te conceda la fortuna e ottima tua natura, in te pari lode e virtù quale fu in Luzio Dentato, siavi ancora agiunta la prodezza di Mallio Capitolino, quello quale solo e grave ferito salvò el capitolio assediato da’ Galli, gente arditissima; e insieme vi sia in te la perseveranza in arme di Marco Sergio, omo invittissimo e per sue bene adoperate forze e arme celebratissimo; ucciderai con tua mano numero de inimici assidui e iratissimi forse quanti ne uccise M. Servilio, omo stato consule, quale, dice Plutarco, combattette con venti e tre armati inimici e atterrogli? Forse quanti ne uccise Aureliano Augusto principe romano, quale scrive Flavio Prisco che in la battaglia sarmatica diede a morte armati uomini quaranta, e in più altri luoghi da lui si trovorono atterrati inimici circa mille? Apresso Omero, Agamennon desiderava in tanto suo essercito solo avere dieci simili a quel vecchio prudente Nestore, ché nulla dubitava per loro potere suvvertere ogni inimica moltitudine. E così t’affermo, in qualunque sia vecchio, mediocre prudenza e certo uso delle cose potrà ogni dì suvvertere e perdere amplissimi e potentissimi populi contro la sua patria armati. Valse el consiglio di Fabio Massimo, quel vecchio, restituire le cose romane quasi da tutti e’ giovani desperate. Con sua maturità Fabio propulsò l’ultima manifesta e pronta ruina alla patria, e sostenne quello Anibale quale tanto numero d’armati fortissimi giovani con suo petto e sangue a Trebia, a Trasimene, a Canne, nulla poterono sostenerlo. Appio Claudio, vecchio e cieco, con sua sentenza restituì dignità e virilità a’ suoi cittadini, e raddusse la provincia Epirotarum armatissima e bellicosissima a ubbidire latine legge e imperio. Potrei addurvi Solone e suoi Ariopagite, insieme e ancora Ligurgo e sue santissime leggi, e infiniti altri simili, per quali vederesti sempre el consiglio de’ vecchi stato alla patria sua più molto utile e pregiato che l’arme e gagliardia della gioventù».
Microtiro. Cose degnissime e verissime, né puossi non assentirli.
Teogenio. Così adunque provato non la sua vecchiezza essere da posporla alla gioventù di Tichipedo, seguitò Genipatro e disse: «Le ricchezze tue, o Tichipedo, non nego, sono ornamento alla patria e alla famiglia tua, non quanto tu le possiedi e procuri, ma quanto tu bene le adoperi. Non ascrivo a laude che a tua custodia stiano cumuli d’oro e gemme, ché se così fusse, quelli che la notte sulle torri e specule hanno cura e custodia della terra, più arebbono che tu da gloriarsi. Ma tanto te loderò quanto in salvare e onestare la patria tua e i tuoi espenderai non le ricchezze sole, ma ancora el sudore, el sangue, la vita. Io fui ricco, o Tichipedo. Non però, perdute le mie ricchezze, feci come quel Menippo cinico quale, perché gli furono imbolati i suoi danari, se impiccò: omo avaro e, quanto io interpetro, d’animo vile, che non si fidava potere in povertà sostenersi in vita. Iero tiranno siracusano a Senofone Colofonio, omo litterato, quale si dolea non avere bene donde nutrirsi, rispose: ’Benché Omero sia già molti anni morto, pur così morto nutrisce più e più migliaia d’uomini’. Simile adunque come non in tutto nudo di virtù e dottrina, così fui d’animo non abietto, e nulla abandonai me stesso, e ridussimi a mente a quanti le ricchezze siano state dannose, dove la povertà a chi bene la sopporti da parte niuna si truova inutile. Scrive Plutarco che uomini sedeci della famiglia nobilissima de’ Fabii insieme sotto un tetto abitavano. Questo potea la povertà fra tanti uomini: mantenere intera concordia e fermo amore. Né assentisco a quel satiro, altrove grave e perito poeta, quale ascrive alla povertà ch’ella rende e’ buoni beffati e nulla pregiati. Assai arà in sé pregio chi se porgerà virtuoso. E come Zenone filosofo dicea, udendo essere la nave sua perita in naufragio: ’Così noi lasciate le ricchezze ora con men molestie filosoferemo in ozio’. E così troviamo, benefizio della povertà, allevati in veste stracciate più dotti e virtuosi che se fussero stati educati in purpure e delizie. Né può quella povertà, benché laboriosa, distorti da virtù quale t’accresca industria, se così è che la necessità abiti in casa de’ poveri, quale dicono fu madre della industria, e insieme colla industria sempre crebbe virtù. E noi stolti mortali per mare, per monti, per mille pericoli fuggiamo la povertà, e più molte e molte molestie soffriamo fuggendo la povertà che se sopportassimo qualunque incomodi seco porti l’ultima egestà. E per asseguire ricchezze piene di mali, esposte a tutti e’ pericoli, per quali tutti gl’invidi, tutti gli avari, tutti gli ambiziosi, cupidi, lascivi, voluttuosi e dati a guadagno e nati al spendere, numero infinito d’uomini pestilenziosi, ne assediano con animo inimicissimo, con opera infestissima, assidui, vigilantissimi per espilarci e satisfarsi de’ nostri incomodi; e noi per asseguire tanta peste sottomettiamo nostri pensieri, opere e studi a mille brutte fatiche e servitù, ed ecci in odio la povertà. Cosa utile a viversi con industria, modestia e laude, cosa libera dai pericoli la povertà, libera dalle fraude e doppiezza, libera dalle assentazioni e perfidie de’ pessimi uomini, sicura in mezzo de’ ladroni, né tanto facile ad asseguirla, quando e dovunque ella non ti dispiaccia, quanto a chi ella piaccia bene atta a quiete e dolce ozio. Polidoro, figliuolo di Priamo re de’ Troiani, presso di Virgilio poeta, fu dal re Treicio non per altro crudelissime e iniustissime ucciso che solo pel molto oro quale seco avea dal suo padre portato. Scrive Iosofo ebreo istorico che molti giudei ierosolomite, assediati dallo essercito de’ Romani, fuggendo la fame e peste in quale inchiusi nella terra perìano, in sussidio al suo essilio ne portavano trangusate e inghiottite occulte alcune monete: qual cosa saputa, in uno dì furono di loro uccisi e sparati più e più migliara, tanto fu loro danno e morte trovarsi non in tutto poveri e vacui d’ogni ricchezza. E sarebbe prolisso recitare, non dico e’ principi delle terre, e’ tiranni, ma e ancora le provincie, a quali furono sue ricchezze ultimo eccidio e strage. E’ prudentissimi Spartani abdicorono da sé ogni uso dell’oro per non soffrire su’ suoi terreni strani inimici, quali rari verrebbero dove poco sperassero preda alle sue armi. Altri volevano suoi confini essere inculti e in gran spazio deserti per meno allettare chi cerchi a ricchire in altrui imperi. Ma sia qui argumento non inetto quanto d’ora in ora vedrai ne’ luoghi estremi delle città la moltitudine de’ poveri nuda sudare, straccarsi per acquistarsi donde pascersi e vestirsi; pur d’ogni età fra loro ti si porgeranno molti e molti lieti quali cantano e soffrano sé stessi sanza tristezza, dove entro a’ teatri tutti e’ togati e gemmati cittadini stanno agitandosi, mesti, tristi, e a sé e a chi così li miri ingrati, e in suo fronte contratti. Lieta povertà, inimica delle sollecitudini, contenta di piccole e facile cose quale con poca fatica e presto si trovano e ottengonsi. Dicea Allessandro re macedone che levarsi inanzi dì e affaticarsi dava iocundissime vivande al desinare, e levarsi dal desinare con volontà di mangiare, quasi fermento della fame, poi la sera aparecchiava ottima cena; qual cose sono agiunte alla povertà, e domestiche e familiari a qualunque povero.
Ma per tornare onde io sciolsi el mio ragionare, Tichipedo mio, io fui ricco, e come conobbi la povertà essere non grave, così provai le ricchezze tanto erano mie quanto io le spendea, e solo, come dice Valerio Marziale ottimo poeta, conobbi essere fuori delle mani della fortuna quello quale io dava a’ miei amici; dell’altre ricchezze e fortune mie poterne richiedere nulla più che si volesse e permettesse la fortuna, ma di quelle quali giovorono a’ miei amici essermi licito richiederne da chi le ricevette grata memoria e benivolenza. Non la perfidia degli uomini, non la iniquità della fortuna, non gli incendi, naufragi, ruine, potranno a me rapire tanta mia ricchezza quale io non tema perdere. E così ancora intesi quelle ricchezze non valere a felicità, per quali si viva sollicito ad acquistarle e timido in dubbio di non le perdere; in qual cosa certo io me propongo a te, o Tichipedo. Io per uso ed età conosco le fallacie e simulazioni degli uomini tanto meglio che tu, quanto appare che tu ancora non distingui di tanta tua moltitudine di salutatori chi a te sia vero e chi finto amico. Né credere che persona si possa ben giugnere ad amicizia se non merita essere amato per cosa stabile e quale niuno avverso gli possa torlo. Né stimare potere richiedere grata memoria da persona quale sia a se stessa ingrata, non adoperando lo ’ngegno e la industria sua in acquistarsi quanto e’ debba lode e fama con vertù e studio di cose lodate e degne. E quando a te fussero copia di ricchezze maggiore che a Crasso, e nutrissi a tutela della patria tua uno e più esserciti, quando e tu ancora ricco simile a quel C. Cecilio Claudio romano, quale a tempo di Gallo Asinio e Marco Cirinno consoli morendo, benché perdesse assai in la battaglia civile, testò servi quattro milia cento e sedici, gioghi di buoi trecento e sessanta, altri armenti cinquanta e sei migliara, in danari anoverati oro pesi secento milia; e più a ciascuno tuo amico avessi da distribuire sesterzi undici milia quanti Caio Cecilio ordinò si spendesse in la sua sepoltura, non però sarebbe presso di me da più pregiare la tua fortuna che la mia parsimonia: sorella della povertà la parsimonia, come delle ricchezze sempre fu compagna la prodigalità. Più fu ornamento alla sua patria Fabrizio, e Curio e altri simili parcissimi e modestissimi, quali spregiarono tanto oro per signoreggiare chi possedeva oro, e contenti cenarsi sotto suoi tuguri rape e cauli apparecchiate in mensa con vasi di terra, ornorono la patria sua non meno di vittorie che di buono essemplo a vivere con modestia e senza prodigalità. Più certo giovorono costoro che le ostentazioni di sue infinite ricchezze quale poi faceano que’ fortunatissimi con sue auree cene e spettaculi. La amplitudine tua e pompa civile, la frequenza di molti salutatori mai a me più piacerà che la mia quieta solitudine. A te in tanta moltitudine non possono non essere attorno chieditori, delatori, assentatori, ottrettatori, omini lascivi, lievi, immodesti, viziosi, infesti, da’ quali ora per ora tu oda e riceva cose odiose e da sdegnarti. A me niuno più ch’io mi voglia molesto; io mai men solo che quando me truovo in solitudine. Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte ragionando; ché se forse mi dilettano e’ iocosi e festivi, tutti e’ comici, Plauto, Terrenzio, e gli altri ridicoli, Apulegio, Luciano, Marziale e simili facetissimi eccitano in me quanto io voglio riso. Se a me piace intendere cose utilissime a satisfare alle domestiche necessità, a servarsi sanza molestia, molti dotti, quanto io gli richieggio, mi raccontano della agricoltura, e della educazione de’ figliuoli, e del costumare e reggere la famiglia, e della ragion delle amicizie, e della amministrazione della republica, cose ottime e approvatissime. Se m’agrada conoscere le cagioni e principi di quanto io vedo vari effetti prodotti della natura, s’io desidero modo a discernere el vero dal falso, el bene dal male, s’io cerco conoscere me stesso e insieme intendere le cose prodotte in vita per indi riconoscere e riverire il padre, ottimo e primo maestro e procuratore di tante maraviglie, non a me mancano i santissimi filosofi, apresso de’ quali io d’ora in ora a me stessi satisfacendo me senta divenire più dotto anche e migliore. Ma voi principi e primi cittadini in questa vostra amplitudine che cercate voi; laude, gloria, immortalità? Non con pompa, non con ostentazione, non con molto populo d’assentatori asseguirete vera e intera laude, ma solo ben meritando con virtù. Disse Orazio Flacco poeta:
- Qualunque corse ad acquistarsi laude,
- giovane, cose molte e dure e gravi
- sofferse al freddo e al caldo, e ben se astene
- fuggendo con virtù Venere e Bacco.
E niun teatro, come dicea l’Epicuro filosofo, più si truova ben adattato a gloria che la coscienza in noi de’ nostri meriti. Se in te serà l’animo da e’ vizi perturbato, se penderai occupato da brutta alcuna espettazione, o non iusto desiderio, o temerario incetto, o inetta paura e sollicitudine, certo sentirai dolcezza niuna, frutto niuno di qualunque grandissima sia tua in la voce del populo promulgata gloria. E qualunque ivi sia ignominia poco nocerà a quello animo ben composto quale in sé sia splendido e ornato di virtù. E queste sempre furono cose esposte in mezzo, facile ad asseguirle, licite a’ privati come a chi siede in magistrato, concedute a qualunque infimo plebeo non meno che a’ primari principi. Sempre fia presto la virtù a chi non la fugga. Forse cercate amplitudine per essere temuti. Vorrebbesi che la natura v’avesse fatti, qual scrive Ifigenio e Ninfodoro, simili a quelli pestiferi uomini quali nati in Affrica fascinano erbe, arbori, fanciugli e tutti gli animali, per modo che ciò che troppo lodino muore e seccasi. Gioverebbevi ancora essere simili a quelli Illirici e Treballi, quali subito uccidono guardando irati fermo chi si sia; e satisfarebbevi se in voi fusse pari veneno a quelli Etiopi, de’ quali chiunche tocca suo pestifero sudore casca infermo a morte, però che a questo modo saresti temutissimi. Ma se vorrete essere quanto dovete iusti, vi temerà niuno se non gl’ingiusti. E se vorrete gastigare l’iniustizie altrui a vostro arbitrio, non sarete giusti. E se asseguirete quanto la legge e vostro giurato magistrato v’impose, non però fia opera qual voi molto abbiate da pregiarla. Più tosto, se sarete umani, vi dorrà l’errore di chi cade in quella meritata pena. E se pur vi diletterà essere iniusti, non vi reputo degni d’amplitudine, ché a nuocere a’ mortali e usare immanità sempre fu luogo a chi così deliberi. Qualunque vilissimo potrà, così deliberando in tempo, e calunniare e uccidere e infiammare templi e sacri luoghi. Che se forse si desidera questa copia di salutatori per propulsare da sé tante ingiurie, da queste sono io liberissimo. A niuno con detti miei e meno con fatti sono tale che a ragione egli abbi da nimicarmi, né posso solo, vecchio e posto in debole fortuna essere a persona infesto; quale una cosa reputo utilissima contra ogni ingiuria come per altre ragioni così per questa, che volendo essere in questa parte iniusto non m’è licito. E chi sarà che senza cagione molesti chi, come io, né voglia né possa sostenere alcuna inimicizia? Sogliono e’ mali uomini, a nuocere chi nulla gli offenda, non quasi per altro indursi quanto che per trarsene utilità. Da me, quale sempre diedi opera che niuna mia cosa altrove sia che solo presso a me, nulla può essere rapito. Mie sono e meco la cognizion delle lettere, e insieme qualche parte delle bene arti, e la cura e amore della virtù, quale cose ottime a bene e beato vivere possono a me né da’ casi avversi né da impeto alcuno o fraude essere tolte. Ad alcuni perversi diletta el male altrui mossi da ’nvidia, ma verso di me, nudo d’ogni delizie, può invidia niuna surgere, ché nulla troveranno apresso di me gl’invidi di quelle cose quale egli stimano o curano d’acquistarsi. Forse a qualche altro ambizioso non ben consigliato parrà lode succulcare altrui, o timido di non patire a sé superiore, o cupido di non avere pari. Ma meco simili odiosi ingegni nulla troveranno da concertare, quale a persona mai volli essere superiore d’altro che di virtù, non tanto per essere in voce e favola della plebe, quale sanza iudizio e loda e biasima, quanto per satisfare a me stessi. E molto più mi parse offizio mio dare ogni opera di meritare lode e grazia che d’asseguirla. E parebbemi essere dileggiato se altri m’ascrivesse quello ch’io non sentissi in me, né parebbemi però diventare migliore quando ora non conosciuto, poi fussi promulgato buono. Onde con questa mia ragione del vivere me truovo fermissimo contro ogni ingiuria. Truovomi da non temere tiranno alcuno per crudelissimo che sia. Ammunirollo pieno di libertà. Tu e gli altri simili a te, per paura di non perdere l’amplitudine tua, non tanto insieme con gli altri assentatori e riderai e applauderai al tiranno osservando e temendo ogni suo cenno, ma e ancora a qualsisia de’ tuoi settatori e domestici scurre molte patirai cose a te moleste e da non essere sofferte da chi voglia dirsi felice. Qual cosa se forse vi diletta, e stimate felicità tradurvi a sera vacui di molestia, e per questo cercate potere ciò che v’attagli. A chi desidera potere ciò che vuole, a costui conviene manchi nulla; a colui manca nulla a cui suppeditano le cose buone e necessarie. Se così mi concedete, affermo me molto più che voi essere felice. Tanto sono in questo felice io, quanto quel Metello, quale sopra molti suoi amplissimi onori chiamato per la seguita vittoria macedonico, lasciò in vita suoi quattro figliuoli, fra’ quali tre erano stati consoli, uno pretore, due aveano triunfato. Tanto sono io in questa parte felice, quanto quella lacedemoniese chiamata Lampido, figliuola di re, moglie a re, madre a un re; e quanto presso e’ nostri Agrippina, sorella che fu e moglie e madre a chi ebbe imperio e governo in tutte le cose, però che a me sono le cose buone e necessarie in copia non minore che a qual si sia uomo stato in vita. Le cose a noi mortali necessarie sono quelle quale, richieste dalla natura, non possiamo denegare a noi stessi, e queste sono e poche e minime. Quello satisfarà a te quale satisfa a uno de’ servi tuoi contro la fame, sete e freddo. Ma a chi sia allevato in questa vita splendida, a sé stessi statuisce essere infinite cose necessarie, quali non l’avendo vi molestano, e avendole infastidiano. Le cose buone forse sono presso di me molto in maggior numero che presso a voi. Non io sono quello che affermi la vostra amplitudine, lo stato, l’essere temuto, siano cose buone. Cosa niuna buona può come queste far male. Molti, per volere soprastare gli altri, perirono. Ma son certo a me non negherete la cognizione delle buone cose, l’ingegno esculto di qualche dottrina, nutrito in fra le lettere, essere cosa ottima. Dicea Aristotile, quella essere beata patria qual sia ottima; essere ottimo chi facci bene; e niuno far bene in cui non sia virtù. Non adunque in vostre amplitudine consiste felicità, ma in virtù. L’oraculo d’Appolline rispose al re Gise, Aglao, privato in Arcadia, più era con sua modestia felice che lui re, a cui avanzava tanta regia amplitudine. Stavasi Aglao in uno ultimo cantuccio della provincia, lavorava una sua villuccia, di qual luogo, cupido di nulla e di sua fortuna contento, mai era uscito. Solone, conditore delle prime leggi ateniese, quando Creso, re fortunatissimo, gli mostrava le sue maravigliose copie e potenza, e domandava quale egli avesse altrove conosciuto omo più che sé felicissimo, rispuose: ’Vidi Telo cittadino in la terra degli Achei più di te molto felice. Era Telo buono uomo; ebbe figliuoli ben costumati, e contento non pativa contro sua voglia alcuna necessità’. Non adunque la affluenza delle cose quanto la modestia e frenare sé stessi rende noi felici. Ma siano queste vostre amplitudine quanto volete degne, e siano da desiderarle, dilettivi la pompa civile, la amministrazione della republica, el sedere in magistrato, stiavi a dignità quanto voi ben consigliate e’ vostri cittadini, sarebbe questa vostra amplitudine da volerla certo se solo avenisse a’ degni, sarebbe da non la recusar, benché molesta e piena d’invidia, odi e pericoli, se delle tue fatiche e vigilie non poi più ne fu lodato el caso seguito e fortuna che la diligenza e industria tua. E vidi spesso la sentenza pestifera e palese temerità d’uno insolentissimo più essere dalla moltitudine favoreggiata che ’l buono ammonimento d’uno sapientissimo e ottimo cittadino. E così e’ buoni contro a’ perversi raro accade che possano ben conducere cosa alcuna in sua republica da loro in tempo preveduta e detta; onde quanto più conoscono, tanto più viveno mesti in periculo ed espettazione di piggior fortuna. Dicea Assioco, presso a Platone, la plebe altro essere nulla che inconstanza, inferma, instabile, volubile, lieve, futile, bestiale, ignava, quale solo si guidi con errore, inimica sempre alla ragione, e piena d’ogni corrotto iudizio. Apresso e’ suoi cittadini Abderites Democrito, summo filosofo, era riputato stolto. Ancora si leggono le epistole per quale Ippocrate medico fu chiesto a medicarlo. Antiquissimo e usitato costume di tutti e’ populi spregiare e odiare e’ buoni. Scipione Nassica per iuramento del senato reputato ottimo, due volte ebbe iniusta repulsa dal populo. Coroliano, Camillo e più altri modestissimi e virtuosissimi cittadini dal popolo soffersono contumelia. Aristide ateniese, cognominato Iusto, solo per odio di tal cognome fu da’ suoi cittadini escluso e proscritto. Socrate dall’oraculo d’Appolline iudicato santissimo, dal populo fu agiudicato a morte. Alcibiade, ricco, fortunato, amato, d’ingegno quasi divino, e in ogni lode principe de’ suoi cittadini, nobilitata la patria sua con sua virtù e vittorie, morì in essilio perduti e’ suoi beni in povertà, tanto sempre alla moltitudine dispiacque chi fosse dissimile a sé in vita e costumi. E fu in questa sapientissimo chi disse el populo essere una tromba rotta quale si possa mai ben sonare. Onde nulla a me può el mio essilio per questo dispiacermi, poiché io me vedo escluso dal numero e consorzio di molti rapacissimi, invidissimi e immanissimi, a’ quali la mia astinenza e modestia era in odio, né vedeano essere a loro licito perturbare quanto e’ desideravano le leggi e la libertà della patria se prima non faceano impeto in me. Ma non però mai alcuna ingiuria tanto in me potrà che io quanto in me sia non osservi fermo amore e integra carità verso la patria mia. E sempre come io fo, così farò di dì in dì, esporrò quel ch’io sappia, possa e vaglia in premeditare, investigare ed esporre a’ miei cittadini, con voce e con scritti, cose utili e accomodate alla amplitudine e degnità della nostra republica. Quale animo mentre che sarà in me, chi potrà negarmi ch’io non sia vero suo e certissimo suo cittadino? Né crederò tu reputi cittadino qualunque barbero abiti entro quelle mura, ma più tosto iudichi inimico colui quale con suo consiglio, con sua opera, con suoi detti e fatti perturbi l’ozio e quiete de’ buoni. Adunque la diritta affezione in prima verso la patria, non l’abitarvi fa me essere vero cittadino, ché se così non fusse, e i buoni che uscissero in altrui provincie per cose publiche o private, subito resterebbero essere cittadini. Benché io ivi sono assiduo ne’ templi, ne’ teatri, in casa de’ primari cittadini, ove e’ buoni fra loro di me e de’ miei studi spesso e leggono e ragionano. E forse la patria nostra di tutti e’ mortali fie quella dove abbiamo lunga età a riposarci, a quale e’ Sauromati e posti sotto qualvuoi plaga del cielo sono né più di voi lontani né più vicini, tanta via troverai dall’ultima Germania quanto e dalla estrema India persino sotto terra.
E solete voi ricchissimi computare a felicità el numero dei figliuoli, oppinion certo non in tutto da non la biasimare. Scrive Eutropio che Massinissa re lasciò in vita di sé nati figlioli uomini quaranta e quattro. Ad Artasserses, re de’ Persi, scrive Iustino, nacquero figliuoli cento e quindici. Eutromo, re d’Arabia, scriveno vide di sé nati figliuoli settecento. Se a te fusse populo de’ tuoi simile, che laude presso de’ buoni e continenti, che autorità presso de’ gravi e maturi, che dignità presso de’ prudenti e savi uomini a te si potrebbe ascrivere? Non per questo sarebbe lodata la tua equità, non la umanità e frugalità; non sarebbe ascrittoti a virilità, non a continenza, né molta ti seguirebbe però utilità, forse neanche a te per questo sarebbe alcuna voluttà. Sarebbono sussidio alla tua vecchiezza forse ed eccidio ad ogni tua età. El figliuolo di Scipione Affricano superiore nulla fu al padre né a’ suoi in tanta sua domestica laude simile. El figliuolo di Fabio Massimo, cittadino clarissimo, fu da Quinto Pompeio, pretore urbano, privato della eredità del padre per suoi brutti costumi e vita; e molti da’ figliuoli ricevettono ignominia e calamità a sé e alla sua famiglia. Né sono e’ figliuoli sempre a padri simili, buoni e costumati: quali, benché buoni, se a te fussero pochi, el desiderio d’avere degli altri, e la paura di non perdere questi, e ogni loro picciolo e lieve incommodo a te sarebbe grande e a grave merore e tristezza. Se fussero molti, tu e di ciascuno aresti qualche cura, e di tutti non potresti insieme non avere molta sollicitudine. Ebbi figliuoli. Provai quanto fusse in ogni parte utile o disutile essere padre. E’ miei se forse erano, quanto io troppo gli desiderava, modesti e di lieto ingegno, erami acerbo ogni sospetto quale di ora in ora mi si porgea di loro vita e sanità e fama Se forse talora essi meno con suoi costumi e indole mi satisfaceano, adoloravo. Ora se in avere figliuoli sta diletto alcuno, a me non mancorono: prova’gli, e furonmi gratissimi. Se in essere padre mi stava tristezza alcuna, ella non più mi preme. Per tanto me reputo in questo felice non meno che se io, simile ad Ilario Crisippo fesulano, venissi qui a questo quasi come al fonte d’Elicona a sacrificare, qual fece lui in capitolio in Roma, con cinque figliuoli e due figliuole, dieci e sette nepoti maschi e venti e nuove figliuoli de’ suoi nipoti. Non tanto si contentava lui di tanta sua famiglia quanto io non mi discontento della mia solitudine. Fui padre amato da’ miei. Mancoronmi in età mia quando io potea volendo ancora averne. Non mi premea quella sollicitudine qual preme voi altri ricchi, che solliciti desiderate a chi lasciare iusta eredità, le vostre fortune. Rimaseno a me ricchezze, né tante ch’io dubitassi arrichissero mio niuno inimico, né tali ch’io non potessi dispensandole a’ miei amici lasciar in loro mano qualche segno della nostra benivolenza. Non però voglio stimiate me sì duro né sì inumano che a me fussero ingrati e’ miei figliuoli, ma non tanto gli desidero che mi dolga molto non gli avere, qual fanno alcuni ingrati di tanti altri doni quanti di dì in dì ricevereno della natura. Non rendono grazia de’ molti e grandissimi ricevuti beni, ma d’un solo espettato comodo seco troppo si perturbano. E così degli altri miei, se per età forse erano maggiori di me, non sono io sì tardo d’ingegno ch’io non conosca starmi necessità vivendo vederli uscire di vita. Non però potetti non dolermi; quando de’ miei alcuno mancava, desideravalo, ma poi quando io fra me repetea le cagioni del mio dolore, riconoscealo, quanto egli era, non altronde che da una opinion inetta, per quale io me riputava, mancatomi e’ maggiori, crescermi cura e sollicitudine domestica, e sanza e’ minori non potere quanto a me stessi in tempo già promisi sussidio e ferma quiete, e troppo me escrucciava non avermi co’ e’ miei amici e meco nati e giunti per sangue e per benivolenza, a’ quali, come ogni nostra fortuna era stata comune, così ancora di dì in dì io dolze comunicassi miei instituti, volontà e studi. Adunque non era in me molesto alcuno loro male, qual certo dobbiamo stimare a loro nulla fu nel morire. E se pure stimiamo vi fosse dolore, se quel dolore fu all’animo, non dobbiamo in noi ricevere quello che in altrui ci dispiacque; se fu dolore in loro alle sue membra, d’altro nulla aremo da dolerci che solo forse dove non poterono con animo ben virile el picciol male; ma se furon grandi i loro dolori, crediate non li sentirono. E hanno questa natura e’ dolori in nostre membra che e’ piccioli scemano per el sofferire, e se sono veementi e grandi duran poco, però che vincono e atterrano subito e’ sentimenti. Adunque a me mancandomi e’ miei solo mi dolea quanto io stimava interrutte mie speranze ed espettazioni, mie’ commodi e miei sollazzi; forse ancora mi parea dovuto piangendo mostrarmi simile agli altri inetti, quali credono, graffiandosi e picchiandosi e urlando, o da’ vivi essere lodati o da’ morti essere uditi o alli dii grati. Ché se chi noi piangiamo risuscitasse, giurerebbe dispiacerli la nostra stultizia, qual certo non meno debba a noi essere odiosa ove porgiamo e’ nostri visi sucidi e troppo deformati dal pianto, e tormentiànci in opera non solo, come dicea Eschillo, perduta, ma e degna di troppo biasimo, perseverare piangendo ove mie lacrime e sospiri né ad altri né a me giovano, ché se le lacrime potessero levarci el merore piangendo, si finirebbe ogni fatica e arebbono le lacrime pregio pur grandissimo. Ma due cose a me trovai accommodatissime a sollevarmi da tanta inezia. Prima el tempo, quale come donatore così consumatore di tutte le cose, qual maturando leva ogni acerbità, d’ora in ora in me minuiva dolore dimenticandomi el mio sinistro. L’altro fu come dice Valerio Marziale di Mitridate, quale uso spesso a gustar el veleno rendette in sé natura sua sì fatta che più niun tossico gli potea noiare. Così a me gli spessi in casa mia mortori essiccorono le vane lacrime e consumorono in me tutte le inezie feminili, con quali dolendoci del nostro male vogliamo parere piatosi di chi ben morendo ben sia uscito di tante molestie in quante e’ lasciò noi che restammo. E ancora le iterate mie calamità offirmorono in me uno animo tale, che dove prima per troppa molizie infermo e troppo debole io non potea udire la voce e ammonizione de’ sapientissimi filosofi, ora essercitato da’ casi avversi diligente gli ascoltai, e intesile essere ragioni e documenti ottime e santissime; intesi non avere per rispetto alcuno tanto da dolermi della morte de’ miei, che la morte di chi io nulla mi dolea, Omero, Platone, Cicerone, Virgilio, e degli altri quasi infiniti dottissimi stati uomini, non a me molto più che la morte de’ miei dovesse essere gravissima e molestissima, da’ quali se fussero in vita, senza comparazione potrei ricevere e dottrina a bene e beato vivere e modo a qualunque utile instituto e voluttà in ogni mio pensiero molto e molto più che da qual si fosse nel numero de’ miei. E forse molto conobbi più avermi da dolere della vita e brutti costumi d’alcuno de’ miei, che della morte di chi era uscito di tante molestie, in quale noi altri mortali siamo assiduo agitati; e imparai in molte parte vincere me stessi, imitando coloro e’ quali in tutte le istorie celebratissimi con animo forte e constante non indugiorono che ’l tempo li vendicasse da tristezza in più lieta pace e quiete del suo animo, ma con ottima ragion e consiglio subito providero fuggire in sé ogni merore. Marco Valerio, fratello di Publicola, si loda che, udito la morte del figliuolo mentre che consecrava el tempio, nulla si mosse; solo disse: ’Gittatelo ove vi pare: non a me ricevo averne a piangere’. Dion siracusano, udendo che ’l figliuolo caduto da un tetto era espirato, disse: ’Datelo alle donne: noi fra noi di cose intanto più degne disputeremo’. Quinto Marzio, lasciato le essequie del figliuolo, venne in senato a consigliare la patria. Pericle el simile, Telamon e Antigono e Senofonte e Anassagora insieme e quella femmina lacedemoniese; quali uomini a maggior cose desti, rispuosero: ’Sapea io me avere generato un uom mortale e aspettavalo, adoperandosi quanto io el desiderava in cose pericolose per la sua patria, ancora prima udire simile suo ben consigliato offizio’. E molti altri, quali sarebbe qui lungo recitarli, a me addussi a memoria in que’ miei casi, e dispuosi imitarli. E tanto di me a me stessi fu licito quanto io così disposto volli, e imitando que’ savi proposi a me stessi simile a loro laude e lieto frutto. Dario re, padre di Serse, tra le lode sue dicea sé avere sofferte in pace e in guerra molte cose gravi, e per le avversità sé essere diventato più prudente. Così fu a me frutto riprovando la fortuna imparare a sofferirla e rimanermi con l’animo libero e vacuo di merore e perturbazione. Qual tutte cose a te, o Tichipedo mio, non litterato, non essercitato dalla fortuna, non apparecchiato con erudizione alcuna a sostenere o ad evitare gl’impeti avversi, educato in delizie, cresciuto fra uomini assentatori da’ quali mai udisti se non quanto ti dierono giuoco e riso, non interverrebbono, a te dico, Tichipedo mio, non interverrebbono; ogni minimo intoppo aresterebbe ogni tuo corso a laude. Tanto adunque più di me debbi riconoscerti infelice quanto più vivi esposto a ogni strazio della fortuna. Io me truovo da ogni parte tale che la fortuna più può nulla meco essere infesta. Non la temo, ché nulla può tormi. Non la curo, ché nulla più desidero del suo. A te quale non provasti quanto ne’ doni suoi la fortuna più puose fele che mele, certo troppo dolerà non avere premeditato la sua perfidia. E se da ora ivi tu forse pendi con l’animo quanto mi pare nel tuo fronte comprendere, o Tichipedo, pensando quanto facile e pronto e’ casi avversi in un dì, in un momento possono precipitarti di questo tuo stato, certo non vedo possi turbato essere felice».
Così avea Genipatro disputato; adunque fermossi alquanto summirando Tichipedo, quale in sé suspeso e tacito quasi lacrimava; poi si volse a me e con parole a me socquete fra sé stessi pispigliando disse e immutò quel verso di Didone presso a Virgilio Sic tua te victum doceat fortuna dolere. E poi raggiunse parole simili alquanto arridendo: «Non però voglio, o Tichipedo, reputi me insolente o teco non ben concorde, se in questi miei ragionamenti volli più tosto consolare me posto in questa quale tu m’adiudicasti infelicità, che mostrarmi in cosa alcuna a te superiore. Ben conforto te quanto per ingegno, opera, studio e diligenza vali, preponga essere con tua modestia, parsimonia e buoni costumi, con frenare e moderare te stessi, tale che cosa niuna a te manchi a condurti e statuirti in summa e vera felicità; quale opera sarà tanto men difficile a te quanto la fortuna teco fie facile e secunda. E se forse teco fusse in tempo la fortuna simile a me dura e avversa, o Tichipedo, gioveratti avermi udito, e arai me essemplo donde impari ch’ella così soglia e possa in noi mortali».